STUDI LAICI SUL NUOVO TESTAMENTO


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MIKOS TARSIS

RISORTO O SCOMPARSO?

Dal giudizio di fatto a quello di valore

Premessa - 1) Ribaltare l'esegesi dei vangeli - 2) Se la Sindone è vera i vangeli mentono - 3) La chiusa posticcia di Marco - 4) Storia della Sindone - 5) Motivi di autenticità della Sindone - 6) Considerazioni - 7) Le cosiddette Tre Marie ai piedi della croce - 8) Sepoltura di Gesù - 8.1) Ipotetica ricostruzione dei fatti sulla sepoltura del Cristo - 9) Scomparsa di Gesù - 9.1) Addendum - 10) I discepoli politici di Emmaus - 11) Giovanni e i racconti di resurrezione - 12) La figura controversa della Maddalena: 12.1) La Maddalena e le prime due eresie cristiane - 12.2) Conoscere e riconoscere: la Maddalena e il presunto ortolano - 12.3) Maddalena ex-prostituta o ex-indemoniata? - 13) Lo scettico Tommaso e i generi letterari - 14) La nostalgia amara dell'ultimo Giovanni - 15) Paura e coraggio: dal Getsemani al sepolcro - 16) L'esperienza del corpo - 17) Einstein e la Sindone - 18) Perché il concetto di resurrezione è mistificante? - 19) L'uso strumentale della morte di Cristo. I risultati della critica - 20) Cristo politico - 21) Il tradimento della Chiesa - 22) Nascita e sviluppi della falsificazione cristiana - 23) La mistica della morte - 24) Addendum sulla Sindone - 25) Mauro Pesce e la Sindone - 26) Il lenzuolo - Conclusione

Premessa

I vangeli qui sono stati letti come testi politici in cui viene mistificato il tentativo insurrezionale del movimento nazareno1 guidato da Gesù.

La mistificazione sta appunto nel fatto che Pietro, di fronte alla tomba vuota, s'inventò la tesi della resurrezione, cioè riprese un'idea astratta che avevano i farisei in polemica coi sadducei, che la negavano.2 Col che in pratica egli sosteneva la necessità di sostituire la rivoluzione antiromana con l'attesa imminente (e molto ingenua) della parusia trionfale del Cristo.

Di lenzuolo che avvolse il corpo di Gesù si parla in tutti i vangeli canonici (in quello di Giovanni addirittura ch'esso fu ritrovato da Pietro e Giovanni piegato e riposto da una parte): perché dunque Pietro non usò quel reperto come “prova” della resurrezione? Per la semplice ragione che la Sindone non poteva costituire una “prova” della resurrezione ma semplicemente una “prova” della scomparsa misteriosa del corpo. Su questa divergenza si consumò la rottura tra Pietro e Giovanni (quest'ultimo infatti, pur essendo il discepolo preferito da Gesù, non ebbe alcun ruolo negli Atti degli apostoli). Per credere nella resurrezione occorreva la “fede”, cosa che Paolo comprese benissimo, tanto che portò la tesi petrina alle sue estreme conseguenze: Gesù era l'unigenito figlio di Dio e sarebbe tornato in maniera gloriosa solo alla fine dei tempi per compiere un giudizio universale.

Ma allora la Sindone potrebbe anche essere vera. Anzi, se la considerassimo tale, dovremmo cominciare a rileggere i vangeli come testi “mistificati”.

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1) Ribaltare l'esegesi dei vangeli

La Sindone (un reperto che esiste da due millenni, ma che solo alla fine dell'Ottocento, con la scoperta della fotografia, si è rivelato in tutta la sua complessità ed esaustività) rappresenta il quinto vangelo. È l'unico documento autentico di tutto il Nuovo Testamento, l'unico che non può essere falsificato, in quanto non è perfettamente riproducibile. Può essere distrutto o soggetto a misinformation, cioè fatto risalire al Medioevo o a qualche altra epoca storica; gli si possono dare tutte le interpretazioni che si vogliono, anche le più mistificanti, ma non lo si può negare nella sua assoluta originalità.

La Sindone contesta non solo i quattro vangeli canonici, ma anche tutti quelli apocrifi. Per capire qualcosa di attendibile intorno alla figura di Gesù, bisogna partire da quel lenzuolo, il quale però non va tanto esaminato in maniera scientifica, quanto piuttosto in chiave politica. Se proprio lo si vuol fare anche in maniera scientifica, lo si faccia in funzione di esigenze umane e politiche.

Dunque, se la Sindone è vera, i vangeli mentono, proprio perché essi, quando parlano di “tomba vuota”, la interpretano come “resurrezione” e non come “strana scomparsa di un cadavere”. Infatti, il concetto di “resurrezione” implica che il corpo redivivo di una persona defunta possa essere visto da chiunque, non solo da chi dice di avere la “fede”. Tuttavia il fatto che sia stato fisicamente rivisto non viene detto nel vangelo originario di Marco, per cui si può tranquillamente arguire che tutti i racconti di riapparizione di Gesù siano soltanto delle pie leggende.3

Si fa molta fatica a fidarsi dei vangeli, a meno che essi non confermino le caratteristiche salienti della Sindone, che per le loro affermazioni dovrebbe essere considerata come una cartina di tornasole. La prospettiva esegetica va quindi rovesciata: i testi sono veri solo là dove trovano riscontro nel lenzuolo; e in ogni caso resta falsa qualunque interpretazione religiosa venga data sia a quei testi che a quel lenzuolo.

Oltre a ciò bisogna dire che di tutti i vangeli il più affidabile è quello attribuito a Giovanni, per quanto esso abbia subìto le manipolazioni mistiche più pesanti, superiori a quelle di ogni altro vangelo. Ciò a testimonianza che la versione originaria, andata perduta o distrutta, presentava una ricostruzione dei fatti scomoda alle tesi espresse dai Sinottici, di cui il più importante, riscoperto agli inizi del Novecento, è quello di Marco.

Indubbiamente il corpo impresso in quel lenzuolo presenta dei lati misteriosi, ancora non chiariti, ma quel che è certo è che si tratta di un uomo comune, dalle fattezze completamente umane. Si può pensare quel che si vuole su come quel corpo morto4 si sia volatilizzato nel sepolcro, ma non è questo che può interessarci.

Di sicuro sappiamo che è sbagliato dire che la Sindone è testimone del “temporaneo stato di morte di Gesù”, in quanto, per ciò che possiamo constatare, l'uomo che vediamo impresso nel lenzuolo è morto in maniera indubitabile. Noi non possiamo dire che quel corpo si è “risvegliato” con tutte le caratteristiche che aveva in vita, ovvero che i suoi occhi si sono riaperti. Altrimenti dovremmo parlare di “morte apparente”.

Quello è il corpo di una persona torturata, schernita, flagellata e crocifissa: soltanto gli aspetti umani e politici ci devono interessare. I quali, guarda caso, sono proprio quelli negati da tutto il Nuovo Testamento, intenzionato ad esaltare soprattutto quelli teologici. Non siamo in presenza di “un corpo morto e risorto”; non possiamo aggiungere l'aggettivo “determinato” all'articolo indeterminativo “un”; non possiamo dire con sicurezza che “quel corpo” è risorto, proprio perché siamo soltanto in presenza di un'immagine formatasi in maniera poco spiegabile scientificamente, sulla base delle conoscenze e della strumentazione attualmente in nostro possesso.

Considerare la Sindone come un reperto che attesta la “resurrezione” dell'uomo Gesù, significa essere ideologici, privi di obiettività scientifica. Il nostro corpo attuale, la nostra attuale esistenza in vita non è in grado di dire assolutamente nulla su ciò che è avvenuto all'interno di quel sepolcro e all'interno della Sindone. Ecco perché diciamo che qualunque discorso sulla cosiddetta “resurrezione” o “ridestamento” del corpo di Gesù, è fuorviante, è destinato a sfociare nel misticismo.

Esattamente come, in maniera inversa, noi non siamo in grado di dire nulla su come vivevamo quando eravamo nel ventre materno. Ogni condizione di vita ha le sue leggi specifiche da rispettare, le sue peculiarità ambientali, la cui dimenticanza, una volta che quelle condizioni mutano in maniera irreversibile, non pregiudica la possibilità di accedere a livelli superiori di autoconsapevolezza e quindi di utilizzo delle proprie capacità sensibili e intellettuali.

Se l'uomo impresso nel telo sindonico è lo stesso Gesù dei vangeli, il fatto che sia scomparso in maniera strana non deve influenzare il nostro comportamento nella vita reale, anche se non possiamo non chiederci perché Pietro, seguito da altri apostoli, abbia interpretato la tomba vuota come “resurrezione” e quali conseguenze politiche abbia avuto tale interpretazione sul destino del movimento nazareno fondato da Gesù.

Quando si parla di “resurrezione”, si dice qualcosa che inevitabilmente rischia d'essere mistificato, proprio per le conseguenze politicamente retrive, anzi, reazionarie, che tale concetto implica sul piano pratico. L'intero Nuovo Testamento nasce da tale interpretazione forzosa, falsata, sicché proprio per questo motivo esso va rigettato, soprattutto in quelle parti che trasformano Gesù in un essere sovrumano o sovrannaturale, inclusi tutti i riferimenti alla propria resurrezione che gli evangelisti gli attribuiscono quand'era in vita.5

La fede nella cosiddetta “resurrezione” non può essere basata su alcuna certezza, quindi, in un certo senso, è pura follia; anche perché non è umanamente sensato costruire sopra un “sepolcro vuoto” – l'unica cosa a disposizione dei testimoni di quel tempo – una nuova religione. La Chiesa si regge in piedi su fondamentali falsificazioni. Se miliardi di persone hanno accettato una religione del genere, ciò va attribuito al fatto che nella storia esistono rapporti sociali antagonistici che portano all'alienazione, nei confronti dei quali ci si illude di poterli risolvere attraverso la fede.

Noi quindi abbiamo a che fare con un reperto autentico, da più parti ritenuto un falso medievale; ma esistono anche molti documenti falsi o mistificati che per 1800 anni sono stati ritenuti veri e che solo di recente si è cominciato ad esaminare criticamente.6

Per noi non ha senso negare l'evidenza circa l'autenticità di quel reperto, e tuttavia ci guardiamo bene dal giungere a conclusioni ingiustificate. Quel lenzuolo può essere usato per smentire l'attendibilità dei vangeli, ma non ci deve interessare il modo in cui l'immagine s'è formata. Semmai ci interessa il modo in cui quella sagoma contesta la rappresentazione di Gesù Cristo che appartiene da due millenni al cristianesimo. Noi non vogliamo assumere l'atteggiamento di chi, per timore che la Sindone possa essere usata come “prova” della resurrezione di Gesù, preferisce negarne l'autenticità storica. Ma, al contrario, vogliamo partire da tale autenticità proprio per negare alla fede religiosa qualunque legittimità. Se la Sindone è vera, i vangeli mentono: è questo il criterio metodologico fondamentale con cui quel reperto va analizzato.

La Chiesa – come al solito – ha fatto i conti senza l'oste. Cioè ha voluto conservare un reperto pensando che fosse una prova in più della resurrezione di Cristo, ma da quando quel reperto è stato fotografato e analizzato scientificamente, ci si è accorti che molte informazioni o interpretazioni offerte dai vangeli sono infondate, non hanno riscontri nella realtà, sono non solo delle invenzioni, ma anche delle vere e proprie mistificazioni.

Senza la Sindone, l'esegesi laica, iniziata con Reimarus, stava arrivando lo stesso a capire dove i vangeli mentono; ma, grazie a quel reperto, il processo di smascheramento delle falsità del cristianesimo, ha subìto una notevole accelerazione. Forse è per questa ragione che la stessa Chiesa evita di considerare quel lenzuolo come qualcosa di assolutamente autentico. Lo accetta solo per favorire la devozione superstiziosa degli illetterati, ma non gli conferisce alcun valore probante tra gli esegeti e i teologi.

Paradossalmente però proprio la Sindone, messa a disposizione del mondo intero nella sua veste di negativo fotografico, permette di emanciparsi dal monopolio interpretativo della vicenda di Gesù, esercitato dalla Chiesa per quasi venti secoli. La Sindone, se interpretata laicamente, elimina qualunque riferimento mistico, ontoteologico e normativo ai dogmi del cristianesimo.

Generalmente gli esegeti non usano la Sindone per commentare i vangeli; al massimo fanno il contrario: la usano per confermarli. Invece bisognerebbe partire dal presupposto che l'uomo della Sindone non aveva nulla di religioso o di teologico e che, nel corso della sua vita, non fece nulla di sovrannaturale. Se quell'uomo, dopo essere morto, è scomparso in maniera misteriosa dalla sua tomba, potremmo anche pensare che sia nato nel ventre di Maria in maniera altrettanto strana, ma resta il fatto ch'egli si presentava come un essere umano in maniera incontrovertibile, senza se e senza ma.

Quindi tutto ciò che nei vangeli appare come non accettabile sul piano umano, cioè come caratterizzato da elementi innaturali o sovrannaturali, va considerato falso. P.es. i cosiddetti “miracoli” possono avere un senso solo se la malattia fisica aveva una causa di tipo psichico. Per il resto vanno considerati come il tentativo di stupire un pubblico pagano, mostrando che solo un “figlio di dio” poteva compiere azioni così prodigiose.

Altri eventi straordinari possono essere accettati se rientrano nelle possibilità umane di realizzazione, fossero anche le più mirabolanti. Tutto ciò che va oltre queste possibilità, va considerato, senza ombra di dubbio, come una violazione della libertà umana di coscienza. Su questo non si può non essere categorici, poiché è in gioco la credibilità dell'esegesi laica. Una religione nei limiti della ragione era già l'obiettivo dell'Illuminismo europeo: non è certo possibile fare un passo indietro rispetto a un'acquisizione così elementare, che spesso, peraltro, restava impigliata in una concezione deistica dell'esistenza.

Chiunque pensa di poter compiere cose sovrumane, facendo leva su una propria particolare natura divina, viola, ipso facto, la libertà umana di credervi. Se il Cristo si fosse presentato in questa maniera ai propri connazionali, rivendicando il diritto ad essere ascoltato, proprio in virtù di una “esclusiva figliolanza divina”, la decisione di opporsi al suo messaggio sarebbe stata pienamente giustificata. Se il Cristo dei vangeli fosse davvero stato il Gesù storico, gli ebrei avrebbero compiuto il loro dovere a opporvisi.

Sotto questo aspetto, altre due cose bisogna affermare in via preliminare: non esiste alcun dio che non sia umano, e quindi tutti gli uomini sono dèi, come disse lo stesso Gesù Cristo in Gv 10,34, per quanto in uno sfondo mistificato. Chi non accetta questi due presupposti, anch'essi risalenti alla Sinistra hegeliana, da considerarsi preliminari a qualunque esegesi laica un minimo critica, è meglio che resti nell'ambito dell'esegesi confessionale.

Gesù non solo non ha compiuto nulla di religioso, ma tutto quello che ha detto e ha fatto, non l'ha mai attribuito ad alcuna divinità. Quindi era sostanzialmente un ateo, oltre che un politico rivoluzionario. D'altra parte ch'egli fosse un politico del genere, ormai solo l'esegesi confessionale più retriva non è disposta ad ammetterlo. Semmai oggi il problema è diventato un altro: capire se era un politico a favore di un “regno di Dio” o se lo era a favore di un semplice “regno umano”. Ecco su questo le differenze sono molto nette, anche all'interno dell'esegesi più progressista.

Ma c'è di più. Egli ha sempre cercato di far capire agli uomini che la loro natura non è semplicemente “umana”, ma anche “divina”, nel senso ch'essi sono destinati a vivere anche dopo morti, in quanto nell'universo la morte non esiste: esiste solo la trasformazione perenne della materia, di cui la Sindone è un esempio molto eloquente, ancorché di non facile spiegazione. La differenza, quindi, tra questo “extraterrestre”, chiamato Gesù, e l'intero genere umano, è un'inezia, al pari di quella che esiste tra il punto e la circonferenza in un cerchio.

Questa immagine dovrebbe aiutarci a capire il motivo per cui Cristo non era sposato: lo era già, e tutti noi siamo i suoi figli! Oppressi e oppressori si mettano il cuore in pace: tutto quello che di umano non si riuscirà a realizzare su questa Terra, dovrà esserlo nell'Universo, che attende d'essere popolato da persone che amano la verità delle cose.

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2) Se la Sindone è vera i vangeli mentono

Fino all'analisi del radiocarbonio (1988), compiuta da scienziati di Tucson, Oxford e Zurigo, molti si servivano dell'immagine della Sindone per far credere che Gesù era veramente risorto. Ora invece la scienza sembra essere venuta incontro alle esigenze di quei biblisti che da almeno vent'anni tentano invano di concordare i dati evangelici con quelli sindonici.

Sembra che gli scienziati non facciano altro che perdere il loro tempo nel cercare di dimostrare l'autenticità o inautenticità di un reperto in cui prima di loro, nel Vicino oriente e nell'Europa orientale, si credeva in una maniera del tutto naturale. Invece di smentire le tesi di vangeli, basandosi proprio su questo lenzuolo, si appiattiscono sulle interpretazioni teologiche di quegli esegeti che vedono nella Sindone solo una conferma dei vangeli o che, al contrario, considerano i vangeli non sufficienti probanti per l'identificazione del reperto di Torino con il lenzuolo che effettivamente avvolse il corpo di Gesù. Quanto più le ricerche scientifiche si concentrano su qualche singolo particolare, tanto più perdono la visione d'insieme.

Oppure ci si sforza – anche a costo di compiere dei salti mortali – di trovare piena corrispondenza tra la Sindone e i vangeli, ma poi i risultati finali sono più arzigogolati della peggiore Scolastica. In realtà la Sindone si autentica da sé: non ha bisogno di altro/altri che le dia/diano testimonianza. Essa è materialmente infalsificabile, in quanto non riproducibile. Semmai è bene sapere che, per quanti sforzi si faccia, non si riuscirà mai a dimostrare che l'uomo della Sindone è lo stesso dei vangeli. Anzi si spera proprio che non lo sia, poiché il Cristo dei vangeli è soltanto un artificio costruito da un movimento che non ha voluto esplicitamente ammettere la propria sconfitta politica e ha preferito mistificarla dietro pretestuose argomentazioni di tipo religioso. Il Cristo sindonico è invece la testimonianza che senza politica rivoluzionaria, l'uomo continuerà a vivere un'esistenza da schiavo.

La Sindone – è stato detto – non è una “reliquia” del Cristo, ma solo un'icona, ovvero un oggetto di venerazione come tanti altri. Lo ha dimostrato appunto il fatto che il C-14 colloca la data del lenzuolo (contraddicendo tutti gli altri esperimenti scientifici) fra il 1260 e il 1390 (si ricordi che, non a caso, la prima notizia certa di questo telo, secondo i canoni della nostra storiografia, risale al 1357, allorché venne esposto a Lirey in Francia).

Con viva soddisfazione il card. Ballestrero aveva affermato testualmente: “Questa è stata una ricerca scientifica, che nulla ha a che vedere con la teologia. Chi ne ha approfittato per costruirci sopra delle teologie, è andato fuori strada”. L'avvertimento insomma era chiaro: la fede con la Sindone non c'entra niente o quasi; guai a coloro che si servono di questa per contestare quella.7

A questo punto la domanda che s'impone sembra essere la seguente: perché la Chiesa cattolica ha preferito far tacere gli esegeti scomodi dicendo che è falsa una cosa vera, piuttosto che far contenti i suoi fedeli sostenendo la verità? La risposta è relativamente semplice: se la Sindone di Torino è vera, i vangeli mentono, e se mentono, la Chiesa cristiana (occidentale e orientale) è stata edificata su delle falsificazioni.

Una già la conosciamo, ed è la più colossale, quella su cui poggia tutto l'edificio ecclesiastico: si sostiene che il momento essenziale della vita di Gesù sia stata la sua resurrezione, e la Sindone, fra le altre prove – secondo molti – starebbe appunto a confermarlo. In altre parole, la Chiesa, di fatto, afferma che la vittoria di Cristo sulla morte è stata più importante della sua lotta contro il potere costituito. Tesi, questa, che trova la sua più completa formulazione già nelle lettere dell'apostolo Paolo, alcune delle quali sono fra i documenti più antichi del Nuovo Testamento.

Ora, supponiamo che la Sindone di Torino sia effettivamente il lenzuolo che ha avvolto il corpo di Gesù: in che modo dovrebbero essere riletti i racconti evangelici che parlano della sua sepoltura e della scoperta della tomba vuota? Sull'argomento la pubblicistica, prevalentemente confessionale, è già molto vasta e se ne può consultare una sintesi storiografica in G. Ghiberti, La sepoltura di Gesù, ed. Marietti 1982.

Vediamo cosa dicono i testi biblici.

Il primo problema che salta agli occhi, mettendo a confronto, nei racconti evangelici della sepoltura, le versioni dei Sinottici (Marco, Matteo e Luca, in ordine d'importanza) con quella di Giovanni, è che ci si trova di fronte a tradizioni abbastanza diverse.

Come noto, il principale artefice della sepoltura di Gesù non fu alcun apostolo, bensì Giuseppe d'Arimatea, definito da Giovanni “discepolo occulto”, cioè favorevole in privato alla causa di Gesù, ma titubante in pubblico.

Già sulla figura di questo ambiguo personaggio i Sinottici divergono fortemente. Marco infatti lo esalta dicendo che pur essendo Giuseppe un membro autorevole del Sinedrio, aspettava anche lui “il regno di Dio”; inoltre afferma ch'egli “andò coraggiosamente da Pilato” per chiedere il corpo di Gesù.

Giovanni invece, a tale proposito, sembra lasci intendere proprio l'opposto, e cioè che sarebbe stata opera ben più meritoria esporsi pubblicamente quando Gesù era ancora in vita (ma non ne fa una questione personale, perché Giovanni sa che anche i discepoli diretti di Gesù ebbero le loro responsabilità riguardo alla sua morte).

In ogni caso un sinedrita come Giuseppe aveva ben poco da temere dalle ire appena placate di un despota come Pilato8, il quale infatti, pur potendo evitarlo, non ebbe alcuna difficoltà a concedergli la salma. Generalmente i crocifissi venivano sepolti in fosse comuni (anche come forma di disprezzo per la loro causa politica), in quanto nemici dello Stato romano9, ma, conoscendo la popolarità del messia-Gesù, Pilato, da esperto fantoccio qual era nelle mani di Tiberio, poteva facilmente intuire che il rifiuto gli avrebbe procurato delle noie più che non il consenso.

Dal canto loro, Luca e Matteo, che qui come altrove copiano da Marco, si rendono conto di quanto sia ostico conciliare l'appartenenza di Giuseppe al Sinedrio (il tribunale giudaico che osteggiava fortemente tutto l'operato di Gesù) col fatto che fosse un filocristiano, per cui entrambi decidono di modificare, più o meno radicalmente la versione del loro prototipo.

Luca, che tende sempre a sdrammatizzare, accentua il carattere “buono e giusto” di Giuseppe, specificando che “non aveva aderito alla decisione e all'operato degli altri [sinedriti]” e che anche lui aspettava il regno di Dio. Poi prosegue mandando Giuseppe da Pilato a chiedere il corpo di Gesù, come se fosse un suo diritto averlo (appunto perché lui era “buono e giusto”).

Matteo invece, coerente coi suoi metodi sbrigativi, preferisce tagliare corto sull'appartenenza di Giuseppe al Sinedrio, limitandosi a notare ch'egli era un ricco discepolo del Nazareno. Ciò che, a ben guardare, costituisce un esempio senza precedenti nei vangeli. In altri casi, infatti (si pensi a Zaccheo e allo stesso Matteo, ma anche al giovane ricco o al funzionario di Erode), mai si era visto un ricco incontrare Gesù e restare ricco come prima. Generalmente la richiesta, da parte di Gesù, era quella di cambiare vita e nel miglior modo possibile, altrimenti non si poteva diventare discepoli.

Insomma, si può ben dire che la contraddizione principale si pone nei seguenti termini: per i Sinottici Giuseppe era un discepolo esplicito di Gesù (cioè più di un semplice simpatizzante), e poté esserlo pur appartenendo al Sinedrio (o pur essendo ricco, come vuole Matteo); secondo Giovanni invece egli non poté essere esplicito proprio perché apparteneva in maniera attiva al Sinedrio. Quale delle due tesi sia la più convincente, è facile capirlo.

Ma procediamo. Giuseppe – dice Marco – compra un lenzuolo (sindòn nel testo greco) per avvolgere il corpo di Gesù (si tratta di un lenzuolo adatto proprio allo scopo), che depone in un sepolcro scavato nella roccia, successivamente chiuso da un grosso masso rotolante e senza nessuno che lo controllasse, in quanto si dava per scontato non solo il decesso ma anche che nessuno avrebbe trafugato la salma.

Il corpo non venne né lavato né unto: Marco lo lascia chiaramente intendere spiegando che due donne stavano ad osservare dove veniva deposta (saranno poi le stesse che, in compagnia di un'altra donna, andranno – sempre secondo la versione marciana – a completare l'inumazione, passato il sabato).

Questa versione dei fatti fu praticamente accettata sia da Luca che da Matteo. Le differenze sono minime: Luca dice che la tomba era nuova, benché trovata frettolosamente (ma su questo anche Giovanni è d'accordo); Matteo dice che la tomba apparteneva a Giuseppe (che però era di Arimatea).

Luca dice che anche la Sindone era nuova; Matteo invece ch'era “candida” (ma il significato è equivalente: lenzuoli del genere non potevano essere riciclati).

Gli elementi più importanti che i Sinottici hanno in comune sono che Giuseppe è unico protagonista attivo (per lo schiodamento e il trasporto del cadavere alla tomba saranno però occorsi almeno altri quattro uomini); c'è un lenzuolo nuovo o comunque bianco, acquistato dallo stesso Giuseppe e la tomba è scavata nella roccia.

Le donne, dal canto loro, stanno a guardare senza intervenire, poiché era venerdì sera, cioè già sabato, stando al computo ebraico. Luca non le elenca secondo i loro nomi (però in 24,10 parla di Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo): forse gli sarà parsa strana l'assenza della madre di Gesù; in ogni caso, contraddicendosi sul precetto del sabato, fa tornare a casa le donne per preparare aromi e oli profumati per la domenica mattina.

E ora vediamo Giovanni. I vv. 39 e 40 del c. 19 contengono due grosse novità. La prima è che insieme a Giuseppe c'era anche il fariseo Nicodemo, pure lui discepolo occulto di Gesù (stando almeno a Gv 3,1 ss.). Costui avrebbe portato per la sepoltura qualcosa come 32 kg di sostanze aromatiche! Fino a poco tempo fa s'era pensato a un errore di trascrizione di qualche copista; oggi invece si è propensi a considerare falsi entrambi i versetti.

Per quale motivo? Anzitutto perché se veramente Nicodemo fosse stato presente, anche gli altri evangelisti avrebbero dovuto ricordare una persona così importante; in secondo luogo, perché se la Sindone di Torino ha veramente avvolto il corpo di Gesù, questo – come vogliono anche i Sinottici – non venne né lavato né unto; in terzo luogo, perché l'inserimento di Nicodemo acquista un chiaro valore apologetico e diplomatico: molti farisei, dopo la morte di Gesù e della sua ideologia rivoluzionaria, divennero cristiani (il più importante dei quali fu senza dubbio Saulo di Tarso); in quarto luogo perché l'inserimento, all'ultimo momento, della figura di Nicodemo poteva essere usata per sostenere la falsità della sepoltura regolare e quindi per negare la realtà della Sindone; infine, perché con la presenza artefatta di Nicodemo si poteva giustificare il motivo per cui nel racconto tradizionale della tomba vuota, l'apostolo Giovanni non parla di donne intenzionate a ungere Gesù.

Tuttavia, se entrambi i versetti sono un'interpolazione, allora va rifiutata anche la tesi da essi sostenuta secondo cui i necrofori fecero un sepoltura tradizionale (o legale), con tanto di unguenti, profumi e panni di lino.

Anzi, a proposito di questi versetti, E. Haenchen sostiene che non solo essi sono falsi, ma anche che il redattore non conosceva minimamente la prassi giudaica di seppellimento, né era ben informato circa l'imbalsamazione.

Giovanni dunque non usa la parola “Sindone” o perché è stata depennata da qualche manipolatore del testo originale (sostituita con le parole “panni di lino"?), oppure perché non riteneva il lenzuolo, al momento della sepoltura, un elemento importante (nei Sinottici sembra sia servito per dimostrare la magnanimità di Giuseppe).

Ma se Giovanni è stato oggetto di censure e manipolazioni lo vedremo più avanti. Qui si può rilevare il fatto che nel suo racconto appare chiaramente come la sepoltura sia stata compiuta in gran fretta: il sepolcro scelto, infatti, era vicinissimo al Golghota (il che peraltro contribuisce a smentire l'attendibilità dei vv. 39 e 40, per i quali si aveva avuto il tempo necessario per fare una sepoltura regolare).10

Giovanni giustifica la fretta lasciando capire che, a causa della Parasceve, non avevano alternative: o una fossa comune o una tomba privata senza unzione (di sabato infatti non si poteva lavorare né entrare nei sepolcri, meno che mai il sabato di Pasqua). Anzi, secondo la legge ebraica, se la persona aveva subìto una morte violenta, con spargimento di sangue, il corpo non doveva affatto essere lavato, ma sepolto così com'era, dopo essere stato avvolto in un lenzuolo.

Tuttavia, proprio questa irregolarità dovette risultare inaccettabile alla comunità cristiana primitiva, la quale, negli episodi della tomba vuota, ad un certo punto decise d'introdurre la figura di alcune donne intenzionate a completare la sepoltura. Ci si accorse subito che i discepoli (quanti erano rimasti a Gerusalemme dopo la cattura di Gesù? Solo Pietro e Giovanni?) avrebbero dovuto avere più coraggio a violare il sabato, soprattutto in considerazione del fatto che il Cristo, con le sue opere di bene, lo aveva trasgredito più di una volta, rischiando la sentenza capitale.

La comunità cristiana, dunque, rimedia alla pusillanimità dei discepoli – peraltro inevitabile in quel momento di tragica sconfitta – inviando delle donne (!) a togliere l'enorme masso posto davanti all'ingresso della tomba (a una contraddizione si rimedia aggiungendone un'altra ancora più grossa).

È curioso notare come nel vangelo di Marco queste donne siano ben consapevoli della difficoltà che devono superare e come, nonostante ciò, decidano lo stesso di andare al sepolcro per completare la sepoltura. Naturalmente la provvidenza le toglierà dall'imbarazzante situazione facendo loro trovare la pietra già spostata.

Giovanni non cade in questa incongruenza e scrive che soltanto Maria Maddalena si recò al sepolcro, probabilmente perché ancora scioccata dall'evento inaspettato e comunque senza oli e profumi (più avanti si scoprirà ch'era in compagnia di un'altra donna). Trovatolo vuoto, Maria e l'anonima amica si recano da Pietro e Giovanni, rimasti nascosti in città. Questi corrono a vedere se le donne dicono il vero e Giovanni, il primo che arriva, si china e nota per terra i lini coi quali il lenzuolo che avvolgeva il corpo di Gesù era stato in più punti legato, per tenerlo fermo.

Al pari di Maria, Giovanni sospetta che il corpo sia stato trafugato da qualcuno, ma non entra. Attende l'arrivo di Pietro, meno spedito di lui. Una volta entrati si guardano attorno e cosa vedono? Non solo le bende per terra, ma anche la Sindone piegata e riposta da una parte, come se dovesse essere conservata. Cosa pensano? Pensano che il corpo non può essere stato rubato: i ladri l'avrebbero portato via così com'era, oppure non avrebbero perso tempo a piegare il lenzuolo. Dunque era successo qualcosa di strano. Ma cosa? La prima menzogna è nata lì, in quel momento. Pietro avrà guardato in faccia Giovanni, che nel suo vangelo dice di se stesso, dopo aver costatato la Sindone piegata: “e vide e credette”, e gli avrà chiesto d'inventare con lui un'altra storia…

Quale storia s'inventò Pietro? La storia di un giovane dentro il sepolcro che, seduto sulla destra e vestito di un abito bianco, destava sgomento alle donne recatesi per ungere Gesù, e alle quali disse in tono rassicurante: “Non abbiate paura. Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ora egli vi precede in Galilea”. In altre parole, per l'apostolo Pietro sarebbe stato meglio sostenere che Gesù era risorto perché un angelo lo aveva rivelato alle donne (donne che poi in Marco fuggono spaventate, senza raccontare niente a nessuno, cosicché – lascia intuire l'evangelista – nessuno poté interpellarle o contestarle).

Questa la versione che, secondo Pietro, avrebbe dovuto accettare una comunità da lui ritenuta troppo immatura per poter credere alla versione di Giovanni, secondo cui era meglio continuare a battersi per la causa rivoluzionaria del Cristo. E così infatti sarà.

Luca, in seguito, arriverà addirittura a parlare di due uomini sfolgoranti e del loro annuncio pasquale a tutti gli apostoli e discepoli vicini e lontani.

Matteo è ancora più fantasioso: pur avendo detto che le donne si recarono al sepolcro senza portare gli unguenti, parla esplicitamente di un “angelo del Signore” disceso dal cielo, lucente come la folgore (o come la neve!), di una pietra che rotola da sola, di terremoti d'ogni genere, di guardie tramortite… insomma, siamo ben oltre i limiti dell'apocrifo.

Ma come metterla con la versione di Giovanni che, essendo stata scritta per ultima, capitò, questa sì!, come un fulmine a ciel sereno?

Qui le manipolazioni, oltre a quelle viste in precedenza, sono state di due tipi. La prima è l'aggiunta dei vv. 9 e 10 del c. 20, secondo cui i discepoli Pietro e Giovanni, entrando nella tomba, non avevano capito che la Scrittura prevedeva la resurrezione del messia. Un'aggiunta, questa, davvero strana: sia perché non c'è alcun passo dell'Antico Testamento che profetizzi questo; sia perché, proprio osservando la Sindone piegata, Giovanni poté scrivere di sé “e credette” (evidentemente per il falsario la Sindone non costituiva alcuna prova e gli apostoli avrebbero potuto credere nella resurrezione di Gesù solo dopo averlo rivisto sulla Terra: di qui i racconti di resurrezione).

La seconda manipolazione sta, presumibilmente, nella sostituzione della parola “Sindone” con la parola “Sudario”, già usata da Giovanni per indicare non un intero lenzuolo, ma solo la mentoniera che nel racconto di Lazzaro era servita per tener chiusa la bocca al cadavere di quest'ultimo.

Grazie a tale sostituzione, con la quale peraltro si poteva confermare il racconto interpolato di Giovanni sulla sepoltura, la Sindone risulta praticamente scomparsa e di essa per molto tempo non si parlerà più. Giovanni insomma, ufficialmente, vide piegato soltanto il sudario che si metteva sul volto, come nelle sepolture regolari.

Oltre a queste due falsificazioni ve n'è un'altra, extratestuale ma molto significativa, al v.12 del c. 24 di Luca, laddove si afferma che al sepolcro corse solo Pietro (e non anche Giovanni) e ch'egli vide solo delle bende (e non anche la Sindone) e che di ciò egli stupì (ma senza credere come Giovanni). Questo è un versetto che la stragrande maggioranza degli esegeti considera spurio.

Col passare del tempo (i vangeli, come noto, non sono stati scritti “di getto”, né da una persona sola) i teologi della comunità cristiana s'inventarono, sulla scia della versione di Pietro riportata nel testo di Marco, tutti i racconti di apparizione di Gesù redivivo, nei quali egli più che altro dà delle direttive di ordine ecclesiale. Luca addirittura supera abbondantemente l'apocrifo descrivendo l'ascensione di Gesù in cielo (per molto meno altri testi sono stati esclusi dal canone). Come noto, le versioni più antiche di chiusura del vangelo sia di Marco che di Giovanni non riportavano alcun racconto di apparizione.

Per concludere, proprio la Sindone attesta che non esiste alcuna prova, se non la Sindone stessa (che però non prova nulla al 100%), circa la presunta resurrezione del corpo di Gesù. Gesù non è mai riapparso, non c'è stata alcuna angelofania, il concetto stesso di “resurrezione” non ha senso, poiché il corpo non è mai stato ritrovato né avrebbe potuto esserlo (al massimo lo si può applicare a Lazzaro o alla figlia di Giairo, ma a condizione di non uscire dai racconti mitologici dei vangeli). Il concetto di “resurrezione” è un'interpretazione teologica a un fatto storico: la scomparsa di un cadavere. Nel caso in questione ci si dovrebbe limitare a parlare, al massimo, di trasformazione della materia in energia: un processo che con gli studi sull'atomo abbiamo appena cominciato a decifrare.

Un'altra conclusione che infine si può trarre è la seguente. I Sinottici raccontano una verità “tecnica”, “formale” (si usò un lenzuolo), ma mentono sulle cose “sostanziali”, cioè sul fatto che oltre al lenzuolo non esiste alcuna altra prova della presunta resurrezione di Gesù.

Viceversa, il testo originale di Giovanni diceva molto probabilmente la verità sia sulle questioni “tecniche” (la sepoltura fu affrettata e non ci fu alcuna intenzione di completarla), sia sulle questioni “sostanziali” (l'unico indizio a disposizione era la Sindone). Solo che il testo è stato manomesso da chi voleva far credere due cose: 1. che il crocifisso aveva ottenuto una sepoltura in piena regola (cosa che nei Sinottici doveva avvenire la domenica mattina) e 2. che la fede nella misteriosa scomparsa del corpo di Gesù non dipese dalla constatazione della tomba vuota e quindi della Sindone riposta e piegata, bensì dall'annuncio serafico dell'angelo di dio.

Nel vangelo di Marco, infatti, l'angelo non dice alle donne: “Non è qui, è risorto”, ma proprio il contrario: “È risorto, non è qui”. A tale dichiarazione apodittica, incontrovertibile, fa da pendant nel vangelo di Giovanni il dialogo del messia risorto con la Maddalena, che inspiegabilmente era tornata a piangere sulla tomba vuota. Alla donna un secondo redattore del vangelo, già consapevole che la tomba era situata in un “orto”, in quanto l'aveva precisato lo stesso Giovanni, farà dire: “Non sei tu l'ortolano? Dimmi dove l'hanno messo!”.

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3) La chiusa posticcia di Marco

Mc 16, 9-20

[9] Risuscitato al mattino nel primo giorno dopo il sabato, apparve prima a Maria di Magdala, dalla quale aveva cacciato sette demoni.

[10] Questa andò ad annunziarlo ai suoi seguaci che erano in lutto e in pianto.

[11] Ma essi, udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere.

[12] Dopo ciò, apparve a due di loro sotto altro aspetto, mentre erano in cammino verso la campagna.

[13] Anch'essi ritornarono ad annunziarlo agli altri; ma neanche a loro vollero credere.

[14] Alla fine apparve agli undici, mentre stavano a mensa, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato.

[15] Gesù disse loro: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura.

[16] Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato.

[17] E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove,

[18] prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno”.

[19] Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio.

[20] Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano.

*

La chiusa apocrifa di Mc 16,9 ss. non è altro che una sintesi tratta dagli altri vangeli, in particolare Luca e Giovanni. Il riferimento a Gv 20,11 ss. è stato usato come pretesto per avvalorare la tesi di Lc 24,9 ss., per il quale la Maddalena non fu creduta dagli apostoli.

Ecco i testi di Giovanni (20, 11-18)...

[11] Maria invece stava all'esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro

[12] e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù.

[13] Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”.

[14] Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù.

[15] Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”.

[16] Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: Maestro!

[17] Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma vai dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”.

[18] Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva detto.

… e di Luca (24, 9-11)

[9] E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri.

[10] Erano Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli.

[11] Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse.

Nella finale autentica di Marco le donne, tra cui la Maddalena, non raccontarono niente a nessuno perché temevano di non essere credute (in realtà Marco voleva dire che la versione della resurrezione o comunque della scomparsa misteriosa del cadavere, non poteva dipendere dalla testimonianza delle donne, il cui valore nei mondi ebraico e greco-romano era nullo, ma da quelle degli stessi apostoli, in primis Pietro, come in effetti avvenne).

Ecco la finale originale di Marco (16, 1-8).

[1] Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù.

[2] Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole.

[3] Esse dicevano tra loro: “Chi ci rotolerà via il masso dall'ingresso del sepolcro?”.

[4] Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande.

[5] Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d'una veste bianca, ed ebbero paura.

[6] Ma egli disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano deposto.

[7] Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”.

[8] Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura.

Viceversa, nella finale aggiunta la Maddalena racconta tutto agli apostoli (come in Giovanni), “ma essi, udito ch'era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere"(Mc 16,11), almeno finché l'evidenza del redivivo, teorizzata da Pietro e radicalizzata da Paolo, non s'impose da sé, unitamente alla proposta di continuare la missione non più sul terreno politico-nazionale, bensì su quello religioso-universale (Mc 16,15 ss.).

