STUDI LAICI SUL NUOVO TESTAMENTO


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MIKOS TARSIS

L'APOCALISSE DI GIOVANNI

le origini del cristianesimo tradito

1) PREMESSA - 2) INTRODUZIONE POLITICA - 3) I DESTINATARI - 4) LA CANONICITÀ - 5) IL GENERE APOCALITTICO - 6) LE TESI DELL'APOCALISSE - 7) I QUATTRO CAVALIERI - 8) LA CONCEZIONE DELLA STORIA - 9) APPENDICE. LA PICCOLA APOCALISSE SINOTTICA - 10) FONTI

1) PREMESSA

Che Giovanni e non Pietro dovesse essere il principale prosecutore del messaggio politico-rivoluzionario del Cristo, è ben attestato non solo nel IV vangelo (ogniqualvolta p. es. si parla di “discepolo prediletto” [sulla cui identità la censura della tradizione petro-paolina ha posto il veto], o quando viene scritto che Pietro non sarebbe stato più in grado di cingersi la veste da solo e che sarebbe stato condotto dove non voleva [leggi: da Paolo], o quando viene detto, nello stesso episodio suddetto, che la testimonianza di Giovanni sarebbe durata più a lungo di quella di Pietro, oppure quando di fronte alla sindone Giovanni diede un'interpretazione diversa [corpo stranamente scomparso] da quella di Pietro [corpo risorto]), ma è ben attestato anche nell'Apocalisse.

Sin dall'esordio infatti, diversamente da come agirà nel vangelo, l'apostolo cita subito se stesso per nome, senza neppure aver bisogno di specificare di chi era figlio o da dove proveniva: gli è sufficiente dire che “si trovava nell'isola chiamata Patmos, a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù” (1,9), cioè era stato esiliato in un'isola del gruppo delle Sporadi a seguito di una persecuzione anticristiana. La parola di “Dio” è la stessa di “Gesù”.

Ora, poiché gli esegeti ritengono l'Apocalisse uno dei testi più antichi del Nuovo Testamento, è giocoforza pensare che il ruolo da protagonista esercitato da Pietro nel vangelo di Marco e nella prima parte degli Atti degli apostoli, va considerato come un fatto o posteriore o parallelo a quello che volle esercitare Giovanni, e anche come un fatto che solo a partire da un certo momento risultò maggiormente condiviso dalla comunità cristiana.

Stando infatti agli Atti, Giovanni, appena Pietro inizia a predicare, o non appare quasi per niente (nel senso che la sua presenza è poco significativa, soprattutto perché non lo si sente parlare), oppure è presente in racconti di tipo mitologici, quello in cui p. es. va a pregare con Pietro nel Tempio o quello in cui Pietro compie azioni miracolose. È quindi evidente che Giovanni scompare di scena proprio nel momento in cui Pietro inizia a parlare di “morte necessaria” del Cristo, cioè di rinuncia a qualunque insurrezione nazionale. Il successore di Pietro infatti sarà Giacomo tra gli ebrei e Paolo tra i pagani.

Certo, con l'Apocalisse non abbiamo a che fare con un testo intonso, originario, privo di rimaneggiamenti e manipolazioni redazionali aventi come punto di riferimento il revisionismo petro-paolino (probabilmente dei 22 capitoli una prima redazione, del 68-69, ne prevedeva solo 18, mentre la seconda, rappresentata dai primi tre capitoli e dall'ultimo, fu aggiunta nel 95-96).

Da questo punto di vista è curioso come mentre per tutti i testi del Nuovo Testamento gli esegeti cattolici si sforzino di anticipare il più possibile la loro stesura, nel tentativo di dimostrare come, sin dall'inizio, il Cristo non abbia mai cercato di porsi in maniera politica, con l'Apocalisse invece si fa di tutto per posticiparne l'edizione, che in nessun caso - si dice - potrebbe essere inferiore a 30 anni dalla morte del Cristo (si parte dalla data della morte di Nerone, 68 d.C., per i primi undici capitoli, alla data della morte dell'imperatore Domiziano, 96, per i restanti). Tuttavia non pochi autori tendono ad anticiparne la stesura al periodo dell'imperatore Claudio, morto nel 54.

Ovviamente più la data è vicina alla morte di Cristo, e più importanza ha l'Apocalisse e quindi Giovanni rispetto a Pietro e soprattutto rispetto a Paolo e alle sue Lettere. P. es. se si accetta la data del 54, Efeso sarebbe stata evangelizzata prima da Giovanni, poi da Paolo.

In effetti è abbastanza difficile credere che Giovanni potesse rivolgersi alle comunità di Efeso e di Laodicea, con toni così duri (della seconda scriverà addirittura che il Cristo stava per vomitarla a causa della sua indifferenza), se non fossero state fondate da lui stesso. A meno che non si voglia pensare che in realtà le comunità “cristiane” fondate dagli apostoli fossero due: una di Giovanni, più vicina ai giudei, e l'altra di Paolo, decisamente filopagana. Il che spiegherebbe il motivo per cui Giovanni elogi la comunità di Efeso per non essersi lasciata sedurre da apostoli “bugiardi” e per detestare la setta dei Nicolaiti (probabilmente degli ellenici che avevano accettato le tesi di Paolo, applicandole secondo una libertà non apprezzata in ambienti ebraici).

La cosa che più fa pensare che il testo sia davvero antico, forse il più antico di tutto il Nuovo Testamento, è che il suo autore resta più che mai convinto che l'insurrezione antiromana non solo è imminente ma addirittura destinata alla vittoria. È forse credibile che l'apostolo Giovanni nutrisse questa speranza dopo ancora 30 anni dalla morte del Cristo? Non lo sappiamo. È però verosimile ch'egli abbia scritto qualcosa di molto importante alla vigilia della grande guerra antiromana scoppiata nel 66 d.C. e conclusasi tragicamente nel 70.

La persecuzione ch'egli ha sofferto, in questo periodo, non poteva certo essere quella di Domiziano (81-96), come in genere gli esegeti cattolici sostengono, ma probabilmente quella di Nerone, a meno che il testo non vada collocato nel periodo della guerra giudaica immediatamente successivo alla catastrofe del 70: in tal caso la persecuzione potrebbe essere stata quella di Tito (79-81).

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2) INTRODUZIONE POLITICA

Stando alla cronologia del Nuovo Testamento la prima generazione di cristiani seguaci del Cristo scomparve entro il 70 d.C. L'unico dei “grandi” che riuscì a sopravvivere a questa carneficina fu Giovanni Zebedeo, ma ormai il suo potere era diventato ben poca cosa: i suoi due testi (Apocalisse e Vangelo), a noi pervenuti, sono stati infatti ampiamente interpolati. Molto probabilmente il falsificatore del vangelo dell'apostolo è quello stesso che ha scritto le cosiddette tre epistole di Giovanni.

Per quanto riguarda invece la manipolazione dell'Apocalisse, bisogna andare a cercare i suoi redattori negli ambienti cristiani provenienti dall'essenismo o comunque dal giudaismo militante, divenuto sì cristiano, ma non ancora particolarmente influenzato dall'ideologia petro-paolina. Appare infatti abbastanza evidente che con l'Apocalisse Giovanni è ancora convinto che la tomba vuota, scoperta nei pressi del Golghota, non vada interpretata secondo la tesi petrina della “morte necessaria”, voluta da dio, che induce a rassegnazione, ma, al contrario, come occasione di riscatto imminente di tutta la nazione, in aperta opposizione all'aristocrazia clericale, ai ceti conservatori e collaborazionisti e persino ai farisei, pur essendo presenti, tra quest'ultimi, degli elementi favorevoli al movimento nazareno. Probabilmente Giovanni vedeva proprio nei “progressisti” farisei, già duramente perseguitati dai Romani e avversari dei collaborazionisti sadducei, i principali responsabili della morte del Cristo.

Cioè nonostante che il testo sia stato scritto una trentina d'anni dopo la crocifissione del Cristo, Giovanni è ancora convinto che la parusia sia imminente. Questa certezza scomparirà completamente nel IV vangelo, che vuole essere un testo più storico che politico. È tuttavia da escludere che l'apostolo intendesse la “parusia” nei termini petrini, proprio perché, mentre Pietro ne aveva fatto il pretesto per “non fare la rivoluzione”, lui invece doveva essersi convinto ch'essa andava preparata. Di qui il forte impegno politico.

È probabile che in questo riscatto nazionale abbia creduto lo stesso Paolo di Tarso, prima della crisi di sfiducia sulla strada di Damasco, in cui smette di comportarsi come un fariseo contestatore, rigidamente nazionalista, per diventare cristiano politicamente rassegnato, aperto a soluzioni mistiche, in cui la concezione etico-religiosa della vita ha un respiro filosofico cosmopolita. Paolo, infatti, nella fase iniziale della predicazione cristiana parlava di “parusia imminente”: solo verso la fine della sua vita cominciò a procrastinarla al momento del giudizio universale, quello della fine dei tempi. Quando perseguitava i cristiani, lo faceva perché l'idea che il messia che doveva venire era già stato crocifisso distoglieva gli ebrei dal fare un'opposizione efficace ai Romani, benché i seguaci di Pietro sostenessero la promessa di una “parusia gloriosa”. D'altra parte Paolo era convinto che la crocifissione fosse stata giusta, per cui era da escludere a priori una qualunque “parusia”.