Quindi questa finale, pur essendo spuria, dovette riflettere un certo contrasto politico tra la versione che forse avrebbero voluto sostenere alcuni discepoli (tra cui le donne che accorsero per prime al sepolcro), una versione in parte superstiziosa, secondo cui il Cristo era scomparso per virtù propria, per un mistero divino... e che comunque si poteva riassumere in una frase diciamo di tipo ottimistico: “il Cristo è ancora vivo, per cui la rivoluzione continua”, e la versione che invece in un primo tempo altri apostoli vollero sostenere, secondo cui dopo la morte del Cristo non si poteva certo proseguire la rivoluzione divulgando l'idea che il suo corpo era scomparso. Quindi il contrasto era tra chi sarebbe stato disposto a continuare la lotta armata confidando nel fatto che pur essendo fisicamente morta in croce, l'idea del Cristo di un riscatto nazionale continuava spiritualmente a vivere nel popolo; e chi invece preferiva accettare l'idea petrina di una “resurrezione fisica”, tale per cui non restava altro da fare che attendere il ritorno trionfale del messia.

Come dar loro torto? Solo che da questa pur giusta considerazione tattica alla decisione strategica di rinunciare alla rivoluzione, dev'essere trascorso un periodo di colpevole attendismo, in cui p. es. i rapporti tra Pietro e Giovanni si guastarono. Una sorta di fatale rassegnazione mista al timore di assumere decisioni responsabili, coraggiose, riassumibile in una domanda del tipo: “se il Cristo è davvero vivo perché non torna a concludere la missione di liberare Israele?”. Una situazione che non sarebbe potuta durare per molto tempo.

La sintesi paolina, ad un certo punto, verrà da sé e sbloccherà lo stallo divenuto ormai insostenibile: “hanno ragione le donne: il Cristo è vivo, e proprio perché è vivo la rivoluzione non si può fare”. Su questa versione la maggioranza degli apostoli, guidati da Pietro, si troverà d'accordo e lascerà Gerusalemme.

Stando alla versione di Giovanni, la sequenza dei fatti è un po' diversa, ma la sostanza non cambia. Ecco la sua versione (Gv 20, 1-10).

[1] Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro.

[2] Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!”.

[3] Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo, e si recarono al sepolcro.

[4] Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.

[5] Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò.

[6] Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra,

[7] e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte.

[8] Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.

[9] Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti.

[10] I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa.

La Maddalena (molto probabilmente accompagnata da un'altra donna) scopre la tomba vuota, avvisa subito Pietro e Giovanni, che corrono verso il sepolcro per verificare se ha detto il vero; grazie alla Sindone essi si convincono che il corpo di Gesù non è stato trafugato (come invece aveva sostenuto la Maddalena), ma è scomparso in maniera misteriosa.

Al v. 18 un secondo redattore del vangelo giovanneo attribuisce alla Maddalena la tesi della resurrezione (“Ho visto il Signore”), che serve però per convalidare la rinuncia alla rivoluzione, nel senso che il Cristo è risorto per dire che non la farà (“Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma vai dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”). Quando anche gli apostoli (o una parte di essi) si convinceranno che questa soluzione era la migliore possibile, Pietro sosterrà che il Cristo “doveva morire” e non poteva non risorgere. (Da notare che il titolo religioso di “Figlio di Dio” verrà attribuito per la prima volta al Cristo da Paolo).

Si legga la versione di Pietro riportata negli Atti degli apostoli (2, 22-24).

[22] Uomini d'Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete,

[23] dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso.

[24] Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere.

In Luca la Maddalena, insieme ad altre donne, dopo aver scoperto la tomba vuota, elabora subito la versione della resurrezione, ma l'evangelista la presenta come fosse una favola, una pia illusione, per cui ovviamente nessuno volle credere alle donne.11 Pietro tuttavia, per scrupolo, vuole sincerarsi dei fatti; corre da solo verso il sepolcro (indizio, questo, che tra Pietro e Giovanni ad un certo punto i rapporti si guastarono) e vede le bende per terra (della Sindone Luca non dice nulla). Pietro torna a casa “pieno di stupore”, pensando a come avvalorare la tesi della Maddalena. Luca infatti dice che il “Risorto è apparso anche a Simone” (24,34). Il che ovviamente non va interpretato nel senso ch'egli “rivide” il Cristo, ma solo nel senso che gli “parve” giusto accettare l'idea di resurrezione per spiegare l'evento della tomba vuota.

Questo ci porta a credere che di fronte alla tomba vuota furono formulate varie ipotesi, che poterono coesistere almeno fino alla caduta della città (70 d.C.) o comunque fino al momento in cui non venne ratificata la versione spiritualistica e universalistica di Paolo.

Una sintesi di tutte le ipotesi forse può essere questa:

– trafugamento del cadavere (idea esposta non solo dalla Maddalena e dalle altre donne, ma anche da Mt 28,11 ss., ove si usa l'ipotesi del trafugamento come falsa accusa che gli ebrei rivolgevano ai cristiani, e quindi per dimostrare la “resurrezione” di Gesù);

– scomparsa misteriosa del corpo e impossibilità del trafugamento a causa della Sindone ripiegata (Giovanni e Pietro);

– presenza ancora viva del Cristo sulla terra, quindi “morte apparente” o comunque sua “rinascita spirituale” perché si continui la sua missione politica (la Maddalena in un secondo momento, quella del racconto di resurrezione descritto da Giovanni);

– presenza idealistica (filosofica) del Cristo come idea (Tommaso);

– ritorno immediato e glorioso del messia Gesù (Giovanni nell'Apocalisse e anche Pietro, in un primo momento, insieme ad altri apostoli: Giacomo Zebedeo, Giacomo fratello di Gesù, il primo Paolo, ecc.);

– morte necessaria del Cristo secondo le Scritture, sua inevitabile resurrezione (Pietro e altri apostoli);

– Cristo è risorto perché “figlio di Dio” (Paolo);

– presenza simbolica del Cristo nell'eucarestia, cioè in un rito ebraico tradizionale (cristiani di origine essenica o provenienti dagli ambienti del Battista, discepoli di Emmaus);

– ascensione del Cristo in cielo e suo ritorno alla fine dei tempi (idea elaborata dopo la caduta di Gerusalemme).

Insomma per quale ragione Marco impedisce alle donne di comunicare ai discepoli e agli apostoli che il Cristo era “risorto"? Semplicemente perché doveva far vedere che l'idea più compiuta di “resurrezione” (con tanto di “ascensione” in cielo, descritta negli Atti) nacque nella testa di Pietro, non in quella delle donne, che in un primo momento si limitarono a credere nel trafugamento del cadavere e, in un secondo momento, con la Maddalena in testa, probabilmente si rifiutarono di credere che il Cristo fosse “politicamente morto” (o forse pensarono che l'idea simbolica di “resurrezione” avrebbe potuto essere usata come forma d'incitamento a proseguire le desiderata rivoluzione).

Marco può aver fatto credere che Pietro si risolse a formulare l'idea di resurrezione per venire incontro ai discepoli che si aspettavano di proseguire il messaggio del Cristo e che non avrebbero accettato una versione ambigua della tomba vuota, come p. es. quella della scomparsa misteriosa del corpo. La resurrezione non doveva dipendere dalla tomba vuota per il cristianesimo petro-paolino. Al contrario: Cristo, essendo “Figlio di Dio”, non poteva che risorgere, per cui la scoperta della tomba vuota fu inevitabile (lo attestano i suoi tre annunci profetici, del tutto inventati dai redattori cristiani, nonché alcuni testi antico-testamentari, la cui interpretazione dovette essere necessariamente forzosa).

Milleottocento anni prima della “necessità storica” hegeliana, era stato scoperto da un pescatore illetterato della Galilea il concetto di “necessità teologica”: gli si poteva forse rimproverare di aver avuto meno senso laico di Hegel quando neppure questi, dopo 1800 anni, era ancora riuscito a strappare la sua “dialettica” da quel “clair-obscur mistico” che l'avvolgeva?

Sarebbe stato inopportuno, dall'angolo visuale della mentalità maschilista ebraica, far dipendere dall'annuncio di alcune donne la decisione di proseguire (seppure con le dovute modifiche) il messaggio originario del Cristo. Sarebbe apparsa troppo evidente l'assurdità di dover accettare come leader del nuovo movimento nazareno (che poi si chiamerà “cristiano”) dei traditori fuggiti nel momento più cruciale della vita di Gesù. Per poter accettare questa assurdità, occorreva che gli apostoli si assumessero un minimo di responsabilità (se non dell'accaduto, almeno di ciò che sarebbe ancora potuto accadere. Non dimentichiamo che della morte di Gesù nessun apostolo – stando al N.T. – si assunse mai una precisa responsabilità).

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4) Storia della Sindone

Il più antico riferimento alla Sindone è contenuto sia nei quattro vangeli canonici (Mc 15,46; Mt 27,59; Lc 23,53; Gv 20,7) che in tre apocrifi: il Vangelo degli Ebrei (II sec.), gli Atti di Pilato e il Vangelo di Nicodemo. Si pensa che la riluttanza a lasciare documenti scritti su tale reperto fosse dovuta ai timori che le persecuzioni romane potessero distruggerlo.

In ogni caso la Sindone scomparve da Gerusalemme al tempo della guerra giudaica o forse anche prima, viste le persecuzioni giudaiche contro i cristiani (tant'è che le leggende parlano del discepolo Taddeo, che l'avrebbe portata a Edessa verso la metà del I sec.). Probabilmente fu trasferita nei luoghi citati nei vangeli in cui Gesù e i suoi discepoli si rifugiavano per sottrarsi alla cattura da parte dei sacerdoti. Poi, passando per la Decapoli, venne portata a Edessa (attuale Urfa), ove regnava il re Abgar nell'antico regno Osroene della Mesopotamia. Il regno fu conquistato dai Romani intorno al 116 d.C., durante le campagne partiche di Traiano, e perse definitivamente l'indipendenza un secolo dopo, quando regnava Abgar IX (212-214).

A Edessa si parlava e si scriveva in aramaico, in una forma molto vicina a quella di Gerusalemme. Quindi era un polo di resistenza al dilagante ellenismo. Abgar VIII (177-212) fu il primo sovrano in assoluto a convertirsi al cristianesimo, anticipando di un secolo Costantino. Quando la comunità cristiana subì persecuzioni al tempo degli imperatori Decio e Diocleziano, la Sindone fu tenuta nascosta in una nicchia delle mura urbane. Un'icona del V secolo ci ha tramandato la presentazione del telo sindonico alla corte del re Abgar V, che governò dal 13 al 50.

Nel 325 un vecchio monaco e storico, di nome Niaforis, disse che il telo era stato conservato da Pietro e poi tenuto nascosto, ma già il Vangelo apocrifo degli Ebrei aveva detto la stessa cosa. Peraltro sarebbe stato più naturale ch'esso venisse consegnato alla madre di Gesù, verso cui Giovanni aveva promesso assistenza ai piedi della croce.

Nel 340 circa s. Cirillo, a Gerusalemme, fa un riferimento alla Sindone.

Nel 388 una badessa spagnola di nome Egeria, facendo un pellegrinaggio in Palestina, decise di recarsi anche a Edessa: qui – stando al suo diario – le sarebbe stata mostrata la porta delle mura attraverso cui il telo era entrato.

Nel 412 il prefetto Leonzio di Thessaloniki dedica alla Sindone una basilica.

Il telo ricompare a Edessa nel 544, all'arrivo dei Persiani di re Cosroe, in guerra con l'impero bizantino (540-561). Giustiniano li sconfisse, firmò una tregua ed edificò una chiesa somigliante all'Haghia Sophia di Bisanzio, proprio per conservare il prezioso reperto, permettendo la visione del volto.

Nel 570 un anonimo piacentino dice che a Gerusalemme si trova il sudario ch'era stato posto sul capo di Gesù. Ma doveva trattarsi di una copia. Infatti nel 670 circa Arculfo, vescovo delle Gallie, dice la stessa cosa, cioè vede a Gerusalemme, occupata dai musulmani nel 637, una copia pittorica dell'impronta sindonica, lunga otto piedi, cioè circa 232 cm.

Nel 646 il vescovo di Saragozza dichiara che non si può chiamare superstizioso chi crede nell'autenticità del sudario.

Un riferimento alla Sindone è presente nel Messale Mozarabico e in vari libri liturgici della Chiesa bizantina.

Ma torniamo a Edessa. Qui l'immagine del volto di Gesù viene chiamata anche Mandylion: termine di origine araba che significa “panno”. Altro non sarebbe che la Sindone piegata a metà e poi ancora ripiegata quattro volte (tetradyplon, come detto negli Atti di Taddeo), finché al centro del rettangolo si vede solo il volto di Gesù.

Sulla base del Mandylion si afferma, a partire dal VI sec., una caratteristica tipologia del volto di Cristo nell'iconografia bizantina, rimasta inalterata sino ad oggi. Perde l'aspetto ellenistico, da giovane dio pagano imberbe, e assume quello di un “pantocratore” dai capelli lunghi e bipartiti, che coprono quasi completamente le orecchie, mentre il collo, pur coperto dalla barba, lo si vuole rigonfio in segno di saggezza, e le spalle, nelle raffigurazioni in cui la testa viene come separata dal corpo, quasi non si vedono. Il naso è lungo e diritto e sulla fronte si disegna un ricciolo di capelli, senza poter capire ch'erano rivoli di sangue causati dal casco di spine.

Uno dei primi artisti, purtroppo anonimo, che riproduce la Sindone, appena ritrovata a Edessa, lo fa su un vaso d'argento, oggi conservato al Louvre, in cui tenta per la prima volta una ricostruzione di tipo tridimensionale.

Nel II concilio di Nicea (787) si sancisce la legittimità della venerazione del Mandylion.

Edessa viene occupata dagli arabi nel 638-9: non fu saccheggiata e il telo rimase nella chiesa fatta costruire da Giustiniano, senza poter essere esposta in pubblico. Quello fu il momento in cui nella lingua araba, che aveva sostituito l'aramaico, il telo fu chiamato Mandil, poi grecizzato con la parola Mandylion.

Nel 944 il generale bizantino Giovanni Curcas pone l'assedio alla città, che abbandonò solo dopo che l'emiro arabo ebbe consegnato il Mandylion, come avevano richiesto i due imperatori Romano I Lecapeno (920-44) e Costantino VII Porfirogenito (912-59), i quali in cambio offrirono non solo la pace, ma anche 12.000 denari d'argento e la liberazione di 300 giovani nobili prigionieri. Essa così giunse a Costantinopoli, naturalmente contro la volontà dei cristiani di Edessa. Lo stesso imperatore descrive il volto sindonico come dovuto a “una secrezione liquida senza materia colorante né arte pittorica”, un'immagine evanescente, di lettura difficile, formata di sudore e di sangue.

A Costantinopoli il telo viene messo nel santuario di Blacherne (poi in quello del Faro, all'interno del Bucoleon) e il 16 agosto se ne istituì la festa, tuttora presente nel calendario ortodosso.

Nella Biblioteca Nazionale di Madrid si trova un codice greco di Giovanni Skylitzes, riferito alla storia degli imperatori cristiani d'oriente dal 812 in avanti. Ebbene, una miniatura illustra proprio il momento in cui l'arcivescovo Gregorio il Referendario (personaggio di spicco della corte di Romano I Lecapeno) consegna la Sindone a Costantino Porfirogenito. Non usando la prospettiva, l'artista fa emergere letteralmente il volto di Cristo dal lenzuolo, come se fosse una testa staccata dal corpo, mentre il basileus vi si accosta per baciarlo.

Tutta la vicenda di Edessa e di Costantinopoli è narrata nel Sinassario scritto da Simeone Metafraste (logoteta sotto gli imperatori Niceforo Foca, Giovanni Tzimisce e Basilio II), che in Europa occidentale verrà conosciuto solo nel 1978. Fu lui ad attribuire alla Sindone la parola “Tetradyplon”, cioè “piegato in quattro su di sé”, in modo da rendere visibile solo il volto.

Intorno al 950 un medico di nome Smera, che aveva esercitato a Edessa e poi a Roma, tradusse in latino un testo siriaco in cui si parlava dalla Sindone.

Nel 1080 circa Alessio I Comneno chiede aiuto all'imperatore Enrico IV e a Roberto di Fiandra per difendere la Sindone a Costantinopoli, minacciata dai turchi.

Nel 1147 Luigi VII re di Francia venera la Sindone a Costantinopoli, alla presenza del basileus Manuele Comneno. Ma la vedono anche alcuni intellettuali di spicco, come il lombardo Orderico Vitale (1075-1142), autore di una imponente Historia ecclesiastica, e dal giurista, politico e scrittore inglese Gervasio di Tilbury (1155-1234). Il telo fu visto anche dall'abate benedettino Nicholas Saemundarson, giunto appositamente dall'Islanda nel 1151. E, prima ancora, nel 1058 da un arabo cristiano, lo studioso Abu Nasr Yahya.

Il “Codice Pray”, una pergamena della Biblioteca Nazionale di Budapest, databile tra il 1150 e il 1195, presenta una miniatura che riproduce la Sindone. Motivo di ciò sta nel fatto che una delegazione ungherese si era recata a Costantinopoli per combinare un matrimonio politico tra i figli dei rispettivi sovrani, e nell'occasione avevano potuto ammirare il lenzuolo conservato nella cappella imperiale. Un miniaturista riprodusse la sagoma, restando soprattutto colpito dal gruppo di quattro strani fori carbonizzati a forma di elle maiuscola che si ripetono per quattro volte sul telo.

Nel 1171 Manuele I Comneno mostra al re di Gerusalemme il sudario di Cristo. Gli imperatori erano così entusiasti di questo reperto che fecero vari piccoli tagli nella zona dei piedi dell'impronta anteriore, al fine di poterli conservare fra gli arredi personali, probabilmente da utilizzarsi come forma di protezione superstiziosa durante le battaglie. Uno di questi frammenti si conservò nella Sainte Chapelle di Parigi per cinque secoli, poi andò perduto durante la rivoluzione.

Della Costantinopoli cristiana rimase assai poco quando nel 1204 fu occupata dai crociati latini. L'immensa biblioteca imperiale andò distrutta. I crociati cercavano oggetti preziosi. I prelati latini erano a caccia di reliquie. Robert de Clary, cronista di quella quarta crociata, scrive che tutti i venerdì la Sindone era esposta per intero a Costantinopoli, ma che poi fu trafugata dai crociati.

In una lettera del 1205, Teodoro Angelo Comneno, fratello di Michele Angelo della famiglia del deposto imperatore di Costantinopoli, lamenta la scomparsa della Sindone e sostiene ch'essa si trova ad Atene. Essa compare l'ultima volta negli elenchi ufficiali di Costantinopoli nel 1207.

Nel 1208 uno dei capi della crociata, Othon de la Roche, cui toccò la signoria di Atene (di cui fu duca), aveva ricevuto la Sindone dal marchese Bonifacio di Monferrato (che, dopo la crociata, divenne re di Tessalonica e di Creta).

Le truppe di Othon de la Roche erano i Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni e i Cavalieri del Tempio o Templari. Solo quando si accorse che i bizantini, con l'aiuto dei Bulgari e dei Tartari Comani, minacciavano di riprendersi i territori perduti, Othon aveva deciso, nel 1208, di affidare ai Templari la Sindone, che la portarono in Francia, a Besançon, ove resterà sino al 1349. Di Othon si perdono le tracce dopo il 1225.

Nel 1241 Baldovino II de Courtenay, quinto imperatore latino di Costantinopoli, invia al re francese Luigi IX la tavola che aveva contenuto la Sindone, preziosamente incorniciata, su cui era stato dipinto il volto sindonico.

Nel 1307 i Templari vengono fatti arrestare dal re Filippo IV il Bello, per privarli dei loro immensi beni. Nel 1312 Filippo ottiene da papa Clemente V la condanna dell'Ordine per eresia: una delle accuse è quella di praticare il culto segreto di un “uomo barbuto”, un volto ritenuto “santo” (privo però di aureola!), che nascondevano appunto a Besançon. Ma loro non ammisero mai niente, salvo Raoul de Gizy, sotto tortura. La cattedrale della città, nel 1349, andò a fuoco per ragioni dolose: coloro che rubarono la reliquia12 vollero far credere che fosse andata distrutta tra le fiamme.

Senonché fra il 1353 e il 1356 la Sindone appare a Lirey (diocesi di Troyes), in possesso di Goffredo di Charny, cavaliere crociato, che fece costruire una chiesa per ospitare il lenzuolo (sua moglie era una discendente di Othon de la Roche). Poiché vi era la guerra dei Trent'anni, il nobile aveva bisogno di molto denaro e pensò di organizzare nel 1355 un'esposizione del reperto nella Collegiata di Lirey, sperando di avere un afflusso significativo di pellegrini. E così in effetti fu.

Il vescovo di Troyes, Henri de Poitiers, geloso di questa iniziativa religiosa promossa da un laico, dichiarò subito che il reperto era un falso.

Goffredo morì nella battaglia di Poitiers (1356) e non rivelò mai come fosse entrato in possesso del lenzuolo (tra gli ascendenti della famiglia Charny vi erano tuttavia cavalieri della quarta crociata e vari Templari). Sua moglie pensò di trasferirsi, portando con sé la Sindone, in una rocca della sua famiglia, a Montfort-en-Auxois.

Tuttavia il figlio di Goffredo, nel 1389, pensò di far tornare il telo a Lirey, nella chiesa che suo padre aveva fatto appositamente costruire, per allestire una nuova ostensione, senza chiedere il permesso del vescovo di Troyes, Pierre d'Arcis, che se ne risentì a tal punto da convocare un sinodo per vietare al clero di far parola della Sindone. Per tutta risposta Goffredo II e buona parte del clero si appellarono all'antipapa di Avignone Clemente VII, che, nel 1390, permise sì le ostensioni (Clemente VII era imparentato con gli Charny), ma a condizione di dichiarare esplicitamente che quella non era la vera Sindone, anche perché gli imperatori bizantini ancora ne reclamavano la restituzione.

Nel 1418 i canonici di Lirey, temendo che venisse coinvolta nella guerra fra Borgogna e Francia, affidarono la reliquia al conte Umberto de la Roche, che morì nel 1448, lasciandola alla moglie Margherita di Charny, nipote di Goffredo I e gran dama della Franca Contea. Questa, invece di restituire il telo ai canonici, lo consegnò (in cambio di benefici) nel 1453 alla duchessa Anna di Lusignano e di Cipro, moglie del duca Ludovico di Savoia, che viveva a Chambéry, capitale di Casa Savoia, grande collezionista, insieme al marito, di reliquie religiose. Sperava in cambio di ottenere il riscatto del presunto erede del defunto conte di Charny, che era prigioniero dei Turchi. Margherita fu colpita da scomunica e morì nel 1459.

I duchi di Savoia nel 1502 fecero costruire una cappella nel castello di Chambéry in cui custodire il lenzuolo, senza prevedere un culto pubblico. Ma nel 1506 papa Giulio II approva la messa con “colletta” e Ufficio proprio della Sindone. La festa liturgica verrà riconfermata da papa Clemente X nel 1673, mai abrogata.

Nel 1532 la cappella di Chambéry prende fuoco: l'urna d'argento che contiene la Sindone si surriscalda e una goccia del metallo fuso brucia un angolo del telo ripiegato su se stesso. Le suore clarisse di Chambéry, due anni dopo, cuciranno i 29 rattoppi oggi visibili. Non era la prima volta che la Sindone aveva rischiato d'essere incendiata.

Durante le guerre (1536-61) tra Francesco I e Carlo V la Sindone viene trasferita a Nizza, poi a Vercelli e di nuovo a Chambéry. I Savoia erano schierati a fianco di Carlo V.

Nel 1578 Emanuele Filiberto trasferisce la Sindone a Torino, per abbreviare il viaggio all'anziano arcivescovo di Milano, card. Carlo Borromeo, che vuole venerarla a Chambéry, sperando che il flagello della peste abbia termine. Ogni 30 anni si succedono ostensioni per particolari celebrazioni di Casa Savoia, o per giubilei.

Nel 1694 il lenzuolo viene sistemato definitivamente nella cappella del Guarini a Torino. Vengono rinforzati i rattoppi.

Nel 1898 l'avvocato Secondo Pia esegue la prima fotografia.

Nel 1931 e 1933 due ostensioni pubbliche della Sindone.

Nel 1939 viene nascosta, a causa della guerra, a Montevergine (Avellino).

Nel 1946 ritorna a Torino.

Nel 1950 viene trovato casualmente in un antico edificio inglese appartenuto ai Templari (Templecombe, nel Somerset) il volto dipinto del Cristo sindonico.

Nel 1969 si istituisce una commissione scientifica per studiarla.

Nel 1973 vi è la prima ostensione televisiva in diretta.

Nel 1978 ostensione pubblica e primo Congresso Internazionale di studi a Torino.

Nel 1983, per volontà testamentaria di Umberto II di Savoia, la Sindone passa alla Santa Sede, che ne nomina “custode” pro tempore l'arcivescovo di Torino.

Nel 1988 viene prelevato un frammento del telo per compiere un'indagine radiocarbonica: il test del C14 colloca la nascita della Sindone tra il 1260 e il 1390 d.C. Molti scienziati contestano queste conclusioni.

Nel 1997 scoppia un incendio nella Cappella del Guarini: la Sindone viene salvata dai vigili del fuoco.

Nel 1998 nuova ostensione pubblica. Lo sarà di nuovo nel 2000, in occasione del Giubileo.

Nel 2002 è stato rimosso il restauro operato dalle suore Clarisse di Chambéry nel 1534; tutti i rappezzi sono stati asportati e sono stati raschiati i bordi carbonizzati dei fori. Sul retro della Sindone è stata cucita una nuova tela che risale a una cinquantina d'anni fa. Sono state anche eseguite numerose foto digitali dettagliate, indispensabili per poter effettuare studi più approfonditi.

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5) Motivi di autenticità della Sindone

Della Sindone conservata a Torino (il lenzuolo di lino è lungo 4,36 m. e largo 1,10 m.) parlano non solo i quattro vangeli canonici, ma anche tre apocrifi: Vangelo degli Ebrei, Atti di Pilato e Vangelo di Nicodemo.

È inoltre attestata dalla tradizione storica: per i primi sette secoli si trova a Gerusalemme, a Edessa fino al 944, poi a Costantinopoli sino alla quarta crociata (1204), poi in varie località francesi e, infine, dal 1578 a Torino.

Quanto è accaduto all'uomo della Sindone (sevizie, morte, sepoltura) corrisponde a quanto descritto nei vangeli: corona di spine (Mc 15,17; Gv 19,2)13; flagellazione (Mc 15,15; Gv 19,1); torture (Mc 15,19s.; Gv 19,3) e trave sulla spalla (Gv 19,17), cioè il patibolo a cui venivano legate le braccia durante il tragitto verso il palo dell'esecuzione.

"Allora Pilato prese Gesù e lo fece flagellare, perché fosse crocifisso” (Gv 19,1; Mc 15,15). I Romani, a seconda della gravità del reato e del tipo di colpevole, usavano fruste molto diverse tra loro. Il flagrum taxillatum o plumbum, per i condannati a morte, era costituito da almeno tre cordicelle che terminavano con delle punte di piombo o con degli ossicini, uniti tra loro da una sbarretta diritta di pochi centimetri. Nella Sindone le frustate furono date da mani esperte su tutto il corpo nudo, legato a una colonna, ad eccezione della regione cardiaca, poiché il condannato doveva morire sulla croce, cioè con un'esecuzione capitale voluta in qualche modo col consenso popolare.

I flagellatori dovettero essere due, poiché le tracce dei colpi sono simmetriche, disposte oblique verso l'alto sulla parte alta della schiena, orizzontali alle reni, ed oblique verso il basso, nelle gambe. Di regola le frustate erano assai meno di quelle che qui hanno prodotto circa 370 lesioni affiancate a due a due (più quelle che non si vedono), a meno che non venisse usata la stessa fustigazione come esecuzione capitale, ma in tal caso si sarebbe usata una frusta diversa (la securis).14

Normalmente, infatti, i condannati a morte di croce venivano flagellati mentre si recavano nudi, con le braccia legate alla trave portata dietro le spalle, al luogo del supplizio.15 Se Gesù fosse stato flagellato, come i suoi due compagni, durante il viaggio al Calvario, i colpi sarebbero distribuiti disordinatamente sulle varie parti del corpo. La Sindone invece ci rivela metodicità e quasi regolarità nella distribuzione e direzione dei colpi a raggiera. Peraltro Gesù non arrivò nudo alla croce, in quanto i militari si giocarono a dadi la veste senza cuciture, anche se probabilmente morì nudo, in quanto nella tomba, se avesse avuto un perizoma16, non gli avrebbero incrociato le mani sul pube, ma le avrebbero lasciate affiancate al corpo. Essendo già irrigidite, dovettero forzarle in quella posizione. L'impronta del secondo legaccio è ben visibile all'altezza del petto.

Peraltro la lunghezza notevole delle braccia e delle mani lascia pensare ch'esse si fossero come slogate sulla croce (nell'articolazione scapolo-omerale) e che poterono restare incrociate sul corpo sindonico solo in virtù di un legaccio posto attorno al lenzuolo, alla loro altezza, per tenerle unite, anzi incrociate (un altro legaccio fu messo all'altezza delle caviglie, per unire le due estremità del lenzuolo).

La flagellazione fu usata da Pilato come una forma di screditamento pubblico nei confronti di un messia politico la cui popolarità era troppo grande per poter procedere a una condanna veloce, a un'esecuzione sommaria. Il vangelo di Marco invece la presenta come un rito preliminare alla crocifissione. Sembra non sapere ch'essa fu alquanto devastante, al punto che, se anche gli fosse stata risparmiata la croce, ben difficilmente il Cristo sarebbe riuscito a sopravvivere.17

Pilato aveva bisogno d'indurre la folla di Gerusalemme a credere che, di fronte a quella pesante flagellazione, la crocifissione poteva anche essere considerata come un esito inevitabile del processo. Se questa folla avesse comunque preferito la liberazione del condannato, questi sarebbe stato consegnato soltanto dopo aver subìto una flagellazione così cruenta da farlo diventare assolutamente innocuo per il potere di Roma. Si arriva a una conclusione del genere solo leggendo, tra le righe, il quarto vangelo.

Dopo la flagellazione i soldati condussero Gesù nell'atrio del Pretorio e vi convocarono tutta la coorte. Lo avvolsero in una veste di porpora e, intrecciata una corona di spine, gliela misero sul capo e cominciarono a salutarlo: “Salve, o re dei Giudei”. Sul volto del Cristo si trovano molte escoriazioni, specie sulla metà destra, che è deformata. Le due arcate sopracciliari presentano delle piaghe contuse, prodotte da pugni o bastonate. Dicono infatti i vangeli che gli picchiavano la testa con una canna, gli sputavano addosso e, piegando il ginocchio, gli si prostravano davanti. E gli davano schiaffi. (Mc 15,16 ss.; Gv 19,2 s.). Il dileggio o lo scherno era un elemento caratterizzante del supplizio della croce: non dimentichiamo che questa esecuzione capitale verrà eliminata solo al tempo di Costantino (che rinunciò al proprio culto a vantaggio di quello cristico) e di Teodosio (che fece del culto cristico qualcosa di così esclusivo da vietare i culti pagani), a testimonianza che il cristianesimo, eticamente, aveva vinto.

La lesione più evidente è prodotta da una larga escoriazione sullo zigomo destro, che arriva sino alla palpebra, visibilmente più gonfia di quella a sinistra. Il naso è deformato da una frattura della cartilagine dorsale, prodotta probabilmente da una bastonata o da una caduta. Si vedono scendere due rivoli di sangue. Altre escoriazioni si vedono sulla guancia sinistra, sulla punta del naso e sul labbro inferiore. La corona di spine, fissata attorno al capo mediante un laccio, era una specie di calotta formata di rami spinosi intrecciati, molto pungenti: le spine dovevano essere almeno 60-70, poiché le colature di sangue sono una trentina (solo sulla fronte e le tempie si possono intravedere almeno 13 diverse perforazioni della pelle). Il dolore provocato dalle spine dovette essere molto intenso, se si pensa che il cuoio capelluto è uno dei tessuti più ricchi di “punti dolorifici” del corpo umano.

La legislazione romana vietava, in fase immediatamente precedente all'esecuzione, di torturare i condannati a morte. Peraltro qui non era ancora stato emesso il verdetto definitivo, per cui senza il consenso di Pilato sarebbe stato impossibile agire in tale maniera, tanto meno nei locali del Pretorio. Non a caso un analogo crudele episodio non è mai stato ricordato in nessun processo storico di condanna alla morte di croce tramandatoci dall'antichità.

Le torture poterono essere inflitte al Cristo soltanto dopo la flagellazione, ed esse furono non solo feroci (con la corona di spine e i colpi inferti) ma anche denigratorie del fatto che il Cristo era intenzionato a compiere un'insurrezione armata la notte precedente il processo: cosa che se fosse andata a buon fine, non avrebbe dato alcuna possibilità di manovra alla guarnigione romana stanziata nella città santa.

"Allora Pilato lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso” (Gv 19,16; Mc 15,15). Avendo già subìto una pesante flagellazione, Gesù cadde più volte lungo il percorso e non riuscì a portare il patibulum sino alla cima del Golghota18; per questo i soldati obbligarono Simone di Cirene ad aiutarlo (Mc 15,21). La Sindone attesta le cadute mostrando sangue, terriccio e contusioni nelle ginocchia, nel tallone e al naso (il che fa pensare che fosse stato legato alla trave e che non potesse difendersi in alcun modo mentre cadeva): in particolare vi è una zona escoriata e contusa tra lo zigomo destro e il naso, provocata probabilmente da una caduta, la cui violenza ha rotto la cartilagine del naso.

Si sono notate anche delle escoriazioni sopra le scapole, dovute al peso della trave, ch'era circa di 40-45 chili (che comunque un uomo di 80 chili, alto 180 centimetri circa, come appare quello sindonico, in condizioni normali non avrebbe avuto difficoltà a trasportare). Ma le ferite sulle scapole appaiono più appiattite o slargate, non lacerate dallo sfregamento col legno: il che ha fatto pensare ch'esse fossero protette dalla tunica di lana, su cui i soldati, infatti, ai piedi della croce, gettarono la sorte coi dadi al momento di dividersela.

Giunto sul Golghota (a piedi nudi, come attesta la polvere trovata sui talloni), si pensò alla soluzione dei chiodi anche per i polsi, che generalmente venivano legati con corde (naturalmente coi chiodi la morte era affrettata e non da escludere che lo si sia fatto apposta, per maggiore sicurezza).19 I chiodi (da carpentiere) di 12 centimetri, con quattro facce a spigolo, passavano tra l'ulna e il radio con relativa facilità, lesionando il nervo mediano ma senza rompere alcun osso: la conseguenza era la contrazione dei pollici verso l'interno della mano; infatti nella Sindone non si vedono.

Gesù fu inchiodato ai polsi, mentre era sdraiato per terra e poi fu issato sullo stipes.20 Dopodiché, appeso solo per le braccia, gli fissarono i piedi, tra loro sovrapposti (il sinistro è sul destro), con un solo chiodo, direttamente contro il palo verticale, senza alcun appoggio, semplicemente obbligandolo a flettere un po' le ginocchia. I Romani non usavano, in genere, dei suppedanei o delle predelle o dei sedili da mettere sotto i glutei o sotto i piedi, che aiutassero il condannato a resistere oltre il dovuto. La crocifissione era considerato il più crudele dei supplizi, ma non permetteva un tempo di sopravvivenza molto lungo. Di regola, i crocifissi morivano asfissiati (al massimo, se legati con corde nelle braccia, potevano durare un paio di giorni)21: un qualunque appoggio fissato allo stipes, su cui potersi reggere, non avrebbe fatto che prolungare l'agonia. Le braccia inevitabilmente si slogavano, e infatti nella Sindone appaiono più lunghe del normale. In Gesù doveva aver contribuito al decesso anche l'enorme spargimento di sangue già al momento della flagellazione, quindi non è escluso che la breve permanenza sulla croce sia stata causata anche da un infarto miocardico.

Trafittura al costato. Il colpo di lancia al costato22, in direzione del cuore, fu dato poche ore dopo la morte, per constatare l'avvenuto decesso e permettere quindi la sepoltura del cadavere, che generalmente avveniva in una fossa comune. Il sangue della ferita del torace, tra la quinta e la sesta costola, è sgorgato da una persona già cadavere: la parte corpuscolare o cellulare è separata da quella seriosa (Gv 19,34). Il liquido chiaro serioso, accumulandosi nello spazio pleurico, avrebbe dovuto essere di più del sangue fuoriuscito: non a caso nelle prime traduzioni del IV vangelo la sequenza era “acqua e sangue” e non il contrario. Anche l'analisi dell'impronta del cadavere sul lenzuolo ha dimostrato la presenza del rigor mortis già sulla croce (p.es. il capo è flesso in avanti, come doveva essere sulla croce al momento del decesso, inoltre gli arti inferiori sono disposti in maniera asimmetrica, essendo stato un piede inchiodato sull'altro).

Gli studi scientifici della Sindone sono praticamente iniziati quando venne fotografata per la prima volta nel 1898 dall'avvocato Secondo Pia, il quale scoprì che la figura umana impressa sul telo si vedeva meglio sul negativo della foto che non sul telo stesso. Due fenomeni quindi si notano facilmente: le parti che nella realtà sono chiare appaiono scure e viceversa; le parti che nella realtà sono a destra appaiono a sinistra e viceversa. Questo esclude che l'immagine possa essere un dipinto. Nessuno sarebbe stato in grado di produrre un'immagine in negativo prima ancora che fosse stata inventata la fotografia, cosa che avverrà nel 1850. Peraltro le immagini non hanno alcuna direzione, come appunto accade nei dipinti.

Tuttavia molti accusarono Pia di aver truccato le foto o di aver usato delle lastre difettose. Non solo, ma cominciò a emergere la convinzione secondo cui quel reperto sarebbe stato prodotto artisticamente nel Medioevo, anche se ovviamente non si riusciva a spiegare il motivo per cui un artista avrebbe prodotto un'immagine che il pubblico non poteva vedere nella stessa maniera.

Ci vorranno altri 30 anni prima di poter dimostrare che quel lenzuolo si comportava come un negativo fotografico. Infatti solo quando, nel 1931, un secondo fotografo, Giuseppe Enrie, fu autorizzato a compiere lo stesso lavoro del precedente, si dovette ammettere che quel reperto possedeva delle caratteristiche ben strane, ovvero che quella sagoma poteva effettivamente rappresentare un uomo crocifisso. Quanto nel cristianesimo orientale si era sempre creduto per tradizione, senza che mai nessuno avesse mai avuto il coraggio di metterne in dubbio l'autenticità; nell'Europa borghese e culturalmente positivistica, nonostante gli enormi progressi scientifici, pochissimi avrebbero messo la mano sul fuoco sul fatto che quel condannato a morte fosse davvero Gesù Cristo.

Eppure saltava subito agli occhi una stranezza difficilmente spiegabile: mentre in una pittura i punti in rilievo di un qualunque soggetto sono convenzionalmente chiari e scuri o in ombra quelle rientranti, nella Sindone invece era il contrario. Già Paul Vignon nel 1902 se n'era accorto. Peraltro a una certa distanza l'immagine si vede bene, ma quanto più ci si avvicina, tanto più tendono a scomparire i confini tra la sagoma e lo spazio circostante. La Sindone non sembra essere un oggetto disposto a essere analizzato troppo scientificamente, per poter essere compreso nella propria “umanità”.

Tuttavia solo negli anni Settanta ci si convinse, tra i sindonologi, che in quel telo non esistevano sostanze coloranti o tecniche pittoriche (benché il chiaroscuro dell'immagine sia di colore giallastro con una certa uniformità cromatica). Non si vedeva alcuna direzionalità, alcuna programmata concatenazione di tratti. Peraltro l'impronta s'è formata solo là dove erano assenti le macchie di sangue, quindi è molto superficiale (da notare che solo nel 1981, con la ricerca di John Eller, si dirà che quelle macchie erano vero sangue umano).

Addirittura nel 1977 i ricercatori americani E. J. Jumper e J. P. Jackson, utilizzando strumenti informatici, evidenziarono la presenza di un'informazione tridimensionale, che – come noto – è possibile solo quando l'illuminazione ricevuta dall'oggetto dipende dalla sua distanza. In genere le immagini chiare sacrificano la tridimensionalità e viceversa: qui invece si possono osservare entrambe le caratteristiche.

Un anno dopo l'équipe del prof. italiano G. Tamburelli riuscì col computer a togliere al volto sindonico tutti i segni delle torture patite e a “ripulire” l'immagine dalle modifiche prodotte dalla struttura geometrica della tela e dalle vicissitudini da essa subite nel corso dei secoli, esaltando i dettagli con potenti ingrandimenti.