La scoperta della tomba vuota dovette lasciare gli apostoli, soprattutto i due principali: Pietro e Giovanni, molto incerti sul da farsi. Se si erano sbagliati sul fatto del decesso o se la sindone ritrovata attestava una scomparsa inspiegabile, inevitabilmente essi avranno pensato a una ricomparsa in tempi brevi del messia crocifisso, questa volta trionfante su un cavallo da guerra e non in groppa a un asino, come durante l'ingresso messianico a Gerusalemme.

Giovanni tuttavia spiega bene nel suo vangelo che non potevano esserci dubbi sulla morte in croce: il colpo di lancia inferto al costato del Nazareno, onde poterne costatare la morte, prima di consegnare il cadavere a Giuseppe d'Arimatea, aveva confermato una certezza. Cristo era senza dubbio morto sulla croce e se il giorno dopo le donne scoprirono una tomba vuota, ciò non poteva essere interpretato come una morte apparente.

Nella tomba il lenzuolo che avvolgeva il cadavere era stato trovato piegato e riposto da un lato, e questo era sufficiente per escludere il trafugamento del cadavere, anche se a un'ipotesi contraria si poteva pensare proprio guardando l'uscio aperto della tomba. Tuttavia, se la pietra che ostruiva l'ingresso poteva essere fatta rotolare solo dall'esterno, e se il corpo del messia s'era per così dire “volatilizzato” dall'interno, che bisogno c'era di far rotolare la pietra per uscire dal sepolcro? I due apostoli devono aver pensato, in quel momento, le stesse cose che ognuno di noi avrebbe pensato: la porta era stata aperta perché il corpo potesse uscire e perché, ritrovando la sindone piegata, non si pensasse ch'era stato trafugato. A questa spiegazione - come noto - Tommaso non credette, e probabilmente altri come lui.

A questo punto però l'attesa di un imminente ritorno, e questa volta in maniera trionfale, diventava inevitabile. Che cosa dovette accadere, nell'ambito della comunità, quando ci si accorse che non si stava verificando alcuna grandiosa parusia, è facile immaginarlo. Molti si saranno sentiti presi in giro. Avranno cominciato a criticare Pietro e Giovanni: i due leader rischiavano di passare come imbonitori dell'intero movimento nazareno.

La prima, dura, controversia dovette appunto scoppiare tra Pietro e Giovanni. La tesi di Pietro, quale appare nel vangelo di Marco, che però è molto influenzato dalla teologia paolina, la conosciamo: Cristo “doveva morire” per adempiere la volontà imperscrutabile di dio, cioè per dimostrare ch'era suo “figlio”, vincendo la morte con la resurrezione e riconciliando quindi Israele col creatore. Il fatto ch'egli sia risorto attesta ch'era dotato di poteri sovrumani, che però non volle usare per liberare la Palestina dai Romani, proprio perché la sua missione era soltanto quella di dimostrare che la morte non è la fine di tutto e che le contraddizioni di questa terra possono essere risolte solo nell'aldilà. La soluzione petrina era moralistica o, se vogliamo, politicamente revisionista, ed è una soluzione strettamente intrecciata a quella di Paolo.

Quando Pietro cominciò a predicare tutto questo non era ancora convinto che Cristo fosse “l'unigenito figlio di dio”, né che la parusia sarebbe dovuta accadere soltanto alla fine dei tempi, né che la croce andava considerata come uno strumento di riconciliazione non solo degli ebrei ma dell'intera umanità con dio, schiava del peccato originale, non essendoci più alcuna differenza di principio tra gentili e giudei: tutte queste tesi verranno sviluppate solo da Paolo, proprio sulla scia della tesi petrina della morte necessaria e della resurrezione, e quando Paolo comincerà a farlo, Pietro dovrà andarsene da Gerusalemme, in quanto aveva sempre dato per scontato che tra ebrei e pagani dovesse esserci una diversità di fondo, ma anche perché l'idea di dover sopportare le angherie del potere romano, nella speranza di una ricompensa ultraterrena, mal si addiceva alla sensibilità delle genti palestinesi, alle quali non poteva bastare che il cristianesimo si ponesse soltanto come alternativa al potere giudaico dominante (quello dei sommi sacerdoti, dei sadducei, degli scribi e dei farisei). Pietro non avrebbe mai partecipato a un'insurrezione armata mettendosi dalla parte di quei giudei che, anni prima, gli avevano giustiziato il messia in cui credeva.

Ora, se conosciamo la nascita e lo sviluppo dell'ideologia petro-paolina, non sappiamo quasi nulla di quella giovannea, messa progressivamente in minoranza e successivamente soggetta a varie manipolazioni redazionali. Quando scrive l'Apocalisse Giovanni non dà per scontata soltanto la resurrezione di Cristo (dimostrando in questo di accettare le premesse petrine), ma anche la sua imminente venuta (cosa in cui anche Pietro, per un certo tempo, aveva creduto). Dunque dove stava la differenza tra i due apostoli? Perché Giovanni, pur avendo scritto l'Apocalisse una trentina d'anni dopo l'evento tragico del Golghota, è ancora persuaso che la tesi iniziale di un'imminente parusia trionfale del Cristo sia ancora valida?

La differenza stava nelle conclusioni operative: mentre per Pietro la tomba vuota andava interpretata in senso fatalistico (se il Cristo, che è risorto, non è riuscito a compiere la rivoluzione, non vi riuscirà certo l'uomo; quindi non resta che attendere il suo ritorno, resistendo alla tentazione di farsi riassorbire dal giudaismo ufficiale); per Giovanni invece bisognava proseguire il messaggio del Nazareno in maniera politica, dimostrando col proprio coraggio che si era degni di un suo ritorno. Più ci si allontanava dall'istanza politica e meno possibilità c'erano di conservare integro il messaggio ricevuto dal proprio leader.

Sotto questo aspetto l'Apocalisse sembra il grido di un disperato, di uno che a tutti i costi vuole il riscatto non solo della propria nazione dalle due bestie che l'affliggono (Roma e il giudaismo corrotto), ma anche delle proprie convinzioni politiche (contraddette dai compagni nazareni di un tempo), il grido di uno che aspira a una generale insurrezione armata, con cui anticipare, degnamente, la venuta del messia risorto. Giovanni chiede alle comunità da lui fondate che dimostrino d'essere all'altezza della serietà del momento.

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3) I DESTINATARI

Buona parte dell'Apocalisse venne scritta nell'imminenza della guerra giudaica, scoppiata nel 66 d.C., e chiunque può facilmente rendersi conto ch'essa è un esplicito invito a tenersi pronti per potervi partecipare attivamente.

Noi non sappiamo quanto l'appello sia stato effettivamente ascoltato. Sappiamo soltanto - perché è lui stesso a dirlo - che Giovanni si trovava nell'isola di Patmos, o in domicilio coatto o perché qui si era provvisoriamente rifugiato per sfuggire a un mandato di cattura, e che probabilmente il suo quartier generale si trovava ad Efeso.

Il fatto ch'egli accetti di firmarsi può far pensare che la sua prigionia fosse di dominio pubblico e che la sua autorità in quel momento, in quei territori, fosse incontestabile tra i cristiani di origine giudaica. Viceversa nel IV vangelo il suo nome non appare mai, proprio in quanto la sua linea politica era risultata perdente e le comunità paoline trionfanti non potevano permettersi che qualcuno tra i discepoli più vicini al Cristo potesse avere una versione dei fatti, riguardanti la vicenda della rivoluzione fallita dei nazareni, diversa da quella ufficialmente ammessa nei Sinottici.

L'autore si rivolge a sette comunità dell'Asia Minore, cioè dell'odierna Turchia (allora provincia proconsolare di Roma), situate sulla costa orientale del Mar Egeo, sulla via della posta imperiale, in un percorso circolare che occupa una distanza di circa 500 km. Di quelle citate: Efeso, Smirne (capoluogo della Licia, fedele a Roma), Pergamo (capitale degli Attalidi, un importante centro studi), Tiatira (un notevole centro di artigianato e di industria, il cui santuario era dedicato alla Sibilla di Samo), Sardi (antica città reale sede del potentissimo e ricchissimo re Creso, poi conquistata da Ciro e da Antioco), Filadelfia (piccola città della Lidia, con un tempio dedicato a Giano) e Laodicea (centro commerciale notissimo per i bagni termali, distrutto nel 60 da un terremoto), sicuramente Efeso è la maggiore, essendo la più grande città dell'Asia Minore, sede del più importante tempio della dea pagana Artemide.

Sono tutte comunità che hanno già subito, come lui, varie “tribolazioni” (1,9), presumibilmente causate dal fatto che a quel tempo gli imperatori romani cominciavano a pretendere d'essere considerati “divini”: si parlava già del divus Augustus e lo stesso Cesare era stato proclamato divus dal senato romano.

Verso la fine del I secolo proprio nelle province romane dell'Asia Minore occidentale il culto degli imperatori veniva imposto con mezzi particolarmente duri e oppressivi (p. es. imprimendo a fuoco sulla mano destra o sulla fronte il marchio imperiale, come segno di sottomissione, di cui peraltro si parla nella stessa Apocalisse). Domiziano fu proprio uno dei primi imperatori che si autoproclamò “Signore e Dio”.

Sappiamo anche dal Nuovo Testamento che alla comunità di Laodicea era stata mandata una lettera, andata perduta, da parte di Paolo di Tarso, e che Efeso fu un punto di riferimento privilegiato per i viaggi missionari dello stesso Paolo, nonché destinataria di una delle sue lettere. Delle altre quattro città non abbiamo notizie nel resto del N.T.

Poiché Paolo, nella sua lettera agli Efesini, scritta alla fine della sua vita, mentre era incarcerato a Roma, non cita Giovanni, è da presumere che i destinatari efesini di una lettera dell'Apocalisse non fossero di origine pagana, come quelli di Paolo, ma di origine giudaica. Per tutta la sua lettera infatti Paolo continuamente ribadisce di non essere un apostolo degli ebrei ma dei gentili. Anche Paolo dice di aver avuto una “rivelazione” (Ef 3,3), riguardante un “progetto segreto di Dio”: quello di realizzare una piena uguaglianza tra ebrei e gentili. E in tale uguaglianza - precisa Paolo - Cristo non andava considerato un liberatore politico bensì un redentore morale, che non aveva agito per liberare la Palestina dai romani e dai collaborazionisti ebrei, ma che era venuto (dall'aldilà) per sconfiggere il peccato originale e quindi la morte, sua principale conseguenza, ovvero per riappacificare l'umanità col dio che l'aveva cacciata dall'eden proprio in seguito a quella colpa fatale.

L'attesa della parusia imminente è decisamente scomparsa in questa sua lettera, peraltro pesantemente manomessa dai suoi discepoli. È quindi da escludere che la lettera di Paolo sia precedente a quella inviata da Giovanni nell'Apocalisse, e nonostante l'Efeso cristianizzata appaia, nel N.T., come una delle comunità fondate da Paolo, possiamo tranquillamente sostenere che le sette comunità citate nell'Apocalisse abbiano conosciuto per la prima volta il nome di Gesù Cristo grazie a Giovanni.

D'altra parte non avrebbe avuto alcun senso rivolgersi a delle comunità cristiane di origine pagana usando toni, simbologie e riferimenti escatologici così marcatamente semitici come quelli che vediamo nell'Apocalisse, la quale è un pressante invito, scritto da un esiliato, a tenersi pronti per la rivoluzione. Non ci sono intenti polemici nei confronti di queste comunità, anche se non vengono risparmiate le critiche.

Si può quindi presumere che inizialmente le sette lettere siano state spedite separatamente e fatte circolare in gran segreto e che solo successivamente (probabilmente dopo la morte dello stesso apostolo) siano state accorpate in un unico testo, ovviamente previa manipolazione redazionale in senso spiritualistico (cosa che ha fatto p. es. pensare ad alcuni esegeti che il numero sette indichi in realtà l'universalità delle comunità cristiane, proprio perché in tutto il testo l'unico nome citato, oltre a Cristo, è quello stesso di Giovanni: i capi delle varie comunità sono stati fatti diventare degli “angeli”).

Giovanni tuttavia non sembra affatto avercela solo con le pretese idolatriche imposte dagli imperatori romani (“la bestia che viene dal mare”), ma anche con quel sincretismo religioso propagandato da certi ambienti giudaico-gnostici (“la bestia che viene dal retroterra”), che risultava alquanto nocivo agli interessi della causa rivoluzionaria. E qui è difficile non pensare ch'egli avesse in mente la predicazione paolina.

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4) LA CANONICITÀ

Un testo del genere non poteva essere inserito in un canone contrassegnato dall'affermazione della teologia paolina, senza subire una qualche revisione redazionale che ne accentuasse gli aspetti mistici. L'Apocalisse non solo è stata scritta prima dei vangeli, ma vuole anche porsi come una sorta di contraltare alle lettere paoline, che invitavano a combattere non i romani e i giudei collaborazionisti, bensì i “principati e le potestà che si trovano nell'aria” (Ef 6,12; Col 2,15). Anzi, è da presumere che il “falso profeta” con le corna di agnello e il linguaggio di drago (13,11-18), quello che a Efeso si fa chiamare “apostolo” senza esserlo (2,2), sia lo stesso Paolo di Tarso e che quindi, quando Giovanni parla con disprezzo dei “nicolaiti”, si debba vedere in questi cristiani di origine pagana, dei seguaci del paolinismo.

La revisione principale del testo è stata fatta proprio sul tipo di attesa che i cristiani dovevano mostrare di possedere in relazione alla parusia del Cristo. Bisognava assolutamente inserirvi degli elementi di rassegnazione politica, altrimenti sarebbe stato improponibile considerarlo canonico. E sappiamo bene con quanta difficoltà esso venne accettato: i dissensi si protrassero sino agli inizi del VI secolo, e si dovettero persino attendere i Concili Fiorentino (1438-45) e Tridentino (1546-63) per sancirne definitivamente la canonicità. Prestigiosi padri della Chiesa come Cirillo di Gerusalemme e Giovanni Crisostomo si sono rifiutati di metterlo nell'elenco dei libri autorizzati.

In effetti, a un esegeta laico non può certamente sfuggire il fatto che il riscatto sociale e politico dei giudei non avviene qui perché si desidera mettere esplicitamente in atto un'insurrezione armata contro i romani, ma in una maniera più fatalista (soprattutto nella seconda sezione, quella che parte dal cap. 12): i cristiani devono attendere con pazienza che eventi catastrofici di tipo naturale indichino una precisa volontà del Cristo di por fine alle sofferenze degli oppressi. Il Cristo cioè si servirebbe della Natura per dare alla Storia un nuovo corso, una volta che questa abbia raggiunto il culmine dell'umana sofferenza. E se la Natura non fosse sufficiente, si può sempre sperare nella ferocia delle tribù asiatiche dei paesi di Gog e Magog (India? Cina?), che a loro volta saranno annientate da eventi naturali ancora più catastrofici.

La revisione spoliticizzata (molto evidente nella seconda sezione del testo) doveva necessariamente basarsi su un'ideologia che negasse alla parusia del Cristo un riferimento temporale imminente. Secondo Paolo infatti Cristo era soltanto un mediatore tra dio-padre e gli uomini, i quali, grazie al suo sacrificio sulla croce e alla resurrezione, avevano ottenuto il perdono sicuro da parte di quel dio che li aveva condannati a sentirsi maledetti e abbandonati sin dai tempi del peccato d'origine. Nella visione apocalittica paolina la fine dei tempi (storico-mondiale) coincide col giudizio cosmico-universale, cioè con il definitivo superamento “celeste” della dimensione “terrena” dell'esistenza umana.

La revisione ideologica dell'Apocalisse appare in maniera evidente negli ultimi tre capitoli, dove le discordanze e le incoerenze sono così forti che hanno portato persino alcuni esegeti cattolici, sempre molto affezionati all'idea dell'attribuzione univoca all'apostolo Giovanni e all'unitarietà del testo, ad ammettere che una prima stesura deve essersi verificata sotto Nerone, prima della morte di Pietro e Paolo, mentre la seconda, quella a partire dal cap. 12, può addirittura essere stata scritta nei primi anni dell'imperatore Domiziano, cioè verso il 95.

Tali esegeti però evitano di spiegarne la ragione di fondo, e cioè il fatto che mentre il testo inizia mettendo in rapporto l'insurrezione antiromana col giudaismo palestinese, finisce invece col trasformare questa stessa insurrezione in una sorta di riscatto etico-religioso che avverrà alla fine dei tempi.

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5) IL GENERE APOCALITTICO

Indubbiamente l'Apocalisse ha molti elementi spiritualistici di derivazione essenica (non dimentichiamo che, prima di abbracciare la causa del Cristo, Giovanni aveva abbracciato quella del Battista), nondimeno quegli elementi che non sono stati aggiunti o manipolati successivamente alla stesura del testo, non fanno riferimento a forme di divinità astratte, superiori allo stesso Cristo: l'unico dio di cui nel testo si parla è il “Figlio dell'uomo”.

Anzi, sulla stessa influenza essenica bisognerebbe fare alcune precisazioni, in quanto, stando agli studi critici dei manoscritti di Qûmran, il carattere drammatico della visione cosmico-escatologica che si ritrova in alcuni rotoli (p. es. la Regola della Guerra) e che va considerato abbastanza inusuale per l'ambiente giudaico1, risente a sua volta di un marcato influsso di idee provenienti dal mondo iranico-mazdeo.