Senza introdurre alcuna informazione aggiuntiva, l'équipe riuscì a ottenere l'unica immagine tridimensionale esistente del volto di Cristo antecedente alla crocifissione. L'immagine è tridimensionale sia per l'immagine frontale che per quella dorsale e si comporta come un negativo fotografico. Le informazioni tridimensionali possono essere utilizzate per ricostruire il corpo avvolto dal lenzuolo (è possibile una relazione inversamente proporzionale al quadrato della distanza). L'immagine corporea ha una risoluzione pari a 5 mm, che permette di distinguere particolari di dimensioni fino a circa mezzo centimetro.

La cosa strana è che l'intensità dell'immagine varia inversamente con la distanza tra la tela e il corpo, cioè quanto più il corpo era vicino alla tela, tanto più l'immagine appare scura invece che chiara (senza che questo voglia dire che il telo abbia avuto una parte attiva nella realizzazione delle differenze di sfumatura). Non solo, ma la densità dell'immagine non dipende da variazioni nell'intensità della radiazione che l'ha prodotta. Quindi l'intensità è stata omogenea in tutto il corpo, senza alcuna difformità tra le parti.

Tuttavia è proprio la tridimensionalità ad apparire sconcertante. In fotografia la rielaborazione a 3D è possibile soltanto quando il grado d'illuminazione ricevuto dall'oggetto dipende in qualche modo dalla sua distanza (come p.es. nelle fotografie stellari). In caso contrario occorrono almeno due fotografie dello stesso oggetto, separate da una certa distanza (come p.es. nella fotografia stereoscopica). Nella Sindone il ritratto in 3D presenta un corpo del tutto naturale, proporzionato, privo di distorsioni o sbavature che non siano scientificamente spiegabili.23 La formazione della sagoma è avvenuta in modo assolutamente uniforme e a prescindere dalle caratteristiche della superficie corporea e anche da quello del telo, che avrebbe potuto essere non di lino ma di cotone o di lana. Anzi, se non ci fosse stato alcun telo ma una semplice parete bianca muraria o lignea o di gesso, l'effetto tridimensionale sarebbe stato probabilmente identico, a prescindere dalle sostanze profumate di cui la Sindone poteva essere intrisa.

Grazie a questi e ad altri studi scientifici si è arrivati a risultati per molti versi sconcertanti.

Il corpo impresso nella Sindone è in stato di netto rigor mortis e in perfetto stato di composizione, per cui dovette rimanere avvolto nel lenzuolo per una decina d'ore circa.

La Sindone non è un dipinto o un disegno, non presenta tratti di contorno o di riempimento, né bordi definiti. Non vi sono segni di pennellate o di colpi di spatola o di colori applicabili coi polpastrelli delle dita. Sopra di essa non è stato steso alcun fondo di preparazione. L'immagine non risulta dall'applicazione di una sostanza colorante di tipo minerale, vegetale o animale (pigmento, tinta, polvere, inchiostro...), e neppure è stata ottenuta da un cadavere per contatto o dallo stampo di un metallo caldo. Non vi sono tracce di cementazione o di pigmenti (oleosi o acquosi) negli interstizi fra le singole fibrille di lino componenti il filo della trama, tali da poter giustificare una formazione artificiale dell'immagine. D'altra parte solo le fibrille più esterne dei fili di lino sono interessate dall'immagine: lo attestano gli esami spettroscopici e termografici. L'impronta non penetra negli avvallamenti della tessitura e non può essere stata formata da essudazione corporea o da unguenti e aromi come mirra e aloe (queste ultime non sono state trovate nel corpo ma nel telo, in maniera irrilevante e disomogenea). Non ci sono sbavature, né diffusione per capillarità tra le fibrille del tessuto, come p.es. è avvenuto con l'acqua che gli è stata gettata sopra per spegnerla dal fuoco. L'immagine è termostabile alle alte temperature, ai gradienti termici e all'acqua e non può essere sbiancata o mutata da alcun agente chimico standard. È rimasta se stessa nonostante che per tre volte sia stata molto vicina a incendiarsi.

L'immagine corporea è fluorescente ai raggi ultravioletti, ed è visibile nella sua completezza solo se un osservatore è a circa due metri di distanza. Nel 2011 l'ENEA di Frascati ha dimostrato che soltanto utilizzando la luce UV e VUV di un laser a eccimeri impulsato della durata di alcuni miliardesimi di secondo è possibile colorare il lino in modo similsindonico.

Ci sono tracce di emoglobina. Il gruppo sanguigno è AB, tipico dei paesi mediorientali. Le macchie di sangue non sono in rilievo, ma come segnate a fuoco dentro il tessuto. Le impronte del sangue seguono perfettamente la legge dell'emodinamica e non presentano sbavature o segni di distacco, come sarebbe potuto avvenire se il corpo fosse stato trafugato togliendolo da essa.

La salma, non avendo tracce di putrefazione, rimase avvolta nel lenzuolo, legato con bende, il tempo necessario per arrivare a notte fonda, quando nessuno avrebbe potuto assistere alla trasformazione. Il corpo si è volatilizzato quando la morte aveva prodotto una totale rigidità cadaverica, e le palpebre non si sono aperte: quindi non vi è stato un “risveglio” come lo intendiamo noi. Semplicemente tutto il corpo, in tutte le sue parti, così come si trovava nelle sue fattezze mortuali, ha emesso improvvisamente una sorta d'incandescenza o (ir)radiazione24 che ha causato una completa e uniforme immagine a specchio, anche se il volto presenta una luminosità maggiore del 10% rispetto al resto (da notare che l'immagine dorsale, che, se si esclude il volto, è quella che si vede meglio, non è influenzata dal peso del corpo).25

Nel 1954 il teologo di Chicago p. F. L. Filas, sulla base di alcune lastre fotografiche del volto sindonico, affermò d'individuare sulla palpebra destra impronte simili a una moneta dell'epoca di Cristo. Successivamente l'elaborazione tridimensionale dell'immagine negativa ingrandita della palpebra destra metteva in evidenza la presenza di quattro lettere: Y, C, A, I, nonché un'impronta centrale, un bastone, simile a un punto interrogativo.

La scritta poteva essere, verosimilmente, questa: TIBERIOY CAICAPOS, corrispondente all'errore di conio (abbastanza frequente sulle monete dell'epoca) della scritta TIBEPIOY KAI APO (una “C” al posto della “K”). In questo caso si trattava del “dilepton lituus”, moneta emessa da Pilato nell'anno XVI del regno di Tiberio, corrispondente al 29-30 d.C. Si confermava così l'usanza ebraica di ricoprire con monete gli occhi del morto. Strano però che sia stato fatto con monete romane e non ebraiche: sembra che sia stato fatto apposta per indicare gli autori del crimine.

La seconda moneta fu trovata dai docenti B. Bollone e N. Balossino. Si tratta di un “lepton” che ha sul verso una coppa rituale con manico (“simpulo”) e la scritta di Tiberioy Kaisaros, nonché la sigla finale LIS, che indica la datazione: “L” sta per “anno”, “I” indica il valore “dieci” e “S” il valore “sei”. Quindi ancora una volta anno XVI dell'imperatore Tiberio, che viene a coincidere con una delle date che gli esegeti scelgono per indicare la morte di Gesù: 7 aprile del 30.

Nelle icone e nelle monete bizantine vi sono evidenti tracce sindoniche (p.es. la barba a due punte o la ciocca di capelli a forma di virgola che ricade sulla fronte e che corrisponde, sulla Sindone, a una macchia di sangue). Fra icone, monete e Sindone i punti di convergenza vanno dai 145 ai 190 (a volte si arriva a 250!). Per la medicina legale ne bastano 50-60 per stabilire l'identica origine di due rappresentazioni diverse.

Come noto, le prime immagini di Gesù si ispirano a modelli pagani, a motivo del fatto che il cristianesimo perseguitato preferiva usare, per motivi di sicurezza, i simboli della cultura dominante (il volto di Cristo, p. es., somigliava a quello di un giovane Apollo sbarbato). Non esiste, prima del V sec., alcuna rappresentazione del crocifisso sul patibolo, poiché si sapeva che sarebbe stato pericoloso divulgare un'immagine politicizzata del Cristo. Si offriva ai credenti solo la rappresentazione stilizzata della croce, in chiave etica, come simbolo di sofferenza umana e di riscatto morale davanti a Dio. Cristo non doveva apparire come schiavo ribelle, tradito nel momento in cui doveva insorgere contro l'oppressore nazionale, ma come un semplice redentore universale che si era preso su di sé i peccati dell'intera umanità. Non a caso veniva raffigurato come un buon pastore, un taumaturgo, un filosofo che insegna...

A partire dalla seconda metà del IV sec. appare sui sarcofagi romani un volto di Gesù con barba e capelli lunghi (il più antico dei ritratti pittorici di questo tipo risale invece al VI sec., presso il monastero del monte Sinai). Il modello che ha ispirato gli artisti sarebbe il Mandylion (panno) o Tetradiplon (piegato doppio quattro volte), conservato a Edessa (Urfa), in Siria, nelle steppe dell'Anatolia centrale, durante il primo millennio, fino al 944, poi trasferito a Costantinopoli. Vi sono almeno 15 lineamenti comuni nei ritratti del volto di Cristo che vanno dal VI a tutto il XIV secolo. Il volto del Cristo sindonico appare nei mosaici, sulle tavole di avorio, nelle icone più antiche proprio nel momento in cui il centro dell'impero romano, divenuto cristiano, si sposta a oriente. Naturalmente non è il volto di un crocifisso abbruttito dalle sofferenze subite, ma di un vero e proprio “pantocratore”, cioè di un “signore dell'universo”, ieratico, padrone di sé e di tutto ciò che lo circonda, severo e sereno nello stesso momento, idealizzato e umano, composto nei movimenti e molto equilibrato nelle fattezze.

Il Mandylion non era che la Sindone ripiegata per mostrarne soltanto il volto, il quale veniva definito come “immagine non fatta da mano d'uomo” (“achiropita” o “acheiropoietos”, ma si usava anche la parola “theoteuktos”). Il lenzuolo venne visto interamente dispiegato soltanto a Costantinopoli.

Il tipo di tessitura del telo, filato a mano in maniera rudimentale, con un intreccio a spina di pesce, corrisponde a quello in uso nel Medioriente (ambiente siriano-palestinese), già nel I sec. La composizione del tessuto, con tracce di cotone (non presente in Europa nel periodo coevo) tra le fibre di lino, ma senza alcuna traccia di fibra di origine animale, appare in consonanza con le leggi di purezza dell'ambiente ebraico. Il lenzuolo è simile a quelli trovati in antiche sepolture egizie, a Pompei e in Siria (patria originaria di questa tessitura). È addirittura identico a un lenzuolo trovato nella fortezza di Masada.

Negli anni Settanta il botanico Max Frei Sulzer individuò sulla Sindone granuli di polline di piante presenti in Francia e in Italia, ma anche di molte altre presenti in Palestina, a Costantinopoli e nell'Anatolia, ove si trova Edessa. Spore, funghi e acari simili sono stati trovati in tombe dello stesso periodo, a Gerusalemme, ma anche, successivamente, a Edessa e a Costantinopoli. I pollini del telo provengono da almeno 49 specie di piante, di cui solo 17 tipiche dell'Europa (molte di queste piante non esistono più). Il polline più frequente è identico a quello che si trova presso il lago di Tiberiade e nelle zone limitrofe al Giordano. Una particolare varietà di cappero (Zygophillum dumosum) si trova soltanto nell'area di Gerusalemme, nella Giordania occidentale e nel Sinai. Del Vicino Oriente appartengono di sicuro 29 piante, di cui 21 crescono nel deserto o nelle steppe. Tre quarti delle specie riscontrate sulla Sindone crescono in Palestina, tra le quali 13 specie sono molto caratteristiche o esclusive del Negev e della zona del Mar Morto. La Sindone deve essere stata esposta all'aria libera pure in Turchia, poiché 20 delle specie riscontrate sono abbondanti in Anatolia (Urfa, ecc.) e quattro nei dintorni di Costantinopoli, e mancano completamente nell’Europa Centrale e Occidentale. Frei disse anche che il telo non fu esposto ai fedeli né ad Atene né a Cipro, dove infatti si pensa sia stato tenuto nascosto dai crociati. Invece lo fu di sicuro in Francia e in Italia.

L'analisi chimica spettrografica dell'aragonite trovata nel tessuto indica ch'esso è stato in diretto contatto con una cava o tomba calcarea di Gerusalemme.

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6) Considerazioni

La venerazione popolare di questo lenzuolo è certamente legata a manifestazioni di tipo fideistico. La stessa Chiesa, che pur ha accettato nel 1988 il verdetto di falsificazione degli scienziati, continua a praticare ostensioni al solo scopo di non perdere i fedeli e di incamerare nuovi introiti.

Tuttavia, non vi sono dubbi convincenti per ritenere quel reperto un falso medievale, nel senso cioè che le prove a favore della sua autenticità appaiono nettamente superiori. Ed è quindi condivisibile il parere del biochimico russo Dimitri Kuznetsov, secondo cui l'incendio che lo danneggiò nel 1532 e altri agenti atmosferici avrebbero alterato i risultati dell'analisi del C-14, “ringiovanendo” il telo. Sono sufficienti poche ore per variare di molti secoli la data di un qualunque reperto. Si era già accorto di questa cosa esaminando una mummia conservata nel Museo di Manchester: i lini che l'avvolgevano mostravano un'età radiocarbonica di un millennio inferiore a quella del cadavere imbalsamato.

Ragioniamo ora e concessis. Supponendo, in via del tutto ipotetica, che Cristo sia “risorto” (anche se sarebbe meglio dire “misteriosamente scomparso”), che bisogno aveva di farlo sapere, visto che poi non è più riapparso? (Ovviamente diamo per scontata l'inesistenza delle sue riapparizioni e quindi l'inattendibilità di tutti i racconti di resurrezione.)

Ovvero, s'egli fosse “scomparso” lasciando il sepolcro chiuso, chi avrebbe pensato ch'egli voleva comunicare qualcosa a qualcuno? E cos'era ciò che voleva comunicare (per l'ultima volta) se non se stesso nel lenzuolo che l'aveva avvolto e che fu trovato piegato in un angolo del sepolcro (cfr Gv 20,7)?

Per quale motivo quel lenzuolo doveva essere conservato? È forse l'unica vera testimonianza che abbiamo sul mistero della sua morte e, più in generale, sul mistero (scientifico!) della perenne trasformazione della materia in energia e dell'energia in materia?

Per quale ragione, noi che ci indisponiamo quando qualcuno nega l'esistenza di altri esseri pensanti nell'universo, siamo così ostili a credere che la morte comporti una nuova nascita? In natura il fenomeno è normalissimo: lo si vede quotidianamente. Perché facciamo così fatica ad accettarlo nell'essere umano e, più in particolare, nel Cristo? Temiamo forse di fare un favore alla Chiesa, quando è stata proprio la Chiesa a negare qualunque vera storicità al Cristo!?

A ben guardare il vero torto della comunità post-pasquale non è stato quello di credere nella “resurrezione” del messia, ma quello di aver basato su tale fatto la rinuncia all'istanza umana e politica di liberazione, trasformandola in un'esperienza di rassegnato “misticismo”. Prima di essere nato come “nuova religione”, il cristianesimo nasce come tradimento di un'esperienza che di religioso non aveva nulla.

Se si partisse da questa premessa, noi daremmo alla Sindone un'importanza relativa, senza per questo cadere in atteggiamenti pregiudizievoli, che non aiutano certo a capire le ricerche che una ventina di discipline, tra scientifiche e umanistiche, hanno compiuto per decenni su quel telo di lino. O forse possiamo ancora permetterci il lusso dell'obsoleto razionalismo positivistico, il quale, per indurre il credente a rinnegare la propria fede, si limitava, un secolo fa, a sostenere che il Cristo dei Vangeli non era mai esistito?

Guardando la Sindone, cioè il modo in cui quel corpo venne trattato, è difficile pensare che il Cristo non avesse nulla di politico, e soprattutto che non fosse particolarmente odiato e temuto dai Romani. La scoperta di questo reperto, a partire dal negativo delle immagini fotografiche, mette in discussione la rappresentazione che di Gesù danno i vangeli, tutti intenti a mostrare unicamente l'odio contro di lui da parte dei sacerdoti giudei, degli scribi e dei farisei.

Oggi probabilmente dobbiamo limitarci a chiedere ai cristiani, anzi ai credenti in genere, di rendersi conto che se Dio esiste non è certo alla portata dell'uomo: chi sostiene il contrario è perché non crede nell'umanità dell'uomo, in quanto vede nell'uomo solo il lato negativo o comunque il prevalere di questo su quello positivo.

L'uomo deve “accontentarsi”, se così si può dire, del Cristo storico, considerandolo come semplice “uomo” e non anche come “dio” (a meno che “uomo” e “dio” non vengano fatti coincidere dal punto di vista dell'uomo, nel senso che ogni uomo veramente umano è un “dio”, cioè un essere superiore, almeno rispetto al mondo animale). Ciò che del Cristo appare “sovrumano” non è cosa che possiamo storicamente comprendere.

Noi sappiamo soltanto che il Cristo, finché è rimasto in vita, non aveva nulla che potesse far pensare che non era “umano”. L'unica cosa che si può dedurre dalla Sindone è che esiste nell'universo una “essenza umana” in grado di assumere configurazioni corporee diverse tra loro. Cosa, peraltro, che possiamo già constatare, osservando il processo evolutivo che subisce un soggetto umano dal momento in cui si forma nel ventre materno al momento della sua morte. Dal punto di vista della conformazione fisica non siamo mai gli stessi. Eppure la nostra essenza umana resta invariata, benché anche la consapevolezza di sé subisca profondi mutamenti. La statica e la dinamica, nell'universo, s'influenzano a vicenda, esattamente come la materia e l'energia. Noi stessi siamo destinati a subire, con la nostra morte, un processo “simil-sindonico”, proprio perché tutto è soggetto a perenne trasformazione, che lo si voglia o no.

Se gli uomini oggi appaiono così assurdi e spietati, ciò non dipende dal fatto che adorano un dio sbagliato, né che adorano male il dio giusto, ma semplicemente perché non sanno essere uomini sino in fondo: lo dimostra appunto il fatto che hanno continuamente bisogno di crearsi delle divinità o di adorare degli idoli (sesso, soldi e potere, cioè la “concupiscenza della carne, quella degli occhi e la superbia della vita” – vien detto in 1Gv 2,16).

Se proprio si vuol credere in un “dio”, bisogna limitarsi a credere nell'eterna metamorfosi della materia, cioè nella possibilità di poter continuare a sviluppare la propria umanità in un'altra dimensione, ancora più perfetta di quella terrena.

Ma questo non è un problema che riguarda i vivi. Gli uomini devono cercare anzitutto di essere “umani” sulla terra e, a tale scopo, non hanno bisogno di alcun dio. Lo stesso Cristo (grazie anche alla Sindone, se si vuole) è sufficiente lo si consideri come un modello universale di umanità.

*

Visto che qui non si ha alcuna intenzione di criminalizzare l'atteggiamento mistificatorio dei discepoli di Gesù, che, al cospetto della tomba vuota, iniziarono a fantasticare in chiave religiosa, chiediamoci, in tutta onestà: nel caso in cui si voglia considerare la Sindone un reperto autentico, si sono dei motivi fondati per non credere in tutto ciò che di miracoloso viene raccontato nei vangeli?

Oppure, se vogliamo, la domanda potrebbe essere riformulata nella maniera seguente: non è forse legittimo pensare, da parte di un seguace di Pietro, l'inventore della tesi della resurrezione, che se si accetta una cosa che può apparire molto inverosimile, ci si pone automaticamente nelle condizioni di non porre alcuna obiezione nei confronti di tutte le altre che ne sono correlate?

In altre parole: se davvero Gesù è scomparso dalla tomba in maniera del tutto inusuale, cosa impedisce di credere che sia nato da una vergine, abbia risorto Lazzaro, si sia trasfigurato sul Tabor, abbia camminato sul lago di Tiberiade, abbia moltiplicato pani e pesci, placato una tempesta, guarito malati d'ogni sorta e così via? È evidente, infatti, che chi ha scritto racconti del genere, si sentiva autorizzato a farlo dai propri superiori o dal proprio collettivo d'appartenenza: quanto meno doveva sapere che se si fosse accettata l'idea di resurrezione, tutto il resto, almeno in via ipotetica, non si poteva escludere.

Purtroppo però esiste una ragione sufficiente per negare credibilità a tutto ciò e per considerare la mistificazione operata dai redattori cristiani (interpreti delle loro rispettive comunità) come totalmente priva di legittimità, destituita di ogni fondamento. Ed è quella che deve sostenere con forza qualunque esegesi che rivendichi una propria posizione laica: qualsiasi prodigio che il Cristo avesse potuto compiere, avente caratteristiche sovrumane o sovrannaturali, avrebbe violato la libertà di coscienza degli ebrei di allora e li avrebbe indotti a non cercare in se stessi tutto quanto occorreva per liberarsi dell'oppressione romana e della corruzione sacerdotale.

Se si spinge qualcuno a credere in qualcosa, servendosi di un prodigio o di un segno miracoloso, inevitabilmente lo si trasforma in un minus habens. Non a caso in tutte le legislazioni democratiche è previsto il reato di plagio (manipolazione mentale) o di circonvenzione d'incapace. Approfittare dell'ingenuità o della buona fede di qualcuno, che non ha sufficienti mezzi intellettuali o culturali per affrontare in maniera obiettiva o critica un determinato evento, significa farne un burattino nelle proprie mani.

Tutto ciò senza poi considerare che, per chi affronta la vita in maniera disincantata, nessun prodigio spettacolare può indurlo a pensare che chi lo compie possa dimostrare la giustezza delle proprie idee o la correttezza delle proprie intenzioni o la validità dei propri obiettivi. Usare i miracoli per spingere a credere in qualcosa è una vergogna sotto tutti i punti di vista. E sotto questo aspetto non fa molta differenza che, per farlo, si usino gli strumenti della religione o della scienza.

Quindi in nessun momento Gesù Cristo può aver mostrato a qualcuno che aveva delle capacità che lo rendevano diverso da ciò che l'essere umano era in grado di fare al suo tempo. Per questo motivo sono da considerare assolutamente inventati tutti i racconti che lo rappresentano come una sorta di divinità.

L'unico aspetto della sua vita, su cui si possono nutrire dei dubbi, se si accetta che la Sindone riproduca misteriosamente le fattezze del suo corpo, è quello relativo al concepimento da parte di Maria. Ma anche ammettendo ch'esso sia avvenuto per partenogenesi, nessuno sarebbe stato in grado di spiegarselo, neppure la stessa Maria. Quindi qualunque discorso si possa fare su un argomento del genere, è fatica sprecata. Non solo, ma anche qualunque discorso teologico si faccia su Gesù, o qualunque sua rappresentazione mistica, sul piano artistico o religioso, o qualunque istituzione ecclesiastica lo voglia rappresentare, vanno considerati fondamentalmente privi di senso linguistico. Il mestiere stesso del sacerdote o dell'insegnante di religione va ritenuto come una forma di alienazione. Qualunque confronto intellettuale si possa fare con persone del genere su argomenti di tipo teologico o metafisico, non porterebbe da nessuna parte. È la semantica stessa della mistica che rende inutile il confronto dialettico.

L'unica cosa che astrattamente ci si può chiedere è se possiamo considerare Gesù Cristo il prototipo dell'umanità maschile e se da qualche parte esista un equivalente per il genere femminile. Ma anche queste sono domande destinate a rimanere senza risposte convincenti. Pertanto è meglio attenersi a quanto diceva Marx: “Gli uomini si pongono solo quelle domande per cui sanno di poter trovare delle risposte”; che è poi quanto, con altre parole, diceva Wittgenstein: “Di ciò di cui non si può parlare, è meglio tacere”.

Questo vale anche per la Sindone, nonostante essa costituisca un elemento tangibile, che può spronarci a credere che la conoscenza sia un processo infinito.

Semmai le domande sono altre e riguardano la compatibilità della versione che i vangeli hanno dato alla vicenda di Gesù con ciò che appare in quel reperto archeologico. E bisogna francamente dire che i redattori, nella sostanza, mentono. Il Cristo non può essere stato quel pacifista che i vangeli ci hanno tramandato; anzi egli appare come un soggetto altamente pericoloso per il potere romano, responsabile del trattamento inumano e della condanna a morte che gli ha riservato.

Sotto questo aspetto gli evangelisti sono responsabili di una profonda mistificazione, quella di aver voluto far credere che il Cristo fosse un soggetto estraneo alla politica rivoluzionaria contro la casta sacerdotale e insurrezionale contro l'imperialismo romano (al massimo, infatti, viene presentato come un soggetto teologico alternativo al giudaismo o comunque come un suo profeta riformatore). Che tale mistificazione sia nata dall'esigenza di trovare un compromesso con un potere che aveva completamente distrutto la nazione israelitica, è indubbio, ma ciò non ne attenua la gravità oggettiva.

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7) Le cosiddette “Tre Marie” ai piedi della croce

Marco
(15,40ss.; 16,1)


[40] C'erano anche alcune donne, che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses (Giuseppe), e Salome,

[41] che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.

[47] Intanto Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano ad osservare dove veniva deposto.

[16,1] Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù.

Matteo

(27,55ss.; 28,1)


[55] C'erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo.

[56] Tra costoro Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedèo.

[61] Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Màgdala e l'altra Maria.

[28,1] Passato il sabato, all'alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l'altra Maria andarono a visitare il sepolcro.

Luca

(24,1.9-10)


[1] Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato.

[9] E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri.

[10] Erano Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo.

Giovanni

(19,25;20,1s.)


[25] Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala.

[20,1] Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro.

[2] Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!”.

*

Perché sull'identità delle donne ai piedi della croce (quelle che la tradizione popolare ha fatto passare come “le tre Marie”), i vangeli sono così discordi tra loro? Per quale motivo Luca, unico tra gli evangelisti, non individua singolarmente le donne ai piedi della croce ma solo dopo la scoperta della tomba vuota? Perché soltanto il quarto vangelo parla della madre di Gesù? Perché Salome viene ricordata in quattro modi diversi? Questi sono solo alcuni degli interrogativi circa l'identificazione delle donne ai piedi della croce del Cristo cui da circa duemila anni gli esegeti cercano di dare risposte convincenti.

Luca sotto mano doveva avere il testo di Marco e forse quello di Matteo (che copia da Marco) e avrà sicuramente notato alcune stranezze: mentre in Mc 15,40 le donne nei pressi della croce sono tre (Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo il Minore e di Ioses o Giuseppe, e Salome), in Mc 15,47, nei pressi del sepolcro, le donne sono soltanto due (Maria di Magdala e Maria madre di Ioses) e per di più viene citato il solo Ioses quando suo fratello Giacomo fu molto più importante di lui, mentre in Mc 16,1, il giorno dopo il sabato, sono ridiventate tre (Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome), intente a comprare degli aromi per andare a ungere Gesù, pur sapendo che non saranno in grado di farlo, essendo la pietra che ostruiva il passaggio troppo pesante da rimuovere.

Luca, che doveva essersi accorto di queste incongruenze e soprattutto della scomparsa redazionale di Salome al momento della sepoltura, parla di “donne” in senso lato, provenienti dalla Galilea, discepole della prima ora, che piangevano lungo il corteo del Golghota (23,28), anche se in 24,10 cita i nomi di Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo, preoccupate di avvisare gli Undici che il sepolcro è vuoto.

Da notare che Luca è il solo che riporta il nome di Giovanna, la quale, essendo moglie del funzionario erodiano Chuza, certamente in quel momento non poteva essere lì. La cosa strana è ch'egli abbia preferito inserire il nome di questa donna (che probabilmente dopo il 70 era divenuta cristiana) piuttosto che quello della madre di Gesù, dimostrando così che tutta la prima parte del suo vangelo, dedicata alla verginità di Maria e natività del Cristo in realtà non gli appartiene, essendo stata aggiunta successivamente.

Ci si può anzi chiedere: per quale ragione i Sinottici, a differenza di Giovanni, per il quale risulta centrale, essendo citata per prima e anche in rapporto a se stesso, non hanno mai riportato il nome della madre di Gesù ai piedi della croce? Qui tertium non datur: o mente Marco o mente Giovanni. E perché il nome di Maria di Magdala (la Maddalena), presente in tutti i vangeli, nei Sinottici è sempre citato per primo e in Giovanni per ultimo?

Di regola gli esegeti sostengono che la madre di Giacomo il Minore fosse moglie di Cleofa (quest'ultimo a volte viene confuso con Alfeo) e sorella della madre di Gesù, mentre Salome fosse madre di Giacomo e Giovanni Zebedeo. Questa tesi però cozza contro due incongruenze: la prima è che Giacomo il Minore viene in genere definito “fratello di Gesù”; la seconda è che la madre di Gesù e sua sorella avevano lo stesso nome.

Che Gesù avesse dei “fratelli” e delle “sorelle” è pacifico nel vangelo di Marco, ma se Giacomo il Minore è stato davvero suo “fratello”, allora è impossibile che sia mai esistita una Maria moglie di Cleofa.

Stando a Gv 19,25 non è chiaro che le donne ai piedi della croce fossero davvero tre e non quattro: infatti si parla di “sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala”. Ora, siccome dobbiamo dare per scontata la presenza di Salome, vien spontaneo chiedersi: la sorella della madre di Gesù era davvero Maria di Cleofa o non invece Salome? E qui non è stata citata per nome perché Giovanni la considerava molto vicina a sé, esattamente come la madre di Gesù, oppure perché qualcuno ha fatto in modo di non associarla al nome dell'evangelista?

Guardiamo come viene trattata Salome nelle quattro versioni:

1. in Marco viene citata per ultima e non viene detto ch'era madre di Giacomo e Giovanni Zebedeo;

2. in Matteo viene omesso il suo nome;

3. in Luca viene rimossa del tutto e sostituita con Giovanna;

4. in Giovanni è molto probabile che i manipolatori di questo vangelo abbiano voluto far credere che la sorella della madre di Gesù fosse Maria di Cleofa e non Salome.

Si ha in sostanza l'impressione che Salome, che se davvero era imparentata con la madre di Gesù, non era “galilea” bensì “giudea”, abbia subìto un destino non molto diverso da quello di Maria: un destino di censura. E il motivo probabilmente è dipeso dal fatto che entrambe erano strettamente legate all'apostolo Giovanni, che venne estromesso dalla comunità capeggiata da Pietro, il cui “vangelo” è quello di Marco, pur scritto e riscritto più volte.

Si noti, en passant, che in Mc 9,33-40 l'apostolo Giovanni viene presentato come un fanatico, un arrogante, un presuntuoso, e la cosa viene ribadita con molta enfasi, più avanti, in 10,35-45, coinvolgendo nella riprovazione anche suo fratello Giacomo e persino la loro madre, fatta passare per un'arrivista e che nel vangelo di Marco non viene mai detto fosse madre dei due apostoli, tanto che Salome, nell'elenco delle donne ai piedi della croce appare come un'illustre sconosciuta.

Doveva esserci stata molta tensione tra i fratelli Zebedeo e Simon Pietro: lo dimostra appunto il fatto che solo nel quarto vangelo Gesù chiese a sua madre di considerare Giovanni come “suo figlio”: il che in sostanza voleva dire che Giovanni doveva considerare Maria come “sua madre” (politicamente questo poteva anche significare che il sostituto di Cristo doveva essere non Pietro ma appunto Giovanni o almeno la coppia dei fratelli Zebedeo). A meno che la valorizzazione della madre di Gesù nella pericope del quarto vangelo non sia avvenuta tardivamente, sulla scia di quella che s'era già compiuta, in maniera molto mistica, nei due vangeli di Matteo e Luca.

In ogni caso se diamo ragione a Giovanni e sosteniamo che la pericope relativa a Maria doveva servire, nelle intenzioni dell'autore, anche per far capire ch'era effettivamente lui il “discepolo prediletto” di Gesù, quello che avrebbe dovuto ereditare il mandato politico per realizzare l'insurrezione, allora bisogna dire che le donne ai piedi della croce non erano tre ma quattro e la sorella della madre di Gesù non era Maria di Cleofa ma Salome.

Per quale motivo però Giacomo il Minore venisse chiamato “fratello di Gesù” resta inspiegabile. In Mc 6,3 è detto chiaramente che Gesù, nell'opinione comune, veniva considerato come “il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone”. E Paolo accetta questa opinione in Gal 1,19, arrivando addirittura a dire che quando lui si convertì riuscì a parlare privatamente soltanto con Pietro e pubblicamente soltanto con questo Giacomo il Minore, gli unici di tutti i più stretti discepoli del Cristo. E si ricordi che Paolo scrive a metà del I secolo, cioè 20-30 anni prima di Marco.

Da notare però che nella lettera di Giuda, questi definisce se stesso “servo di Gesù e fratello di Giacomo”, quando avrebbe potuto dire benissimo “fratello di Gesù”. E lo stesso Giacomo, nella sua lettera canonica, evita di identificarsi esplicitamente come “fratello di Gesù”.

Gli esegeti hanno individuato quattro soluzioni a tale problema:

1. col termine “fratello” s'intendevano anche i “cugini” (e questo è molto probabile sul piano metaforico del linguaggio religioso, benché la lingua greca, in cui il Nuovo Testamento fu scritto, aveva parole diverse per il diverso utilizzo);

2. col termine “fratello” s'intendevano quelli che in un determinato momento apparivano come i più ferventi nella fede religiosa, senza alcun riferimento di genere parentale (p. es. Anania in At 9,17 considera un “fratello” il neoconvertito Paolo);

3. Giacomo il Minore non è lo stesso Giacomo fratello di Gesù (ma in tal caso apparirebbe un'incredibile coincidenza che in Mc 6,3 venga citato, subito dopo il nome di Giacomo, quello di Ioses);

4. la comunità cristiana cominciò a usare questo appellativo, “fratello”, applicato a Giacomo il Minore (o il Giusto), per impedire che qualcuno considerasse Giacomo e Giovanni più titolati di Giacomo il Minore a subentrare a Gesù nella guida dalla comunità. Giacomo il Minore infatti è lontanissimo dal “vangelo autentico” di Gesù, essendo strettamente legato alle usanze giudaiche.

Altri esegeti laici, basandosi proprio sul fatto che Giacomo viene chiamato “fratello di Gesù”, ritengono che Maria di Cleofa sia la stessa madre di Gesù, che nella fattispecie quindi sarebbe stata sdoppiata per non far risultare ch'essa aveva dato a Gesù altri fratelli e sorelle. Una tesi, questa, che non tiene conto del fatto che al tempo della stesura del primo vangelo non esisteva ancora il mito della verginità di Maria e che quindi l'elenco delle donne ai piedi della croce non poteva essere stato fatto con un'intenzione favorevole alla madre di Gesù.

Un esegeta, onde giustificare l'assenza di Maria, avrebbe fatto meglio a dire che nell'imminenza dell'insurrezione nazionale non avrebbe avuto senso, in quanto troppo rischioso, che Gesù si fosse portato con sé a Gerusalemme sua madre, e che quindi le donne presenti negli ultimi momenti di vita del Cristo furono soltanto quelle che partecipavano attivamente al movimento nazareno, tra le quali sicuramente la Maddalena era la più impegnata.

Non è però neppure da escludere che nel vangelo di Marco, ove tutti i riferimenti alla madre di Gesù sono visti in una luce negativa, il versetto relativo ai suoi fratelli e sorelle sia stato scritto proprio per contestare la posizione anti-petrina della madre di Gesù, anche perché, se questa avesse davvero avuto così tanti figli, non si spiegherebbe il motivo per cui Gesù l'abbia affidata al solo Giovanni.

Non pochi esegeti sostengono che ai piedi della croce non poteva esserci nessuno apostolo, neppure Giovanni, checché venga detto il contrario in Gv 19,27. Anzi, a proposito di questo versetto, qualcuno ha sostenuto che se esso non ci fosse, il versetto precedente non si riferirebbe affatto a Giovanni, in quanto con la frase “Donna, ecco tuo figlio”, Gesù voleva semplicemente dare un addio a sua madre, come se volesse dirle che lui le era rimasto “figlio” sino all'ultimo e che aveva fatto tutto quanto era in suo potere per realizzare degli ideali che evidentemente anche sua madre condivideva.

In realtà quelle ultime parole non erano solo di tenerezza, anche perché Gesù poteva dare tranquillamente per scontato che i suoi fratelli e sorelle si sarebbero presi cura di Maria. Erano parole impegnative, per certi versi paradossali, in quanto affidava la madre al discepolo prediletto e non a un parente stretto. E Maria accettò questo incarico, poiché l'apostolo aggiunge che da quel momento la prese con sé. In pratica Giovanni veniva a sostituirsi completamente a Gesù. Quindi quelle parole erano una sorta di mandato testamentario: sulla croce Gesù aveva designato il proprio successore. In un certo senso Maria e Giovanni sarebbero stati anche i più titolati a conservare la Sindone.

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8) Sepoltura di Gesù

Marco
(15,42-47)


[42] Sopraggiunta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato,

[43] Giuseppe d'Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio, andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù.

[44] Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo.

[45] Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe.

[46] Egli allora, comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l'entrata del sepolcro.

[47] Intanto Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano ad osservare dove veniva deposto.

Giovanni
(19,38-42)


[38] Dopo questi fatti, Giuseppe d'Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù.

[39] Vi andò anche Nicodemo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre.

[40] Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com'è usanza seppellire per i Giudei.

[41] Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto.

[42] Là dunque deposero Gesù, a motivo della Preparazione dei Giudei, poiché quel sepolcro era vicino.

Matteo
(27,57-66)


[57] Venuta la sera giunse un uomo ricco di Arimatea, chiamato Giuseppe, il quale era diventato anche lui discepolo di Gesù.

[58] Egli andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Allora Pilato ordinò che gli fosse consegnato.

[59] Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo

[60] e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò.

[61] Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Màgdala e l'altra Maria.

[62] Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei, dicendo:

[63] “Signore, ci siamo ricordati che quell'impostore disse mentre era vivo: Dopo tre giorni risorgerò.

[64] Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest'ultima impostura sarebbe peggiore della prima!”.

[65] Pilato disse loro: “Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete”.

[66] Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia.

Luca
(23,50-56)


[50] C'era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta.

[51] Non aveva aderito alla decisione e all'operato degli altri. Egli era di Arimatea, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio.

[52] Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù.

[53] Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto.

[54] Era il giorno della parasceve e già splendevano le luci del sabato.

[55] Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù,

[56] poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento.

*

Se testimoni della crocifissione del Cristo furono varie donne del movimento nazareno, il principale protagonista della sepoltura di Gesù fu – è il caso di dirlo – un illustre sconosciuto: Giuseppe d'Arimatea. Su questo sono concordi tutti e quattro gli evangelisti, anche se non lo sono sul tipo di sepoltura che ha allestito.

Per motivi di sicurezza nessun apostolo (in città erano rimasti, nascosti, solo Pietro e Giovanni) se la sentiva di esporsi, anche se nel vangelo di Giovanni vi sono descritti troppi particolari inediti della crocifissione per non pensare che in quel momento l'apostolo dovesse beneficiare di una fonte diretta, molto vicina ai luoghi tragici del Golghota (probabilmente la stessa madre Salome).

Solo Giovanni sostiene che il giudeo Giuseppe d'Arimatea era come Nicodemo, un discepolo alla lontana, “occulto, per timore dei Giudei” (Gv 19,38), molto probabilmente un fariseo (Marco e Luca sostengono che fosse un membro autorevole del Sinedrio), che appoggiava Gesù indirettamente, non avendo il coraggio di manifestarlo pubblicamente: un membro di quell'ala moderata del fariseismo, detta di Hillel, che si opponeva a quella più radicale, detta di Shammai, e che solo dopo il 70 riuscirà ad avere la meglio.

A differenza di Matteo, che ritiene Giuseppe un discepolo esplicito di Gesù, Marco e Luca, evitando di dire ch'era “occulto”, danno per scontato che fosse sì un “discepolo” ma non nel senso che fosse un “nazareno” (altrimenti non si spiegherebbe il fatto che il suo nome, che è quello di una persona importante, venga citato solo in questa occasione), quanto, più genericamente, nel senso ch'era uno che aspettava “il regno di Dio” (leggi: la liberazione della Palestina dai Romani), “una persona buona e giusta”, un simpatizzante della causa del Cristo, che, per questa ragione – dice Luca – “non aveva aderito alla decisione e all'operato degli altri”, cioè di quei parlamentari che nel Sinedrio avevano deciso di spiccare il mandato di cattura contro Gesù e, successivamente, di appoggiare la proposta di Caifa di eliminarlo.

Matteo, che deve aver fatto fatica ad accettare una fede “cristiana” in un uomo appartenente al Sinedrio, si limita a precisare che Giuseppe era influente non dal punto di vista politico ma economico, in quanto “ricco”, in grado, nella fattispecie, di possedere una propria tomba di famiglia scavata nella roccia, ancora non usata, nei pressi del Golghota. Quindi alla contraddizione di associare “istanza rivoluzionaria” con “appartenenza alle istituzioni giudaiche collaborazioniste”, Matteo sostituisce l'appartenenza con la facoltosità, senza rendersi conto che anche in questa maniera si veniva a creare una contraddizione di non poco conto, essendo rarissimi i casi di persone agiate al seguito del movimento nazareno (la parabola del “giovane ricco” era in tal senso sintomatica). Una persona del genere, guarda caso, era stata proprio Matteo.