L'apocalittica come genere letterario è tipico, se vogliamo, di culture babilonesi, anche se la si ritrova nel libro di Daniele, nell'Enoch etiopico, nell'Enoch slavo e in altri testi chiaramente influenzati da una sorta di gnosticismo manicheo-giudaico di derivazione iranica. Praticamente l'apocalittica è stato un genere letterario di moda nell'ambiente giudaico dal II sec. a.C. al II-III sec. d.C.

È sufficiente fare alcuni esempi per convincersene (e per una visione generale del problema si rimanda all'articolo di Ezio Albrile, Enoch e l'Iran: un'ipotesi sulle origini dell'apocalittica, in “Nicolaus”, n. 2/1995).

Espressioni come quelle che andremo a citare sono state prese dalla letterature mandaica o zurvanita:

- Antico o Capo dei Giorni o degli Eoni o del divenire del tempo (passato, presente e futuro);

- la veste e i capelli bianchi di questa divinità, i suoi occhi lucenti come il sole;

- la luce o lo spirito posti in alto, la tenebra o la materia posti in basso;

- dio come essere cosmico il cui corpo coincide con la creazione;

- la luce in forma di fuoco all'origine della creazione, destinata a riapparire alla fine dei tempi nelle sembianze di un cavaliere sopra un destriero infuocato;

- l'opposizione a dio di una folta schiera di angeli decaduti (demoni), che influenzano gli esseri umani, insegnando loro i segreti per mutare le cose del mondo;

- lo scontro tra due principi, del bene e del male, in cui quest'ultimo non è subito annientato, ma incatenato sino alla fine dei tempi, dopodiché verrà sciolto per essere definitivamente sconfitto;

- il mondo (o il tempo) futuro (o infinito) contrapposto al mondo presente (finito);

- la morte e la malvagità introdotti nella creazione positiva di dio a causa della gelosia o invidia da parte del demone;

- nella grande guerra tra bene e male la sofferenza purifica, i morti risorgono, il cosmo viene trasfigurato;

- le epoche della grande guerra sono quaternarie, divise in quattro periodi, contrassegnate da quattro elementi simbolici;

- al ritorno escatologico del signore dell'universo vi sarà il giudizio finale, seguito dalla redenzione definitiva dei peccati dell'umanità e la distruzione delle potenze malvagie;

- la riconciliazione tra uomo e dio passa attraverso l'immolazione di un uomo-dio, che muore e risorge;

- l'uomo riconciliato alla fine dei tempi recupera col proprio corpo un nuovo rapporto: il corpo diventa “spirituale”.

Questi e altri elementi sono ampiamente documentati nella letteratura indo-iranica e nelle apocalissi cosiddette “zurvanite”, che precedono di molto il tardo giudaismo e che lo influenzano attraverso lo gnosticismo.

Si può addirittura sostenere che lo sviluppo di questa apocalittica in ambito giudaico ha trovato il suo prosieguo più incisivo proprio nell'apocalittica cristiana, con la differenza che qui tutti gli avvenimenti ruotano attorno alla figura di Gesù Cristo.

Ma su questo bisogna spendere ancora alcune parole, proprio perché è difficile sostenere che la parte migliore dell'escatologia dell'Apocalisse di Giovanni sia in tutto debitrice di quella di origine babilonese o che non vi siano differenze sostanziali con le apocalissi giudaiche vere e proprie o con tutte le altre piccole apocalissi cristiane sparse nel Nuovo Testamento (presenti p. es. nei vangeli: Mc 13,1ss.; Mt 24,1ss.; Lc 21,5ss., nelle lettere di Paolo: 2Ts 2,1-12; 2Cor 12,1-9; 1Ts 4,13-17; e in quelle di Pietro: 1Pt 3,19ss.; 2Pt 3,10-13).

Anzitutto il rapporto tra profezia e apocalittica è controverso nel testo di Giovanni, in quanto il termine greco apokalypsis vuole dire una cosa: rivelare, scoprire, togliere il velo, che è tipica delle profezie. In questo l'autore, che viene chiamato “profeta” dall'angelo che gli impedisce di prostrarsi ai suoi piedi (22,9) e che definisce questo testo come una “profezia” (22,10), si differenzia dalle apocalissi classiche del giudaismo, in cui era netta la differenza dal profetismo. Si può anzi dire che nell'ebraismo l'apocalittica è un surrogato e una prosecuzione fantastica di quel profetismo i cui ideali politici non si erano realizzati: il profeta si poneva il compito di cambiare la realtà qui ed ora; l'apocalittico invece rimanda i cambiamenti, preceduti da immani catastrofi, ad epoche future.

Nel valutare i rapporti tra bene e male, gli apocalittici giudaici sono decisamente dualisti, opponendo in maniera radicale due principi che non hanno nulla in comune. Nell'Apocalisse di Giovanni invece, pur presentando la storia dell'umanità come un grande scontro armato tra forze opposte, all'origine del male vi è una scelta umana, che non è tanto “imposta” quanto “condizionata” dagli eventi. E la soluzione alla sofferenza non ha bisogno d'essere ricercata in qualcosa che non esiste nel presente: Giovanni reputa se stesso come l'interprete più fedele del messaggio di Cristo (lui solo è in grado di “mangiarsi” il libro della verità che gli offre l'angelo).

Anche nelle piccole apocalissi riportate nel Nuovo Testamento si riscontra, in un certo senso, lo stesso pessimismo dell'escatologia giudaica, che differiva, a un tempo non meglio precisato (conosciuto solo a dio), la soluzione delle contraddizioni antagonistiche, che resta certa, avendo il Cristo risorto vinto la morte. Viceversa Giovanni inserisce il riscatto del suo popolo nell'ottimismo di un'escatologia che vuole inaugurarsi nell'immediato presente.

Nel testo di Giovanni si riprendono e si sviluppano le grandi immagini della tradizione profetica che va da Isaia ad Ezechiele, da Zaccaria a Daniele, ma ci si innesta anche nella tradizione biblica che nel II sec. a.C. aveva prodotto il genere apocalittico. Il libro di Daniele si può dire costituisca lo spartiacque tra il passato profetismo e la nuova apocalittica.

È tuttavia sbagliato considerare il testo dell'apostolo Giovanni come un'apocalisse vera e propria, ed è stato sbagliato mettergli un titolo che rimanda più alle apocalissi giudaiche che non a quei messaggi tipicamente politici ch'erano le profezie. Questo perché mentre Giovanni, come i profeti in genere, ha di mira un cambiamento nel presente storico, gli apocalittici pongono il mutamento epocale solo al termine della storia. Si può pertanto considerare del tutto fuorviante l'idea, che i redattori cristiani hanno avuto, di aggiungere elementi della letteratura apocalittica in un testo che voleva porsi solo in maniera profetica.

Ma vi sono altre differenze tecniche rispetto all'apocalittica del tardo giudaismo, prevalentemente extra-biblica (Apocalissi di Baruch, di Mosè, di Elia, di Esdra, di Enoch ecc.): 

- Giovanni, sin dall'inizio del testo, rivela la propria identità e non fa uso della pseudonimia, che era quella finzione letteraria con cui un autore, per dare maggiore rilievo e autorità al proprio testo, lo attribuiva a un illustre personaggio del passato (Adamo, Mosè, Noé...);

- Giovanni dice di aver ricevuto l'ordine di “non sigillare le parole della profezia” del suo libro (22,10), per cui evita di usare quell'esoterismo con cui le apocalissi giudaiche sostenevano che le “rivelazioni” dovevano restare segrete sino alla fine dei tempi;

- il simbolismo usato nella prima sezione dell'Apocalisse è molto sobrio rispetto a quello usato dall'apocalittica giudaica;

- il carattere compilatorio delle apocalissi ebraiche (che si servono di vari materiali giustapposti tra loro, senza preoccupazioni di coerenza) si riscontra soprattutto nella seconda parte dell'Apocalisse giovannea.

Alla luce di quanto detto, possiamo infine chiederci in che maniera Giovanni, indirizzando le sue lettere, eminentemente politiche, alle sette comunità da lui fondate, riuscisse a interpretare il fallimento del tentativo insurrezionale del Cristo. Egli infatti, essendo sicuro della vittoria finale, non poteva esimersi dallo spiegare il motivo per cui Cristo non fosse riuscito nell'impresa di liberare la Palestina. Era solo questione di “tradimento” all'interno dei Dodici?

Ebbene, leggendo l'Apocalisse si ha l'impressione che l'unica spiegazione possibile possa essere soltanto la seguente: il tentativo del Nazareno fallì a causa dell'immaturità politica delle masse palestinesi, e tuttavia, nonostante questo, i fattori che rendevano necessaria l'insurrezione non erano affatto diminuiti ma anzi aumentati. Il Cristo aveva tentato un'insurrezione nel momento in cui le forze romane erano sicuramente più deboli, ma proprio in seguito a quella repressione esse erano enormemente cresciute, rendendo così ancora più evidente la necessità della rivoluzione. L'Apocalisse voleva dunque offrire un'ulteriore speranza a quella generazione che non s'era macchiata di quel vergognoso crimine e che soprattutto aveva evitato di tradirlo mistificandone il messaggio, come appunto aveva fatto la linea petro-paolina.

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6) LE TESI DELL'APOCALISSE

Colpisce il fatto che in questo testo non si parla di rivelazione “su” ma “di” Gesù Cristo, cioè Giovanni non dice di voler scrivere qualcosa di inedito sulle parole e sulle opere del messia, ma dice che il Cristo gli ha comunicato qualcosa di decisivo attraverso un proprio angelo. Quasi lo stesso escamotage viene usato da Paolo per indicare la propria conversione sulla via di Damasco, ma in questo caso possiamo capirlo: Paolo doveva dimostrare che la sua vita da fariseo militante anticristiano era finita. Giovanni invece che bisogno aveva di dire che la rivelazione non era sua ma di Cristo in persona?

Il motivo è molto semplice: Giovanni non aveva ancora dato per scontato che non ci sarebbe stata alcuna parusia del Cristo, anzi, vedendo l'approssimarsi di una grande e imminente guerra contro Roma, la giudicava assolutamente inevitabile, per cui gli sembrava più facile convincere i propri discepoli a tenersi pronti usando la finzione letteraria della testimonianza diretta di colui che avrebbe dovuto esserne il principale protagonista.

Questo però significa ch'egli, di fronte alla constatazione della tomba vuota, aveva creduto alla tesi petrina della resurrezione, ma interpretandola in maniera diversa. È vero che anche nel vangelo di Marco non si parla mai di “apparizioni del Cristo risorto”, ma è anche vero che la chiusa autentica (non quella posticcia aggiunta successivamente) prospetta un semplice ritorno in Galilea di tutti i principali protagonisti del movimento nazareno, in attesa di chiarirsi sulla nuova strategia da adottare. Cioè si esclude la necessità di proseguire l'iniziativa in Giudea in chiave rivoluzionaria.

L'Apocalisse invece parla di “ritorno trionfale e imminente del Cristo crocifisso”, da attendere non passivamente (come predicava Pietro, negli Atti degli apostoli, con la sua idea di “morte necessaria”, secondo la prescienza insondabile della divinità), ma molto attivamente, preparandosi cioè a uno scontro armato vero e proprio con l'imperialismo romano e gli elementi collusi del giudaismo.

Giovanni si sente come un profeta disarmato, un visionario, ma non vuole che le sue lettere passino come l'ultimo canto del cigno. Siccome parla come un profeta anticotestamentario, è molto difficile pensare che questo autore sia lo stesso del quarto vangelo. Pur essendo entrambi provenienti da una cultura giudaica, l'evangelista, che scrive quando la sconfitta della nazione giudaica andava considerata definitiva, appare più sobrio e distaccato e sicuramente molto meno mistico, almeno là dove non è stato manipolato.

L'Apocalisse pare scritta da un disperato che non sa più cosa dire e cosa fare per convincere gli ebrei (in questo caso ebrei-ellenisti) a lottare contro Roma e i falsi profeti giudaici, tra cui sicuramente dovevano annoverarsi Pietro e soprattutto Paolo. Le sette lettere sono soprattutto una denuncia contro l'operato di quest'ultimi e dei loro discepoli, che, a quanto pare, si sentivano liberi di frequentare le stesse comunità ch'egli aveva fondato, diffondendo un messaggio diverso dal suo. Giovanni è molto più critico nei confronti di questi ebrei opportunisti che non nei confronti dei pagani oppressori. In tal senso non è da escludere che la parola “nicolaiti” sia stata usata dai manipolatori di questo testo al posto della parola “cristiani”.

Le tesi da lui sostenute nell'Apocalisse si possono ridurre a sette:

  1. Gesù è vero uomo e vero dio, in forza della resurrezione;

  2. il dio ebraico è insussistente, non c'è nessun altro dio che Cristo (tanto meno possono essere qualificati “dèi” gli imperatori romani);

  3. ogni uomo partecipa in qualche modo alla realtà di questa divinità, che quindi non può essere esclusiva del Cristo: salvezza o dannazione dipendono unicamente dalla volontà umana;

  4. essendo risorto, il Cristo non può essere sconfitto da nessuno e il suo destino è quello di ritornare sulla terra in maniera vittoriosa;

  5. i suoi discepoli non conoscono il momento della parusia, ma sanno con certezza ch'essa avverrà presto: devono solo pazientare e tenersi pronti alla chiamata decisiva (lo squillo delle trombe), cercando di leggere sapientemente i segni dei tempi;

  6. i nemici principali che i cristiani devono fronteggiare sono la bestia che viene dal mare (i romani), la bestia che sale dall'abisso (giudei collaborazionisti) e il falso profeta (falso cristiano);

  7. la liberazione umana e politica sarà mondiale, non solo nazionale.

Vediamoli in dettaglio.

Nel testo non s'intravedono le influenze gnostico-ellenistiche così ben visibili nel quarto vangelo: l'Apocalisse è stata manomessa da ambienti cristiani di origine giudaico-essenica, ancora poco influenzati dall'ideologia petro-paolina. È vero infatti che si sostiene che i cristiani sono stati salvati dal sacrificio di Cristo, agnello sgozzato. Ma non vi è alcuna traccia del peccato originale, della trinità, dello spirito santo, della circoncisione nello spirito, dei sacramenti, anzi lo stesso dio è strettamente equiparato al Cristo, nel senso che non esiste alcun dio che non sia il messia crocifisso.

Quando Giovanni parla di dio usa categorie veterotestamentarie (dio è “onnipotente” non “misericordioso”), ma lo fa per poi attribuire le stesse categorie al Cristo, il quale comanda il corso degli avvenimenti storici come se fosse Jahvè. Il messia è in grado di utilizzare il male da padrone, per mettere alla prova gli eletti, i quali devono tenersi pronti per il suo ritorno glorioso.

È come se si volesse sostenere che, se esiste un dio, il Cristo non gli è da meno, proprio in quanto prototipo dell'essere umano. Questo, per la mentalità giudaica di allora, equivaleva a fare professione di ateismo, in quanto il fatto di elevare un uomo a dio comportava, come conseguenza inevitabile, la riduzione di dio a un essere umano.2

Giovanni infatti nega di svolgere una qualunque funzione religiosa: egli si considera “servo di dio”, cioè umile cristiano, al massimo “profeta”, anche se è ben consapevole di possedere un'interpretazione dei fatti più oggettiva di quella di qualunque altro apostolo: infatti lui solo è in grado di mangiare il libro che gli consegna l'angelo, un libro dal sapore dolce in bocca ma amaro nello stomaco, proprio perché la rivoluzione del Cristo è stata tradita.

Nell'Apocalisse, quando si parla del messia, non vi è alcuna vera differenza tra uomo e dio. L'unica vera differenza è tra Cristo e i suoi “servi”: gli angeli e gli uomini, che devono sentirsi “fratelli” tra loro. In questo l'antitesi all'ideologia petro-paolina è netta. Alla comunità di Efeso egli scriverà che il Cristo, a chi vince la guerra contro le forze del male, darà da mangiare dell'albero della vita (2,7), lasciando così credere che all'origine della creazione non vi era altro dio che lo stesso Cristo.

Non a caso più volte, nel testo, gli angeli dicono a Giovanni che non deve mai prostrarsi davanti a loro, a testimonianza che non esiste alcun dio oltre a Cristo, qui descritto come “Figlio d'uomo” (1,13; 12,5; 14,14), in maniera analoga alla visione del profeta Daniele (7,13.26), o come “Re dei Re, Signore dei Signori” (6,16; 17,14), in chiave politico-terrena, anzi cosmica. “Il regno del mondo è passato al Signore nostro, ed egli regnerà per i secoli dei secoli” (11,15).

Gesù è descritto con lineamenti che nella tradizione profetica e apocalittica del classico giudaismo venivano attribuiti soltanto a dio: “alfa e omega”, “primo e ultimo”, “il principio e la fine”, “il vivente per i secoli dei secoli”, ecc. All'Agnello viene riservata la stessa identica adorazione, in quanto siede su un trono regale e divino insieme. Egli è in grado di dare la vita eterna, di comandare gli angeli, di rendere beato chi vuole.

Nessun testo della Bibbia paragona un uomo a dio in maniera così stringente: il Cristo appare non come mediatore tra dio e gli uomini, ma come una sorta di prototipo ancestrale, divino-umano, dell'intera umanità. Cioè gli uomini sono essi stessi dèi, simili agli angeli, per cui non possono materialmente morire, poiché ad ogni morte segue inevitabilmente una resurrezione, personale e generale, provvisoria e definitiva: possono soltanto salvarsi o dannarsi (la cosiddetta “morte seconda” non è “fisica” ma “spirituale”, è quella di chi, di fronte all'evidenza, si ostina a non volerla ammettere, è la disperazione di voler essere negativamente se stessi o di non volerlo essere positivamente).

Quello che Giovanni chiede a quest'uomo-dio è un'affermazione di giustizia contro i nemici romani e giudei collaborazionisti che l'hanno crocifisso e contro quanti, tra i cristiani, l'hanno di nuovo tradito rinunciando a proseguire il suo messaggio rivoluzionario: i “falsi profeti” indicano probabilmente gli stessi Pietro e Paolo, che molti esegeti considerano già morti al momento della stesura del testo.