Giovanni, che guarda le cose in maniera storica e politica, mentre i Sinottici in maniera catechetica e apologetica (il che li porta a mostrare come Giuseppe, durante la gestione petrina del movimento nazareno, fosse diventato un cristiano vero e proprio), non sostiene chiaramente che Giuseppe fosse un sinedrita, però, parlando di “nicodemismo”, lo lascia intendere, anche perché, mentre per i Sinottici si ha l'impressione ch'egli potesse essere “esplicito” nella sequela, pur appartenendo al Sinedrio, in Giovanni, invece, che aveva già stigmatizzato questi comportamenti ambigui in occasione dell'ingresso messianico (12,42), Giuseppe non poteva essere “esplicito” proprio perché apparteneva attivamente al Sinedrio.

Ora, prima di parlare di come Giuseppe organizzò la sepoltura del Cristo, bisogna fare un passo indietro spendendo alcune parole su una importante precisazione: il momento della morte.

Scrive Mc 15,25: “Erano le nove del mattino quando lo crocifissero”, cioè era “l'ora terza”. Ma l'ora terza include il tempo dalle nove a mezzogiorno. Tradurre “nove del mattino”, come fa la Bibbia di Gerusalemme, non ha molto senso, poiché contraddice sia la versione di Gv 19,14, che pone la crocifissione “verso mezzogiorno”, dopo un lungo e tortuoso processo pubblico, in cui non si dava affatto per scontata la morte di Gesù (e Giovanni, in questi dettagli, è sempre più preciso di Marco); sia la stessa affermazione di Mc 15,44, secondo cui Pilato, al momento in cui Giuseppe di Arimatea gli chiese il cadavere di Gesù, “si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo”.

Gesù dunque morì nel primo pomeriggio del venerdì di Pasqua: secondo Mc 15,34 alle tre, e questo coincide con la versione di Giovanni. Probabilmente i sacerdoti pensavano che il processo non sarebbe durato tutta la mattinata e sapevano che se i condannati non fossero morti quanto prima, avrebbero chiesto a Pilato di affrettarne il decesso per rispettare la festività. La cosa strana è che Pilato dovrà aspettare la loro richiesta prima di procedere al crurifragium: il che fa pensare che durante la Pasqua non fossero mai state eseguite delle sentenze capitali, meno che mai per crocifissione. Pur sapendo quindi che non si potevano tenere dei condannati sul Golghota durante la Pasqua, i sacerdoti fecero di tutto perché la condanna a morte di Gesù venisse comminata proprio a ridosso della festività, quando la presenza dei militari romani nella città era ai massimi livelli.

Dal momento in cui Giuseppe chiese la salma al momento in cui la ottenne, passarono almeno un paio d'ore. Giuseppe dovette cercare la tomba (se non era già sua, come dice il solo Matteo) e comprare il lenzuolo per avvolgere il cadavere (se fosse già stato suo il testo avrebbe usato il verbo “prendere” non il verbo “comprare”). Si spiega così il motivo per cui tutti gli evangelisti dicono che al momento della sepoltura ormai era “sera” (verso le 17), cioè in pratica quasi “sabato”, stando al modo ebraico di contare le ore della giornata.

Giuseppe si decise a chiedere il corpo di Gesù a Pilato solo dopo che i Giudei avevano dichiarata l'intenzione di far seppellire i cadaveri in una fossa comune, essendo per loro “indecoroso” tenerli appesi al patibolo nella festività della Pasqua, e quindi solo dopo che Pilato, assicuratosi che Gesù fosse davvero morto (e la cosa venne verificata col colpo di lancia al costato di circa 4,5 cm) aveva acconsentito di togliere i tre giustiziati dalle croci, onde fare un piacere ai Giudei. Qui – come si può notare – c'è dell'ironia tragica, in quanto da un lato il potere giudaico non si fece scrupoli nel far giustiziare un messia che avrebbe potuto liberarlo dai Romani; dall'altro pretende che Pilato rispetti la specifica diversità religiosa del proprio culto.

Giuseppe non andò a chiedere il corpo subito dopo che Gesù era morto, ma solo dopo aver appreso la notizia che le autorità giudaiche volevano seppellire i tre crocifissi in una fossa comune. Se avesse chiesto il corpo subito (il Cristo morì ben prima degli altri due zeloti, che vennero finiti con la rottura delle tibie o crurifragium), la sepoltura sarebbe stata regolare e non affrettata. La salma, se non unta e profumata, sarebbe stata almeno lavata.

Giuseppe quindi non dovette avere alcun particolare “coraggio” (come invece dice Marco), anche perché i Romani non si curavano affatto della sepoltura dei giustiziati; è vero che di regola quelli crocifissi, essendo “criminali politici”, perdevano il diritto alle onoranze funebri e venivano quindi sepolti in fosse comuni, ma è anche vero che il funzionario, preposto a far eseguire la sentenza, in genere non poneva particolari difficoltà a concedere la salma ai parenti o ai conoscenti che la richiedevano. Erano gli ebrei che non concedevano mai il diritto a un condannato a morte d'essere sepolto in una tomba privata.

In tal senso Giuseppe ebbe “coraggio” non tanto a chiedere a Pilato la salma, quanto a impedire ai suoi colleghi sinedriti di farla seppellire in una fossa comune: per ottenere una sepoltura privata doveva per forza esporsi pubblicamente. Tuttavia Giovanni fa capire che quel tipo di coraggio fu ben poca cosa se messo a confronto con quello ch'egli avrebbe dovuto manifestare all'interno del Sinedrio, dove peraltro era già noto che non tutti erano favorevoli alla condanna di Gesù. Cioè Giuseppe, anche se soggettivamente fu “buono e onesto” – come dice Luca –, oggettivamente fu “opportunista”, anche se grazie a questo opportunismo noi oggi possiamo avvalerci di un documento eccezionale come quello della Sindone.

Quanto a Pilato, è evidente, in considerazione della piena riuscita del processo-farsa imbastito per eliminare un pericoloso sovversivo, che per lui l'obiettivo principale era già stato raggiunto, per cui non vi sarebbe stato motivo d'infierire ulteriormente non concedendo la salma. Pilato non ebbe bisogno di vedere un Giuseppe “coraggioso” intento a chiederla, anche perché non poteva non sapere chi nel Sinedrio simpatizzava per il Cristo; pertanto, non volendo creare ulteriori complicazioni dopo una sentenza così difficile, concesse molto tranquillamente il corpo, limitandosi soltanto a verificare, attraverso il centurione, che il Cristo fosse morto davvero.

Su questo aspetto Marco aggiunge qualcosa di inedito là dove scrive che “Pilato si meravigliò che Gesù fosse già morto” (15,44). La cosa è strana, sia perché Pilato doveva aspettarsi che un condannato già orrendamente fustigato e torturato morisse prima degli altri due, sia perché lui stesso aveva ordinato di spezzare le gambe ai crocifissi per affrettarne la morte e seppellirli in una fossa comune, com'era stato chiesto dai capi giudei. Si può quindi pensare che questo versetto sia stato messo per respingere l'idea “anticristiana” della “morte apparente” del Cristo: Marco infatti non riporta la trafittura del costato, descritta da Giovanni. In effetti i crocifissi potevano anche restare in vita per alcuni giorni e, se in qualche modo vi si riusciva, potevano anche essere staccati dalla croce mentre ancora respiravano.

Luca, che pur riuscì a intuire che, quando seppellirono Gesù, nessuno ebbe il coraggio di trasgredire il sabato della Pasqua e di compiere una inumazione degna di quel personaggio, ha tolto l'atteggiamento “coraggioso” di Giuseppe, facendo capire ch'egli, essendo “giusto e buono”, aveva in un certo senso “diritto” a ottenere la salma.

Matteo invece non si rende conto che, dicendo che Giuseppe era un discepolo esplicito di Gesù, non avrebbe mai potuto rivolgersi a Pilato con una semplice richiesta, senza formali preghiere e soprattutto senza temere delle conseguenze. Neppure Pietro e Giovanni si sarebbero mai sognati di fare una cosa del genere in un momento così delicato (ricordiamo che durante il processo davanti al sommo sacerdote Anna, la prima domanda che rivolsero a Gesù fu quella di fare i nomi dei propri luogotenenti – Gv 18,19).

Come venne tumulato Gesù? Marco, il primo a scrivere, sostiene che Giuseppe avvolse Gesù in un lenzuolo appena comprato e lo depose in una tomba scavata nella roccia, chiusa poi con una pietra fatta rotolare. Luca non parla di lenzuolo “nuovo” e, essendo di origine pagana, non sa nulla di “pietre rotolanti”, però, esattamente come Giovanni, dirà che in quel sepolcro non era mai stato messo nessuno: una precisazione importante per evitare dubbi sull'identificazione della salma e del corredo usato per seppellirla, soprattutto alla luce di quanto accadrà il giorno seguente.

Quanto a Matteo, egli scrive semplicemente che il lenzuolo era “pulito”, non necessariamente “nuovo”, facendo così credere ch'esso non fosse stato comprato per l'occasione: forse Matteo avrà pensato che Giuseppe non poteva comprare il telo in un momento in cui, per il computo degli ebrei, le attività commerciali erano già proibite a causa della festività del sabato. Aggiunge anche, per dimostrare che la resurrezione non poteva spiegarsi con un eventuale errore logistico da parte delle donne che ne costatarono l'apertura il giorno dopo, che la tomba nuova apparteneva allo stesso Giuseppe: cosa che non viene confermata dagli altri evangelisti, i quali però devono averla data per scontata, essendo da escludere che anche la tomba potesse essere acquistata lì per lì, in quel frangente.

Quali sono gli elementi comuni a tutti gli evangelisti? Sono tre: la presenza di Giuseppe, vero protagonista della sepoltura, la presenza del lenzuolo (chiamato anche telo, sudario, sindone) e il fatto che la tomba fosse scavata nella roccia, segno di agiatezza da parte del suo proprietario.

Delle quattro versioni quella giovannea, stranamente, presenta le maggiori difficoltà interpretative, cioè proprio quella dell'unico evangelista che poté avere informazioni dirette sulla divisione delle vesti del Cristo, sulla decisione di giocarsi a dadi la tunica senza cuciture, sulla contestazione dei capi giudei circa il significato del titolo della croce26 e sulla trafittura del costato (lo stesso apostolo, stando al suo vangelo, ricevette dal Cristo, ai piedi della croce, la consegna di accudirne la madre!).

In Gv 19,39 risulta che al momento della sepoltura fosse presente anche Nicodemo e che avesse portato ben 100 libbre (circa 32 kg) di profumo: una mistura di mirra (resina odorosa usata dagli egiziani per l'imbalsamazione) e aloe (una polvere aromatica per profumare vestiti e ambienti), entrambe molto costose e provenienti non solo dalla costa africana del Mar Rosso, ma anche dall'Arabia e dall'India. Data l'enormità del quantitativo (per un cadavere bastava una sola libbra di aloe e una di mirra), molti esegeti hanno pensato a un errore di qualche copista, oppure al tentativo di far sembrare Nicodemo grande quanto Giuseppe. Non è infatti da escludere che Nicodemo fosse diventato un cristiano seguace del movimento guidato da Pietro, mostrando in questo di saper riconoscere eticamente un messia morto là dove non era riuscito a riconoscerlo politicamente quand'era vivo.

Va però escluso a priori, per una serie di ragioni, ch'egli, in quel momento, avesse partecipato in qualche modo alla tumulazione:

1. sarebbe stato nell'interesse dei Sinottici far presenziare alla sepoltura un personaggio di rilievo come questo, sicuramente più importante di Giuseppe d'Arimatea;

2. è citato solo da Giovanni (è vero che anche la madre di Gesù lo è, ma è anche vero ch'era nell'interesse dei Sinottici non metterla, in quanto sulla croce Gesù aveva fatto capire che Giovanni avrebbe dovuto subentrargli nella guida del movimento);

3. la Sindone esclude che il corpo di Gesù sia stato lavato e profumato. In tal senso va considerato interpolato anche il versetto successivo (il 40), quello che parla di inumazione “secondo l'usanza tipica dei Giudei”. Peraltro, proprio il fatto che l'evangelista parli di sepoltura affrettata risulta contraddittorio con la presenza di oli e aromi il cui uso avrebbe sicuramente richiesto un certo tempo. Al massimo gli aromi potevano esserci nel sepolcro o nello stesso lenzuolo funebre, ch'era stato appunto fabbricato con l'intenzione di avvolgere un cadavere. Pollini di aloe e granuli di mirra (ma anche tracce di un antico sale) sono stati infatti individuati nel lenzuolo, che può anche averli presi dalla superficie in cui era stato collocato.

Insomma, dire – come viene fatto nel vangelo manipolato di Giovanni – che la sepoltura fu “regolare” a motivo dell'uso di aloe e mirra, significa negare la presenza della Sindone, poiché proprio questa dimostra che il Cristo fu sepolto esattamente com'era sulla croce.

Giovanni fu uno dei pochi che poté avvalersi di testimonianze oculari (e lo dimostrerà quando, il giorno dopo, correrà insieme a Pietro per verificare di persona se quanto aveva detto la Maddalena circa la scomparsa del cadavere corrispondeva al vero). Non avrebbe mai potuto cadere in tutta una serie di contraddizioni quali risultano da questi due versetti (39 e 40): ripete due volte l'espressione “presero il corpo” (vv. 38 e 40); ripete due volte che c'erano gli aromi (vv. 38 e 40); parla di bende o pannolini o panni di lino (othónia), facendo credere si trattasse di una sepoltura tradizionale (come quella di Lazzaro), quando invece essa fu affrettata a motivo del sabato (parasceve), cosa che spiegherebbe appunto l'uso del lenzuolo; non avrebbe mai potuto usare l'espressione “secondo l'usanza giudaica”, sia perché l'avrebbe data per scontata, sia perché lui stesso era un giudeo, sia perché secondo quella “usanza” non si sarebbero certo impiegati 32 kg di aromi e tanto meno delle fasce per avvolgere il corpo di Gesù, alla maniera egizia! Il manipolatore di questo vangelo sembra non sapere nulla delle usanze ebraiche e soprattutto sembra non rendersi conto che quella fu un sepoltura frettolosa, in cui, neanche volendo, si sarebbero potute rispettare le usanze ebraiche.

Se saltiamo dal v. 38 al 41 il discorso resta perfettamente coerente: Gesù venne sepolto nei pressi del Golghota, in un sepolcro nuovo posto in un orto; Giuseppe fu aiutato da qualcuno a schiodare il corpo e a trasferirlo nella tomba; la sepoltura dovette durare pochissimo tempo, in quanto il cadavere fu sepolto così com'era (le donne non entrarono neppure nel sepolcro, limitandosi ad osservare la scena dall'esterno). Giovanni non parla esplicitamente di lavaggio né di unzione del cadavere, anche se lascia credere che si usarono essenze profumate. Non parla neppure, al momento della sepoltura, di lenzuolo o sindone (syndon) o sudario (soudarión), perché questo particolare (il sudario) gli risulterà molto importante soltanto nel momento in cui verrà scoperta la tomba vuota (20,7).

Se Giovanni ha usato la parola “othonia” (che è un plurale) per indicare i due legacci che tenevano unito il lenzuolo al corpo di Gesù, allora la parola “sudario” è un sinonimo di “sindone”. Se invece la parola “sudario” è stata messa (bisogna dire artatamente) per indicare quella specie di asciugamano o di piccolo telo che si metteva in faccia per coprire soltanto il volto (così com'è nel racconto della falsa resurrezione di Lazzaro), allora “othonia” vuol dire qualcosa di più di “legacci”: può anche voler dire “fasce”, quelle che gli egizi usavano per avvolgere l'intero corpo, o quelle che si possono constatare nel racconto di Lazzaro (il quale, legato come un neonato o una mummia, vien fatto uscire da solo dal sepolcro!).27

Alcuni esegeti sostengono che “othonia” può anche voler dire “teli funerari” (ivi inclusi un lenzuolo). Ma in entrambi i casi c'è sempre qualcosa che non quadra: infatti, nel primo caso l'uso del termine “sudario” al posto di “sindone” è improprio (i Sinottici parlano chiaramente di “lenzuolo” e il Nuovo Testamento, quando usa la parola “sudario”, intende sempre qualcosa di molto più piccolo di quel lenzuolo lungo 441 cm e largo 111 cm28); e nel secondo caso l'uso del termine “othonia” per indicare delle fasce avvolgenti l'intero corpo, indica che l'autore non sapesse affatto come gli ebrei seppellivano i loro morti, nonostante dica che la sepoltura fu “secondo le loro usanze”. In entrambi i casi si è voluta far sparire la Sindone.29

Chi pensa che col termine “othonia” vada inteso, oltre ai legacci per tenerlo unito, anche il lungo lenzuolo, e che con “sudario” vada intesa la mentoniera, non tiene conto che in Giovanni le “othonia” furono trovate per terra e il “sudario” piegato e riposto da una parte. Ora, è evidente che se il “sudario” ha la forma di un fazzoletto o di un piccolo asciugamano o telo, l'uomo della Sindone di Torino non è Gesù Cristo.

Si ha insomma l'impressione che la parola “sudario” sia stata messa dai manipolatori del IV vangelo proprio per negare la presenza della Sindone, che, alla fine del I secolo, doveva già essere diventata un reperto ingombrante. Il fatto che in quel vangelo si parli di “othonia” come se fossero delle fasce avvolgenti tutto il corpo di Gesù, che sarebbe stato lavato e profumato con gli unguenti portati da Nicodemo, e che la sua salma sarebbe stata trattata come quella di Lazzaro, descritta nello stesso vangelo in un miracolo che non è mai avvenuto, e che quindi il sudario sarebbe stato una specie di fazzoletto messo sul volto di Gesù, come facevano i Romani quando nelle terme si asciugavano il sudore che imperlava il viso – tutto ciò lascia pensare che verso la fine del I sec. il cristianesimo petro-paolino avesse ben chiara l'idea che se i discepoli di Gesù, per spiegare l'idea di resurrezione, si fossero limitati a esibire la Sindone come unica prova, non avrebbero potuto costruire alcuna religione. Quindi, piuttosto che fare riferimento all'immagine della Sindone, era meglio negare che fosse mai esistito un lenzuolo con un'impronta “achiropita”, cioè “non fatta da mano d'uomo”.

Il IV vangelo, che probabilmente, nella sua versione originaria, contestava i Sinottici riguardo alla tesi petrina della resurrezione, nella sua versione definitiva si trova a contestarli anche in ciò che di vero dicono, e cioè che Gesù fu avvolto in un lenzuolo e che la sepoltura fu affrettata, tant'è che le donne avrebbero dovuto completarla una volta passato il sabato.

Al v. 42 Giovanni dice esplicitamente che si scelse la tomba disponibile più vicina al luogo della crocifissione; e lascia credere che l'inumazione sia stata affrettata in quanto ormai era sabato (Parasceve), per cui non c'era più tempo per procedere a qualcosa di regolare. La fretta che il fariseo Giuseppe impose all'inumazione probabilmente dipese dal rischio ch'egli correva d'essere accusato di violare le regole giudaiche circa il contatto di cadaveri in giorni proibiti.

Tuttavia questa mancata unzione risulterà inaccettabile alla comunità primitiva, la quale cercherà di rimediare alla pusillanimità di Giuseppe specificando, nelle versioni di Marco e Luca, che le donne, nei pressi nel sepolcro, avevano assistito alla frettolosa sepoltura con l'intenzione di ungere il cadavere il giorno dopo (che poi i giorni diventeranno tre, in quanto si dirà che le donne si recarono al sepolcro la domenica mattina!).

Invece i manipolatori del quarto vangelo, accorgendosi che le due donne, nella versione giovannea, non si recarono affatto al sepolcro per ungere il cadavere (né avrebbero potuto farlo, essendo appunto “donne”, mentre Gesù era un “uomo”), si sono preoccupati d'inserire i vv. 39 e 40 in cui risultava che durante le onoranze funebri erano stati rispettati tutti i crismi ebraici: il che però risulta smentito proprio dalla Sindone!

Quindi da un lato Marco e Luca lasciano capire che nel sepolcro nessuno ebbe il coraggio di compiere una regolare sepoltura, in quanto “già splendevano le luci del sabato” (e quel sabato era per giunta “santo”, “pasquale”), dall'altro cercano di rimediare maldestramente a questa debolezza mostrando che le donne si recarono al sepolcro il giorno dopo il sabato, avendo in mano profumi e unguenti. Solo che, per ironia della sorte, sono stati costretti ad aggiungere, per dare un minimo di coerenza al testo, che le donne mirofore non avevano la forza necessaria per far rotolare la pietra e che, pur avendo chiara questa consapevolezza, esse decisero ugualmente di recarsi al sepolcro... che poi per fortuna trovarono aperto e vuoto!

In particolare Luca doveva aver provato qualche difficoltà ad accettare integralmente la tesi di Mc 16,1 s., secondo cui le donne che avevano osservato dove era stato sepolto Gesù, l'avevano fatto con l'intenzione di imbalsamarlo, alla maniera ebraica, “il giorno dopo il sabato”.

Luca infatti, essendo di origine pagana, doveva essersi chiesto il motivo di tutti quegli scrupoli al momento della sepoltura, visto e considerato che il Cristo aveva sempre violato il sabato. Per cercare di risolvere questo problema, egli, nella sua ignoranza del costume ebraico relativo all'inumazione, è caduto in una contraddizione non meno insostenibile di quella di Mc 16,1, che manda le donne a comprare gli aromi “al sorgere del sole”. Luca infatti afferma che le donne, visto il luogo ove Gesù era stato sepolto, “tornarono indietro a preparare aromi e oli profumati” (23,56). Le fa lavorare proprio nel giorno proibito (il venerdì sera, secondo il computo ebraico, è già sabato) e nella convinzione che aromi e oli profumati si possano preparare in un solo giorno! Inoltre, come Marco, sembra non sapere che le donne non ungevano i cadaveri maschili.

Qualcuno, di origine ebraica, successivamente aggiunse la precisazione che “il giorno di sabato esse osservarono il riposo secondo il comandamento” (Lc 23,56). Così addirittura s'induce il lettore a credere che le donne obbedirono al precetto del sabato non tanto per timore dei Giudei quanto per convinzione: loro che erano state seguaci del Cristo sin dall'inizio, per il quale il sabato non aveva più alcun vero significato!

Luca insomma aveva capito che per timore dei Giudei i pochi seguaci di Gesù rimasti sul Golghota non lavarono né unsero il suo corpo, e cercò, sulla scia di Marco, di giustificare tale atteggiamento mettendo in evidenza la buona volontà delle donne, anche a costo di farle compiere cose vietate e per giunta materialmente impossibili (non hanno il coraggio di lavare il cadavere di Gesù, però hanno il coraggio di preparare tutti gli aromi in un giorno proibito). Rendendosi cioè conto della difficoltà di far accettare al lettore una falsità come quella riportata nel vangelo di Marco, Luca cercò di condirla con motivazioni che toccassero i sentimenti. Le donne non imbalsamarono subito Gesù – questa è la sua tesi – non tanto perché era il giorno della Parasceve, quanto perché non avevano pronto il materiale necessario.

Viceversa lo sbrigativo Matteo, che conosceva bene le usanze ebraiche, non dice assolutamente nulla circa la presunta intenzione delle donne di imbalsamarlo, che peraltro non erano neppure titolate a farlo su un corpo maschile. Egli cioè doveva aver capito che la versione marciana non avrebbe avuto senso per almeno due ragioni: 1. in un paese caldo come la Giudea l'inumazione andava compiuta subito e non dopo tre giorni dal decesso (stando a Gv 11,39 bastavano quattro giorni di sepoltura perché il cadavere entrasse in decomposizione); 2. le donne non sarebbero riuscite a smuovere di un millimetro la pietra che occludeva l'accesso al sepolcro.

I suddetti “tre giorni” sono canonici per la Chiesa cristiana, in quanto s'era deciso, per motivi apologetici, di farlo risorgere non il giorno dopo della morte (che avvenne di venerdì, verso le quindici), ma finito il precetto festivo del sabato30, quindi al mattino presto del terzo giorno, che per i cristiani divenne la domenica (l'ottavo giorno, quello appunto della resurrezione, in sostituzione del settimo, quello del riposo dopo la creazione).

Tuttavia, pur evitando le ridicolaggini di Marco e Luca, Matteo ne inventa altre due ancora più grandi, una relativa al sospetto che i capi giudei avevano che i nazareni31, trafugando il cadavere del Cristo, potessero poi sostenere ch'era risorto, per cui avrebbero chiesto a Pilato delle guardie per vigilarlo di notte; l'altra relativa al momento stesso della resurrezione, in cui si fa accadere “un gran terremoto” con tanto di “angelo del Signore” che, con la propria spada, faceva rotolare la pietra per poi sedercisi sopra (28,2)!

Di rilievo invece resta il fatto che Luca (23,53), pur parlando espressamente di “lenzuolo” usato al momento della sepoltura, lo fa scomparire al momento in cui Pietro, da solo, entra nella tomba per verificare se davvero il corpo era stato trafugato (24,12). Per terra Pietro vide soltanto delle bende, quelle usate non per tenere stretta la Sindone ma per avvolgere un corpo nudo (quello tipico dei crocifissi, secondo l'usanza romana). Sono le stesse del IV vangelo, con la differenza che Luca non parla neppure di sudario! Per attestare l'interpretazione petrina della tomba vuota come resurrezione, la Sindone doveva sparire. Le othonia trovate da Pietro afflosciate per terra non erano destinate a essere conservate.

Che fine aveva fatto la Sindone ai tempi in cui Luca scriveva il vangelo? Qui è evidente che l'evangelista vuol sostenere la tesi petro-paolina secondo cui per giustificare l'idea di resurrezione non c'era bisogno di alcuna Sindone, la quale però nel vangelo di Giovanni risulta centrale per credere non tanto nella resurrezione (un'idea, questa, che implicava l'altra della “morte necessaria” e della parusia imminente), quanto in una misteriosa scomparsa del cadavere, cosa che non avrebbe dovuto essere usata per legittimare la rinuncia all'insurrezione armata. Si può quindi presumere che la Sindone sia stata conservata dall'apostolo Giovanni.

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8.1) Ipotetica ricostruzione dei fatti sulla sepoltura del Cristo

Gv 19,25: Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Maria di Màgdala. Probabilmente vi era anche Giovanni, poiché dimostra di conoscere bene l'ubicazione del sepolcro.

Gv 19,31: Era il giorno della Preparazione e i Giudei, perché i corpi non rimanessero in croce durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero portati via.

Gv 19,32-33: Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all'altro che era stato crocifisso insieme con lui. Venuti però da Gesù e vedendo ch'era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua.

Gv 19,38: Dopo questi fatti, Giuseppe d'Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù.

Mc 15,46: Egli allora, comprato un lenzuolo, calò Gesù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia.

Gv 19,41: Infatti, nel luogo dove era stato crocifisso vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto.

Mc 15,46: Poi Giuseppe fece rotolare un masso contro l'entrata del sepolcro.

Gv 19,42: Là dunque deposero Gesù, a motivo della Preparazione dei Giudei [vigilia di Pasqua], poiché quel sepolcro era vicino.

Gv 20,1: Nel giorno dopo il sabato [in realtà il giorno dopo], Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro.

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9) Scomparsa di Gesù

Marco
(16,1-8)


[1] Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù.

[2] Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole.

[3] Esse dicevano tra loro: “Chi ci rotolerà via il masso dall'ingresso del sepolcro?”.

[4] Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande.

[5] Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d'una veste bianca, ed ebbero paura.

[6] Ma egli disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano deposto.

[7] Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”.

[8] Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura.

Giovanni
(20,1-10)


[1] Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro.

[2] Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!”.

[3] Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo, e si recarono al sepolcro.

[4] Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.

[5] Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò.

[6] Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra,

[7] e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte.

[8] Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.

[9] Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti.

[10] I discepoli intanto se ne tornarono a casa.

Matteo
(28,1-15)


[1] Passato il sabato, all'alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l'altra Maria andarono a visitare il sepolcro.

[2] Ed ecco che vi fu un gran terremoto: un angelo del Signore, sceso dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa.

[3] Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la neve.

[4] Per lo spavento che ebbero di lui le guardie tremarono tramortite.

[5] Ma l'angelo disse alle donne: “Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso.

[6] Non è qui. è risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto.

[7] Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l'ho detto”.

[8] Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l'annunzio ai suoi discepoli.

[9] Ed ecco Gesù venne loro incontro dicendo: “Salute a voi”. Ed esse, avvicinatesi, gli presero i piedi e lo adorarono.

[10] Allora Gesù disse loro: “Non temete; andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno”.

[11] Mentre esse erano per via, alcuni della guardia giunsero in città e annunziarono ai sommi sacerdoti quanto era accaduto.

[12] Questi si riunirono allora con gli anziani e deliberarono di dare una buona somma di denaro ai soldati dicendo:

[13] “Dichiarate: i suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo.

[14] E se mai la cosa verrà all'orecchio del governatore noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni noia”.

[15] Quelli, preso il denaro, fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino ad oggi.

Luca
(24,1-12)


[1] Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato.

[2] Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro;

[3] ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù.

[4] Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti.

[5] Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?

[6] Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea,

[7] dicendo che bisognava che il Figlio dell'uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno”.

[8] Ed esse si ricordarono delle sue parole.

[9] E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri.

[10] Erano Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli.

[11] Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse.

[12] Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l'accaduto.

*

Chi sostiene che il racconto della tomba vuota di Cristo sia leggendario e che tale leggenda abbia generato la fede pasquale dei cristiani, non si rende conto che è esistita una censura proprio sull'interpretazione che Giovanni diede della tomba vuota e che non coincideva affatto con quella che ne diede Pietro.

Infatti, secondo Giovanni, che si basa sul reperto della Sindone (unico indizio di una misteriosa scomparsa del cadavere), l'esperienza della tomba vuota non poteva in alcun modo garantire, con sicurezza inconfutabile, che il Cristo fosse risorto, in quanto nessuno lo vide mai tornare in vita. Lo stesso Paolo, dicendo che se Cristo non fosse risorto sarebbe stata vana la sua fede (1Cor 15,14), ammetteva l'esistenza di un “se ipotetico”, la cui possibilità poteva essere superata solo dalla fede.

Sarebbe stato un lusso pensare a una inequivocabile testimonianza oculare. Quando nei vangeli e nelle lettere di Paolo vengono scritte frasi del genere: “Cristo apparve a Pietro” e poi agli apostoli e poi alla Maddalena e poi ad altri 500 discepoli e così via, si deve sempre intendere non una visione diretta del Cristo redivivo, ma semplicemente l'accettazione di una tesi: quella della resurrezione, che per la prima volta venne formulata da Pietro. Cristo non è mai “apparso” ma ad alcuni suoi discepoli è “parso” che...

Nel vangelo di Marco è sintomatica la frase con cui vengono accolte le donne che constatano la tomba vuota: “È risorto, non è qui” (16,6). Non viene detto il contrario: “Non è qui, è risorto”. La tesi della resurrezione non poteva essere creduta soltanto perché s'era trovata una tomba vuota, altrimenti si sarebbe anche potuto credere a quella del trafugamento del corpo o a quella della morte apparente, ma doveva essere creduta perché Cristo era “figlio di dio” (Marco lo dice, “con tono paolino”, sin dal primo versetto del suo vangelo) e, in quanto tale, egli doveva per forza morire, “secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio” (come dice Pietro in 1Pt 1,2 o in At 2,23), per riscattare i Giudei (poi Paolo dirà l'umanità) dai propri peccati. Pietro infatti darà alla classe sacerdotale la possibilità di pentirsi a condizione di riconoscere Gesù come messia.

È vero che nel racconto marciano il giovane seduto sulla tomba si limita a dire che il Cristo avrebbe preceduto gli apostoli in Galilea, ma proprio la citazione di questa regione implicava già il rifiuto di continuare la lotta politica in Giudea. Nel vangelo originario di Marco non vi è alcun racconto di resurrezione (il che la dice lunga sull'attendibilità dei racconti di questo genere), ma ciò non significa ch'essi non furono elaborati allo scopo di convincere il lettore che Gesù era risorto. Che poi Pietro s'attendesse in Galilea il ritorno immediato di un Cristo trionfante in groppa a un cavallo alato, affinché liberasse la Palestina dai Romani, o che avesse preferito ad un certo punto credere alle tesi paoline di una rinuncia definitiva alla liberazione politico-nazionale, ritardando sine die il momento della parusia, non fa molta differenza: in entrambi i casi egli aveva rinunciato al concetto di democrazia come governo del popolo, aveva rinunciato all'idea di proseguire l'azione del proprio leader, così come lui l'aveva impostata, cioè senza far dipendere l'insurrezione nazionale dall'iniziativa demagogica di qualche fantomatico dittatore.

Gli apostoli (di sicuro Pietro in primis) hanno diffuso la fede nella resurrezione di Cristo a partire dal momento in cui hanno creduto, sbagliando, che con le loro forze non avrebbero potuto continuare la lotta di liberazione della Palestina. Il fatto che Paolo non parli di “tomba vuota”, ma solo di “resurrezione”, stava appunto a indicare la sua ferma intenzione di rinunciare a qualunque battaglia rivoluzionaria; al massimo (esattamente come Pietro ed altri apostoli) egli fu disposto ad accettare l'idea di una “parusia imminente e trionfale” del messia redivivo, ma quanto più questa parusia tardava tanto più egli trasformava il suo Cristo in un redentore morale che avrebbe compiuto il suo giudizio universale soltanto alla fine dei tempi.

Alcuni esegeti sostengono che se Paolo avesse conosciuto il racconto della tomba vuota, l'avrebbe riportato nelle sue lettere, poiché esso poteva costituire un'ulteriore prova della resurrezione di Gesù. In realtà egli, che sicuramente attraverso Pietro, incontrato a Gerusalemme, venne a sapere di quel fatto, si rifiutò sempre di citarlo nelle sue lettere non solo – come già detto – perché irrilevante ai fini della nuova “fede cristiana”, ma anche perché ai suoi tempi erano ancora vivi i testimoni di quella esperienza, i quali non avrebbero potuto avvalorare senza problemi la tesi che il Cristo era necessariamente risorto soltanto perché il corpo era scomparso dalla tomba.

Paolo insomma si rendeva perfettamente conto che nell'idea di resurrezione si poteva credere soltanto per fede, soprattutto se ci si rivolgeva a un uditorio, come decise di fare lui, non residente in Palestina e il più delle volte neppure di origine ebraica, anche se egli, per un certo periodo, poté sostenere, al cospetto degli ebrei ellenisti (quelli della diaspora), la tesi petrina dell'imminente parusia del Cristo, proprio perché i primi discepoli nazareni avevano costatato che la tomba del Cristo era stata trovata inspiegabilmente vuota.

Non a caso Paolo fu il primo a parlare di Cristo come “figlio di dio”: cosa che la sola esperienza della tomba vuota non poteva certo autorizzare a fare. Gli ebrei non avevano alcuna idea di un dio-figlio di un dio-padre. In che senso andava intesa questa pretesa ed esclusiva “figliolanza divina"? Fino a quel momento col termine “figli di dio” s'era inteso, in maniera traslata o metaforica, l'intero popolo ebraico, e in tal senso esso andava considerato un equivalente del termine “figli di Abramo”. Oppure, al massimo, venivano considerati “figli di dio” i grandi profeti, quasi sempre assassinati o giustiziati. Ma di nessun uomo un ebreo si sarebbe mai sognato di dire ch'era “figlio di dio”, nel senso di avere caratteristiche non semplicemente “umane” ma “divine”. Sarebbe stato come bestemmiare, come fare professione di ateismo, come mettersi sullo stesso piano dei pagani. Anche quando si parlava di “resurrezione”, p.es. in riferimento al Battista reincarnato nel Cristo, la si intendeva sempre in senso figurato (Mc 6,14).

Certo, Paolo sfruttò l'idea petrina di resurrezione per svolgerla in direzione di un accentuato misticismo, che in fondo a molti apparve inevitabile, poiché sarebbe parso assurdo aspettarsi una parusia non trionfale, dimessa, da parte di un Cristo che non era morto di vecchiaia ma in croce. Il Cristo doveva per forza tornare per fare giustizia dei propri nemici: che volesse poi dimostrare ch'era più o meno un dio, sarebbe stato per gli ebrei-cristiani un problema secondario.

Anzi, ci si può chiedere, in tal senso, come detti ebrei si sarebbero comportati, nel caso si fosse davvero verificata la parusia e il Cristo avesse detto che non esisteva alcun dio (o Jahvè), e che l'unico vero dio era lui. Gli avrebbero creduto? Avrebbero accettato davvero la liberazione della Palestina dai Romani, da parte di uno che in sostanza diceva la stessa cosa degli imperatori che li dominavano? Non erano stati forse loro a prendere i sassi per lapidarlo quando diceva, nel vangelo di Giovanni (10,34), che non esisteva alcun dio e che tutti gli uomini sono dèi? E se Cristo pretendeva davvero, come appare nei vangeli, d'essere considerato come un “dio”, non hanno forse fatto bene gli ebrei a ostacolarlo in tutte le maniere?

Quello che qui non si riesce a capire è il motivo per cui in tutto il Nuovo Testamento manchi qualunque forma di autocritica da parte del movimento nazareno. È probabile che anche Giovanni abbia creduto in un imminente ritorno trionfale del Cristo: lo attesta il fatto che nei primissimi capitoli degli Atti egli predichi insieme a Pietro, ed è altresì probabile ch'egli, ad un certo punto, debba aver smesso di far dipendere da tale speranza l'esito della rivoluzione politico-nazionale; nel senso che le alternative, ad un certo punto, gli saranno sembrate ridursi soltanto a due: o il Cristo tornava subito, ponendo fine in maniera autorevole a una situazione insostenibile, o rischiava di non tornare più in tempo utile, e in questo secondo caso il movimento avrebbe fatto bene a basarsi soltanto sulle proprie forze. Di qui il rinnovato impegno rivoluzionario, che porterà, nel 44, alla morte di suo fratello Giacomo e successivamente Giovanni all'esilio nell'isola di Patmos, dove scriverà l'Apocalisse (68-69), in cui considera ancora imminente il ritorno di Cristo, ma in un contesto di disperazione apocalittica, come ultima spiaggia prima della definitiva rinuncia agli ideali rivoluzionari.

Ciò che più stupisce è che fino al 70 non si trovi minimamente un dibattito “cristiano” sulle conseguenze politiche del fallimento dell'insurrezione del Cristo. L'unica cosa che si evince dai testi che ci sono giunti è che se il Cristo “doveva morire”, la liberazione della Palestina non era più possibile, sicché i nazareni dovevano trasformarsi in seguaci di una nuova religione (una sorta di “eresia giudaica”, che in Paolo finiva addirittura con l'uscire definitivamente dal giudaismo).

Pietro infatti, finché rimase a Gerusalemme, non riuscirà mai a spiegarsi il motivo per cui Cristo, se veramente non desiderava liberare politicamente la Palestina, si fosse lasciato uccidere in quella maniera. Un leader politico, disposto ad accettare la crocifissione, pur potendola evitare in quanto dio (ciò che dimostra ridestandosi dalla morte), non avrebbe potuto non tornare in maniera trionfale. Anche Paolo la pensava uguale (basta leggersi la sua prima lettera ai Tessalonicesi) e, proprio di fronte a quell'inspiegabile ritardo, arriverà a formulare l'ipotesi della morte redentrice dell'umanità schiava del peccato originale.

Quel che manca nei testi cristiani è l'idea che l'accettazione della croce non andava considerata come una conseguenza della tesi della “morte necessaria”, ovvero che questa tesi non andava interpretata come una forma di dipendenza religiosa da una “volontà divina”. Se il Cristo avvertì come “necessaria” la propria morte, dovette esserlo per ragioni esclusivamente umane, di opportunità politica, pur nella tragica esperienza del tradimento, ima garanzia in extremis a favore del movimento nazareno, che infatti sino al momento del processo riuscì a rimanere integro, perfettamente in grado di proseguire la missione rivoluzionaria. La sconfitta del leader politico non andava vista come una sconfitta dei suoi ideali rivoluzionari, proprio perché essi non appartenevano soltanto a lui ma anche all'intero movimento; e in ogni caso con l'accettazione consapevole della morte, la sua grandezza umana non aveva bisogno d'essere interpretata religiosamente, come invece farà opportunisticamente Pietro subito dopo aver costatato la tomba vuota.

Sotto questo aspetto bisogna dire francamente che il cristianesimo ha trionfato sull'ebraismo non tanto per meriti propri, ma semplicemente perché l'imperialismo romano era stato in grado di distruggere in maniera devastante l'intera nazione palestinese. Chi pensa che il cristianesimo abbia trionfato perché più universalistico dell'ebraismo, cade in errore, perché se il Cristo poté opporsi all'interpretazione restrittiva del sabato, alle ossessionanti regole dietetiche o al culto prioritario presso il Tempio di Gerusalemme, significa che nella Palestina di allora esistevano già le condizioni culturali per affermare l'universalismo della condizione umana. Stupisce anzi che gli Atti degli apostoli rappresentino un passo indietro rispetto alle dinamiche dei vangeli, specie dopo la gestione petrina del movimento. Ma la cosa può essere spiegata considerando che il giudaismo religioso, con cui il galileo Pietro entrò a patti, rappresentava un elemento regressivo rispetto al movimento nazareno del Cristo.