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7) I QUATTRO CAVALIERI

Per una filosofia della storia

I quattro cavalieri dell'Apocalisse (cap. 6) che cosa rappresentano? Essi portano distruzione e rovina. Non vengono presentati come liberatori di Israele dal giogo romano, ma come flagelli dell'umanità intera. Quindi sono simboli astratti, che si succedono nel corso del processo storico a motivo della diversa tipologia di male che simboleggiano.

Una certa tradizione cristiana ha creduto di ravvisare p. es. nel cavaliere del cavallo bianco la popolazione barbarica dei Parti, grandi esperti nell'uso dell'arco e grandi nemici dei romani nel I sec. Ma questa interpretazione è riduttiva.

La vera novità nel quadro a tinte fosche dipinto dall'autore dell'Apocalisse sta piuttosto nell'aver voluto dare a questi emblemi della negatività una connotazione storica, seppure in chiave di filosofia della storia.

Nell'A.T. già i profeti come Ez. 14,21 o Ger. 15,2 avevano individuato le disgrazie peggiori dell'umanità: fame, guerra, peste, bestie feroci e schiavitù. Ma questi mali venivano considerati equivalenti, tant'è che potevano anche colpire contemporaneamente in luoghi diversi (p. es. le bestie feroci colpivano in genere i lavoratori della terra). Non c'era una vera e propria filosofia o teologia della storia. Quelle figure non erano evocative di processi storici, né rappresentavano delle categorie metastoriche (che nell'Apocalisse, peraltro, vengono in qualche modo standardizzate).

In Zc. 1,8-10 si nota benissimo che l'arrivo dei quattro cavalieri è simultaneo; peraltro essi hanno semplici funzioni di controllo e non di conquista stricto sensu, in quanto il dominio (in quel caso del sovrano Dario) è già consolidato.

In Lv. 26,14 ss. le sciagure non sono che maledizioni che si susseguono come minacce terribili il cui grado di severità aumenta in misura proporzionale alle forme di disobbedienza nei confronti della legge mosaica. Non c'è filosofia della storia, ma solo ipotesi di castighi severissimi: il paternalismo autoritario e moralistico del Levitico è evidente.

Viceversa, nell'Apocalisse si ha la netta sensazione che i mali rappresentati dai quattro cavalieri siano delle realtà inevitabili, imprescindibili, in quanto la perdizione del genere umano appare senza via di scampo. La colpa è priva di remissione e deve essere scontata in mezzo al sangue e a una desolazione infinita.

Il cavallo bianco, in tal senso, sembra rappresentare l'uso della forza pura e semplice, senza ideologia. Il cavaliere è un campione nell'uso dell'arco. Tutti gli riconoscono la supremazia bellica. È il trionfo dell'individualismo basato sull'abilità fisica. Potrebbe rappresentare benissimo gli imperi schiavistici.

Il cavallo rosso invece sembra rappresentare una sofisticazione dello schiavismo, forse il servaggio. Il cavaliere infatti ha il potere non solo di dominare con la forza delle armi, ma anche di far uccidere tra loro i sudditi che domina. Questo significa che con la sua spada egli difende questa o quella ideologia astratta, per un fine che resta sempre quello del potere politico.

Il terzo cavallo non sembra feroce, in apparenza, poiché il cavaliere ha in mano una bilancia con cui dà un valore alle cose: “una misura di frumento per un denaro e tre misure d'orzo per un denaro” (6,6). Cose, queste, che, a differenza dell'olio e del vino, vengono “danneggiate” - il che porta inevitabilmente alla fame, almeno in una parte dell'umanità. Questo forse significa che l'ideologia si è posta al servizio di interessi meramente economici, coi quali si gestisce il potere politico.

Ma il cavallo che fa più paura è il quarto, quello giallastro-verdastro, che rappresenta la morte, quello che domina “sulla quarta parte della terra”, quello che, in virtù del numero incredibile di seguaci, è in grado di infliggere qualunque pena: spada, fame, malattie, belve feroci. Sembra qui di vedere un riferimento alle moltitudini di origine asiatica.

L'autore dell'Apocalisse è molto scettico sulla possibilità di liberarsi da questi flagelli e fa invocare da parte delle anime cristiane già morte la giustizia inflessibile ovvero la vendetta terribile del “Signore” santo e verace (6,10), che qui si deve presumere sia il Cristo in persona.

Forse anche questo aspetto alquanto truce del messia redivivo può aver indotto molti padri orientali della chiesa cristiana a dubitare dell'effettiva ortodossia di questo testo, che certo in questi passi è profondamente semita: vi sono almeno 500 citazioni o riferimenti anticotestamentari.

Tuttavia, il Signore-Cristo dice di pazientare ancora, poiché prima si deve raggiungere un numero non meglio precisato di martiri (6,11). Il sesto sigillo, in tal senso, inaugura l'apocalisse vera e propria, perché sanziona la ribellione della natura alle forze malvagie dell'umanità. Cioè proprio nel momento in cui sembrava essere arrivato il peggio per l'uomo, ecco che si scatenano imponenti catastrofi naturali, nei cui confronti l'uomo è del tutto impotente.

Questo incredibile cataclisma obbliga tutti gli uomini, di qualunque rango o estrazione sociale, a rifugiarsi, al pari di uomini primitivi, presso spelonche e tra le rocce dei monti (6,15).

All'apertura del 7° sigillo non si salverà nessuno. Infatti sarà talmente grande la paura di morire che l'odio reciproco prevarrà su tutto e gli uomini si uccideranno proprio allo scopo di poter vivere. Le riserve di viveri saranno talmente scarse che l'unico modo di sopravvivere sarà quello di distruggersi a vicenda. Cioè invece di trovare un modo razionale di affrontare i cataclismi naturali, gli uomini preferiranno, vittime del loro individualismo e schiavi della logica della forza, di annientarsi a vicenda.

Non solo, ma - dice l'autore dell'Apocalisse - “il resto dell'umanità che non perì a causa di questi flagelli, non rinunziò alle opere delle sue mani; non cessò di prestar culto ai demòni e agli idoli d'oro, d'argento, di bronzo, di pietra e di legno, che non possono né vedere, né udire, né camminare; non rinunziò nemmeno agli omicidi, né alle stregonerie, né alla fornicazione, né alle ruberie” (9,20s.).

L'autore dell'Apocalisse esclude categoricamente la possibilità di una qualche forma di vera giustizia umana sulla terra. Gli uomini tendono inevitabilmente a farsi ingannare dalle apparenze, specie se queste sono un simulacro, una mimesi della vera giustizia.

In tal senso l'Apocalisse rappresenta la disperazione di una rivoluzione fallita e, nel contempo, l'ansia portata all'estremo di veder crollare l'impero romano o per cause endogene (la corruzione), o per cause esogene (pressioni barbariche), o in forza di sconvolgimenti naturali o in virtù di una speranza contro ogni speranza: il ritorno in vita del Cristo in veste gloriosa, da trionfatore, affinché gli apostoli possano dare un senso al mistero della tomba vuota.

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8) LA CONCEZIONE DELLA STORIA

Nell'Apocalisse la concezione della storia è tragica ma a lieto fine. La prima guerra catastrofica viene condotta sulla terra, da schiere seguaci del “Re dei Re”, che fanno a pezzi il “mostro” e il “falso profeta”, che faceva prodigi per ingannare le masse. Il “mostro” ha il potere politico-militare, il “falso profeta” quello ideologico e mediatico. Le loro schiere adorano la statua del “mostro” e sono state segnate col suo marchio, come schiavi.

Questa guerra durissima, con enorme spargimento di sangue, si concluderà con l'incatenamento provvisorio (per mille anni) del “mostro” e del “falso profeta”, personificazioni dell'antagonismo sociale. Nel corso di questo tempo regneranno quanti erano stati giustiziati in precedenza dal “mostro”.

Giovanni qui parla di “prima resurrezione”, quella che riguarda soltanto i martiri della libertà, i fautori di giustizia. Tuttavia, poiché la terra rimane la stessa, se non vogliamo presumere che si tratti di una resurrezione semplicemente simbolica, riguardante le idee di verità e giustizia, dobbiamo dire che il testo di Giovanni cade in una contraddizione insostenibile, cui alla fine cercheremo di dare una spiegazione.

Finiti i mille anni, il male riprenderà vigore e questa volta, con le schiere asiatiche di Gog e Magog, dilagherà nel mondo intero. Ma non durerà molto, in quanto un potentissimo fenomeno naturale sconvolgerà l'intero pianeta.

Il giudizio definitivo, per il quale i reprobi non avranno scampo, riguarderà questa volta tutti gli abitanti della terra, di tutti i tempi, ma in un ambiente completamente diverso da quello del cielo e della terra che conosciamo.

Dopo il giudizio universale la nuova dimensione che i giusti potranno vivere sarà completamente diversa dalla precedente, in quanto priva di sofferenze e persino di morte. L'unica morte sarà quella spirituale, che colpirà gli impenitenti, quelli che non vogliono cambiare vita.