Il giudaismo poteva essere rimproverato d'usare il nazionalismo in maniera settaria, esclusivista, in quanto considerava di molto inferiori le altre etnie e nazionalità, ma ne aveva ben donde, poiché esse non praticavano una legge avanzata come quella mosaica, non conoscevano l'unità tribale e popolare, sul piano etico erano generalmente lassisti, su quello religioso erano politeisti e, di fronte all'avanzare delle legioni romane, non avevano saputo opporre alcuna efficace resistenza.

Possiamo dunque dire con sicurezza che, col proprio universalismo, il cristianesimo abbia davvero dimostrato d'essere superiore all'ebraismo? Non ha forse dovuto rinunciare a un'istanza politica rivoluzionaria? Non ha forse dovuto accettare l'individualismo dei pagani, la loro etica strumentale, strettamente connessa all'edonismo e alla mercificazione, la loro scarsa propensione a vivere la politica in maniera democratica? Se la guerra giudaica contro Roma fosse stata vinta dalla Palestina, davvero il cristianesimo si sarebbe diffuso così tanto? Davvero l'idea di resurrezione avrebbe avuto così tanto successo? O non sarebbe forse rimasto una semplice eresia nell'ambito del giudaismo?

Tornando ai testi evangelici della scomparsa del corpo del messia, qui si può sottolineare che fu così forte la pretesa d'imporre la tesi petrina della “morte necessaria” (fatta debitamente anticipare dai tre annunci di Gesù in Mc 8,31; 9,12; 10,33) che tutti e quattro gli evangelisti sono stati costretti ad affermare che la scoperta della tomba vuota, cioè della “resurrezione”, avvenne non il giorno dopo la crocifissione bensì “il primo giorno della settimana”, che la Chiesa chiamò “domenica”, “giorno del dominus = signore o padrone”. E questo non tanto allo scopo di mostrare un'analogia con Giona, rimasto nella bocca della balena per un tempo identico (Mt 12,39), quanto piuttosto per marcare un netto distacco dalla principale festività ebraica.

Così facendo però Marco (16,9), a differenza di Matteo e Giovanni, che inviano le donne soltanto in visita, non s'accorse dell'incongruenza di mandare le mirofore intenzionate a ungere il cadavere non subito dopo la sua morte ma ben tre giorni dopo, quando già presentava i primi cenni di decomposizione (in quell'afosa Giudea). Luca le manda sì a profumare il corpo, ma evita di porle nell'imbarazzante situazione di dover smuovere un masso di pietra: probabilmente era convinto che non sarebbe stato così difficile farlo.32

La versione più assurda in tal senso è proprio quella di Marco, che è anche la più antica. Le “sue” donne non poterono fare una sepoltura regolare perché Giuseppe, devoto fariseo oltre che simpatizzante cristiano, mise loro molta fretta al fine di rispettare le regole previste per la parasceve (non solo non riuscirono a ungerlo ma neppure a lavarlo, ammesso e non concesso che le donne facessero tali cose a cadaveri maschili); non poterono quindi provvedere alla bisogna nel corso di tutto il sabato, non perché fosse festivo (loro erano cristiane doc, non “occulte” come Giuseppe, anche se Luca scrive che invece lo vollero rispettare), ma perché, secondo Pietro, doveva risorgere dopo tre giorni (Mc 8,31; 9,31; 10,34); quindi neppure poterono provvedere dopo il tramonto del sole di quel sabato (quando per gli ebrei è già il giorno dopo), poiché di notte non si fanno lavori del genere nelle tombe; quindi hanno dovuto aspettare il mattino presto del terzo giorno, quando anche in questo giorno restava irrisolto il problema del giorno precedente, e cioè chi le avrebbe aiutate a spostare quel pesante masso rotolante che ostruiva l'ingresso: forse Pietro e Giovanni, che se ne stavano nascosti in qualche abitazione di Gerusalemme, ancora completamente scioccati da quel ch'era successo il giorno prima (secondo i vangeli, ovviamente, due giorni prima)? O forse le avrebbe aiutate lo stesso Giuseppe d'Arimatea, che s'era già esposto troppo nei confronti dei suoi colleghi di partito, allorché era andato da Pilato a chiedere quel corpo onde evitare la sepoltura in una fossa comune?

Dunque cosa andavano a fare al sepolcro se tanto non sarebbero riuscite a compiere assolutamente nulla? Ci andarono semplicemente per dimostrare che s'erano vergognate di non aver insistito abbastanza con Giuseppe nel compiere una regolare inumazione, a dispetto delle regole giudaiche relative al sabato. Poi il caso ha voluto premiarle facendole trovare un sepolcro completamente vuoto.

Insomma per quale ragione i vangeli vogliono far credere che il Cristo risorse dopo tre giorni? Non sta scritto da nessuna parte dell'Antico Testamento che il messia sarebbe morto in croce e risorto il terzo giorno. Faceva parte tuttavia di una certa tradizione ebraica quello di considerare il “terzo giorno” come il giorno del “riscatto”, non solo in riferimento all'esempio di Giona (2,1) nel ventre della balena, ripreso da Mt 12,39 ss. e Lc 11,29 ss., ma anche sulla base di quello che aveva scritto Osea (6,1): “Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza”.

La questione del “terzo giorno”, già presente in 1Cor 15,3-4, viene ripetuta per ben tre volte nelle profezie fatte pronunciare dallo stesso Cristo nel primo vangelo (8,31; 9,31; 10,34). E, considerando che Marco scriveva per cristiani di origine romana, è impossibile non vedere, in questo, un'allusione alla domenica latina (dies solis), dedicata alla divinità del Sol Invictus, che poi con Costantino diverrà giorno festivo e che con Teodosio, nel 383, verrà appunto rinominata dies dominicus.

C'è infine un altro aspetto da considerare: la questione del “sudario”, di cui parla il testo di Gv 20,7. Questa parola appare solo un'altra volta nel suo vangelo, al momento del racconto di (presunta) resurrezione di Lazzaro: “Il morto uscì con i piedi e le mani avvolti in bende e il volto coperto da un sudario” (Gv 11,39), ch'era una specie di mentoniera.33

Ora, lasciamo perdere il fatto che nessun cadavere legato in quella maniera sarebbe mai potuto uscire da solo dal proprio sepolcro, qui ciò che interessa è cercare di capire il motivo per cui la parola “sudario” sia stata usata, parlando del corpo di Cristo, al posto della parola “sindone”.

In tutti i vangeli, incluso quello di Giovanni, si parla, in riferimento al momento della sepoltura, di “lenzuolo” o “Sindone”, in grado di avvolgere (frettolosamente) l'intero corpo. Perché ora parlare di “sudario”, cioè di fazzoletto che avvolge la sola faccia?

Qui le ipotesi interpretative sono due, considerando peraltro che se davvero la parola “sudario” fosse autentica e se la sepoltura fosse stata regolare, Giovanni non l'avrebbe mai usata, ritenendola superflua: o il copista ha sostituito la parola “Sindone” con la parola “sudario” per confermare l'interpolazione fatta nel testo giovanneo coi versetti 19,39-40, in cui si parla di regolare sepoltura (analoga a quella fatta per Lazzaro, che infatti non fu avvolto in un lenzuolo, ma bendato); oppure la parola “sudario” veniva a escludere la scomoda presenza della “Sindone”, unico indizio della inspiegabile scomparsa del cadavere. Non è però da escludere che le due parole, “Sindone” e “sudario”, siano state usate come equivalenti nel vangelo.

Peraltro alcuni sindonologi escludono, essendo stata quella una sepoltura affrettata, da completarsi successivamente, che sia stata messa una mentoniera: l'altra ragione è che il mento toccava quasi lo sterno, a causa della posizione molto difficoltosa dell'impalamento, la quale posizione rimase poi inalterata, in quanto cadavericamente rigida, in varie parti del corpo, una volta deposto nel sepolcro.

Alcuni sindonologi han creduto d'intravedere nelle due strisce scure verticali attorno al volto e in una orizzontale sotto il mento (che hanno impedito il completo sviluppo dell'impronta in quel punto) alcuni caratteri di scrittura greco-latini (che riportano le parole Joshua e Nazarenos). Come si siano formati è impossibile dirlo con sicurezza: si fa riferimento al titulus crucis, che il Cristo portava al collo durante il tragitto verso il calvario e che poi venne affisso alla trave, lunga 3,5-4 metri al massimo. Ma quelle strisce nere potrebbero essere state causate semplicemente dai capelli e dalla barba, come una sorta di ombra. I corpi crocifissi sono come sospesi nel vuoto: per la forza della gravità, la testa tende a protendersi in avanti e il mento quasi a toccare il torace. Poi, con la rigidità cadaverica, è difficile che il defunto resti, in quella posizione, con la bocca aperta.

Altra cosa poco chiara è il significato delle due monetine che si pensa d'aver individuato sopra le palpebre. Se si accetta l'idea della frettolosità della sepoltura, che implicava una rivisitazione del cadavere per completarla, passato il sabato, non avrebbe avuto molto senso mettergli due monetine sugli occhi, come facevano nel mondo pagano per permettere al defunto di giungere all'Ade pagando l'obolo a Caronte. Peraltro tali monetine, con la Sindone sopra, sarebbero facilmente scivolate dalle palpebre; e, in ogni caso, se davvero ci fossero state, non avrebbero dovuto restare impresse sul lenzuolo in forza della transmaterializzazione del cadavere, ma, al contrario, avrebbero dovuto svolgere, come le macchie di sangue, una funzione di schermo nei confronti dell'energia radiante.

Le monetine sono state usate da alcuni sindonologi per stabilire l'anno approssimativo della morte di Gesù (29-30 d.C.), ma, oltre al fatto ch'erano un'usanza assai poco frequente nel mondo ebraico del I sec. (sono totalmente ignote nel II sec.), esse, quando venivano usate, non avevano un valore cronologico; tanto meno poi dei necrofori giudei avrebbero posato sul volto di un loro connazionale delle monete in uso nel mondo pagano, giudicate impure per definizione.

Si è detto ch'esse avevano un valore probante dell'effettivo decesso, onde scongiurare la possibilità di una morte apparente. Ma nel caso in oggetto non vi era alcun dubbio che Gesù fosse davvero morto, avendo avuto il fianco destro del torace trafitto da una lancia (a forma di foglia allungata) che gli aveva perforato il cuore (quello era un modo sbrigativo non solo di finire il condannato ma anche di sincerarsi che fosse già morto, in sostituzione del crurifragium, e i militari conoscevano bene quel colpo, perché negli scontri a corpo a corpo il fianco destro non era protetto dallo scudo).

Alcuni pensano che le monete servissero per tenere chiusi gli occhi di chi, morendo, li lasciava aperti, ma in questo caso ne sarebbero state usate di ben altro spessore e peso. Altri ancora pensano che quello fu un modo per indicare chi era stato colpevole di quel delitto: l'imperatore Tiberio e il procuratore Pilato.

Insomma, anche prescindendo da tutte queste considerazioni scientifiche o pseudo-scientifiche, la Sindone resta comunque un reperto archeologico molto importante, in grado di contraddire apertamente i vangeli, i quali presentano non un Gesù politico ma un Cristo redentore, che se fosse stato tale non avrebbe certamente subìto tutto ciò che appare in quel lenzuolo. È forse l'unica fonte di tutto il Nuovo Testamento che possa pretendere una qualche autenticità, per quanto sia stata oggetto di molteplici mistificazioni, che perdurano a distanza di duemila anni.

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9.1) Addendum

Sulla questione della resurrezione avvenuta il “terzo giorno” bisogna spendere altre parole. Tutti i vangeli sostengono che la tomba fu trovata vuota “il giorno dopo il sabato”: le differenze stanno soltanto nei nomi delle donne che fecero la scoperta.

Gesù era morto di venerdì pomeriggio; poi lo seppelliscono in tutta fretta perché, secondo il modo ebraico di contare le ore, al calar del sole stava sopraggiungendo il sabato, quello pasquale, in cui certamente i cadaveri non potevano essere toccati.

Se Maria aveva fretta di far visita al sepolcro, non aveva bisogno di far passare tutto il sabato e andarci nel giorno successivo, che per noi è la domenica. Sarebbe stato sufficiente farlo il sabato pomeriggio, che per gli ebrei era già il giorno dopo, quindi non più vietato.

In realtà lei aveva intenzione di trasgredire il precetto del sabato, per cui si può presumere che andò a far visita al sepolcro il mattino dopo del giorno in cui Gesù morì. E fece questo – si può facilmente presumere – dopo aver passato una nottata in bianco, in cui era impossibile capacitarsi di un finale così tragico.

Quindi il corpo è rimasto nella tomba solo poche ore: al massimo una decina. I tre giorni sono stati inventati perché hanno un valore simbolico: si ritrovano nel sacrificio di Isacco, in Osea 6,2 (“Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza”.); in Giona 2,1 (che restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti); in Esodo 19,16 (quando Mosè invita il suo popolo al terzo giorno a incontrare Jahvè sul Sinai), nel racconto delle nozze di Cana, e così via.

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10) I discepoli politici di Emmaus

Lc 24,13-35

[13] Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus,

[14] e conversavano di tutto quello che era accaduto.

[15] Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro.

[16] Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo.

[17] Ed egli disse loro: “Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?”. Si fermarono, col volto triste;

[18] uno di loro, di nome Cleopa, gli disse: “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?”.

[19] Domandò: “Che cosa?”. Gli risposero: “Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo;

[20] come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso.

[21] Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute.

[22] Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro

[23] e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.

[24] Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto”.

[25] Ed egli disse loro: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti!

[26] Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”.

[27] E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

[28] Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano.

[29] Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. Egli entrò per rimanere con loro.

[30] Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro.

[31] Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista.

[32] Ed essi si dissero l'un l'altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”.

[33] E partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro,

[34] i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”.

[35] Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

*

Due discepoli del Cristo, dopo la crocifissione, da Gerusalemme se ne tornano a Emmaus, lo stesso giorno dell'improvvisa scomparsa del cadavere. Dove sia questa località è impossibile stabilirlo con precisione; se è vera l'ipotesi ch'essa coincida con la colonia fatta costruire da Vespasiano per i suoi militari, dopo la distruzione di Gerusalemme del 70, si può anche accettare ch'essa sia la stessa attestata già nel I libro dei Maccabei. Sicché il suo nome parrebbe qui simbolico di una provenienza giudaica militante, combattiva, e nel contempo di una resa politica della nuova comunità cristiana.

I due discepoli infatti appaiono delusi per come sono andate le cose, in quanto volevano una liberazione nazionale e ora non riconoscono “Gesù risorto” (cioè l'idea petrina della resurrezione), poiché i loro occhi – come dice il redattore, con fare apologetico – erano “accecati” (v. 16). Andati a Gerusalemme per fare la rivoluzione, se ne tornavano a Emmaus politicamente frustrati, depressi, avviliti.

Luca afferma chiaramente che i due discepoli attendevano un “messia politico” (v. 21), senza però specificare da quale oppressore essi attendessero la liberazione. È vero che non usa esplicitamente la parola “messia”, limitandosi a usare il termine “profeta” (v. 19), ma è anche vero che se per un pagano il significato di questo termine restava abbastanza generico, più filosofico-religioso che politico, per un ebreo aveva un significato prevalentemente politico sin dalla grande epopea dei profeti veterotestamentari. Tant'è che i due, pur parlando di “profeta potente in opere e in parole” (v. 19), evitano di fare riferimento ai tanti e cosiddetti “miracoli” descritti nei vangeli.

Non dobbiamo dimenticare che Luca è di origine ellenica e che vuole dimostrare che gli ebrei hanno perduto qualunque primato, avendo condannato a morte il Cristo; e per “ebrei”, secondo lui, non vanno intesi solo la casta sacerdotale, i sadducei e i farisei, ma tutto il “popolo” (v. 20). Israele come nazione è responsabile della morte di Gesù, e con questa morte essa ha reso inevitabile la rinuncia definitiva a qualunque istanza politica rivoluzionaria, salvo l'affermazione della divinità del Cristo, che essendo allora in contrapposizione a quella imperiale, rivestiva comunque un carattere politico.

Luca conferma la tesi di Marco sulla non-colpevolezza diretta di Pilato e la tesi petrina della “morte necessaria” (v. 26), rimarcando in maniera netta che la sconfitta di Israele va addebitata a un'errata istanza di liberazione, quella politico-nazionale. Come il vangelo di Marco riflette le idee di Pietro, così il suo quelle di Paolo.

I due discepoli di Emmaus sanno che la tomba è stata trovata vuota, ma non possono credere all'idea di resurrezione, in quanto il Cristo, secondo loro, non è stato più rivisto. Né credono ai racconti visionari delle donne. Essi si considerano facenti parte di un gruppo politico che aveva aderito al messaggio di Gesù e non è da escludere che questo brano abbia qui voluto riportare la decisione di quel gruppo di aderire alla tesi petrina riportata al v. 26.

Un gruppo chiaramente giudaico, in quanto mostra qui d'aver bisogno, per credere, di una reinterpretazione (inevitabilmente tendenziosa) di alcuni passi delle Scritture, la cui ambiguità poteva essere usata per giustificare la tesi della “morte necessaria”. Questa operazione, compiuta per la prima volta da Pietro, viene qui attribuita, originariamente, allo stesso Cristo.

Per fortuna Luca ci risparmia l'esplicitazione di tale operazione esegetica, rimandandola estesamente alla stesura degli Atti. Resta però l'illogicità dei versetti 25-27, ove vengono rimproverati i due discepoli che, nel giorno stesso della scoperta della tomba vuota, non avevano saputo leggere i passi dell'Antico Testamento che potevano essere interpretati a favore della tesi della “morte necessaria”.

Se davvero il Cristo, per assurdo, pensava di “dover morire” secondo indicazioni reperibili nel Vecchio Testamento, avrebbe dovuto rimproverarli di non aver capito non le Scritture bensì le interpretazioni che lui stesso aveva già dato da vivo. Ma nei tre annunci della passione, che Luca, sulla scia di Marco, s'inventa, al fine di giustificare la tesi della “morte necessaria”, non vi è alcuna esegesi compiuta dal Cristo, anche perché su quell'argomento i discepoli “avevano paura a rivolgergli domande” (9,22.44 ss.; 18,31 ss.) – e qui si potrebbe aggiungere che i Sinottici fanno passare il messia per un folle suicida disposto ad essere seguito ciecamente da altri folli come lui.

A dir il vero le interpretazioni distorte delle Scritture appaiono per la prima volta solo negli Atti degli apostoli, ove Pietro agisce nei panni, a lui inconsueti, di un rabbino ferrato in materia di esegesi, in grado di dare versioni opposte a quelle ufficiali.

Luca, nel v. 12, precedente a questa pericope, dal sapore di parabola, aveva categoricamente rifiutato di sostenere che la Sindone, scoperta nella tomba vuota, avesse giocato un ruolo di qualsivoglia importanza nella formulazione petrina della tesi della “morte necessaria”. Piuttosto che sostenere la tesi giovannea, secondo cui quel reperto era l'unica prova della scomparsa misteriosa del cadavere, Luca nega addirittura la presenza del lenzuolo all'interno della tomba, pur avendolo citato in 23,53, in occasione della sepoltura, e si limita a parlare di “bende per terra” (24,12), vedendo le quali Pietro (che al sepolcro, guarda caso, si trova senza Giovanni) non arriva in un primo momento a “credere” ma soltanto a restare “stupito”.

Infatti per credere nella resurrezione né quelle bende né quel lenzuolo avrebbero potuto servire a qualcosa. Pietro attribuirà solo a se stesso la tesi della “morte necessaria” e quindi quella della “resurrezione”. È anzi probabile che nel momento in cui Luca scrisse il proprio vangelo, la Sindone fosse già scomparsa o comunque fosse custodita dal solo Giovanni, uscito dalla comunità petrina, come attesta la sua progressiva eclissi nella prima parte degli Atti.

Sotto questo aspetto il racconto di Emmaus è perfettamente in linea con quello precedente della scoperta della tomba vuota, poiché i due discepoli hanno a che fare con un Cristo redivivo che fa esplicito riferimento all'esigenza di reinterpretare le Scritture secondo la versione petrina, antitetica non solo a quella giudaica ma anche a quella giovannea.

Luca è più coerente di quel che non sembri, anche se un po' incautamente sostiene che i discepoli di Emmaus e quindi tutti i discepoli del Cristo si attendevano un Cristo politicamente liberatore. È dunque evidente che questa libertà gli è possibile soltanto perché la corrente giovannea non era semplicemente minoritaria nella comunità petrina ma del tutto assente, in quanto estromessa con autorità.

Al v. 30 Luca può così cimentarsi in un'operazione redazionalmente geniale. Egli aveva potuto parlare in tutta tranquillità di aspettative politiche da parte dei discepoli, proprio perché ora può parlare esplicitamente di un Cristo religioso, sacerdotale, lontanissimo dalla realtà, in grado addirittura di giustificare la tesi petrina (che qui ormai è diventata paolina) con l'istituzione dell'eucaristia. La distanza tra politica e religione è enorme e non più ricomponibile.

Luca ha fatto un passo avanti, quello di Paolo, essendo un suo stretto discepolo. Qui si ha quasi l'impressione che l'autonomia della fede dei discepoli di Emmaus sia analoga a quella rivendicata da Paolo, che arrivò da solo alla conversione, pur sulla base dell'interpretazione petrina, che quand'era fariseo giudicava come grave eresia politica, una forma di destabilizzazione delle istituzioni giudaiche.

Infatti quando i due discepoli di Emmaus tornano a Gerusalemme per incontrarsi con gli Undici, questi dicono loro che il Cristo era apparso a Pietro. Luca quindi dà per scontato che la tesi petrina sia stata ad un certo punto prevalente e aggiunge anche, mentendo, ch'essa era stata condivisa dagli Undici.

I due di Emmaus riconoscono Gesù come “figlio di dio” solo dopo aver accettato la sacramentalizzazione della fede. Una cosa che, se fosse davvero accaduta, sarebbe stata storicamente assurda, in quanto non ha alcun senso dare una risposta sacramentale a un'istanza così fortemente caratterizzata in senso politico, per quanto frustata essa potesse essere. In mezzo avrebbe dovuto esserci il fallimento della guerra giudaica (avvenuta almeno trent'anni dopo l'esecuzione del Cristo) e la distruzione definitiva di Gerusalemme e la colonizzazione romana dell'intera nazione.

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11) Giovanni e i racconti di resurrezione

Gv 20

[1] Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro.

[2] Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!”.

[3] Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo, e si recarono al sepolcro.

[4] Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.

[5] Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò.

[6] Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra,

[7] e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte.

[8] Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.

[9] Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti.

[10] I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa.

[11] Maria invece stava all'esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro

[12] e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù.

[13] Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”.

[14] Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù.

[15] Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”.

[16] Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: Maestro!

[17] Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma vai dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”.

[18] Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva detto.

[19] La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”.

[20] Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.

[21] Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi”.

[22] Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo;

[23] a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”.

[24] Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù.

[25] Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”.

[26] Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”.

[27] Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”.

[28] Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”.

[29] Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno”.

[30] Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro.

[31] Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

[A]

Al capitolo 20 del vangelo di Giovanni si raccontano tre dei quattro episodi dedicati alla resurrezione di Gesù.

Il primo, quello della “tomba vuota” (20,1 ss.), è il più attendibile. L'autore non spiega il motivo per cui Maria (accompagnata forse da un'altra donna) si reca “di buon mattino, mentre era ancora buio” (v. 1) al sepolcro, sigillato da una grande pietra rotolante, che certo Maria, da sola (e neppure con un'altra donna), mai avrebbe potuto rimuovere.

Se Maria vi era andata per compiere l'imbalsamazione del cadavere (ciò che non si era voluto/potuto fare il giorno precedente, poiché era il sabato di Pasqua), certamente non vi era andata da sola, e altrettanto certamente lei e l'amica ignota avrebbero dovuto farsi aiutare da qualcuno per spostare il masso. Ma in questo caso, vien da chiedersi, gli apostoli avrebbero permesso una cosa del genere in loro assenza? E soprattutto l'avrebbe permesso Giuseppe d'Arimatea, visto che il sepolcro era di sua proprietà? Questo poi senza considerare che non erano le donne che inumavano i cadaveri maschili.

Giovanni, a differenza degli altri evangelisti, non dice affatto che Maria aveva con sé il materiale per la sepoltura ebraica, e non perché nel racconto precedente aveva già spiegato ch'essa era regolarmente avvenuta (il testo 19,39-40 è stato chiaramente aggiunto), quanto perché, molto probabilmente, Maria e la sua anonima compagna erano andate là per una semplice curiosità o per devozione, senza alcuna intenzione specifica, scegliendo un'ora particolare per non essere osservate, e non del “giorno dopo del sabato” ma del sabato stesso. Ciò che importa sapere infatti è, secondo Giovanni, non quello che le due donne volessero fare ma quello che hanno potuto constatare.

Il testo dice chiaramente che Maria di Magdala si accorse della scomparsa del cadavere e, senza credere in alcuna resurrezione, ma anzi pensando a un vero e proprio trafugamento del corpo, corse ad avvertire Pietro e il “discepolo che Gesù amava”, cioè Giovanni (v. 2). Probabilmente Maria era una delle poche discepole a conoscere il nascondiglio in cui i due si erano rifugiati durante quei giorni infausti per il movimento nazareno.

Pietro e Giovanni corsero subito verso il sepolcro per verificare le parole di Maria e, in effetti, poterono costatare due cose: il lenzuolo (o sudario o Sindone) che aveva avvolto il corpo di Gesù, era “piegato in un luogo a parte” (v. 7), mentre le bende o fasce che tenevano unito il lenzuolo erano sparse “per terra” (v. 6), come se queste, a differenza di quello, non dovessero essere conservate.

Costatarono queste due sole cose, ma – a detta di Giovanni – (che si presume sia all'origine di tale racconto) esse furono sufficienti per “credere” che il corpo di Gesù non era stato trasportato altrove. Giovanni infatti dice di se stesso, con una laconicità certo non molto eloquente e che i redattori cristiani poterono interpretare come faceva loro più comodo: “e vide e credette” (v. 8). Cioè in sostanza capì che per credere nella scomparsa misteriosa del cadavere, le prove che aveva riscontrato nel sepolcro erano sufficienti.

L'aggiunta del v. 9, messa in un secondo momento, vuol invece dimostrare il contrario, e cioè che le prove riscontrate non erano sufficienti per credere nella resurrezione. Questo versetto è stato messo proprio per contraddire quello precedente.

Circa la convinzione di Pietro, l'autore del racconto non dice che “credette” come Giovanni. Non dice nulla, e non dicendo nulla, egli lascia immaginare, indirettamente, che per Pietro quelle due prove non sarebbero state sufficienti per persuadere i seguaci del movimento nazareno, che il corpo di Gesù non era stato sottratto furtivamente da qualcuno, ma era misteriosamente scomparso.

Fu così che nacque il primo tradimento post-pasquale del vangelo di Gesù. Pietro, nel timore che il movimento, in quella situazione di sbandamento generale, si sgretolasse, escogitò la trovata della “resurrezione del corpo di Gesù”. La tomba era stata trovata vuota non in maniera inspiegabile, ma appunto perché Cristo era risorto. La prova più convincente della scomparsa del cadavere sarebbe diventata, col tempo, non tanto le bende per terra o la Sindone ripiegata, quanto il “fatto” che Gesù era risorto, così come le Scritture – recita il v. 9 interpolato – da tempo avevano previsto.

Rinunciando alla Sindone, per poter parlare di resurrezione, Pietro fu il primo responsabile della divinizzazione post mortem di Gesù, cioè fu colui che, non avendo avuto fiducia nella prosecuzione politico-nazionale, da parte del movimento nazareno, del vangelo di Gesù, pensò, in maniera opportunistica, d'inventare un nuovo vangelo, quello attendista della parusia trionfale imminente, che permetterà poi a Paolo di trasformare Gesù in una sorta di strumento redentivo nelle mani di Dio per il riscatto del genere umano, il quale, a causa dei propri peccati, non avrebbe potuto “salvarsi” con le opere della Legge.

In tal senso tutti i racconti di “apparizione” di Gesù sono una semplice conseguenza della tesi della “resurrezione”. Cristo non è risorto perché apparso dopo morto (questa sarebbe stata una prova inconfutabile della resurrezione), ma Cristo è riapparso appunto perché risorto. E, apparendo, non poteva non lasciare ai fedelissimi il suo ultimo messaggio, che, guarda caso, era di tipo religioso e non politico, o meglio, di tipo politico-conservatore e non politico-rivoluzionario.

Ecco perché la Chiesa teme che se la Sindone viene considerata come unica “prova” della “resurrezione” di Gesù, la Scrittura, su cui la fede si poggia, viene a perdere tutto il suo valore; senza poi considerare che quel lenzuolo non “dimostra” alcunché, in quanto, al massimo, “mostra” la strana scomparsa di un cadavere o la strana formazione della sua immagine. La fede – lo sappiamo – presume invece di credere in cose “certe”, in realtà “sicure”, proprio perché lo permette Dio, la cui volontà è interpretata dal clero.

La domanda cui bisognerebbe cercare di rispondere non è se sia possibile ottenere una prova inconfutabile che la Sindone di Torino è effettivamente il lenzuolo che ha avvolto Gesù, ma, al contrario, come mai non è possibile ottenere questa prova attraverso i vangeli. Se i vangeli non permettono di appurare questo, nulla ci impedisce di pensare che gli evangelisti mentano sapendo di mentire.

Di una cosa, infatti, dovremmo esser certi: la Sindone fu trovata in un luogo del sepolcro diverso da quello in cui furono trovati i legacci con cui la si tenne stretta attorno al corpo di Gesù. Quindi quello andava considerato come un reperto che il protagonista in oggetto voleva che si conservasse.

In definitiva, la tesi della resurrezione non sarebbe stata che una risposta teologica (mistica) alla rassegnazione vissuta sul piano politico. In Luca 24,12, ove Pietro è stupìto del fatto della tomba vuota e non è interessato alla Sindone, si ha nettamente l'impressione (anche leggendo il racconto dei discepoli di Emmaus) che gli apostoli (ovvero i leader principali) siano stati quasi costretti a inventarsi la tesi della resurrezione al fine di poter tenere unita la compagine cristiana, che evidentemente si stava sfaldando, forse in polemica con quegli stessi leader, che non avevano saputo impedire la crocifissione. “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”, viene detto in Lc 24,26.

Di rilievo comunque resta il fatto che Luca (23,53), pur parlando espressamente di “lenzuolo” usato per la sepoltura, lo fa scomparire al momento in cui Pietro, da solo, entra nella tomba per verificare se davvero il corpo era stato trafugato (24,12). Per terra Pietro vide soltanto delle bende, quelle usate per avvolgere il corpo nel lenzuolo.

È quindi evidente che l'evangelista voleva sostenere la tesi petro-paolina secondo cui per giustificare l'idea di resurrezione non c'era bisogno di alcuna Sindone, ovvero che andava rimossa la tesi giovannea secondo cui la Sindone era importante per credere non tanto nella resurrezione (un'idea, questa, che implicava l'altra della “morte necessaria”), quanto in una misteriosa scomparsa del cadavere (cosa che non avrebbe dovuto essere usata per legittimare la rinuncia all'insurrezione armata). Si può quindi presumere che la Sindone era stata conservata dallo stesso apostolo Giovanni.

L'unica cosa certa di questi racconti è che nessuno poté mai indicare il momento preciso in cui la tomba si svuotò del cadavere e tutti i racconti di apparizione post-mortem sono chiaramente inventati.

[B]

Nel racconto spurio dell'apparizione di Gesù risorto a Maria di Magdala (20,11 ss.), vi sono alcune contraddizioni che lo rendono del tutto inverosimile:

– Maria non ha fede nella resurrezione, eppure incontra e parla con “due angeli” (v. 12);

– nonostante la sua incredulità, incontra Gesù (v. 14);

– riconosce Gesù solo dopo che questi la chiama per “nome” (v. 16);

– Gesù le dice che non può essere trattenuto perché ancora non è salito al Padre (v. 17), e così via.

Il fatto che qui il mito abbia voluto porre “due angeli” sta appunto ad indicare che non esisteva prova alcuna della resurrezione di Gesù. Con questo racconto si è cercato di mescolare, ingenuamente, le carte in tavola, mirando a convincere il lettore che la storia di Gesù non finiva con la constatazione della tomba vuota.

La cosa più comica, anche se nel contesto appare drammatica, è che Maria sospetta che l'ortolano abbia prelevato il corpo dell'uomo più importante d'Israele (v. 15), senza che nessuno se ne sia accorto!

In sintesi, quale voleva essere il messaggio che l'autore di questa commovente favola voleva trasmettere? Il messaggio era quello della speranza per il credente comune: una speranza ovviamente slegata da un'interpretazione politico-rivoluzionaria del vangelo di Gesù.

Il Cristo risorto, infatti, non dice: “Io sono morto, ma il mio vangelo continua a vivere in voi. Proseguite il cammino che avevate intrapreso con me, quando era vivo”. Il Cristo non può dire questo appunto perché risorto, cioè “fatto risorgere”; ed è invece costretto a dire: “La mia speranza è Dio, non il regno di libertà e giustizia su questa terra. Dio è Padre mio e Padre vostro: questo è tutto ciò che vi posso lasciare come eredità ideale e spirituale”.

Maria qui rappresenta il simbolo del credente medio, popolare, che, mentre di fronte alla tomba vuota resta perplesso e non riesce a credere in alcuna resurrezione, avendo sempre visto Gesù come “uomo”, posta di fronte alla tesi di Pietro, secondo cui la tomba è vuota proprio perché Cristo non poteva non risorgere, inizia a credere nella divinità del Gesù della fede, che doveva morire per i peccati degli uomini e risorgere da morte, così come le Scritture avevano predetto (quelle stesse Scritture che, naturalmente, potevano anche essere interpretate nel senso dell'attesa messianica di un liberatore politico-nazionale).

Maria non deve preoccuparsi del modo come proseguire il messaggio di Gesù; è sufficiente che si limiti a credere nella sua resurrezione.

Ovviamente in questo racconto (che, per come è strutturato, vuole innestarsi in quello precedente) non risulta ancora chiaro che il Cristo è l'unico vero “Figlio di Dio”, secondo l'ideologia paolina, che porterà alle conseguenze più logiche quella petrina.

Il messaggio che il Cristo redivivo lancia ai suoi discepoli più fidati resta all'interno della teologia ebraica più ellenistica e universalistica: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (v. 17), cioè a dire: “Il significato della storia non sta sulla terra ma nei cieli. Il contenuto vero del mio vangelo non è di natura politica ma religiosa, non è di natura umana ma divina. E tutto questo, per la prima volta, è accessibile a chiunque”.

Il popolo credente, rappresentato da Maria Maddalena, si fida della voce autorevole di Pietro, che Giovanni non contesta (almeno nei vangeli) con la dovuta energia, lasciando che Pietro, alla testa della comunità di Gerusalemme, guidi quest'ultima verso una possibile intesa sia col mondo ebraico conservatore, sia col mondo romano oppressore.

Detto questo, non vogliamo affatto sostenere che la Maddalena si sia piegata volentieri alla tesi mistica di Pietro. È fuor di dubbio infatti che chi ha scritto questo testo (appartenente probabilmente ad ambienti monastici, in quanto avverso alla sessualità) sapeva almeno tre cose: ch'essa amava il Cristo (il che non implica che fosse ricambiata), ch'era una donna politicamente impegnata (in una posizione abbastanza rilevante nel movimento nazareno) e che aveva creduto alla tesi del trafugamento del cadavere e non a quella petrina della resurrezione del corpo.

Il motivo per cui essa non abbia risposto alla frase fatta dire dal Cristo: “Non mi toccare, perché devo ancora salire al Padre” (Gv 20,17), con una frase più sensata, del tipo: “Voglio toccarti proprio perché ancora non sei salito al Padre”, non è di facile comprensione.

Si può pensare che con quella frase di Gesù i redattori abbiano voluto dire che se la Maddalena voleva continuare ad “amare” Gesù doveva accettare l'idea di resurrezione, altrimenti sarebbe stata espulsa dal movimento, e il fatto ch'essa non venga citata neanche una volta negli Atti degli apostoli può far pensare che, come l'apostolo Giovanni, essa non si piegò al misticismo petro-paolino: di qui probabilmente l'idea di farla passare per una poco di buono.

Essa, in altre parole, sembra rappresentare, nel quarto vangelo, l'altra faccia (quella femminile) dell'opposizione a Pietro (la prima e principale opposizione fu quella dell'apostolo Giovanni, anche se nel testo viene indicata quella di Tommaso). Entrambi, Maria e Tommaso, hanno bisogno di toccare con mano prima di credere a un'idea così inverosimile (e soprattutto indimostrabile) come quella della resurrezione. Probabilmente, di fronte alla strana sparizione del corpo, al massimo avranno rinunciato all'idea del trafugamento del cadavere, ma senza accettare quella per cui, essendo Gesù risorto, si doveva attendere passivamente il suo ritorno trionfale.

[C]

Più interessante è il nesso che lega il racconto di apparizione di Gesù a Maria con quello di apparizione di Gesù a Tommaso, uno dei Dodici (20,19 ss.).

Tommaso sembra qui rappresentare quella parte (minoritaria) di discepoli intellettuali e politicamente impegnati che rifiutò di credere nella tesi della resurrezione del Cristo. La facile credulità di Maria fa da contrasto con l'incredulità di un militante che avrebbe voluto continuare la strada intrapresa da Gesù.

La tradizione cristiana ha sempre ritenuto Tommaso uno scettico, un materialista, un uomo di poca fede. In realtà Tommaso dovette essere un uomo poco disposto a credere nelle favole e che forse scelse la strada dell'esilio (o della separazione dalla comunità di Gerusalemme) dopo aver visto che il popolo cristiano, qui rappresentato dal “simbolo-Maria”, aveva intenzione di ascoltare la voce autorevole, ma opportunista, di Pietro.

[D]

L'ultimo racconto è forse il più impressionante e il più difficile da capire (21,1 ss.). Qui infatti sembra evidente che all'origine degli eventi in cui maturò la versione mitologica del Cristo risorto vi furono due apostoli: Pietro e Giovanni.

Ma appare chiara anche un'altra cosa, che la versione fu inventata da Pietro e che Giovanni, al massimo, la accettò non per convinzione, ma solo per non rompere l'unità del movimento nazareno e solo per un tempo molto breve. Il fatto che per ben tre volte il “fantasma” di Gesù qui chieda a Pietro se veramente lo “ami” più di tutti gli altri, la dice lunga sull'effettiva fedeltà di Pietro al messaggio originario di Gesù.

In questo racconto, che sicuramente in parte è stato scritto da un Giovanni in età avanzata, sembra che questi voglia prendersi una sorta di “rivincita” su Pietro. Sembra cioè che Giovanni abbia voluto dire che Pietro, quand'era a capo del movimento nazareno, riuscì a determinare arbitrariamente l'oggetto in cui il movimento doveva credere: “Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi...” (v. 18).

Tuttavia, sembra dire Giovanni, la verità delle cose non è stata quella propagandata da Pietro (morte necessaria, resurrezione e parusia imminente), ma quella che lo stesso Giovanni ha tramandato e che a noi, però, è giunta piena di innumerevoli manomissioni. La “verità” di Pietro è stata facilmente strumentalizzata da altri (da Paolo anzitutto): “Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (v. 18).

Giovanni si preoccupò, scrivendo il vangelo, di dire come le cose andarono effettivamente: “Io voglio – fa dire a Gesù – ch'egli resti finché io venga” (v. 22). Purtroppo però la versione giovannea dei fatti dovette subire un vaglio molto rigoroso, tanto che ancora oggi il suo vangelo è considerato da molti esegeti come il più lontano dalla realtà del Gesù storico.

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12) La figura controversa della Maddalena

12.1) La Maddalena e le prime due eresie cristiane

Gv 20

Detta anche “Maddalena”, Maria di Magdala (che è una piccola cittadina sulla sponda occidentale del Lago di Tiberiade o Genezaret), insieme a un'altra donna non identificata nel vangelo di Giovanni (Mc 15,47 parla di Maria madre di Ioses), fu la prima a scoprire la tomba vuota del Cristo crocifisso, il mattino seguente quel tragico venerdì di Pasqua, mentre ancora era buio, quindi ancora di sabato, non di domenica, come invece dice il vangelo manipolato di Giovanni, che non vuole smentire i tre giorni canonici di cui parlano i Sinottici.34

Non erano andate lì per ungere il cadavere (ch'era stato avvolto in tutta fretta nella Sindone così com'era), poiché non sarebbero state in grado di far rotolare la pietra che ostruiva l'ingresso: forse però avrebbero voluto farlo nel corso della giornata, al calar del sole, quando il sabato fosse passato, ammesso e non concesso che le donne potessero fare questo su un corpo maschile.

In quel momento probabilmente le due donne si erano recate alla tomba solo per la disperazione d'aver visto infrangere i loro sogni di liberazione della Palestina. Erano affrante e forse, a questo dolore, la Maddalena poteva aggiungere anche quello d'aver nutrito delle aspettative personali nei confronti dell'uomo Gesù.

Fatto sta che quando videro l'uscio aperto, vi entrarono immediatamente e, accorgendosi ch'era vuoto, corsero dai due apostoli rimasti ancora in città: Pietro e Giovanni, a dir loro che qualcuno (o romano o giudeo collaborazionista) aveva trafugato il cadavere.

A loro volta i due corsero verso il sepolcro per verificare il racconto delle due donne, e in effetti poterono costatare che le bende che legavano il lenzuolo al cadavere erano sparse per terra, mentre il lenzuolo era stato piegato e riposto da una parte. Guardandolo venne loro un dubbio sull'ipotesi che il corpo fosse stato derubato: che senso avrebbe avuto trafugare un nudo cadavere, sporco di sangue, quando lo si poteva tranquillamente lasciare avvolto nella Sindone?

Poi sappiamo come le cose andarono a finire: Pietro preferì sostenere l'idea della resurrezione e quindi della morte necessaria, voluta apposta per dimostrare agli uomini che, vincendo la morte, Cristo permetteva agli uomini di sentirsi riconciliati con la divinità e quindi di credere in una soluzione definitiva dei loro problemi nell'aldilà. E, in ogni caso, se rivoluzione doveva esserci, questa poteva essere compiuta solo dal Cristo redivivo, che sicuramente l'avrebbe vinta, avendo già vinto la morte. Sicché non restava che attenderla passivamente.

Giovanni, pur avendo creduto nella misteriosa scomparsa del corpo, rifiutò questa interpretazione, continuando a sperare in un ritorno imminente del messia, previa dimostrazione politica, da parte dei nazareni, ch'essi ne sarebbero stati degni. Pertanto la rivoluzione andava fatta anche prima della parusia, proprio per agevolarla. E in ogni caso sarebbe stato un errore sostenere che la vittoria sulla morte andava considerata più importante della liberazione della Palestina. Se “resurrezione” c'era stata, andava considerata come un “fatto personale” del Cristo, non come un argomento da trattare pubblicamente.

Nei racconti post-pasquali del quarto vangelo ve n'è uno che riguarda l'interpretazione che la Maddalena diede della tomba vuota (20,11 ss.). Esso conferma la prima versione dei fatti che la donna diede ai due apostoli: il corpo era stato trafugato da qualcuno, probabilmente dai capi giudei.

Ciò è molto strano. Il racconto infatti è sicuramente posteriore alla stesura del vangelo e vi è stato inserito da mani esperte. Per quale ragione si volle far credere che la Maddalena continuava a sostenere la tesi del trafugamento del corpo?

La ragione in realtà è abbastanza semplice, benché nel testo appaia mistificata: con la sua tesi la Maddalena era convinta di fare un favore maggiore alla causa rivoluzionaria, che non sostenendo quella petrina relativa alla resurrezione. Infatti, se si fosse diffusa l'idea che i capi giudei non si erano soltanto accontentati di far giustiziare il messia dai Romani, ma ne avevano anche trafugato il cadavere di notte, mostrando così tutta la loro pochezza d'animo, ovvero l'incredibile paura che avevano persino di un cadavere, il discredito su di loro sarebbe stato assai più grande di quello che si sarebbe ottenuto dicendo che, nonostante le loro intenzioni di morte, il messia era ugualmente risorto e che quindi presto sarebbe tornato in maniera trionfale. Chi avrebbe creduto a una cosa così stravagante?

Appare quindi evidente che tra le posizioni della Maddalena e quelle di Pietro (analoghe, per certi aspetti, a quelle tra Pietro e Tommaso), i dissensi erano netti. La Maddalena è stata la prima eretica della comunità cristiana ed è probabile che ne sia stata anche espulsa.

Non si spiega altrimenti il motivo per cui la sua figura venga messa in così cattiva luce dai Sinottici, ove viene addirittura paragonata a una prostituta, a una super indemoniata (secondo Luca 8,2 era stata guarita da ben sette spiriti cattivi, o demoni, che le erano usciti dopo un esorcismo), e dove a volte la sua identità viene confusa con quella di altre donne (p.es. con una delle due sorelle di Lazzaro o con l'adultera salvata da Gesù dalla lapidazione, in quel racconto spurio di Gv 8,1-11. Si pensi che l'identificazione di Maria Maddalena con Maria di Betania o con la peccatrice di cui parla Lc 7,37 ss. è stata esplicitamente rigettata dalla Chiesa cattolica soltanto nel 1969, durante il concilio Vaticano II! E c'è stato anche chi, tra gli esegeti moderni, l'ha ritenuta moglie del Cristo: L. Gardner, p. es., sostiene che il racconto giovanneo delle nozze di Cana documenti il loro matrimonio!).

Nel quarto vangelo non vi è affatto questa acredine: Giovanni non afferma da nessuna parte che la Maddalena fu esorcizzata o che era stata una prostituta. Anzi, nel racconto in questione si mette in risalto una sua sensibilità molto profonda, una devozione assoluta alla causa rivoluzionaria del messia. Si ha addirittura l'impressione che Maria sia anche arrivata ad ammettere, sulla scia dello stesso Giovanni, l'ipotesi della misteriosa scomparsa del corpo di Gesù (anche perché, non essendosi il corpo mai ritrovato, la tesi del trafugamento perdeva col tempo sempre più vigore).

Se una tale ammissione vi è stata, essa certamente resta più in linea con le posizioni di Giovanni che non con quelle di Pietro e Paolo. Infatti, le parole del Cristo che indicano la sua intenzione di ritornare da dove era venuto, possono essere interpretate anche in un senso tutt'altro che “cristiano”, e cioè che il Cristo aveva fatto tutto quanto era possibile per realizzare una rivoluzione politica nell'ambito della democrazia; ora stava ai discepoli dimostrare di cosa fossero capaci.

Ad un certo punto Maria si sentì in dovere di affermare che, se anche si voleva credere nella resurrezione, sarebbe stato un errore attendere un ritorno imminente del messia. Se gli ideali di libertà e giustizia per cui si era lottato e si stava lottando erano gli stessi, del messia e del popolo d'Israele, allora bisognava dimostrarlo coi fatti, comportandosi esattamente come il Cristo aveva fatto, senza aspettarne nostalgicamente o illusoriamente il ritorno.

Tuttavia questo modo di ragionare, precedente lo scoppio della guerra giudaica, andava considerato “eretico” dall'ideologia petro-paolina, che oscillava tra due posizioni opposte: o il Cristo torna subito e trionfa dei suoi nemici, oppure torna alla fine dei tempi, per il giudizio universale. Il passaggio da una concezione all'altra della “resurrezione” è ben documentato dagli Atti degli apostoli, che iniziano parlando dell'"ascensione” del Cristo.

Mc 16,9 tradisce un astio particolarmente forte per Maria Maddalena, ricordando p.es. che, pur avendo essa parlato per prima di resurrezione, avendo “rivisto” il Cristo coi propri occhi, non vollero crederle, a motivo del fatto ch'essa era stata un tempo indemoniata. Non solo, ma in Marco l'idea di resurrezione viene fatta passare come una tesi interpretativa di discepoli di secondo rango (una sorta di superstizione consolatoria popolana), che i Dodici arrivano ad accettare solo dopo aver “rivisto”, loro stessi, il Cristo redivivo, cioè – detto laicamente – solo dopo aver capito ch'egli non sarebbe più tornato e che loro, da soli, non si sentivano in grado di proseguire l'idea della guerra antiromana.

Luca e Matteo si allineano a questa versione dei fatti; Luca anzi dirà che Pietro sarà il primo dei Dodici a meravigliarsi di quello che aveva visto nel sepolcro vuoto (24,12), solo che lo dirà omettendo volutamente due cose fondamentali: che alla tomba si era recato anche Giovanni e che insieme vi trovarono la Sindone ripiegata, cioè l'unica “prova” della “morte necessaria” predicata da Pietro (At 2,23 s.). Quando Luca scrive il suo vangelo la rottura tra i due apostoli s'era già da tempo consumata.

Tornando a Marco, dobbiamo dire ch'egli vuol fare credere che alla tesi della resurrezione Pietro fu costretto ad aderire per tenere unito il movimento, che altrimenti, di fronte alla morte del Cristo, si sarebbe sbandato: fu cioè una concessione che il leader intellettuale fece al popolo ignorante.

Essendo discepolo di Pietro, Marco ha bisogno di giustificare l'operato di chi ad un certo punto s'era reso conto, dopo la tragedia del 70, d'aver tradito il messaggio autentico del Cristo. Infatti, era stato proprio Pietro a sostenere per primo la tesi della morte necessaria e quindi della resurrezione del Cristo, facendo così di un fatto del tutto privato una questione politica, una questione che venne usata per indurre le masse a rinunciare all'idea dell'insurrezione armata, spingendole ad attendere passivamente il ritorno trionfale del Cristo e, successivamente (quando non vi fu alcuna parusia), a credere che il compito del messia non era stato quello di tentare la liberazione della Palestina, bensì quello di vincere la morte.

Anche Paolo lo dice: la tesi della resurrezione fu elaborata anzitutto da Pietro (cfr anche Lc 24,34), poi venne condivisa dai Dodici e da molti del movimento nazareno (in 500), poi da Giacomo, poi da tutti gli apostoli (quando questo concetto non si riferiva più soltanto ai Dodici ma a chiunque predicasse il nuovo vangelo di Pietro), e infine dallo stesso Paolo, ultimo degli apostoli in quanto ex-persecutore (1Cor 15,1-28). Paolo, in tutte le sue lettere, non cita mai una volta Maria Maddalena, che invece risultò essere la donna più importante tra quelle che seguirono Gesù come discepole: è il solo nome ad essere comune a tutte le liste di donne presenti nei vangeli. Secondo Gv 19,25 fu l'unica donna nei pressi della croce a non essere parente del messia.

Successivamente alcuni apocrifi (p. es. il Vangelo di Maria) si servirono del fatto che la Maddalena aveva beneficiato della prima apparizione del Cristo e che questi le aveva rivelato, prima che agli apostoli, alcune cose molto importanti circa la missione da proseguire dopo il suo ritorno al Padre. E in questo gli apocrifi mettono in risalto una certa rivalità tra Pietro (spalleggiato dal fratello Andrea) e la Maddalena. Cioè alcune comunità si servirono della Maddalena per contestare l'autoritarismo e il maschilismo della Chiesa cristiana. Ma questo è un altro discorso.

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12.2) Conoscere e riconoscere: la Maddalena e il presunto ortolano

Marco

(16,9-11)


[9] Or Gesù, essendo risuscitato la mattina del primo giorno della settimana, apparve prima a Maria Maddalena, dalla quale aveva scacciato sette demòni.

[10] Questa andò ad annunziarlo a coloro che erano stati con lui, i quali facevano cordoglio e piangevano.

[11] Essi, udito che egli viveva ed era stato visto da lei, non vollero credere.

Giovanni

(20,11-18)


[11] Maria, invece, se ne stava fuori vicino al sepolcro a piangere. Mentre piangeva, si chinò a guardare dentro il sepolcro,

[12] ed ecco, vide due angeli, vestiti di bianco, seduti uno a capo e l'altro ai piedi, lì dov'era stato il corpo di Gesù.

[13] Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Ella rispose loro: “Perché hanno tolto il mio Signore e non so dove l'abbiano deposto”.

[14] Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù.

[15] Gesù le disse: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Ella, pensando che fosse l'ortolano, gli disse: “Signore, se tu l'hai portato via, dimmi dove l'hai deposto, e io lo prenderò”.

[16] Gesù le disse: “Maria!”. Ella, voltatasi, gli disse in ebraico: “Rabbunì!” che vuol dire: “Maestro!”.

[17] Gesù le disse: “Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli, e di' loro: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro”.

[18] Maria Maddalena andò ad annunciare ai discepoli che aveva visto il Signore, e che egli le aveva detto queste cose.

*

“Conoscere” e “riconoscere” sono due concetti completamente diversi. Ne parlano i vangeli, in maniera ovviamente mistica o, se si preferisce, poetica, là dove la Maddalena reincontra il Cristo, scambiandolo per un ortolano. In particolare ne parla il quarto vangelo, dal cui brano, debitamente laicizzato, si possono ricavare profondi insegnamenti.

In genere il riconoscimento non è mai automatico. Quando si rivede una persona, dopo un certo periodo di tempo, si ha in mente uno schema, uno stereotipo, che va necessariamente ripensato. Eppure, se il riconoscimento avviene, qualcosa deve farlo accadere, qualcosa che in noi è inconscio e che deve venire alla luce. Il tempo che ci impiega a divenire conscio è tanto minore quanto maggiore era l'intensità con cui si era conosciuta la persona.

Ci si deve poter riconoscere pur nella mutevolezza delle forme, rese tali dal tempo trascorso, il quale però non può annullare la dynamis dell'incontro, la sua forza pregnante, il quid della persona e della sua capacità relazionale.

Tuttavia nel racconto il riconoscimento è possibile solo se l'altro vuol farsi riconoscere. Quindi è possibile che in mancanza di volontà personale il riconoscimento non possa avvenire. Cioè è possibile che uno si nasconda dietro determinate forme. Il riconoscimento è possibile solo se è reciproco, o comunque è possibile solo se c'è disponibilità a farsi riconoscere.

Oltre a questo va ovviamente aggiunto che non si riconosce qualcuno sulla base delle stesse motivazioni con cui si riconosce qualcun altro. Nessuno è in grado di spiegare il motivo per cui determinate caratteristiche ci portano a riconoscere più facilmente una persona conosciuta anni prima. Infatti queste caratteristiche possono anche perdersi col tempo, per quanto, rivedendo una determinata persona, noi la riconosciamo proprio per quelle. E il riconoscimento avviene tanto più facilmente quanto più quelle caratteristiche ci hanno lasciato un ricordo, un'emozione, uno stato d'animo positivo.

Come saranno andati i fatti riportati dai vangeli? Qui si può solo ipotizzare.35 La Maddalena amava il Cristo uomo e messia, lei è stata la prima ad accorgersi che la tomba era vuota, lei probabilmente ha dato la prima interpretazione simbolica della tomba (il Cristo deve restare “vivo” come ideale, per continuare il suo messaggio).

Se gli apostoli (Pietro in primis) fecero loro la versione della Maddalena, indubbiamente vi aggiunsero significati fantasiosi di tipo mistico (parusia, giudizio universale, figliolanza divina ecc.). Così almeno appare nei Sinottici. L'interpretazione della tomba vuota, data dalla Maddalena, diventò una sorta di teoria della sconfitta politica, da sublimarsi in chiave etico-religiosa.

Il fatto di non poter riconoscere nel proprio amato il crocifisso, scomparso dalla tomba, cioè il non voler ammettere un destino così crudele a carico del proprio ideale di vita, venne usato dalla comunità petro-paolina per mettere in pace un desiderio irrealizzato e considerato, ad un certo punto, irrealizzabile, un desiderio che era, nel caso della Maddalena, di tipo “personale” (quello di non riuscire ad essere pienamente corrisposta da lui) e insieme di tipo “politico” (quello di non riuscire a vedere la Palestina liberata dall'oppressore).

Nel racconto di Giovanni (20,11 ss.), quando il Cristo viene riconosciuto da Maria, il desiderio politico-personale è stato praticamente rimosso da una mano redazionale e, al suo posto, è subentrato un surrogato, un artificio, una sorta di consolazione mistica, astratta, tipicamente religiosa, a livello sia personale che politico.

Infatti, l'aspetto “personale” è indicato dall'appellativo “rabbunì” (“mio maestro”), con cui la Maddalena chiama confidenzialmente il Cristo; l'aspetto “politico”, in chiave teologica e quindi mistificata, è indicato dall'espressione “Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”, con cui i redattori del vangelo vogliono far credere che la morte in croce era “necessaria” affinché il Cristo potesse rivelare la sua vera identità, il vero scopo della sua missione, quello di sconfiggere non un nemico terreno, ma addirittura la morte.

L'esegesi cattolica vede tuttavia nella Maddalena l'incapacità di saper riconoscere il Cristo risorto, appunto perché la fede in questione è ancora primitiva, ingenua, poco profonda. Lei pensa ancora a una “liberazione” quando invece doveva pensare a una “redenzione”, e quindi pensa a un corpo “trafugato”, quando invece avrebbe dovuto credere in un corpo “risorto”.

L'espressione “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre” (Gv 20,17), apparentemente non ha molto senso, in quanto lei avrebbe voluto “trattenerlo”, proprio per non farlo “salire”.36 È come se il “noli me tangere” stia in una via di mezzo tra una forma di mitologia spontanea, primitiva (“il Cristo, benché crocifisso, vive ancora tra noi”) e una forma teologica, intellettualistica, che nega le speranze della prima, facendole passare per delle illusioni (“il Cristo non può essere tra noi, perché deve salire al Padre”). Cioè se il messia doveva morire per poi risorgere e ascendere in cielo, è inutile pensare che esista una missione “politica” da compiere.37

La cosa curiosa è che dal testo di Giovanni si ha la netta impressione che solo Maria Maddalena avrebbe avuto un diritto speciale per “trattenere” Gesù: un diritto legato non solo a questioni politichema anche e soprattutto a questioni umane (personali). Solo che qui il Cristo le fa capire che le questioni politiche o pubbliche sono più importanti di quelle umane.

Ma in che modo glielo fa capire? È qui che interviene la redazione. La politica non è più quella di prima, cioè di liberazione, ma è diventata teologia-politica, cioè di rassegnazione, di redenzione morale. La nuova politica è credere nell'idea di resurrezione.

In tal senso il racconto di Giovanni rende sufficientemente giustizia alla Maddalena, in quanto la prima idea che dovette venire in mente a lei e a chiunque constatò la tomba vuota non fu affatto quella della “resurrezione” ma semplicemente quella del “trafugamento” o comunque quella della “scomparsa inspiegabile”. Che fu poi la stessa idea di Giovanni, il quale però finì, forse, coll'accettare, seppure obtorto collo, quella opportunista di Pietro relativa alla “morte necessaria” e quindi alla “resurrezione”, almeno in un primo momento.

Viceversa in Marco 16,11 ss., che sintetizza gli eventi troppo velocemente, sono gli apostoli a non credere alla tesi di Maria relativa alla resurrezione, ma proprio perché ancora non sapevano come utilizzarla in chiave teologico-politica. Essi cioè pensano che la tesi possa essere utilizzata solo in chiave mitologica, per la gente ignorante e superstiziosa. Neppure Gv 20,18 assicura che gli apostoli credettero alla tesi di Maria (cfr anche Lc 24,11).

In realtà, stando al racconto di Giovanni, non è da escludere l'ipotesi che la Maddalena fosse una di quelle che, almeno in un primo momento, rifiutò l'idea petrina della “resurrezione” e che, come Tommaso, ebbe bisogno di più tempo per credervi, nel senso che volle “trattenere” per più tempo l'idea che del Cristo s'era fatta, e forse per questo i redattori hanno potuto infierire su di lei facendola passare per una ex-indemoniata. D'altronde tutti i racconti evangelici sono stati scritti per convincere gli scettici, i dubbiosi, coloro che avrebbero voluto continuare a lottare per la liberazione della Palestina.

Ci si chiede se in questo senso vadano interpretati i passi in cui il redattore indica il duplice “voltarsi” di Maria, che non è azione semplicemente fisica, ma religiosa, il segno di un mutamento di mentalità, che forse può aver caratterizzato una donna che aveva smesso di lottare.38

Insomma gli esegeti dovrebbero verificare l'ipotesi di una trasformazione progressiva della tesi mitologica di Maria, secondo cui il messia non poteva morire, nel senso che le sue idee, il suo spirito continuavano ad essere fonte di motivazioni per continuare la battaglia politica per la liberazione nazionale (da notare che Mc 16,10 scrive che i discepoli erano “in lutto e in pianto”). Una trasformazione che ha portato ad elaborare la tesi teologica di Pietro (cfr At 1,16 ss.) secondo cui invece il Cristo doveva morire per poi risorgere, idea che poi Paolo, rinunciando all'idea di “imminente parusia”, porterà alle conseguenze più radicali, togliendo definitivamente a Israele qualunque primato storico.

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12.3) Maddalena ex-prostituta o ex-indemoniata?

Forse l'idea che venne ai manipolatori del quarto vangelo di far provare alla Maddalena l'esigenza di “toccare” il Cristo redivivo, nacque dal fatto che nei Sinottici questa sua discepola viene presentata con dei trascorsi poco edificanti.

Stona non poco, tuttavia, il continuo ribadire dei Sinottici che la Maddalena fosse una ex-prostituta o una ex-indemoniata che il Cristo aveva esorcizzato, quando in altri passi evangelici si afferma ch'era la donna più importante al seguito del movimento nazareno, fra quelle presso la croce il venerdì santo e fra quelle – secondo i Sinottici – che si recarono il giorno successivo all'esecuzione capitale per compiere l'imbalsamazione. È anche la prima in assoluto a vedere il sepolcro vuoto e, secondo la tradizione religiosa, a reincontrare il Cristo risorto.

Il fatto che si parli di “sette demoni” scacciati va interpretato o come riferimento al suo carattere emancipato, ribelle, anticonformista, oppure come un invito, rivolto al lettore, a non farsi strane idee sul suo rapporto col Cristo.

In ogni caso la sovrapposizione della figura di Maria di Madgala con la “peccatrice” di Lc 7,37 è, come noto, del tutto leggendaria. Luca 8,2 prende da Mc 16,9 la notizia che Gesù avrebbe esorcizzato Maria, depurandola di ben sette demoni. Eppure Marco non descrive da nessuna parte un'azione del genere, e ce ne sarebbe stato bisogno, visto che Maria fu una strenua seguace del messia (in Lc 8,2 s. lo aiuta anche economicamente).

Purtroppo il malinteso è stato parecchio coltivato in occidente dal fatto che, influenzate soprattutto dagli scritti di Gregorio Magno, le liturgie occidentali hanno spesso identificato Maria con l'omonima peccatrice o con la sorella di Marta e di Lazzaro. Questa identificazione è sempre stata rifiutata dalla tradizione e dagli scritti dei Padri d'oriente. Solo nel 1969 la Chiesa cattolica ha revocato ufficialmente l'etichetta di prostituta affibbiata alla Maddalena da papa Gregorio, ammettendo il proprio errore. Ciononostante l'immagine della Maddalena è rimasta quella della meretrice pentita.

Non meno opinabili sono le tesi che vedono nelle nozze di Cana il matrimonio tra Cristo e la Maddalena, o quelle che indicano in Betania di Giudea il luogo in cui viveva la moglie di Gesù (in tal caso la Maddalena sarebbe stata una delle due sorelle di Lazzaro, ma allora non si capisce perché Lazzaro e Marta vivessero nella sua stessa casa).

Non si può sostenere che il Cristo, in quanto “rabbi”, doveva “per forza” essere sposato. In quanto “rabbi” il Cristo non rispettava il sabato, né le regole della purezza rituale, né i riti religiosi, né il primato del Tempio e tante altre cose. Perché avrebbe dovuto “per forza” sposarsi? Se per questo neppure l'apostolo prediletto o amato lo era: dobbiamo quindi pensare che tra i due ci fosse un rapporto omosessuale? Alcuni esegeti l'hanno fatto.

Nel racconto della resurrezione di Lazzaro Giovanni scrive: “Ecco, colui che ami è malato” (11,3): da qui si deve per forza dedurre che il concetto evangelico di “amore” debba essere considerato alla maniera occidentale, cioè come strettamente legato al sesso? Che fondamenta possono avere tali congetture?

Lo scopo principale della vita di Gesù Cristo è stato quello dell'organizzazione di un movimento per la liberazione della Palestina. Quando un politico si pone un compito rivoluzionario del genere, sempre altamente rischioso, gli aspetti personali tradizionali finiscono necessariamente in subordine (in Mc 10,29 Gesù fa capire che la vita del rivoluzionario è così dura che deve saper rinunciare anche a “casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli e campi”).

È assurdo tentare di dimostrare che il Cristo era fautore dell'uguaglianza dei sessi o che non ha mai predicato contro il celibato proprio perché era sposato! Il suo celibato non può dimostrare ch'egli fosse contrario all'uguaglianza dei sessi, né ha senso sostenere ch'egli aveva bisogno di sposare Maria per dimostrare agli apostoli ch'era una discepola di primo piano.

Se anche per ipotesi si può affermare, molto semplicemente, che la Maddalena fosse innamorata di lui, si può forse per questo sostenere, “di necessità”, anche il contrario? Anche tutta la storia che collega la Maddalena con la Francia è non meno leggendaria.

Al massimo si potrebbe sostenere che nei Sinottici la Maddalena viene posta in cattiva luce (le si nega persino la parentela con Lazzaro) perché forse non condivise la linea petrina relativa all'interpretazione da dare alla tomba vuota. Forse lei era più vicina alla posizione giovannea, notoriamente anti-petrina, sicché, come Giovanni, finì con l'essere mistificata.

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13) Lo scettico Tommaso e i generi letterari

Gv 20,19-29

[19] La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”.

[20] Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.

[21] Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi”.

[22] Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo;

[23] a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”.

[24] Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.

[25] Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”.

[26] Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”.

[27] Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”.

[28] Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”.

[29] Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”.

*

L'esegesi confessionale ha rilevato in questo racconto numerose incongruenze che naturalmente non è stata in grado di spiegare.

La scena di Tommaso sembra introdotta troppo bruscamente, nel primo incontro non era stato detto della sua assenza. Forse Tommaso non ha ricevuto i doni dello Spirito e l'autorizzazione a rimettere e trattenere i peccati (vv. 22-23)? Tommaso non crede a quanto dicono i discepoli, ma formula la dichiarazione di credere riprendendo i particolari della scena precedente. Gesù mostra le mani e il fianco ai discepoli per farsi riconoscere (v. 20). Nell'incontro successivo, Gesù ripete le parole dette da Tommaso la settimana precedente. Gesù invita Tommaso a: “... non essere più incredulo, ma credente”, che pare essere un rimprovero a chi vuole constatare per credere. Ma Gesù non aveva mostrato le mani e il fianco anche nella prima apparizione? Perché allora rimprovera solo Tommaso? La beatitudine (v. 29) rivolta a “coloro che hanno creduto senza vedere!” privilegia un gruppo particolare di discepoli? Come intendere allora il rapporto tra “i molti altri segni” del v. 30 e la beatitudine della fede senza vedere?

*

I racconti di resurrezione vanno inseriti in un genere letterario mitologico, in cui gli aspetti di storicità sono praticamente ridotti a zero. Quello p. es. del vangelo di Giovanni, relativo all'incredulo Tommaso, scritto sicuramente molto tempo dopo la stesura originaria del vangelo, rientra in questa categoria. Di fronte agli elementi particolarmente mistici e a volte persino poetici di questi racconti si può addirittura transigere sulle loro evidenti incongruenze logiche, storiche, redazionali ecc.

Nella fattispecie di questa pericope è evidente l'opposizione al materialismo naturalistico da parte di una sorta di filosofia spiritualistica tendente a inevitabili conclusioni teologiche. Il racconto è un invito a “credere senza vedere” e quindi è un rimprovero a Tommaso, che vuole fare il contrario. Potrebbe non esserci, in questo, alcunché di mistico, in quanto, nelle vicende degli uomini è del tutto naturale che si possa o si debba credere in qualcosa senza poterla concretamente dimostrare.

Qui tuttavia il misticismo, sempre in agguato nei racconti neotestamentari, risulta aggiunto là dove gli apostoli vengono trasformati in sacerdoti, da combattenti e militanti politici quali erano stati. L'effluvio di spirito santo trasmesso loro dal Cristo redivivo (ripreso da Gen 2,7; Sap 15,11, ove rappresenta la comunicazione della vita), li trasforma, ipso facto, in amministratori di una salvezza di tipo religioso: il loro compito precipuo diventa quello di decidere chi si salverà o si condannerà in relazione alla fede che bisogna avere nell'identità sovrumana del Cristo, il quale nulla dice di ciò che riguarda le loro speranze terrene.39

In particolare essi devono comunicare al mondo che esiste un dio-padre e un dio-figlio e che lo strumento per poter credere è quello di lasciarsi penetrare dallo spirito santo. Siamo, come si può vedere, nel misticismo più assoluto. I cristiani devono limitarsi a credere nella resurrezione, che, nella fattispecie, viene usata come sinonimo di “rassegnazione”.

In questo racconto si pongono le fondamenta, in un certo senso, della Chiesa cristiana, che da un lato, ricevendo la “pace del Cristo”, deve rassegnarsi all'idea di non poter liberare la Palestina, e dall'altro, credendo nell'aldilà, può tranquillamente sperare nella possibilità di un riscatto di tipo etico-religioso, quella forma di riscatto di cui, col tempo, essa si servirà per stabilire chi andava considerato “eretico” e chi “ortodosso”, chi da scomunicare e chi in comunione, facendo di questa prerogativa esclusiva l'occasione per rivendicare un potere politico, come avverrà soprattutto con la confessione cattolico-romana. Gli apostoli riacquistano una fiducia mistica dopo aver perduto quella politica. Qui il passaggio dall'una all'altra sembra definitivo. L'ultimo a resistere è stato, a quanto sembra, lo scettico Tommaso, a meno che il suo nome non sia stato usato semplicemente perché in Gv 11,16 era già stato rappresentato come un apostolo guardingo o eccessivamente prudente. E comunque non è da escludere che questo racconto voglia riferirsi a un momentaneo (o forse addirittura definitivo) rifiuto di Tommaso di credere nella tesi petrina della resurrezione, o che i redattori (che qui sembrano vivere come monaci) abbiano voluto usare un tale personaggio per contraddire quanti, tra i cristiani, cominciavano a dubitare dell'efficacia della tesi mistica di Pietro.

Ma quali sono le incongruenze più evidenti di questo racconto? Quella principale è che qui Tommaso viene rimproverato di non credere senza aver visto, quando gli altri apostoli hanno creduto nel Cristo risorto soltanto dopo aver visto. Finché non vedono, se ne stanno rinchiusi, nel segreto, per timore dei Giudei. Infatti non viene detto da nessuna parte di questo vangelo ch'essi credettero alle parole della Maddalena relative alla sua personale apparizione del Cristo risorto.

D'altra parte quale ebreo avrebbe potuto credere alla testimonianza di una sola donna, per giunta ex-indemoniata, come sempre han sostenuto i Sinottici (Mc 16,9)? Cristo, infatti, entrando attraverso la porta chiusa della loro casa, non li rimprovera di non averle creduto. Anche nel vangelo di Marco lo si dice chiaramente: “essi, udito ch'era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere” (16,10 s.). Solo che nei Sinottici, alla fine, il rimprovero c'è: “apparso per ultimo agli undici, mentre stavano a mensa, li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato” (Mc 16,14).

I Sinottici avevano voluto far vedere che alla tesi della resurrezione gli apostoli furono costretti a credere per l'ingenuità popolare, quella tipica delle donne che si recano al sepolcro vuoto, la quale è disposta a credere in qualunque cosa, pur di trovare soddisfazione alle proprie esigenze. Dunque – così ci fanno credere che Pietro abbia pensato – che se la prendano col popolo quelli che chiedono ancora la liberazione della Palestina dai Romani!40

Gli apostoli, se fosse dipeso da loro, si sarebbero accontentati della scoperta della tomba vuota, limitandosi a constatare la misteriosa scomparsa del cadavere. Invece il popolo ignorante e superstizioso aveva bisogno di “credere in ciò che non vedeva” ovvero di “vedere ciò che non esisteva”. Alla fine anche gli apostoli si convinsero che questa sarebbe stata la strada migliore.

In realtà le cose non andarono così: fu proprio Pietro a inventarsi la tesi della “morte necessaria” e quindi a interpretare la tomba vuota (un fatto privato) come “resurrezione” (un evento pubblico da pubblicizzare come tesi mistica, cioè antipolitica per eccellenza).

Tuttavia, nonostante si fossero “rincuorati” a motivo della visione mistica del Cristo, i discepoli continuavano a tenere le “porte chiuse”, dice Gv 20,26, introducendo la seconda apparizione, quella specifica per Tommaso, otto giorni dopo la precedente.

Strano questo, poiché i timori che avevano nei confronti dei Giudei, a motivo della diversa concezione politica con cui liberare la Palestina dai Romani, ora avevano molti meno motivi di sussistere, riducendosi a questioni meramente religiose (Paolo litigava coi filo-ellenisti sadducei soltanto sulla questione della “resurrezione alla fine dei tempi”). Anzi, considerando che al momento in cui il brano fu scritto, la Palestina era già tutta in mano romana, appare in un certo senso ridicolo che i cristiani continuassero ad aver paura dei Giudei: non avrebbe avuto senso averla neppure dal punto di vista delle rivalità religiose. Al massimo avrebbero dovuto temere i Romani, che imponevano di credere nella divinità dei loro imperatori. Dunque il nome dei “Giudei” viene qui usato unicamente come uno stereotipo antisemita, dietro il quale si possono mettere tutti gli increduli nella tesi petrina della resurrezione.41

Più interessante invece è guardare il modo in cui viene descritto il Cristo redivivo. Per i redattori di questo brano il corpo del risorto, passando attraverso porte chiuse, è in grado di smaterializzarsi ma anche di rimaterializzarsi a propria discrezione. Ciò contraddice il racconto della tomba vuota, in cui s'era scritto che l'uscio era stato trovato aperto. Appare chiaro quindi che qui si è in presenza di un'evoluzione della mistificazione redazionale.

Detto corpo può essere fisicamente non solo “visto” ma anche “toccato”. Non si tratta cioè di un'immagine virtuale, di un ologramma, di un'ombra che si può vedere senza toccare. Questo quindi significa che per i redattori (cristiani sì ma evidentemente di origine ebraica), la fisicità restava un elemento imprescindibile della divinità. La materia viene gestita da una fonte energetica immateriale, in grado di scomporre e ricomporre gli elementi primordiali della materia stessa. Qui ce n'è abbastanza per sostenere che il genere letterario di appartenenza di questo brano potrebbe anche essere quello fantascientifico.

Altre incongruenze minori meritano un semplice accenno:

– questo è l'unico brano dei vangeli in cui si dice che la crocifissione comportò la trafittura delle mani (i geovisti p. es. negano questa cosa, sostenendo che non vi fu nessuna trave orizzontale). Si può quindi presumere ch'esso sia stato elaborato quando non si sapeva più come il Cristo fosse stato esattamente giustiziato; per questo motivo il racconto va posto all'origine di tutte le raffigurazioni artistiche del crocifisso, e quindi dell'errore materiale compiuto da tutti gli artisti, in quanto i chiodi, stando alla Sindone, non vennero messi nelle mani bensì nei polsi, senza provocare fratture (nel cosiddetto “spazio di Destot”, che ha comportato il ripiegamento del pollice);

– il redattore, tuttavia, ha accettato la versione giovannea relativa al colpo di lancia nel costato di Gesù (19,34), lasciando così pensare ch'egli ritenesse più importante il vangelo di Giovanni (e la sua tradizione) rispetto agli altri che l'avevano preceduto;

– la professione di fede fatta da Tommaso riprende le parole dette da Gesù alla Maddalena nel racconto precedente (“Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”), eppure i redattori si sono rifiutati di associare i due brani. Non solo ma l'espressione “Mio Signore (messia) e mio Dio” va in un certo senso oltre la fede degli altri apostoli, che in quel momento non potevano associare strettamente i termini uomo-dio senza rischiare la bestemmia: lo stesso cristianesimo petro-paolino non sosterrà mai che Gesù era “Dio” ma “Figlio di Dio”;

– persino un racconto mitologico come questo smentisce che la constatazione sinottica della resurrezione sia avvenuta tre giorni dopo la morte (Mc 16,1 ss.). Lo si era già notato con quello della Maddalena, in cui si parlava di “giorno dopo”. Cristo morì di venerdì, ma era quasi sabato e la Maddalena scoprì la tomba vuota il giorno dopo, mentre il sabato non era ancora finito, anche se gli evangelisti hanno concordato che fosse “domenica”;

– già da Gv 11,16 sappiamo che Tommaso era detto “Didimo”, cioè “gemello” (di chi non si sa): perché ripeterlo in 20,24? Perché quando s'inventano di sana pianta le cose, questo è un modo di renderle più credibili. Si poteva però evitare di fare entrare il Cristo redivivo a torso nudo dicendo agli Undici: “ecco il mio costato”, e a Tommaso: “stendi la tua mano e mettila nel mio costato”. Non bastavano le mani? e perché non parlare anche dei piedi? Una ragione c'è: la ferita nel costato veniva allora considerata la prova del nove dell'effettivo decesso di una persona (una prova che però i Sinottici non conoscono). I soldati romani erano degli specialisti nell'infilare la lama nelle giuste costole, spaccando il cuore in due.

Ecco, forse per questo motivo si potrebbe inserire il brano nel genere horror.

*

Qui vorremmo far notare che se i legacci furono trovati per terra, e il lenzuolo, ripiegato, si trovava in un'altra parte del sepolcro, è difficile parlare di “smaterializzazione assoluta del corpo”. Infatti, se ciò fosse avvenuto, la Sindone avrebbe dovuto essere trovata afflosciata su se stessa, con le bende ancora strette attorno.

In realtà il corpo si è come trasformato in un altro corpo, e questo secondo corpo ha avuto bisogno di aprire l'uscio della tomba per andarsene, a meno che la motivazione della pietra rotolata non sia un'altra: p.es. quella di far scoprire subito ai discepoli che il corpo era scomparso per volontà propria e non perché qualcuno l'aveva trafugato.

In ogni caso, se l'ingresso l'avessero trovato chiuso, i discepoli potevano sempre pensare che quel corpo si fosse trasformato in un “puro spirito”. Invece aveva soltanto assunto una diversa conformazione fisica. Ciò dimostra che materia ed energia non possono marciare separate, almeno non del tutto. E dimostra anche che il corpo umano esprime una essenza umana che gli è superiore.

Così come appare nel Cristo, l'essenza umana sembra avere delle caratteristiche ancestrali paragonabili alla ancestralità della materia. È quindi ragionevolmente possibile supporre che l'essenza umana non sia mai nata, cioè esista da sempre. Il che esclude un processo creativo da parte di una divinità che non abbia caratteristiche umane. Non esiste alcun dio che vada al di là di ciò che possiamo definire come “essenza umana”.

La Sindone è appunto la dimostrazione che non può esistere una forma materiale che non possa essere trasformata, in maniera indelebile e senza perdere le sue fondamentali caratteristiche originarie, in un'altra forma materiale avente un'energia superiore. In quella tomba si è affermata una gerarchia di valore nei processi di trasformazione reciproca tra materia ed energia. E noi oggi ci stiamo progressivamente avvicinando alla comprensione di tale fenomeno.

La Sindone ha testificato un'esplosione di luce o di energia (atomica?) che ha dato a un determinato corpo una diversa configurazione (una irradiazione termica bioplasmatica con scissione di atomi e produzione di anti-materia?), non esattamente identica a quella terrena, salvo che per l'aspetto della “essenza umana”.

Ora, è evidente che un corpo del genere non poteva essere visto da nessuno, così come non riusciamo a vedere il Sole senza uno schermo protettivo. Ecco perché non si può parlare di “resurrezione”, ma solo di “strana scomparsa”. Quello che si vede nella Sindone è l'ultima immagine del corpo “terreno” del Cristo, l'unica immagine che ci è possibile vedere col nostro stesso corpo su questo pianeta, la stessa che videro sulla croce i suoi discepoli.

Al momento noi non possiamo sapere quante conformazioni corporee siano possibili, a livello di “essenza umana”, nell'ambito dell'intero universo, in quanto la conoscenza che abbiamo della materia, dell'energia e dei processi interattivi tra materia ed energia, è ancora molto limitata, anche se abbiamo capito che l'energia umana è tutta racchiusa nell'autoconsapevolezza di sé.

La legge fondamentale dell'universo, per quanto riguarda l'essenza umana, è la libertà di coscienza, che non può essere violata in alcuna maniera. Esiste nell'universo un'evoluzione di tale coscienza che la rende sempre meglio adeguata a ciò che la contiene, cioè all'universo stesso, che è eterno nel tempo e infinito nello spazio.

Il contenuto si sta progressivamente adeguando al suo contenitore. Un processo analogo avviene nel ventre materno. Il feto si mette spontaneamente nella posizione più favorevole per uscire da un contenitore di cui avverte la limitatezza, la provvisorietà. Lo stesso avverrà da parte dell'essere umano nei confronti del nostro pianeta. Dobbiamo prepararci a uscire dalla Terra per poter popolare l'intero universo. Ma dobbiamo farlo nel rispetto della libertà di coscienza, che è quanto di meglio caratterizza la nostra essenza umana e naturale.