Giovanni vuol far capire due cose:

- che la liberazione sulla terra è sì possibile ma non per un tempo indefinito;

- che la liberazione definitiva è possibile solo in un'altra dimensione (cosmica).

Probabilmente è giunto a queste conclusioni poiché riteneva che i giusti, per vivere il loro ideale di liberazione, avessero bisogno di non essere ostacolati materialmente da forze avverse. La giustizia va costruita nella pace delle condizioni esteriori. Ecco perché parla di liberazione provvisoria di mille anni, cui fa seguito una seconda liberazione in una condizione di vita completamente diversa dalla precedente.

Infatti nel nuovo mondo (“nuovo cielo e nuova terra”) chi vorrà vivere nella verità e nella giustizia potrà farlo tranquillamente, senza doversi continuamente difendere dalle tentazioni del male.

In questa “nuova Gerusalemme” Gesù Cristo è Dio, non c'è altro Dio all'infuori di lui: non c'è alcun “santuario nella città” (21,22), quindi nessuna religione. Gli stessi uomini sono dèi, poiché non conoscono più lutto, pianto, dolore, morte: “il mondo di prima è scomparso per sempre” (21,4).

La differenza tra le due condizioni di vita è che mentre nella prima la giustizia deve essere esercitata in mezzo a mille condizionamenti, nella seconda invece non troverà ostacoli di sorta. “Nulla di impuro potrà entrare nella nuova città, nessuno che pratichi la corruzione o commetta il falso” (21,27).

“In mezzo alla piazza della città crescerà l'albero che dà la vita” (22,2), come nel giardino primordiale. Solo che per cogliere tranquillamente i suoi frutti si dovranno superare su questa terra prove d'indicibile sofferenza.

Dove stanno i limiti di questa concezione della storia? Nel fatto che Giovanni attende la “parusia del Cristo”, cioè il suo ritorno trionfale sulla terra, e nel fatto che vuole una liberazione umana e politica in assenza di condizionamenti esterni.

Questi due errori di fondo portano a una conseguenza non meno errata, relativa al fatto che Giovanni vuole assegnare una punizione “eterna” al male, negando quindi definitivamente la possibilità del riscatto. È una visione ingenua, schematica, non dialettica del rapporto tra bene e male.

Giovanni offre la possibilità del riscatto nel corso dei primi mille anni di liberazione, poi la nega definitivamente, quando vi sarà la seconda grande guerra contro le schiere di Gog e Magog.

Si percepisce abbastanza bene che questo libro è stato scritto sotto la convinzione, illusoria, che la tomba vuota del Cristo avrebbe dovuto avere per il presente un significato operativo di tipo politico. Invece essa non ne ebbe alcuno, anzi, intorno all'evento della tomba vuota il cristianesimo primitivo costruirà un colossale tradimento nei confronti del proprio leader. I veri nemici da combattere non sono tanto i pagani quanto gli stessi cristiani.

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9) APPENDICE. LA PICCOLA APOCALISSE SINOTTICA

Ufficialmente il capitolo 13 del vangelo di Marco, fonte di Matteo e Luca, porta il titolo di “Discorso sul monte degli Ulivi”, ma ha tutte le caratteristiche del genere letterario escatologico, per cui può tranquillamente essere definita una “piccola apocalisse”, almeno rispetto a quella di Giovanni.

Il discorso viene collocato da Marco subito prima dell'ingresso messianico; lo spazio scenico è quello del Tempio di Gerusalemme e successivamente quello del monte degli Olivi (Getsemani), un giardino collocato sul limitare della valle del Cedron, lungo l'odierna strada da Gerusalemme a Betania.3

Il capitolo di Marco, che corrisponde al 24 di Matteo e al 21 di Luca, si pone molto probabilmente come mistificazione di un discorso politico relativo all'imminenza dell'insurrezione armata, che difficilmente può essere stato fatto presso il Tempio, alla presenza delle autorità giudaiche e romane, per cui potrebbe anche risultare attendibile il riferimento al Getsemani.

Sul piano redazionale il racconto è indubbiamente nato come “apocalisse” post-eventum, cioè successiva al crollo di Gerusalemme del 70, e da allora non deve aver subìto particolari rimaneggiamenti, tant'è che le versioni di Matteo e di Luca non contengono significative varianti. In fondo si trattava soltanto di riferire al Cristo, cioè di farle sostenere da lui, delle profezie relative a fatti già accaduti. Così, non potevano essere smentiti non solo i fatti storici, per quanto i sinottici siano reticenti nell'attribuirne la causa ai romani, ma neppure l'attribuzione delle profezie al Cristo, in quanto la comunità cristiana di Gerusalemme era scomparsa dopo il 70 e quella sopravvissuta al di fuori della Palestina aveva un odio così grande nei confronti dei giudei che non avrebbe avuto scrupoli nel fare carte false per indicare unicamente in loro i principali responsabili della morte del Cristo e della distruzione del loro paese.

Gli apostoli citati da Marco sono quattro e in quest'ordine: Pietro, perché fu lui a dirigere la comunità post-pasquale subito dopo la morte del Cristo; Giacomo, che dovrebbe essere il fratello di Giovanni ma che forse qui è il fratello di Gesù, quello che sostituì Pietro quando questi fu fatto evadere dal carcere, per non tornare mai più a Gerusalemme; Giovanni, che fu ben presto emarginato dalla comunità di Pietro e che qui risulta presente solo perché non si poteva escluderlo, e Andrea, fratello di Pietro, anche lui misteriosamente scomparso nel corso della trattazione degli Atti degli apostoli.

L'occasione del discorso è un'espressione di meraviglia manifestata dai discepoli per la robustezza delle mura del Tempio e dell'intera città (cosa che sarebbe stata particolarmente utile per difendersi dalla controffensiva romana successiva all'insurrezione).

Ovviamente Gesù avrà confermato, sul piano tecnico, il valore strategico della città e delle sue imponenti fortificazioni (a quel tempo in fondo gli ebrei erano gli unici a resistere con coraggio al dilagare dell'imperialismo romano). Qui però doveva apparire il contrario, essendo tutto il discorso finalizzato a mostrare la debolezza di quelle costruzioni, che di fatto non riuscirono a reggere l'impatto dell'assalto delle legioni.

Se è esistito, ed è facile che lo sia stato, in quanto l'insurrezione anti-romana nei piani del Cristo doveva partire per forza dalla capitale di Israele, un discorso politico-militare su un argomento logistico come questo, deve essersi svolto sulla base di considerazioni che qui non potevano essere presenti, avendo Marco in mente di propagandare l'immagine di un messia redentore e non liberatore.

Il discorso originario, com'è facile immaginare, doveva aver posto sulla bilancia questioni di natura tecnica e questioni di natura umana. Sarebbe stato infatti illusorio pensare di poter resistere a un grande impero come quello romano, che fino a quel momento aveva incontrato ben poche resistenze, facendo leva esclusivamente sull'imponenza delle mura della città, che peraltro erano già state varcate dalle legioni di Pompeo.

Occorreva una direzione strategica delle operazioni belliche ben organizzata, che permettesse non solo di resistere agli assedi delle legioni romane, ma anche di cacciarle definitivamente dalla Palestina. E una direzione del genere doveva poter contare, più che sull'imponenza delle mura (come invece pensarono di fare gli zeloti nel corso della guerra giudaica), sulla collaborazione del popolo, che, a vario titolo, avrebbe dovuto sostenere le truppe regolari e irregolari, fiancheggiare le operazioni militari vere e proprie e quelle di guerriglia. Nessun esercito riesce a vincere una guerra se non ha l'appoggio della popolazione in grado di nutrirlo, assisterlo, proteggerlo nei momenti più critici.

La resistenza doveva essere nazionale e non concentrata soltanto nella capitale. Indubbiamente il segno per farla scoppiare poteva essere offerto dall'insurrezione armata a Gerusalemme, in virtù della quale si poteva facilmente disarmare la guarnigione romana lì presente. Dopodiché si sarebbe occupata la città nei suoi gangli vitali, estromettendo l'aristocrazia sacerdotale da qualunque gestione politica del tempio e della città. Ma il vero obiettivo restava la liberazione dell'intera Palestina. P. es. il quartier generale di Pilato, stanziato a Cesarea, andava immediatamente bloccato, onde impedire qualunque comunicazione con Roma.

Qual è la principale contraddizione del racconto di Marco, che vuole conciliare aspetti umani con aspetti religiosi? È il fatto che da un lato Gesù, qui presentato come un dio, spiega per filo e per segno cosa dovrà accadere nell'imminenza della fine non solo della Palestina ma del mondo intero; dall'altro non è assolutamente in grado di prevedere il momento in cui tutto ciò avverrà, in quanto - a suo giudizio - solo dio può saperlo.