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14) La nostalgia amara dell'ultimo Giovanni

Gv 21

[1] Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così:

[2] si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli.

[3] Disse loro Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla.

[4] Quando già era l'alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù.

[5] Gesù disse loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Gli risposero: “No”.

[6] Allora disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. La gettarono e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci.

[7] Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi il camiciotto, poiché era spogliato, e si gettò in mare.

[8] Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: infatti non erano lontani da terra se non un centinaio di metri.

[9] Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane.

[10] Disse loro Gesù: “Portate un po' del pesce che avete preso or ora”.

[11] Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si spezzò.

[12] Gesù disse loro: “Venite a mangiare”. E nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, poiché sapevano bene che era il Signore.

[13] Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro, e così pure il pesce.

[14] Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti.

[15] Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”.

[16] Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci le mie pecorelle”.

[17] Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecorelle.

[18] In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”.

[19] Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”.

[20] Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: “Signore, chi è che ti tradisce?”.

[21] Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: “Signore, e lui?”.

[22] Gesù gli rispose: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi”.

[23] Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: “Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te?”.

[24] Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera.

[25] Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.

I

L'ultimo, lungo, racconto del vangelo di Giovanni (cap. 21) riprende uno dei primissimi del vangelo di Marco, quello della chiamata dei primi quattro discepoli, intenti a pescare (1,16 ss.). I nomi non sono però gli stessi: in Marco erano le due coppie di fratelli, Simone (Pietro) e Andrea, Giacomo e Giovanni Zebedeo; qui invece sono Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo, più altri due discepoli non identificabili.

Chi scrive però non può essere l'apostolo Giovanni Zebedeo, ma probabilmente un suo discepolo, anche lui di nome Giovanni, detto l'Anziano, ancora vivo e vegeto in Asia Minore intorno al 140 d.C. L'ultimo ad aver revisionato un'opera, il vangelo, la cui gestazione è durata circa mezzo secolo: il falsificatore più sublime del più importante discepolo del messia.

Le motivazioni di ciò sono molteplici:

– in 21,24 un gruppo di persone indica il “discepolo prediletto” come autore delle pagine precedenti: difficilmente l'evangelista avrebbe potuto parlare di sé in questi termini;

– in 21,2 si parla dei “figli di Zebedeo”, noti dai Sinottici e mai citati in questi termini nel quarto vangelo, proprio perché uno dei due era lo stesso Giovanni;

– già nel capitolo precedente (20,30 s.) vi era stata una conclusione del vangelo che non prevedeva aggiunte (anch'essa difficilmente attribuibile a Giovanni, in quanto tutti i racconti di resurrezione non sono suoi);

– tutti i particolari di questo racconto, escluso quello in cui si dice che il padre di Pietro si chiamava Giovanni (21,15), possono essere desunti dal vangelo di Marco, per non parlare di Lc 5,1-11.

Questo non significa, ovviamente, che l'apostolo in questione non avesse raccontato ai propri discepoli ciò che lo differenziava da Pietro; significa soltanto che questo capitolo (sicuramente antico, in quanto nessun manoscritto a noi conosciuto l'omette), per poter essere accettato nel canone, doveva essere scritto rispettando due condizioni fondamentali: a) non dire esplicitamente che tra Pietro e Giovanni vi era stata una profonda rottura; b) dare per scontata la tesi petrina della resurrezione.

Giovanni Zebedeo era stato il più importante apostolo del Cristo, ma siccome aveva rifiutato l'idea che il messia dovesse “necessariamente morire”, dovette crearsi una propria comunità, indipendente da quella di Pietro e di altri apostoli. Nell'elenco suddetto vengono citati Tommaso, Natanaele e altri due anonimi: è probabile che costoro fossero rimasti con lui (il fratello Giacomo era morto in una delle primissime persecuzioni anticristiane da parte dei Giudei).

La falsificazione operata ai danni di Giovanni fu quella che permise ai suoi testi di poter far parte del canone, quel canone che si basava, come si può leggere tra le righe di questo racconto, sulla falsificazione “cristiana” del messaggio di Gesù operata da Simon Pietro, che storicamente fu la prima.

In tal senso, se anche volessimo dare per scontato che Giovanni sia l'autore dei racconti in cui il Cristo appare in una luce divina o sovrumana (o perché compie guarigioni miracolose, o perché riappare dopo morto ecc.), dovremmo con fermezza sostenere ch'egli non scrisse mai tali racconti con intenti storico-apologetici (come invece la Chiesa vorrebbe), ma perché obbligato da circostanze indipendenti dalla sua volontà, che in un certo senso lo costringevano a compiere operazioni di conformismo ideologico per poter continuare a essere letto e pubblicizzato nelle antiche comunità cristiane. L'apostolo potrebbe anche essersi piegato a determinati diktat teologici, nella speranza di poter far passare lo stesso, in maniera velata, sfumata, indiretta, il suo messaggio alternativo a quello petro-paolino.

Lo strano appellativo con cui viene chiamato l'evangelista: “il discepolo che Gesù amava” (che oggi la cultura omosessuale equivocherebbe facilmente), fu messo, probabilmente, dai manipolatori del quarto vangelo per operare una censura di questo tipo: non potendo distruggere completamente la memoria dell'apostolo in questione, essi fecero in modo che nel suo vangelo il suo nome non potesse essere chiaramente identificato, così nessuno avrebbe potuto sapere chi era effettivamente superiore a Pietro.

II

L'autore conferma che, dopo la crocifissione del messia, chi svolse un ruolo di comando tra gli Undici, fu Pietro.

Nel racconto marciano della tomba vuota (16,7), vi è l'invito a tornare in Galilea, cioè a rinunciare alla rivoluzione in Giudea: questa era la posizione di Pietro, che qui viene confermata, ambientando il racconto nella stessa regione del nord della Palestina, dove addirittura i militanti principali del movimento nazareno erano tornati a fare i “pescatori”. Nello stato di abbandono e frustrazione in cui si trovano non riescono a riconoscere neppure chi li aveva guidati per tanti anni: sanno di avere tradito la sua missione, le sue aspettative e sono tornati a lavorare come se non fosse successo nulla.42

Il primo a riconoscerlo, cioè a essere disposto a ripartire da dove, in quel tragico venerdì sul Golghota, s'era infranto il sogno di liberazione, non è Pietro ma Giovanni. Come faccia solo lui a riconoscerlo non è chiaro, poiché tutti si erano accorti del pescato straordinario. Peraltro appare quanto meno strano che Giovanni lo riconosca soltanto perché la rete era stracarica (per l'ennesima volta viene attribuito al Cristo un miracolo straordinario).

Il v. 6 in realtà potremmo anche toglierlo. Infatti se Giovanni dicesse di riconoscerlo subito dopo che tutti gli altri avevano risposto a Gesù di non avere niente da dargli, non cambierebbe nulla. Resta comunque strano che Pietro dia subito ragione a Giovanni quando questi dice di averlo riconosciuto. Pietro era stato il principale traditore del suo messaggio, ma qui sembra svolgere un ruolo subordinato rispetto a Giovanni.

Mentre pescano, Pietro è nudo, senza ritegno, e appena riconoscono il messia, egli “si cinge ai fianchi il camiciotto e si getta in mare”, nuotando verso riva: vuol far vedere d'essere sempre il primo. Perché lui solo era spogliato e gli altri no? Ancora più strano che lui, dopo aver frequentato Gesù per tanti anni, si vergogni della propria nudità. Fa lo spaccone, il gradasso e poi se ne pente. Si vergogna di rivedere chi aveva tradito. Eppure erano lontani un centinaio di metri. Avrebbe avuto tutto il tempo per rivestirsi. Perché buttarsi in acqua? Non poteva rivestirsi stando sulla barca? Se questo racconto ha avuto in origine la mano di Giovanni, l'intento doveva essere stato quello di far vedere che Pietro si sentiva in colpa per quello che aveva fatto a Gesù. Solo che i manipolatori di questo racconto non potevano certo farlo vedere. Se Giovanni è all'origine di questo racconto manomesso, doveva essere in età avanzata e Pietro era già morto.

Giunti a riva, trovano il Cristo che sta già mangiando dei pesci arrostiti con del pane: qui non c'è solo un riferimento simbolico al mito dei pani e pesci cosiddetti “moltiplicati”, ma anche un'incongruenza, poiché all'inizio era stato proprio lui a chieder loro se ne avevano. L'autore vuol comunque far capire che, senza Gesù, i discepoli non erano in grado di raccogliere neanche un pesce, non erano in grado di fare i “pescatori di uomini”. Comunque Gesù dice loro di portare altro pesce, perché quello che ha lui non è sufficiente. Ognuno deve fare la sua parte, ognuno deve prendersi le sue responsabilità.

Grazie alle indicazioni di Gesù, ne portano a riva con la rete ben 153: può apparire ridicolo che si siano messi a contarli, specie in considerazione del fatto che in quel momento, al cospetto del messia redivivo, non avrebbero dovuto pensare ai loro interessi materiali, a come ripartirselo. Tuttavia qui il numero sta a indicare l'universalità degli uomini (gli studiosi antichi ritenevano fossero 153 le varie specie di pesci).

Da notare che i pesci vengono portati a riva due volte: dai discepoli rimasti sulla barca (v. 9) e poi dal solo Pietro (v. 11); questo versetto fa chiaramente pendant con quello di Lc 5,6, in cui Pietro, non ancora discepolo del Cristo, rischia di rompere le reti. Ciò a testimonianza del fatto che su questo racconto è intervenuto un ulteriore revisore, che ha voluto sottolineare la diversità e l'importanza di Pietro rispetto a tutti gli altri protagonisti del racconto. Tirando da solo a riva tutti i pesci nella rete, Pietro viene fatto passare come legittimo successore del Cristo.

Anche il v. 14 è stato aggiunto successivamente: “questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti”, onde dar peso alla tesi petrina della resurrezione. Peraltro devono essersi fatti male i conti, poiché nel vangelo di Giovanni è semmai la quarta apparizione, preceduta da quella alla Maddalena, agli Undici e a Tommaso.

In ogni caso tutti i racconti di resurrezione sono inventati: al massimo Giovanni può aver scritto qualcosa di fantastico, sperando di passare attraverso le strette maglie della censura. E qui in effetti i revisori han fatto male i loro conti: invece di censurare del tutto questo geniale racconto, si sono limitati a manometterlo, lasciandosi scappare grossi pesci dalla loro rete.

"Nessuno osava domandargli: Chi sei?” (v. 12): quest'espressione altamente poetica denuncia una situazione di particolare disagio, poiché da un lato si sa bene chi è, si sa d'averlo tradito e ci si aspetta un giudizio critico, dall'altro si finge di non riconoscerlo, perché si ha vergogna di se stessi. Giovanni sta sognando di poterlo un giorno rivedere, e se lo immagina non come quando predicava alle folle, ma come quando era pescatore insieme a loro. Se lo immagina come uomo, non come dio (diversamente dai propri revisori, che fanno di tutto per far credere al lettore che Gesù fosse dio, intento a distribuire il pane e i pesci come un sacerdote distribuisce l'eucaristia).

Il principale imputato del tradimento, colui che pensa di far finta di nulla, è Pietro, cui Gesù rivolge una domanda molto imbarazzante e impegnativa: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?” (v. 15). Potrebbe il capo degli apostoli dire di amarlo meno di quanto lo amino gli altri? di amare di più se stesso o qualcun altro e meno Gesù Cristo? insomma di non amarlo abbastanza, di non amarlo come lui vorrebbe esserlo?

Eppure la verifica è necessaria, poiché qui si è in presenza di un grande falsificatore, di uno che fece un danno alla causa rivoluzionaria non meno grave di quello di Giuda. Si potrebbe quasi interpretate quella domanda nel senso che Pietro aveva avuto la pretesa di “amare” i discepoli più di quanto non fosse riuscito a fare lo stesso Cristo.

Qualche tempo prima Pietro non avrebbe esitato a porsi sopra gli altri dichiarando una propria assoluta fedeltà alla causa: “Anche se tutti si scandalizzassero, io no!”, aveva detto in Mc 14,29, e lo stesso nel vangelo di Giovanni: “Darò la mia vita per te!"(13,37). Ora però è meno sicuro di sé e risponde solo in parte. Deve aspettare l'insistenza della terza domanda per ammettere d'aver sbagliato.

La domanda: “Mi vuoi bene tu più di costoro?” voleva essere appunto un invito a fare autocritica, rinunciando alle assurde idee della “morte necessaria”, della scomparsa dalla tomba come “resurrezione”, della “resurrezione” come “parusia imminente”. Una falsità dietro l'altra. Gesù lo mette alle corde e Pietro si difende: non si capisce neppure se davvero faccia autocritica o se si limiti soltanto a giustificarsi, facendogli capire che non poteva agire diversamente.

Che vi sia o non vi sia stata autocritica, sembra che per Gesù faccia poca differenza, poiché ad un certo punto, spiegandogli il motivo di quelle domande, gli fa capire che il tradimento ha avuto conseguenze inevitabili, indipendenti dalla stessa volontà di Pietro: “quando eri più giovane [cioè quando eri un seguace del movimento nazareno] ti cingevi la veste da solo [ragionavi correttamente], e andavi dove volevi [la volontà era conforme alla ragione]; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (v. 18). La Chiesa ha voluto interpretare questa frase sibillina pensando che Gesù si riferisse alla morte di Pietro, e infatti lo si volle esplicitare nel versetto seguente: “Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio”.

In realtà la frase voleva dire che Pietro, all'inizio del proprio tradimento, si sentiva sicuro di sé, convinto di poter continuare a modo suo il percorso del messia, ma poi, andando avanti, ha dovuto cedere il passo a un traditore ancora più grande del movimento nazareno: Saulo di Tarso, il quale l'aveva portato su una strada ch'egli non avrebbe voluto percorrere, quella della totale rinuncia a qualunque forma di impegno politico rivoluzionario, quella della assoluta acquiescenza al potere romano (salvo il rifiuto di riconoscere all'imperatore la pretesa divinità). Il nuovo compito che ha Pietro è quello di ricominciare a “seguirlo”, per imparare a non essere soggettivo, a stare dentro le regole, a rispettare il mandato, le consegne... Insomma, quando un tradimento prende a formarsi, non si sa più dove va a finire: diventa sempre più grande, con conseguenze incalcolabili, imprevedibili.

Pietro doveva ricominciare la sequela al Cristo, perché doveva essere rieducato ai valori della tradizione umanistica e politicamente democratica, senza autoritarismi di marca religiosa. Non è a lui che può essere affidata la direzione della futura comunità rivoluzionaria. Doveva essere Giovanni, sin dagli inizi, a sostituire il Cristo crocifisso.

"Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: ‘Signore, chi è che ti tradisce?'. Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: ‘Signore, e lui?'. Gesù gli rispose: ‘Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi'”. I versetti 20-22 sono quelli centrali di tutto il racconto.

Si noti subito l'incongruenza, che lascia sospettare un'interpolazione: Pietro si gira vedendo Giovanni che li seguiva da lontano, ma Gesù risponde a Pietro che Giovanni dovrà restare lì dov'è, finché lui non tornerà. Pietro dunque, nella versione originaria, si era girato chiedendosi perché mai Giovanni non li seguisse. Esattamente il contrario di ciò che appare.

Anche da questo s'intuisce la grave rottura che c'era stata tra i due. È Pietro che deve reimparare la sequela, non Giovanni, cui sicuramente non sarà piaciuto che nel vangelo di Marco (10,35ss.), discepolo di Pietro, venisse dipinto, insieme a suo fratello Giacomo, come un “carrierista politico”.

La frase detta da Gesù resta comunque enigmatica, e non poteva certo essere interpretata in chiave “fisica” (come hanno voluto i manipolatori di questo vangelo). Qui non ha nessuna importanza sapere che di tutti gli apostoli Giovanni fu l'ultimo a morire. La frase probabilmente voleva dire che fino a quando persone come Giovanni non avessero realizzato le idee del Cristo, la pace non sarebbe più tornata sulla terra.

Pietro, ch'era più anziano di Giovanni, quando questi iniziò a scrivere il suo vangelo, probabilmente era già morto (martire a Roma al tempo di Nerone, secondo la tradizione). Giovanni lo volle ricordare nel suo vangelo con rabbia politica ma anche con nostalgia morale, poiché a lui era legato emotivamente. Giovanni non fu più in grado d'imporsi sulla comunità cristiana voluta da Pietro e proseguita da Paolo: poté soltanto accettare d'essere mistificato, pur nella consapevolezza che il suo messaggio sarebbe durato fino a quando non si fosse scoperta la verità delle cose.

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15) Paura e coraggio: dal Getsemani al sepolcro

"Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo” (Mc 14,51 s.).

"Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d'una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: Non abbiate paura! È risorto, non è qui” (Mc 16,5 ss.).

Il “giovane” del sepolcro è descritto da Marco con evidente riferimento al “giovanetto” del Getsemani, probabile testimone della cattura di Gesù. L'orto degli ulivi era forse di proprietà degli stessi genitori di Marco e forse quel “giovanetto” è proprio lui, svegliatosi dal sonno al momento della cattura di Gesù. Difficile comunque pensare che in quel frangente, così altamente drammatico e pericoloso, fosse presente un ragazzino.

Sul piano allegorico si potrebbe dire che vi è una certa differenza non solo di età ma anche di maturità. Sul luogo della sconfitta, infatti, si resta “piccoli”; sul luogo della vittoria invece si diventa “grandi”.

Il giovanetto era vestito di un “lenzuolo”; il giovane indossa una “veste bianca”. Il lenzuolo rappresenta la speranza, che è un desiderio ancora timoroso, soprattutto nel momento dell'arresto. La veste bianca rappresenta invece la fede, che è coraggio e certezza.

Infatti, se nella veste il giovane parla sicuro e con calma, nel lenzuolo tace e fugge. Là dove la volontà di seguire il movimento nazareno era venuta meno di fronte all'eventualità della morte di Gesù, qui invece il discepolo trova la sua pace interiore di fronte alla “tomba vuota”, segno per lui di “resurrezione”.

Nel lenzuolo il giovanetto è in piedi perché “ricerca”, nella veste invece il giovane è seduto perché ha “trovato”. Là è in piedi perché “guarda”, qui è seduto perché vuole (anzi deve) essere “visto”. Guardando “teme”, osservato è “temuto”. Nel timore del lenzuolo è incerto e si nasconde, stando dietro e subendo violenza; nella fede della veste, invece, incoraggia, conforta, dà speranza, si manifesta, stando davanti, alla “destra”, luogo della sapienza, poiché non ha più paura di niente e di nessuno.

La cattura di Gesù fa cadere nell'incredulità, poiché si pensava che tutto dovesse dipendere da una persona straordinariamente autorevole; la tomba vuota invece fa alzare nella fede, poiché si crede che tutto dipenda da un “dio fatto uomo”.

Il lenzuolo della speranza può essere tolto da altri, benché il desiderio resti nel corpo nudo che fugge; la veste della fede invece non può essere tolta da nessuno se non da se stessi.

Dei due candidi indumenti, solo della veste si dice ch'era “bianca”, cioè di uno splendore tale che le donne, ancora prive della necessaria fede, si spaventano. Le donne possono soltanto scorgere un giovane e ascoltarne le parole: in parte credono (in quanto “amano”), ma la loro fede non sa rendere ragione di sé.

Il potere aveva tolto al giovane la speranza, ma la certezza della “resurrezione”, acquisita mediante la fede, ha rivestito la sua nudità di una luce potente, sfolgorante.

Il giovane del Getsemani è la realtà, amara ma vera. Il giovane del sepolcro è la fantasia, l'utopia religiosa, l'illusione di chi vede nella “tomba vuota” non un fatto di secondaria importanza, ma la definitiva soluzione delle principali contraddizioni degli uomini. Al mito della resurrezione deve per forza corrispondere il culto della personalità, cioè la convinzione che la felicità del genere umano possa dipendere dall'iniziativa di una persona sola, dotata di superpoteri.

Non a caso in questo vangelo l'autore non parla di Pietro che vede le bende per terra (come in Luca) o che vede addirittura la Sindone ripiegata e posta da una parte (come in Giovanni), ma parla di una figura mitologica seduta sulla pietra tombale. È lui che assicura che il Cristo è risorto. Solo per fede si può credere a questa verità. Le donne non capiscono quello che vedono e fuggono spaventate. L'unico ad aver capito qualcosa è Marco, discepolo di Pietro, che fa mostra di non dedurre la resurrezione dalla tomba vuota, ma di considerare questa come una conseguenza logica (!) di quella. Cioè Gesù, nell'immaginario di Pietro (che qui risente di influenze farisaiche), non poteva che risorgere, essendo stato rappresentato, redazionalmente, per tutto il vangelo, come una sorta di divinità, in grado di compiere qualunque tipo di prodigio o di guarigione.

Semmai è Luca che lascia indirettamente intendere che fu Pietro è elaborare l'idea di resurrezione, anche se non dice che a questa idea si oppose l'apostolo Giovanni, in quanto la riteneva lesiva per gli obiettivi insurrezionali del movimento nazareno.

In tali racconti marciani sembra comunque esservi un uso “mistico” e quindi “mistificato” del lenzuolo: vi è il ricordo petrino della Sindone, usata per interpretare arbitrariamente l'evento della tomba vuota.

Infatti, mentre in Giovanni la Sindone è solo un lenzuolo materiale, ripiegato su se stesso e posto da una parte all'interno del sepolcro, da conservarsi come ultima testimonianza del Cristo morto, le cui caratteristiche fisiche (le macchie di sangue) restano poco spiegabili; in Marco invece (che parla a nome di Pietro) essa viene usata per indicare uno stato di coscienza progressiva, che da umana si trasforma in religiosa. Il giovanetto del Getsemani rappresenta la visione naturalistica e materialistica della vita, che ha paura di fronte alla cattura, alla morte terribile della croce, riservata a chi, nelle colonie, si ribella al dominio romano. Il giovane del sepolcro rappresenta invece la visione teologica dell'esistenza, l'involuzione verso il misticismo, la revisione politica dell'istanza rivoluzionaria, che porta a maturare idee revisionistiche di tipo fatalistico (la prima delle quali è la parusia trionfale del Cristo).

Il nuovo soggetto di fede, pur di affermare la natura divina del Cristo, mostra di non avere più paura di nulla; pur di rimediare all'errore compiuto in gioventù, quello di non aver fatto tutto il possibile per salvare Gesù dal patibolo, è persino disposto ad accettare il martirio. L'importante è evitare l'autocritica.

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16) L'esperienza del corpo

Trattando del tema della Sindone, due cose colpiscono l'attenzione: il telo piegato e la porta aperta. Chiunque fosse entrato nel sepolcro del Cristo e avesse visto il telo accuratamente riposto da un lato, si sarebbe subito chiesto il motivo per cui, chi aveva trafugato il cadavere, non l'avesse portato via così com'era, cioè avvolto nel lenzuolo, ma anzi avesse perso tempo a compiere una cosa apparentemente insensata. Avrebbe pensato a una sorta di scherzo di cattivo gusto.

Se però il corpo non era stato rubato da nessuno, ma – diciamo – misteriosamente scomparso, che significato poteva avere quel lino ripiegato diligentemente. Perché non lasciarlo per terra, insieme alle bende che lo tenevano stretto al cadavere? Oppure, se effettivamente quel corpo subì una trasformazione a noi poco spiegabile, perché non portarsi via il lenzuolo, come una sorta di proprietà personale?

Quel lenzuolo sembra una sorta di “ricordino”, di ultimo regalo prima dell'addio, una specie di testamento firmato col proprio sangue. Dunque doveva essere notato e conservato, anche perché, una volta “aperto”, ci si sarebbe accorti di una cosa davvero sorprendente: l'intero lenzuolo conservava l'impronta di un corpo martoriato e crocifisso. E di questo corpo abbiamo scoperto tutte le fattezze solo di recente, grazie al negativo di una fotografia di Secondo Pia, trovando molte conferme nei vangeli, anzi scoprendo che i chiodi erano stati infissi non nelle mani – come sempre si era creduto – bensì nei polsi.

Il corpo di quel crocifisso non si è dissolto, come quelli di Hiroshima e Nagasaki, ma è esploso (si è come irradiato), conservando la propria integrità. A dir il vero noi non abbiamo neppure le parole per dire esattamente cosa sia accaduto in quel frangente. Possiamo soltanto ipotizzare che una fonte energetica interna (nucleare?) l'ha trasformato in qualcosa d'altro in un qualche milionesimo di secondo e con una temperatura molto elevata, che però non ha incenerito il lenzuolo. Ha interessato solo le fibrille di lino più superficiali. La stessa sostanza primigenia della fisicità del corpo deve in qualche modo essersi salvata, altrimenti non avrebbe avuto senso uscire dal sepolcro con la pietra rotolata. Qui siamo in presenza di un fenomeno extra-terrestre, o comunque scientificamente non riproducibile, usando un qualunque corpo umano. Il mito ebraico del Golem o quelli moderni del Faust o di Frankenstein, al confronto, sono ridicoli. Sono quasi più seri i vecchi miti degli dèi morti e risorti (Odino, Tammuz, Attis, Osiride, Mithras...).

La cosa che più stupisce infatti è la scomparsa fisica del cadavere. Se il Cristo non era un uomo esattamente come tutti gli altri (per quanto non avesse mai dimostrato il contrario, checché ne dicano i vangeli), perché, tornando da dove era venuto o dove era vissuto prima, ha avuto bisogno di riprendersi il proprio corpo? Non poteva stare senza o darsene un altro?

La Sindone ci fa capire che il corpo non è semplicemente un involucro che avvolge la nostra energia, ma è parte costitutiva della stessa. In origine dunque c'è la materia, non solo l'energia, o meglio: l'energia è fatta di materia e la materia è energetica. L'energia non è puro spirito, né assomiglia all'“atto puro” di Aristotele. Proprio la Sindone indica che tra energia nucleare e natura umana non vi è una differenza di sostanza ma solo di forma. Noi siamo fatti di materia energetica. Materia ed energia si riproducono all'infinito, in forme sempre diverse, condizionandosi a vicenda: non muoiono mai, ma si trasformano di continuo, benché l'essenza umana sia sempre la stessa, come se proprio questa essenza sia all'origine di tutto.

Ognuno di noi ha dunque un corpo che lo caratterizza come persona non solo qui e ora ma per l'eternità, seppure destinato a forme diverse, come è diverso il neonato dall'anziano, pur chiamandosi sempre con lo stesso nome. Noi siamo scintille di qualcosa di stellare e partecipiamo, come prodotto derivato, al calore di una fonte energetica inesauribile.43

La differenza tra le varie forme del corpo starà soltanto nella volontà che abbiamo di trasfigurarlo. Quando ci guardiamo allo specchio inevitabilmente ci chiediamo come vorremmo essere in rapporto a un ideale di corpo perfetto. Anche quando pensiamo di voler essere più sani e più belli, non ci immaginiamo mai con un corpo completamente diverso dal nostro. Vorremmo soltanto che il corpo fosse migliore: non vogliamo un corpo in cui ci sia totalmente impossibile riconoscerci. Chi si fa dei trapianti di organi vitali per la caratterizzazione dell'identità di sé, ha poi bisogno di un'assistenza psicologica.

L'esperienza del corpo è parte costitutiva di tutta la nostra vita: dobbiamo soltanto capire come valorizzarla al massimo. La nostra identità si forma anche sulla base di caratteristiche fisiche. Sembra una banalità dirlo, eppure se questa banalità l'applichiamo alla tomba vuota del Cristo, emergono domande destinate a restare senza risposta.

Infatti, che il corpo sia parte costitutiva dell'esserci, è dimostrato da una cosa ancora più eloquente del telo ripiegato: la pietra rotolata. Quelle erano pietre che si potevano aprire solo dall'esterno (in fondo tutte le porte delle tombe sono fatte per essere aperte solo dall'esterno). Quando i due apostoli l'hanno vista rotolata da una parte, non possono non aver subito pensato (esattamente come la Maddalena) che qualcuno avesse trafugato il cadavere. Deve essere stato il telo riposto da un lato a insospettirli, a mettere un qualche dubbio nella loro testa.

Ma una volta entrati e dispiegato il telo, non possono non essersi chiesti che senso avesse la porta aperta. Se uno ha il potere energetico di trasformare il proprio corpo in qualcosa di molto diverso da quello cui per natura siamo abituati, che bisogno ha di aprire la porta per andarsene? Se uno ha una forza tale da poter aprire la porta dall'interno, che bisogno aveva di aprirla? Non poteva semplicemente attraversarla? Nei film di fantascienza questa cosa è del tutto normale. Dunque la pietra ribaltata stava forse a dimostrare che il corpo trasformato continuava ad avere proprie esigenze? Si voleva forse far capire che il corpo umano ha una propria specificità ineludibile?

Supponiamo per un momento che il corpo fosse scomparso lasciando il telo ripiegato e la porta chiusa. Cosa avrebbero capito Pietro e Giovanni? Se davvero le donne avevano intenzione di lavare e ungere il cadavere, qualcuno avrebbe dovuto srotolare la pietra; dopodiché si sarebbe scoperta la Sindone ripiegata. Tuttavia la riflessione sarebbe stata un'altra. Il corpo di Cristo – qualcuno avrebbe potuto dire – non era essenziale alla sua persona: si è dissolto come apparenza del tutto esteriore. Su questa ipotesi i doceti ci hanno fatto anche delle tesi teologiche, giudicate eretiche dalla Chiesa. Marcione diceva che l'umanità del Cristo, cioè il lato materiale della sua persona, era soltanto una finzione.

E se anche le donne – come dice Giovanni – non volevano affatto imbalsamare il cadavere alla maniera ebraica (e tanto meno alla maniera egizia), essendo andate lì soltanto per piangerlo, qualcuno prima o poi quella tomba l'avrebbe aperta: apparteneva infatti alla famiglia di Giuseppe d'Arimatea. Qualcuno avrebbe scoperto la Sindone e, potendo farlo, l'avrebbe consegnata agli apostoli o alla madre di Gesù.

Tuttavia, chi avrebbe parlato di “resurrezione” o di “parusia” prima dell'apertura di quella tomba? Cristo non ha voluto lasciare soltanto un ricordo di sé, nell'immediato: il telo ripiegato, ma ha anche voluto comunicare un messaggio che avrebbe dovuto far riflettere per i tempi a venire: il corpo non è stato trafugato, non si è dissolto e, smaterializzandosi in quel modo insolito, indicava qualcosa di positivo, benché di difficile comprensione. La Sindone è un segno di qualcosa che va oltre ciò che vediamo coi nostri occhi, ma su come si sia formato questo “qualcosa” non possiamo, al momento, dire nulla. Essa è soltanto una testimonianza che tra materia ed energia vi sono rapporti la cui complessità e profondità non ci è ancora del tutto chiara.

Quel corpo non è scomparso dopo tre giorni – come dice la Chiesa – ma lo stesso giorno in cui era stato crocifisso, quando intorno alla tomba non vi era più nessuno; e la pietra è stata lasciata aperta perché i discepoli si rendessero subito conto di quel che era successo, anche per evitare i soliti possibili fraintendimenti. Le due donne, di mattina presto, si accorsero che la pietra era stata spostata, entrarono nel sepolcro e non videro il cadavere. Non presero con sé il lenzuolo ripiegato, ma corsero immediatamente dai due apostoli a dir loro che il corpo era stato trafugato. Non c'era altra spiegazione di quel che avevano visto (anche se nel vangelo di Marco vengono fatte passare per due minus habentes, incapaci di capire il fatto della resurrezione).

Solo quando Pietro e Giovanni videro la Sindone ripiegata, pensarono che il cadavere non poteva essere stato trafugato. Purtroppo però, dei due solo Giovanni credette davvero al valore di quel lenzuolo (Gv 20,8). L'altro s'inventò la favola della “morte necessaria”, voluta da dio. Cioè mentre per Giovanni la Sindone era la prova che il corpo era misteriosamente scomparso e che forse si poteva anche pensare a un suo imminente e glorioso ritorno, da preparare certamente senza stare con le mani in mano; per Pietro invece la tomba vuota era la prova della resurrezione, che andava interpretata come “vittoria sulla morte” e tutto il resto sarebbe dovuto dipendere dal Cristo redivivo. La differenza, a noi, pare irrilevante, eppure sulla base di essa la Chiesa primitiva decise, negli Atti degli apostoli, di considerare solo Pietro come principale successore di Cristo.

Infatti la tesi della “morte necessaria” era motivo sufficiente per non compiere nulla di “politicamente rivoluzionario”. Se una liberazione nazionale della Palestina doveva esserci – pensò Pietro –, non avrebbe potuto essere che il frutto di un'azione del Cristo redivivo. Quindi o lui tornava subito, o non aveva senso continuare la sua missione politica. L'unica cosa da fare era aspettare il suo ritorno, limitandosi a dire ai discepoli non tanto che la tomba era stata trovata vuota e che all'interno vi era solo la Sindone ripiegata, quanto piuttosto che il messia era risorto, secondo la volontà di dio.

Col concetto di “resurrezione” s'è data l'interpretazione più politicamente rassegnata della tomba vuota. Sotto questo aspetto non aveva tutti i torti Saulo quando perseguitava i cristiani: dovevano apparirgli come dei disfattisti, anzi come dei collaborazionisti del nemico.

Questo spiega anche perché la Chiesa cristiana non abbia mai usato la Sindone come prova della resurrezione. La prova è la tomba vuota: “È risorto, non è qui”, viene detto nel vangelo di Marco (16,6), discepolo di Pietro. In Lc 24,12 viene addirittura scritto, significativamente, che alla tomba si recò soltanto Pietro e che all'interno non vide alcuna Sindone ma solo delle bende per terra. Pietro, a differenza di Giovanni, non accettò l'idea che la Sindone fosse l'unica prova della strana scomparsa del corpo di Gesù.

In effetti la Sindone è soltanto la prova della scomparsa misteriosa del cadavere, in associazione alla porta aperta della tomba. Parlare di “resurrezione” implica inevitabilmente una concezione religiosa dell'esistenza, che rimanda a un invisibile aldilà la soluzione dei problemi terreni. Pietro è il principale responsabile del travisamento del messaggio di Cristo, e se avesse potuto vedere, in anteprima, che cosa avrebbe fatto Paolo della sua interpretazione distorta, forse avrebbe evitato di emarginare Giovanni.

Cristo non è risorto per vincere la morte, proprio perché la morte non è il problema principale dell'uomo. Il problema principale dell'uomo è la libertà, e questa bisogna cercare di ottenerla con o senza Sindone, con o senza tomba vuota.

Su questo non si può transigere: qualunque ammissione dell'esistenza di un Dio onnipotente e onnisciente è un'ammissione di debolezza, fa il gioco dei clericali e favorisce l'oppressione sociale e politica. Né la Sindone, né la tomba vuota provano l'esistenza di Dio, né l'idea di Dio è in grado di spiegare quel che è avvenuto sul Golghota e nel chiuso di quel sepolcro.

Noi dobbiamo partire assolutamente dal presupposto che non esiste alcun Dio e che di fronte alla tomba vuota e alla Sindone il giudizio deve restare sospensivo, in quanto non abbiamo ancora tutti gli elementi per definire la materia e l'energia nei loro reciproci rapporti (che è poi quello che dicono gli scienziati prendendo in esame l'universo).

È dunque totalmente falso anche il Prologo di Giovanni. Non esiste alcun dio come entità separata, presso cui sta il logos. Se può essere esatto sostenere che in principio vi è un logos, ebbene questo logos è persona umana, che può essere definita “divina” solo in quanto prototipo della divinità di ciascun essere umano.

"Presso Dio” va laicamente interpretato non come “vicino a un'entità diversa da sé”, ma come “fatto di sostanza umanamente riconoscibile”. Una sostanza che permette al logos d'essere “Dio”, ma che è analoga a quella che permette all'uomo e alla donna d'essere a sua “immagine e somiglianza”. Per inciso, all'uomo e alla donna, in quanto, in principio non vi è l'uno ma il due, diviso in maschio e femmina.

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17) Einstein e la Sindone

Se la Sindone è un reperto autentico e la formula di Einstein (E=mc2) è giusta (considerando che la velocità della luce al quadrato è una convenzione per dire che in realtà la velocità è infinita, solo che mettere “infinita” sarebbe stato per Einstein improponibile dal punto di vista scientifico), se dunque entrambe le condizioni sono soddisfatte, allora bisogna convenire che tra energia e materia esiste un rapporto i cui contorni al momento ci sfuggono, in quanto, se è vero che la materia produce energia e l'energia produce materia, tra questi due elementi quello dell'energia pare beneficiare di una sorta di “primato ontologico” (o, se preferiamo, cronologico). L'energia avrebbe un “primato” in quanto composta di materia e luce, cioè di un aspetto “fisico” (pesante) e di un altro leggero, immateriale, impalpabile, in grado di plasmare la materia.

Ma c'è di più. L'energia di cui qui si parla è non solo causa di tutta la materia dell'universo, ivi inclusa quella umana, che ne è una sintesi suprema o superiore, ma è essa stessa elemento umano primordiale. Cioè mentre tutta la materia animata e inanimata è un prodotto dell'energia cosmica, quella umana è una sorta di autoprodotto: è sintesi e fonte allo stesso tempo.

Si può quindi ipotizzare che l'uomo della Sindone può essere considerato una sorta di prototipo dell'intera umanità. Ma se questo è vero, è totalmente falsa l'idea religiosa di una parusia del “Figlio dell'uomo”: non è il “prototipo” dell'umanità che deve “ritornare”, affinché la speranza diventi certezza, ma è l'umanità che deve tornare ad essere conforme al prototipo, al fine d'essere se stessa, di ridiventare quella che “è” e che “è stata” sin dall'origine, e che “deve essere”, se vuole conservarsi integra.

Quando l'umanità sarà conforme all'identità del prototipo, la coincidenza farà maturare l'istanza di un superamento della dimensione terrena, che è quella che rende possibile la sperimentazione dell'umano universale in una determinata forma, nel senso che l'umano, dal punto di vista energetico, può avere una “forma” diversa da quella cui siamo soliti fare riferimento sul nostro pianeta, senza per questo perdere di “umanità”.

Quando si descrive Mosè che discende dal Sinai col volto raggiante (mentendo sul fatto che avesse visto dio), e si dice la stessa cosa del Cristo sul monte Tabor (riscrivendo proprio l'episodio di Mosè e quindi inventandosi una cosa mai esistita), non si è molto lontani dalla verità: ciò a testimonianza che nella mitologia si possono trovare approssimazioni al vero colte per intuito.

D'altra parte non c'è bisogno di scomodare la religione per accettare l'idea che il volto è in grado di trasfigurarsi in rapporto a determinate condizioni esistenziali. È la stessa psicologia che ce lo dice: una persona innamorata ha p. es. uno sguardo diverso, che viene attestato anche da lievi mutamenti fisici (p. es. la dilatazione delle pupille). In ogni persona umana esiste una forma di energia in grado di modificarne l'aspetto. Questa cosa è verificabile persino in senso negativo, allorquando l'energia è mossa da sentimenti non umani.

Una persona invecchia col passare del tempo, ma dagli occhi, dallo sguardo la si può ancora riconoscere e, quando vi si riesce, il nostro stesso sguardo brilla nei suoi occhi. L'espressione “ci brillano gli occhi” è sicuramente indicativa della presenza di un'energia impalpabile in ognuno di noi.

Questa cosa era stata capita perfettamente dall'esicasmo e soprattutto dalla teologia palamitica, pur all'interno di una concezione “religiosa” dell'esistenza. Ma si parla di “trasfigurazione” anche nei Racconti di un pellegrino russo e nei testi riferiti a san Sergio di Radonez o a san Serafino di Sarov. Senza poi considerare che tutte le religioni del mondo pongono la luce o l'energia all'origine della creazione.

Il corpo impresso nella Sindone è frutto di un'esplosione di luce (un lampo di energia radiante), la stessa, per analogia, che ogni secondo si verifica all'interno delle stelle.44 Ormai è chiaro che tra microcosmo e macrocosmo le differenze sono solo di forma. Non vi è stato, in quel lenzuolo, un processo semplicemente fotografico, ma anche uno di tipo nucleare. La massa di un corpo si è improvvisamente trasformata in energia, conservando, in qualche maniera, la propria fisicità.

Come sia potuto avvenire esattamente non lo sappiamo, anche se, da quando siamo riusciti a scindere l'atomo, anche noi oggi possiamo produrre un'enorme energia con una massa relativamente piccola. Disgraziatamente tendiamo ad applicare questa scoperta più per distruggere che per costruire.

Il problema è che per noi la ritrasformazione della stessa energia in massa non è così facile, in quanto su questa pianeta siamo vincolati alla dissipazione. Cioè se usiamo una determinata massa per ottenere energia, non riusciamo a riconvertire l'energia ottenuta nella stessa massa che l'ha generata. Se l'acqua bolle, ottengo vapore, ma se ricondenso il vapore, non ottengo la stessa acqua di prima. E con l'acqua, per di più, siamo fortunati che non produce scorie!

L'unica vera differenza che distingue l'umano da tutto il resto è la coscienza, cioè la possibilità di agire in libertà, autonomamente e non secondo una legge stabilita per natura (e che produce l'istinto negli animali e nelle piante). L'elemento della coscienza è così profondo da essere insondabile, è più vasto dello stesso universo.