Qui è evidentissima la dipendenza di Marco dall'ideologia petro-paolina, che all'inizio cercò d'imporsi parlando di “morte necessaria” del messia, di sua “resurrezione” e di sua “imminente parusia trionfale” e che poi, vedendo i suoi inspiegabili ritardi, fu costretta a ridimensionare le proprie sicurezze, posticipando a data da destinarsi il momento epocale del riscatto definitivo (i cui segni anticipatori non sarebbero stati solo di tipo “storico” ma anche di tipo “naturalistico”, mettendo così un'ipoteca su un mix di eventi contestuali di ben difficile apparizione).

Ecco perché lo stesso Gesù che viene reso profeta della catastrofe finale di Israele, la cui causa viene qui addebitata ai giudei, che non hanno creduto in lui, non può profetizzare nulla sulla catastrofe del mondo intero, in quanto la sua attesa trionfale è andata delusa. Un Cristo risorto, che invece di tornare per vendicarsi dei romani e dei giudei collaborazionisti, se ne ascende in cielo, non può certo essere considerato un messia liberatore, anzi rende illusoria qualunque aspettativa politica (non a caso nel vangelo di Marco, che è quello del “segreto messianico” per eccellenza, Gesù rifiuta sempre di qualificarsi come “messia”).

Ma se non era un liberatore - fa capire Marco - è inutile prendersela coi romani. Se i giudei non l'hanno riconosciuto, la principale responsabilità è la loro. Se l'avessero accettato come messia politico, la Palestina si sarebbe liberata dei romani; non avendolo fatto, non ha più senso continuare a parlare di “messia liberatore”: tutta la Palestina è stata occupata dai romani e i cristiani emigrati devono continuare a vivere sotto le grinfie dell'impero. Una liberazione politica, agli occhi degli ebrei e degli stessi primi cristiani, avrebbe avuto senso se fosse stata “nazionale”. Ma dopo il 70 ogni tentativo di continuare a parlare di un “Cristo politico” andava decisamente censurato.

Dopo il tragico momento della croce Pietro volle comandare il movimento nazareno, ponendosi in alternativa alla posizione giovannea, che invece chiedeva di proseguire la strada dell'insurrezione armata. Fu lui, con la sua idea opportunista di “parusia”, che obbligava a starsene passivamente in attesa, il principale responsabile della disfatta del movimento nazareno, in questo seguito a ruota dall'ex fariseo Saulo di Tarso. E fu l'ideologia petro-paolina che escogitò la trovata geniale di attribuire al Cristo un vaticinio catastrofico non tanto o non solo per la Palestina, ma anche e soprattutto per l'intero pianeta, facendo in modo così di salvaguardare le idee di “morte necessaria”, di “resurrezione” e della stessa “parusia”, che avrebbero continuato ad avere un valore non più sul piano storico, bensì su quello metastorico, essendo proiettate verso un tempo indefinito.

Anche noi oggi sappiamo che il sole ha una vita complessiva di circa tredici miliardi di anni e che ne sono già trascorsi cinque dalla sua nascita e che tra altri cinque inizierà la sua agonia, non essendovi più idrogeno nel suo nucleo: che cosa ci costa dire che tra sei-sette miliardi di anni vi sarà la parusia del Cristo? Chi potrà smentirci? Ma soprattutto: a chi interesserà un evento del genere? Anche Paolo, che pur aveva creduto imminente la parusia, dopo vent'anni di folle predicazione, sarà costretto a inventarsi degli impossibili segni premonitori, che ne avrebbero anticipato la venuta, tra cui, niente di meno, che la conversione generalizzata degli ebrei al cristianesimo!

Tutta questa “piccola apocalisse” sottostà a una precisa filosofia deterministica, essendo dominata dalla categoria della necessità storica, racchiusa entro un guscio mistico. Gli eventi storici e naturali appaiono come ineluttabili, inevitabili, predestinati da dio-padre, cui neppure il figlio può opporsi. I sopravvissuti alla generale apostasia saranno quelli predestinati alla salvezza. I giorni della catastrofe cosmica verranno abbreviati solo per fare un favore agli eletti, i quali non avranno il potere di impedire alcunché. Loro compito principale sarà soltanto quello di resistere il più possibile. Non ci sarà infatti possibilità di realizzare alcuna rivoluzione politica o insurrezione armata sulla terra, proprio perché la liberazione dalla schiavitù non potrà essere “umana” ma solo “divina”, fatta direttamente dal figlio dell'uomo, che scenderà dall'alto dei cieli. Nell'Apocalisse di Giovanni gli eletti devono tenersi pronti a un decisivo scontro armato (non a caso essa fu scritta nell'imminenza della guerra giudaica): qui invece devono soltanto attendere passivamente il trionfo del Cristo redivivo.

Pietro ha mentito alla sua generazione, al suo movimento e ha continuato a mentire alle generazioni future, quelle che per credere nella “divinità” del messia hanno rinunciato a lottare per migliorare le loro condizioni di vita.

Va infatti considerato come del tutto riprovevole l'aver attribuito al Cristo l'affermazione secondo cui non sarebbe passata la propria “generazione” prima che tutte queste disgrazie fossero avvenute (Mc 13,30). Che bisogno aveva Marco di dire una cosa del genere quando quella generazione sapeva benissimo che la parusia non c'era mai stata? Il motivo è semplice: Pietro ha voluto far credere che quando predicava la parusia imminente lo faceva solo perché gli era stato comunicata dal Cristo. “Morte necessaria”, “resurrezione”, “parusia”: sono tutti concetti che nel vangelo di Marco vengono fatti propri direttamente dal messia, tutti concetti che sono serviti per mettere a tacere un movimento che chiedeva perché di fronte all'avanzata romana in Palestina le indicazioni dall'alto fossero quelle di non fare nulla.

Dunque chi poteva smentire Pietro dopo il 70, quando non solo molti apostoli della prima ora non esistevano più nell'ambito del cristianesimo petrino e quando persino quella stessa generazione, testimone delle azioni del Cristo, si era ormai ridotta all'osso? Solo Giovanni poteva farlo, e infatti lo farà in un racconto di resurrezione del suo vangelo (cap. 21), che per passare al setaccio del canone i suoi seguaci dovettero ambientare in un contesto saturo di misticismo: lì viene detto che mentre il discepolo prediletto poteva essere esonerato dal ricominciare la sequela al Cristo, in quanto non l'aveva mai tradito, per Pietro invece era un'altra storia.

Nel vangelo di Marco, come in tutti i documenti del Nuovo Testamento, noi abbiamo a che fare con una comunità politicamente sconfitta, che cerca di sopravvivere arrampicandosi sugli specchi, inventandosi cose assurde, anche perché non vuole rassegnarsi a non poter svolgere alcun ruolo politico. E, per quanto dal punto di vista ateistico possa apparire una cosa irrilevante, le va comunque attribuito il merito d'aver cercato d'opporsi, con l'idea di un Cristo “divinoumano”, alle pretese teocratiche degli imperatori romani. Là dove nel discorso si parla di “abominio della desolazione” si deve appunto intendere la trasformazione del Tempio ebraico in un Tempio pagano, votato a Zeus.

Tuttavia, se può apparire comprensibile l'esigenza di rimandare a un futuro non precisato la possibilità di una rivincita politica e militare, per quale ragione non s'incontra mai nel Nuovo Testamento neanche la più piccola espressione di autocritica nei confronti di quanto la leadership del movimento nazareno fece dopo la morte del Cristo?

Il Nuovo Testamento appare come una colossale opera di falsificazione, una sorta di revisione redazionale di tutto quanto era stato pubblicato sull'argomento della rivoluzione, analoga a quella che viene raccontata da G. Orwell in 1984 e molto simile a quanto fece lo stalinismo dopo la morte di Lenin. Il Nuovo Testamento è l'espressione di una dittatura ideologica e politica che, partendo dalle posizioni petrine, s'è conclusa con quelle paoline, trovando soltanto in quelle giovannee una debole resistenza.

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1 Anche se il tardo giudaismo post-esilico è spesso caratterizzato da un accentuato dualismo: p. es. i “figli della luce” contro i “figli delle tenebre”.

2 Quando i cristiani di origine gnostica manipoleranno il suo vangelo, non potranno non tener conto di questa tesi giovannea. Infatti già nel Prologo arriveranno a dire che “nessuno ha mai visto Dio” (1,18) e che solo il Cristo l'ha “rivelato”. Il che però, svolto in maniera conseguente, poteva anche portare a credere che tra Dio e Cristo non ci fosse in realtà alcuna differenza. D'altra parte nello stesso vangelo esiste un punto che i redattori cristiani non hanno voluto o saputo manipolare, nella convinzione ch'esso fosse già favorevole alla tesi della “divinità” del Cristo: quello del v. 10,34, chiaramente favorevole all'ateismo, poiché, all'obiezione che i giudei muovono a Gesù di volersi fare come Dio, egli risponde che tutti gli uomini dovrebbero considerarsi degli “dèi”, cioè autonomi da qualunque influenza di tipo religioso. Un'affermazione del genere, per i giudei integralisti, era pari a una bestemmia, e infatti cercarono subito di arrestarlo.

3 Infinite sono le polemiche sull'effettiva ubicazione del Tempio.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Nuovo Testamento
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Apocalisse di Giovanni


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