Il fatto che ognuno di noi abbia un'energia psicofisica capace di trasformare la sostanza e l'apparenza del corpo, è ovviamente indimostrabile. La trasformazione del bruco in farfalla impedisce alla farfalla di comunicare con altri bruchi. L'unica cosa che il bruco dovrebbe sapere è che è destinato a trasformarsi in farfalla. Ma non sa neppure questo, come l'embrione umano non sa che diventerà uomo o donna in una dimensione diversa da quella uterina.

Un adulto, guardando queste trasformazioni inevitabili, può ipotizzare che la morte non sia affatto la fine di tutto ma soltanto la fine di una particolare dimensione della vita. La trasformazione è in fondo la chiave per capire l'evoluzione delle cose. Non c'è neppure un momento in cui le cose non siano soggette a mutazione.

Interpretare la mutazione in chiave religiosa è mistificante, anche se a volte, per intuizione, la riflessione mistica può cogliere aspetti di verosimiglianza (come le leggi della dialettica furono scoperte dal politicamente conservatore Hegel, che poi le utilizzò contro la stessa dialettica).

In particolare la religione cristiana ha trasformato il cosiddetto “aldilà” in un'occasione per riscattarsi dal fallimento della realizzazione della giustizia sociale sulla terra. Il “giudizio universale” è il surrogato mistico della sconfitta del giudaismo nei confronti dei Romani.

Si è addirittura arrivati a sostenere, soprattutto con Paolo di Tarso, che il Cristo, accettando di morire in croce, ha riconciliato l'umanità con dio. Ma questo è solo un sogno mistico, una speranza illusoria con cui s'è cercato di rimediare alla propria pochezza rivoluzionaria. In realtà, se davvero il Cristo va considerato come un “prototipo dell'umanità”, noi ci siamo destinati, avendolo crocifisso, a spaventose sofferenze, a sicura autodistruzione, e non tanto perché ci attende una terribile vendetta, quanto perché, non avendo più un “modello” da imitare, saremo inevitabilmente costretti a sperimentare tutte le assurde forme di disumanità che vorremo inventarci. Quando non si riesce ad essere se stessi, quando, guardandosi allo specchio, si vede solo un corpo in frantumi, incapace di ricomporsi, la violenza diventa la regola, contro gli altri, la natura e se stessi. Dobbiamo soltanto sperare che di tanto in tanto vengano fuori altri “prototipi dell'umanità”.

Insomma l'unica prova che abbiamo dell'esistenza di una dimensione diversa da quella terrena è data dalla Sindone, che avrebbe dovuto essere considerata una “prova” o, se si preferisce, un indizio anche nel caso in cui l'uomo ivi raffigurato o impresso non avesse subito la crocifissione e quelle indicibili torture, ma fosse semplicemente morto di vecchiaia.

Quella è una prova che il corpo è un prodotto dell'energia e che l'energia è in grado di trasformare il corpo in una forma diversa da quella che noi consideriamo abituale e, infine, che non c'è energia senza materia (il “puro spirito” non esiste). Non solo, ma il fatto che la trasformazione sia avvenuta in un corpo umano ci porta a credere che tra l'essenza umana e la materia dell'universo non vi sia una differenza sostanziale.

Noi possiamo ipotizzare che p.es. nei cosiddetti “buchi neri” venga inghiottita della massa inerte ed espulsa come nuova massa pulsante. Ma non possiamo sapere come ciò avvenga. Possiamo soltanto intuire che, a certi livelli, tra massa ed energia non vi è alcuna differenza. L'energia è il modo di porsi della massa e questa è il modo di porsi di quella, il loro reciproco modo di esistere, di modificarsi, di trasformarsi continuamente, restando, nell'essenza, sempre se stesse. Vi è all'origine di tutto qualcosa che, pur nella incredibile varietà delle forme che genera, resta sempre uguale.

Se noi stessi, da giovani, potessimo vederci in uno specchio nelle sembianze della nostra futura vecchiaia, sicuramente avremmo qualche difficoltà a riconoscerci, ma fino a un certo punto. È vero che la trasformazione è sempre così forte in natura che solo nella dimensione lenta del presente può essere vissuta. Questo, peraltro, rende del tutto inutile la fissazione della trasformazione nella scrittura, che è anch'essa, non meno della religione, un'esigenza di perfezione del tutto illusoria.

E tuttavia noi restiamo noi stessi. Persino un estraneo potrebbe accorgersi che in fondo non siamo molto cambiati, se avesse modo di frequentarci per un po' di tempo, dopo che per molto tempo ci aveva perso di vista.

Nessun mezzo è in grado di riprodurre adeguatamente la trasformazione in cui l'essenza umana resta uguale a se stessa, se non quello della coscienza, che è il prodotto più significativo dell'energia cosmica, l'intelligenza e insieme la sensibilità che rendono “umana” la natura, la materia e la stessa energia.

Certo è che se con la morte del Cristo noi, come “prodotto derivato”, fossimo convinti d'aver eliminato definitivamente il “prodotto originario”, al punto di non poter più sapere quale sia la nostra vera identità, non ci porremmo neppure il problema di come resistere alla disumanità.

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18) Perché il concetto di resurrezione è mistificante?

I

Ciò che dice Ambrogio Donini, ribadendo acriticamente tesi altrui, e cioè che “il racconto del rinvenimento della tomba vuota, a Gerusalemme, è nato posteriormente a un'altra interpretazione apologetica della resurrezione, quella galilaica, che pone nella regione settentrionale della Palestina le prime apparizioni del Cristo risorto"45, può essere vero dal punto di vista redazionale (in fondo i vangeli sono stati scritti molto tempo dopo la predicazione petro-paolina, ch'era anzitutto orale), ma non ha senso dal punto di visto logico. O, se vogliamo, può avere un senso dal punto di vista ideologico, in quanto alla tesi mistificata della resurrezione si cercarono in seguito riscontri pratici, ma non ha senso dal punto di vista cronologico, in quanto a quella tesi, di fatto, ci si arrivò solo dopo aver visto la tomba vuota.

Lo dimostra il fatto che i racconti che descrivono la tomba vuota, una volta depurati dalle incrostazioni mitologiche del misticismo cristiano, risultano molto più realistici di qualunque racconto di resurrezione. È negli Apocrifi che viene descritto il momento della resurrezione.

I racconti di resurrezione, che hanno tutti un valore meramente simbolico, essendo stati scritti ben oltre il 70, quando la prima generazione di nazareni era praticamente scomparsa, e che al massimo riflettono tensioni intracomunitarie tra correnti pro o contro l'idea petro-paolina di resurrezione, sono stati elaborati proprio perché non si riteneva più sufficiente quello sulla tomba vuota (trasmesso oralmente all'inizio) per incrementare la linfa vitale del neonato “movimento cristiano” (nel vangelo di Luca si parla addirittura di “ascensione”). Nella chiusa posticcia di Marco questo è molto evidente.

Lo stesso Paolo, che non conosce alcuna Sindone o non ne mostra alcun interesse, non si servì mai della tomba vuota per divulgare il proprio concetto di resurrezione, che per lui andava accettato qua talis, come forma ipostatizzata della fede cristiana: “Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede”, scrive nella prima lettera ai Corinti (15,14).

D'altra parte che la tomba vuota di per sé non porti alla fede è dimostrato anche dal fatto che invece di parlare di un ingresso chiuso, gli evangelisti preferirono dire ch'era aperto: col che gli avversari Giudei poterono facilmente sostenere la tesi del trafugamento del cadavere (contro cui si sente indotto a intervenire Matteo, con la sua fantasiosa versione dei militari posti a guardia del sepolcro). Stranamente comunque nessuno venne denunciato per furto di cadavere (le leggi romane e giudaiche erano molto severe a riguardo).

Non dimentichiamo che i racconti evangelici non sono stati scritti di getto, a tavolino: sono il frutto di un lavoro collettivo, durato decine di anni, in cui quei testi saranno stati letti migliaia di volte. I Sinottici non presentano mai contraddizioni decisive nei punti strategici dell'ideologia petro-paolina. Anche quando, p. es., ci tengono a sottolineare che alcune donne assistettero di persona alle fasi della sepoltura, ciò non viene scritto soltanto per dire che dopo i cosiddetti “tre giorni” esse andarono coi loro unguenti per compiere una regolare inumazione, ma anche e soprattutto per qualificare proprio loro come testimoni di un effettivo decesso, visto che in quel momento non poté essere presente, per motivi di sicurezza, alcun apostolo: cosa che porta a escludere categoricamente l'ipotesi della morte apparente.46

Il racconto della tomba vuota, ridotto all'osso, non è altro che la constatazione di una misteriosa scomparsa del cadavere di Gesù, cui, umanamente parlando, non si riuscì mai a trovare un'esauriente spiegazione. Si dubitò giustamente dell'idea del trafugamento, vedendo la Sindone ripiegata e posta da una parte; e si era assolutamente convinti che sulla croce il Cristo fosse davvero morto: il colpo di lancia nel costato lo attestava in maniera inequivoca, e fu così anche per il soldato che l'andò a riferire a Pilato: quel “colpo di grazia”, in cui la lama arrivava dritta al cuore, doveva togliere il dubbio che il condannato fosse semplicemente svenuto.

Ora, siccome noi dobbiamo dare per scontato che il corpo di Cristo non sia mai più stato ritrovato, né sia mai più riapparso, redivivo, a nessuno, per cui nessuno poteva dire con sicurezza che fine avesse fatto, è giocoforza pensare che i racconti di resurrezione siano serviti per risolvere, in maniera fantasiosa, un problema rimasto irrisolto, un problema che tale era solo per la prima generazione del movimento nazareno, quella che s'era politicamente impegnata col Cristo e che fino al 70 resterà protagonista del cristianesimo palestinese.

Tuttavia, quando quei racconti furono materialmente elaborati, esisteva già, come tesi dominante, l'interpretazione mistificante di Pietro, secondo cui la tomba vuota andava ufficialmente interpretata come “resurrezione”, cioè come soluzione definitiva al problema della morte, fatto passare, falsamente, come problema principale della predicazione del Cristo, al punto che si dovette inventare una nuova interpretazione di taluni testi originari dell'Antico Testamento, mostrando che la morte del messia era già stata profetizzata. E, sulla base di questo, Pietro sostenne la parusia imminente del Cristo, altrimenti – secondo lui – non avrebbe avuto alcun senso lasciarsi giustiziare in quella maniera: si sarebbe infatti potuta dimostrare la vittoria sulla morte anche morendo in modo naturale, di vecchiaia.

Che poi in alcuni racconti di resurrezione venga detto che Gesù risorto già “precedeva” gli apostoli in Galilea (Mc 16,7) o che li avrebbe inviati “in tutto il mondo” (Mc 16,15), o che gli apostoli “stavano sempre nel Tempio a lodare Dio” (Lc 24,53), quando durante la sequela politica a Gesù non lo fecero mai, ciò fa parte del peso diverso che, nella elaborazione dei vangeli, ebbero questi o quei gruppi cristiani di origine ebraica o ellenistica.

Qui insomma si vuole sostenere che i racconti di resurrezione cominciarono a essere messi per iscritto, vagliati e accettati canonicamente, quando la trasformazione del movimento nazareno da politico a religioso era un fatto da tempo acquisito, al punto che probabilmente tutta la prima generazione di cristiani politicamente impegnata era scomparsa in occasione della guerra giudaica del 66-74.

Chi aveva messo in discussione questa impostazione del problema della tomba vuota o era stato emarginato (come Giovanni) o minacciato di scomunica (come Tommaso, che alla fine si dovette ricredere), e anche l'assassinio dei due Giacomo da parte dei Giudei (il fratello di Giovanni e il fratello di Gesù) dovette avere una qualche relazione con quel fatto (i Giudei erano forse disposti a credere nella resurrezione solo a condizione che si verificasse un'imminente e trionfale parusia?).

Il che sta a significare che il cristianesimo petro-paolino era riuscito a spostare l'attenzione da problematiche (vere) di tipo politico a problematiche (false) di tipo religioso, e sulla base di questa traslazione di contenuti, esso incontrava opposizioni che potevano anche avere, indirettamente, un contenuto politico, il quale però era senza dubbio molto diverso da quello originario del Cristo. Appare sconcertante vedere negli Atti degli apostoli quanto la comunità cristiana post-pasquale di Gerusalemme fosse ligia alle tradizioni giudaiche e al culto nel Tempio.

Per secoli gli storici sono stati convinti che la resistenza cristiana alle forzate conversioni all'idea che l'imperatore fosse una divinità, avesse un contenuto politico alternativo a quello dominante, ma fu proprio la svolta teodosiana a dimostrare che il contenuto politico cristiano non aveva nulla di alternativo ai rapporti di classe dominanti.

Tutta la storia della Chiesa (specie quella delle eresie cristologiche) può essere letta come il tentativo di sfruttare argomentazioni religiose, da parte di forme oppositive “ereticali”, per affermare un qualche contenuto politico favorevole ai ceti subalterni, i quali però non arriveranno mai a mettere in discussione l'essenza religiosa del cristianesimo petro-paolino. Quest'essenza ha cominciato a essere decisamente negata solo in tempi molto recenti, coi primi tentativi di leggere le vicende del Cristo in chiave politico-eversiva o ateistica.

II

Ora vediamo quali sono i documenti canonici, extra-evangelici, del Nuovo Testamento che sostengono, in un modo o nell'altro, la tesi petrina relativa alla “morte necessaria” del messia e alla sua “resurrezione”, la quale è già ben presente nel vangelo di Marco: 8,31; 9,9 s.; 9,31; 10,32 ss., successivamente adottata, senza varianti, dai vangeli di Luca: 9,22; 18,31 ss., e di Matteo: 12,38 ss.; 16,21; 17,9.22 s.; 20,17 ss.

È noto invece che nel vangelo di Giovanni non esiste alcun riferimento all'idea di “morte necessaria”: l'unico è quello, chiaramente interpolato, presente nel racconto della cacciata dei mercanti, in cui il Cristo afferma: “Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo riedificherò” (2,19), ch'era un semplice invito a credere nella possibilità di costruire la democrazia dopo aver eliminato la corruzione della casta sacerdotale. L'interpretazione confessionale volle equiparare il tempio al corpo di Cristo crocifisso e i tre giorni a quelli che occorsero agli apostoli per accorgersi della tomba vuota. In questo essa non fece che ribadire la versione allegorica già espressa nella glossa di Gv 2,21 s.: “Gesù parlava del tempio del suo corpo”. In Gv 2,29 e 10,17 Cristo è soggetto di azione e si è sostituito a dio.

Ecco ora i documenti neotestamentari divisi per probabile anno di pubblicazione.

Anno

Fonte

Analisi del contenuto

51 circa

1Ts 1,9b-10

Paolo si rivolge a cristiani di origine ebraica, residenti fuori della Palestina, dicendo loro che la morte è stata sì necessaria, ma la parusia è imminente; poi, siccome lo accusavano di ciarlataneria, è costretto a rettificare, nella seconda lettera, ch'essa deve prima essere preceduta da segni premonitori, molto negativi. È evidente l'analogia con l'Apocalisse di Giovanni, ma anche con la prima predicazione di Pietro, il quale, finché crederà nella parusia imminente, non potrà accettare l'idea paolina di mettere ebrei e gentili sullo stesso piano.

54 circa

Gal 1,1 ss.

Paolo conferma quando detto in 1Ts, che Gesù è stato “destato dai morti” da dio-padre, e precisa che quest'idea non è sua ma di Pietro (che lui, quand'era fariseo, perseguitava proprio per questa ragione), anche se è stata sua l'idea di diffonderla presso i pagani, nella convinzione che tra loro e gli ebrei non dovesse esserci più alcuna differenza. Singolare il fatto che quando, tre anni dopo la sua conversione, egli arrivò a Gerusalemme per incontrarsi con gli apostoli, vide soltanto Pietro e Giacomo fratello di Gesù. Evidentemente l'idea petrina non era stata condivisa da tutti gli apostoli.

54-57 circa

1Cor 6,14;
15,1-14

Paolo conferma l'idea che è stato dio-padre a resuscitare il figlio e, per la prima volta, afferma esplicitamente che “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto."

Paolo quindi fa proprie le interpretazioni forzose dell'Antico Testamento operate da Pietro47, e fa chiaramente capire che il primo ad elaborare la tesi della “morte necessaria” e quindi della “resurrezione” è stato proprio Cefa (= Pietro). Il secondo apostolo ad averla accettata fu Giacomo, fratello di Gesù. Non si citano altri nomi di apostoli, anche se non si può escludere che alcuni di loro condividessero la tesi di Pietro.

57 circa

2Cor 1,9;
4,14;
5,15; 13,4

L'importanza del dio-figlio rispetto al dio-padre tende a diminuire nelle lettere di Paolo, in quanto il suo ruolo si riduce a essere quello di “mediatore” tra dio e l'umanità. La comunità diventa sempre più “clericale”. Gli uomini saranno “risorti” esattamente come Cristo, poiché sono tutti figli di dio. Cristo è stato crocifisso per la debolezza umana, ma vive per la potenza di dio. Paolo lascia capire che la potenza di dio si sarebbe manifestata anche se Cristo non fosse morto in maniera violenta. Il figlio doveva semplicemente dimostrare che la morte è solo un momento di passaggio e che tra dio e gli uomini non vi è un abisso incolmabile.

57 circa

Rom 1,1-4;
4,24 s.;
6,4-9;
7,4;
8,11.33 s.;
10,9;
14,9

Paolo qui precisa che la debolezza degli uomini è connaturata al loro essere, in quanto dipendente dal peccato d'origine, per cui nell'ambito della legge è impossibile all'uomo compiere il bene (al massimo può evitare di compiere quel male che la legge gli vieta). Cristo non poteva non morire in modo violento; sarebbe stato giustiziato anche se non fosse vissuto in Palestina, come lo sono i cristiani di origine ellenistica. La sua morte violenta è stata una dimostrazione della forza del peccato originale, che aveva portato l'umanità alla morte, che però è stata vinta grazie alla resurrezione di Cristo. Ora gli uomini sanno che se credono in una giustizia nell'aldilà, possono salvarsi.

61-63 circa

Fil 2,5 ss.;
3,10

Cristo ha accettato volontariamente di morire, secondo un disegno imperscrutabile del padre, che l'ha esaltato al massimo proprio perché lui s'è umiliato in maniera spropositata, essendo non solo uomo ma anche dio.

61-63 circa

Col 1,18;
2,12;
3,1

Cristo è risorto per sedere alla destra del padre, quindi è giudice e sovrano universale.

61-63 circa

Ef 1,19-20

Alla resurrezione credono solo i predestinati.

64-67 circa

1Tim 3,16

Paolo prevede che negli ultimi tempi ci saranno fenomeni di apostasia all'interno del proprio cristianesimo. Lo dice perché ha rotto definitivamente con la comunità di Gerusalemme. Invece di sostenere che il Cristo redivivo apparve agli apostoli, preferisce dire che apparve agli “angeli”.

64-67 circa

2 Tim 1,10;
2,8

Paolo, dicendo che “Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio vangelo”, fa capire che la tesi della resurrezione sia soprattutto sua, in opposizione alla comunità di Gerusalemme.

64-67 circa

Eb 7,8.24

Cristo è mediatore tra dio e gli uomini in quanto “sacerdote”.

64 circa

1Pt 1,3.21;
3,21s.

Pietro, rivolgendosi a cristiani-ebrei, crede ancora in una parusia imminente, in quanto il Cristo nei cieli già domina su Principati e Potestà. Tornerà dopo che avrà convertito i morti nell'aldilà.

75 circa

At 1,3.21 s.;
2,23.31 s.;
3,15.26;
4,10; 5,30;
10,40 s.;
13,30-37;
17,3.18.31 s.;
25,19

In At 2,31 si sostiene addirittura che la resurrezione di Cristo fu prevista da Davide e in 13,33 che agli antichi padri non venne fatta la promessa di una terra libera ma che Gesù sarebbe risorto!

Si conferma inoltre che i testimoni della resurrezione furono “prescelti” dal Cristo.

Il testo più importante di quelli citati è 1Cor 15,1-14, carico di espressioni semitiche:

"Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto. Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”.

Paolo vuol far passare la morte di Cristo (qui usato come nome proprio e non come funzione messianica) come “necessaria”, prevista da dio (“secondo le Scritture”), indipendente dalla volontà degli uomini, in quanto “inevitabile” a causa dei “peccati degli uomini”, e anzi, “in favore di questi peccati”, poiché, proprio in virtù della resurrezione (anch'essa prevista dalle Scritture), agli uomini è stata data la grazia, cioè la possibilità di salvarsi semplicemente per fede, senza aver bisogno di realizzare sulla terra un regno di liberazione.

Questa lettura assolutamente arbitraria della tomba vuota non è originaria di Paolo ma di Pietro. Lui stesso scrive al v. 5 che il primo a vedere “Cristo risorto” (“apparve” qui usato in senso oggettivo) fu Cefa = Pietro (confermato anche da Lc 24,34). L'espressione successiva: “poi ai Dodici”, non essendo paolina, è stata aggiunta successivamente, anche perché al v. 7 viene ripetuta: “poi agli apostoli tutti”, questa volta intendendo con la parola “apostolo” non il gruppo dei Dodici (anzi degli Undici), ma chiunque accettasse e divulgasse la tesi petrina, tra i quali si mette lui stesso (“l'infimo degli apostoli”).

Tra i Dodici, oltre a Pietro, viene citato espressamente solo Giacomo fratello di Gesù, anche se nella lettera ai Galati dirà che “Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi” (2,9). Frase, questa, sicuramente interpolata, in quanto Giacomo viene citato prima di Pietro e si parla ancora di Giovanni, quando negli Atti questo apostolo scompare subito di scena.

Se Paolo li avesse davvero incontrati insieme, il primo a essere ricordato o citato sarebbe stato Pietro e se avesse incontrato Giacomo come capo della Chiesa, gli altri due non avrebbero più dovuto esserci. Nella stessa lettera aveva detto in 1,18-20 che “dopo tre anni [dalla conversione di Damasco, avvenuta nel 36-37] andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo, io attesto davanti a Dio che non mento”. (Giovanni quindi non era più tra i Dodici).

La Chiesa di Gerusalemme non si fidava di Paolo. Emissari di Giacomo agivano tra i suoi convertiti, respingendo la sua pretesa al titolo di apostolo. Il tentativo di Paolo di trovare un compromesso con Giacomo fallì tragicamente: Paolo fu arrestato nel 55 e la sua eclissi durò fino al 66, ma solo dopo il 70 i cristiani di origine non ebraica riusciranno a rivendicare piena autonomia da Gerusalemme.

III

I) Paolo non parte da un fatto, la tomba vuota, ma da un'esigenza frustrata: la liberazione dalla schiavitù e dall'oppressione, che considera utopica in senso politico. In tal senso non vuole dimostrare che Gesù è risorto, ma vuol partire da ciò che i cristiani predicavano prima di lui, che a lui pare una soluzione accettabile al fatto che la liberazione politica non è possibile.

Il concetto mistico di “resurrezione” sostituisce quello politico di “liberazione”, in maniera sublimata, consolatoria: ci si salva in modo “religioso” non “sociale” (l'oppressore è personificato dalla “morte”, non dallo “schiavista”). Se non ci fosse la “resurrezione”, ci sarebbe solo “disperazione”, essendo impossibile la “liberazione”. La resurrezione diventa l'ultima spiaggia prima della disperazione politica.

Paolo doveva essere molto odiato non solo da quelli che volevano l'insurrezione armata contro Roma, ma anche da quelli che attendevano una parusia imminente e trionfale del Cristo risorto.

II) In nessun punto delle sue Lettere Paolo sostiene che il Cristo si sia “autodestato”, senza alcun intervento esterno, eteronomo (infatti un Cristo che si “autodesta” è indizio di ateismo). Egli anzi fa capire che, essendo già i pagani credenti in un dio-padre, pur a fianco di molti dèi (idoli), non era possibile presentare Cristo come unico dio, nel senso divino-umano, poiché, essendo egli di origine ebraica, i pagani non l'avrebbero creduto.

Cristo viene proposto non come “unico dio-uomo” ma come “prodotto di dio”, in quanto “unigenito”. Tutti gli altri dèi sono falsi e la Chiesa col tempo li trasformerà in santi e angeli. Tutti i miti sugli dèi vengono sostituiti da un unico nuovo mito sul Cristo, fatto passare per “figlio unigenito generato da dio-padre”, preannunciato dai profeti veterotestamentari. In tal modo s'invitavano i pagani a far propria anche la cultura ebraica, sottoposta a rilettura tendenziosa, finalizzata a far credere che l'evento-Cristo era già stato previsto, in figura, nella storia passata d'Israele.

Ci vorranno tre secoli prima di capire che questa operazione culturale avrebbe potuto fare da puntello ideologico al centralismo imperiale.

IV

La questione della tomba vuota è ineludibile per capire la nascita del cristianesimo. Dal tempo dei Maccabei all'ultima rivolta giudaica contro Roma, nel 132 d.C., Israele è stata piena di sovversivi che venivano giustiziati e poi sepolti in qualche tomba o in fosse comuni, ma da nessuno di loro venne fuori una nuova religione.

Se Gesù non fosse scomparso dalla tomba, sarebbe parso come uno dei tanti martiri della libertà e dell'indipendenza nazionale. È quindi inevitabile pensare che l'evento della tomba vuota, cioè della misteriosa scomparsa del cadavere di Gesù, dovette risultare un'esperienza scioccante per i suoi discepoli: una cosa che gli ebrei, refrattari com'erano ai miti pagani, non avrebbero tanto facilmente potuto accettare. Infatti se la scomparsa di tale corpo fosse stata completamente inventata, difficilmente si riuscirebbe a capire perché altri ebrei, con altri martiri della libertà, non abbiano fatto la stessa cosa.

Il punto però è un altro. Noi diamo per scontato che il concetto di “resurrezione” non è che un'interpretazione arbitraria della tomba vuota, poiché esso implica una “riapparizione” del corpo redivivo del Cristo, che però non ci fu, né avrebbe potuto esserci, senza violare la libertà di coscienza dei testimoni oculari. Persino sulla croce non si sente Gesù dire alla madre o al discepolo prediletto che sarebbe uscito dal sepolcro dopo morto o che avrebbero dovuto conservare la Sindone in segno di ricordo. Se poteva sapere sin dall'inizio che la sua strategia politica poteva implicare la crocifissione, non poteva sapere come l'avrebbero seppellito. L'intervento di Giuseppe d'Arimatea fu puramente casuale (mentre lui andò da Pilato a chiedere la salma, uno dei suoi servitori sarà andato a comprare il lenzuolo) e tutto quanto avvenne dopo che Gesù esalò l'ultimo respiro va considerato puramente fortuito, salvo appunto il fatto che il suo corpo non avrebbe tollerato una sepoltura “umana”, né regolare né affrettata. Ma di questo non poteva rendere edotta alcuna persona, e per la stessa ragione non avrebbe potuto scomparire subito dopo che avevano messo i legacci attorno al lenzuolo, mostrando agli astanti la sua vera natura.

Dunque, se la tomba vuota fosse stata semplicemente interpretata per quello che era, cioè come una strana scomparsa di un cadavere non trafugato da nessuno, sarebbe nato lo stesso il cristianesimo? O, se si preferisce, avrebbe potuto esserci un movimento che proseguisse la predicazione politica del Cristo?

La risposta può essere affermativa, ma a condizione di togliere al cristianesimo qualunque caratterizzazione mistica. Infatti, sarebbe stato del tutto normale vedere che le idee di un leader rivoluzionario, tradito da alcuni suoi compagni e giustiziato dai suoi nemici, venissero portate avanti dai suoi seguaci esattamente come lui avrebbe voluto.

Ma allora perché la cosa non è avvenuta con altri leader rivoluzionari, morti e sepolti come lui? Il motivo sta nel fatto che il messaggio di Gesù conteneva elementi inediti per il giudaismo dell'epoca. Questi elementi meritavano d'essere conservati e anzi approfonditi a prescindere dalla tomba vuota. Che ciò sia stato fatto, purtroppo, inserendoli in una cornice del tutto mistica, va addebitato ai limiti contestuali di spazio e tempo, ma questo non significa che quegli elementi siano andati completamente perduti o non possano essere recuperati nella loro formulazione originaria. D'altra parte se Gesù fosse esistito in altri tempi e luoghi, nulla avrebbe potuto impedire il formarsi di una mistificazione nei suoi confronti: sarebbero state diverse soltanto le forme.

Piuttosto dobbiamo chiederci: visto che Gesù Cristo non era un semplice ribelle come Spartaco, ma era anche un intellettuale in grado di elaborare un pensiero divergente rispetto ai canoni dominanti o una concezione alternativa della vita48 o comunque una modalità diversa con cui mettere in atto i valori più significativi della società del suo tempo, sistematicamente traditi dall'establishment politico-religioso che gestiva il Tempio e che occupava i seggi del Sinedrio; posto tutto ciò, quali sono i criteri di comportamento del Cristo che possiamo utilizzare ancora oggi per superare gli antagonismi irriducibili del nostro tempo? Cioè, eliminando dal nostro orizzonte politico l'evento della tomba vuota, su cui non si può affermare nulla con sicurezza, che cosa resta di Gesù che possa avere un significato per l'uomo contemporaneo che lotta contro le ingiustizie del sistema?

Se non si è in grado di rispondere a una domanda così semplice, è meglio lasciar perdere qualunque riflessione sul “caso Gesù”. Oggi, infatti, siamo alle prese, come duemila anni fa, con sistemi non meno oppressivi e violenti, da cui ci si vorrebbe liberare. Anzi, si ha a che fare con contraddizioni planetarie, non circoscritte in aree geografiche particolari, con problemi di una tale gravità che paiono mettere a rischio l'esistenza stessa del genere umano. Chi vuole cercare una soluzione, non ha molto tempo da perdere.

Ecco perché gli esegeti, se vogliono continuare a tener desta l'attenzione sul “caso Gesù”, devono sapere indicare le modalità, desunte dal suo comportamento o dalla sua predicazione, che possano esserci di una qualche utilità. E di sicuro tali modalità non devono aver nulla di religioso.

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19) L'uso strumentale della morte di Cristo

I risultati della critica

La scuola critico-razionalista dei vari Reimarus, Paulus, Strauss, Bauer, Renan, von Harnack, Loisy ecc. ha sempre considerato impossibile la resurrezione di Gesù, al pari di tutti gli altri miracoli, in quanto contrari alle leggi di natura, assolute e immutabili.

Le spiegazioni dei razionalisti riguardo alla versione della tomba vuota e della presunta resurrezione di Gesù sono state di varia natura:

– il trafugamento del cadavere;

– un errore di identificazione del sepolcro;

– un'allucinazione collettiva degli apostoli (fenomeno parapsichico);

– il racconto della tomba vuota è una tradizione tardiva portata come prova della resurrezione;

– le testimonianze delle donne presso il sepolcro vuoto e quelle degli apostoli che l'hanno interpretato come resurrezione di Gesù, sono state unificate solo tardivamente;

– la comunità apostolica resuscitò Gesù simbolicamente.

Secondo la successiva scuola mitologista è molto probabile che la testimonianza apostolica: “Gesù è risorto”, detta in lingua aramaica, andasse interpretata in senso mistico-figurato. Solo che quando essa venne tradotta nell'ambiente ellenistico, ove il cristianesimo di sviluppò, la si intese in senso storico-letterale.

Bultmann arrivò a dire che “Gesù è risorto nel kerigma”, ovvero che “il senso della fede pasquale è di credere al Cristo presente nel kerigma”. Non sarebbe dunque importante sapere se Gesù è veramente risorto, ma che così si è predicato subito dopo la sua morte.

Marxen, suo discepolo, non si esprime molto diversamente: “Nell'indagine storica dietro i nostri testi noi non incontriamo il fatto della resurrezione di Gesù, bensì la fede della comunità primitiva dopo la morte di Gesù” (La Risurrezione, 1968). Gli apostoli volevano semplicemente dire che Gesù era risorto in loro, la loro fede era risorta in lui. Insomma una questione ermeneutica, linguistica o, se vogliamo, psicologica.

Reinach e Orpheus collocano inoltre la resurrezione nel clima delle religioni misteriche pre-cristiane: i cristiani avrebbero adattato a Gesù alcune leggende pagane relative a dèi che muoiono e risorgono periodicamente (Attis, Adone, Dioniso, ecc.).

In genere questi esegeti ritengono che gli apostoli abbiano sì raccontato un fatto che non era accaduto, ma non per questo si deve mettere in dubbio la loro buona fede.

Per quale motivo queste posizioni esegetiche oggi non possiamo considerarle più utili per operare una transizione dal cristianesimo all'umanesimo laico? Quel che manca alle interpretazioni critiche del cristianesimo primitivo non è tanto una lettura materialistica dei vangeli (poiché anche questa è largamente presente nelle opere di Kautsky, Brandon, Belo, Girardet, Craveri, Boff..., sino alle più recenti di Tranfo, Donnini, Cascioli, Mazzero, Catalano...), quanto una lettura che, pur dando per scontato l'evento fondamentale della tomba vuota, si misuri alla pari con la Chiesa cristiana, per riuscire a smontarla dall'interno, nei suoi presupposti irrinunciabili.

In altre parole noi dovremmo porci la domanda su quali difficoltà insormontabili avremmo nell'accettare la tomba vuota. Supposto cioè ch'essa sia stata un evento reale e non immaginario, l'interpretazione data dagli apostoli (anzitutto Pietro) era l'unica possibile?

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20) Cristo politico

Facciamo un passo indietro e chiediamoci il motivo per cui il tentativo rivoluzionario del Cristo politico è fallito. Le domande sono tre:

– aveva scelto il momento sbagliato?

– aveva scelto il popolo sbagliato (Giudei invece che Galilei)?

– aveva scelto il metodo sbagliato?

Sul metodo sarebbe difficile discutere. Dobbiamo infatti dare per scontato ch'egli avesse scelto quello più democratico e che la decisione di accettare la croce sia stata vissuta in coerenza con tale metodo. Nonostante il tradimento di Giuda nella notte decisiva e la defezione dei discepoli nel corso dei processi a suo carico, egli in fondo riuscì nel suo intento: sacrificarsi per salvaguardare l'incolumità del suo movimento, che ovviamente, dopo la sua morte, avrebbe dovuto riorganizzarsi per realizzare il progetto originario: la liberazione della Palestina dai Romani e dai loro collaborazionisti istituzionali.

Il Cristo non cercò la morte à tous prix: se avesse considerato il martirio la suprema testimonianza della verità non sarebbe fuggito ogniqualvolta volevano linciarlo, e non si sarebbe nascosto sul Getsemani quando vennero a prenderlo nel Cenacolo. La teologia paolina secondo cui il dio-padre aveva bisogno del sacrificio del dio-figlio affinché si riparasse il torto subìto a causa del peccato d'origine (come se il padre possa fare del figlio quel che gli pare o come se il figlio si debba sentire in dovere di concedere al padre qualunque cosa gli chieda), è un'aberrazione su cui pesano forti condizionamenti veterotestamentari.

Il Cristo accettò la morte semplicemente per rispettare la libertà dell'uomo, a partire dal tradimento di Giuda e dal rinnegamento di Pietro, e per non tradire la propria. Cosa deve fare un leader rivoluzionario quando ad un certo punto s'accorge che l'appoggio delle masse o il mancato appoggio lo porterebbe ad agire in contrasto coi propri princìpi democratici? Nel primo caso i Galilei volevano che diventasse re, nel secondo i Giudei gli impedirono di diventarlo, senza che nessuno dei due popoli capisse il concetto di democrazia.

Sul metodo quindi varrebbe la pena discutere se guardassimo più da vicino quello degli avversari politici, siano essi conservatori o sedicenti rivoluzionari; forse allora scopriremmo che di tutti i metodi politici usati per salvaguardare l'identità ebraica e per realizzare l'indipendenza nazionale, quello del Cristo, se fosse stato applicato con coerenza, sarebbe risultato il più sicuro, il più convincente. La Palestina infatti non fu salvata né dai collaborazionisti, che tramando contro il movimento nazareno, speravano d'ottenere più privilegi da parte di Roma, né dagli estremisti zeloti, che non seppero mai realizzare un vero movimento di massa.

Più importante invece è la questione della scelta del momento. Noi non dobbiamo dimenticare che l'iniziativa politica di Gesù si colloca tra la disfatta zelota in seguito al rifiuto del censimento di Quirino e l'iniziativa protestataria del Battista. Per capire qualcosa degli zeloti bisogna andarsi a leggere le opere di Giuseppe Flavio. Nei vangeli ovviamente non se ne parla, poiché in essi la punta avanzata, prima della nascita del movimento nazareno, della resistenza anti-romana e anti-sadducea, condotta in maniera democratica, è rappresentata dal movimento esseno di Giovanni Battista, la cui identità non era politica, come quella dei nazareni, ma pre-politica, con valenze etiche (battesimo di penitenza) e giuridiche (le accuse di Giovanni a Erode Antipa).

Il Cristo non fa che portare la pratica del battesimo alle sue più logiche e operative conseguenze politiche: una parte (minoritaria) dei battisti accettò la trasformazione rivoluzionaria partecipando all'epurazione del Tempio; l'altra parte invece la rifiutò, e la ricomposizione dei due movimenti avverrà soltanto dopo la morte del Cristo, quando nascerà il movimento “cristiano” di Pietro e di Paolo.

La fine del rapporto col battismo segnò per i nazareni l'inizio del rapporto coi farisei (rappresentati nel vangelo di Giovanni da Nicodemo, Giuseppe d'Arimatea, Giairo..., e negli Atti da Gamaliele e dallo stesso Saulo di Tarso), i quali però sembrano ancora meno disponibili dei battisti a collaborare per una liberazione nazionale che implichi la fine del primato del Tempio e l'estromissione della casta sacerdotale dalla leadership politico-religiosa. I farisei non diventeranno mai “nazareni”; al massimo, con Paolo, diventeranno “cristiani”. Finché Gesù rimase in vita essi si caratterizzarono per la loro posizione ambigua, attendista, un po' schematica, se non ipocrita, e decisamente sfavorevole all'ultimo periodo della sua vita, in quanto ritenevano del tutto prematuro, avventuroso, il suo tentativo insurrezionale e temevano – trovandosi in questo d'accordo coi rivali sadducei – che la reazione romana sarebbe stata catastrofica per i destini della nazione.

Possiamo in un certo senso ipotizzare che la decisione di trasferirsi in Galilea, da parte del Cristo, fu conseguente proprio al rifiuto dei farisei di aderire alla purificazione del Tempio, che rappresentò la prima vera iniziativa rivoluzionaria dei nazareni, quella diretta, più che contro i Romani, contro i sacerdoti, dunque la prova generale della vera rivoluzione anti-romana. Successivamente però la decisione di fare l'insurrezione, partendo proprio da Gerusalemme, dovette maturare quando almeno una parte dei farisei non sarebbe stata del tutto contraria. Era troppo forte il loro potere tra le masse perché il Cristo potesse trascurarlo. È anzi probabile, in tal senso, che Giuda fosse un fariseo e che l'ordine ricevuto nell'ultima cena (“Ciò che devi fare, fallo presto”) fosse proprio quello di verificare quale disponibilità avrebbero offerto i farisei nell'imminenza dell'insurrezione armata.

Sarebbe dunque sciocco pensare che i tempi non fossero maturi per realizzare una strategia rivoluzionaria a livello nazionale. Basta leggersi alcune fonti non cristiane (anzitutto quelle di Giuseppe Flavio) per rendersi facilmente conto di quanto forti fossero, allora, le tensioni e i fermenti ribellistici in quella regione. Il tentativo dei nazareni non fece altro che anticipare la grande guerra giudaica del 66.

Gli ebrei, così gelosi della loro autonomia, così disposti a sacrificarsi pur di salvaguardare l'identità della propria nazione, avevano buone speranze di vincere la partita contro i Romani, poiché questi, col loro imperialismo, non si erano sufficientemente stabilizzati nel Vicino e Medio Oriente. In tutta l'area mediterranea non esisteva un popolo più fortemente consapevole di quello ebraico di quale grave perdita fosse stata la fine degli antichi rapporti tribali basati sulla comunanza dei beni materiali e spirituali; non esisteva alcun altro popolo più desideroso di recuperarli all'interno di una strategia di resistenza armata. Non dimentichiamo che le rivolte scoppiate dopo il censimento del 6 d.C. terminarono definitivamente solo nel 135. Quale altro popolo dominato dai Romani poté vantare a quell'epoca una resistenza così lunga?

Ecco perché dobbiamo sostenere che il Cristo e il movimento nazareno si erano trovati nelle condizioni ideali di spazio e tempo per realizzare i loro obiettivi rivoluzionari. Questo movimento era riuscito a convogliare in un'unica iniziativa le forze di tutto il paese: da quelle galilaiche a quelle giudaiche, passando per quelle samaritane, da quelle zelote a quelle essene, da quelle urbane a quelle rurali, persino da quelle giudaiche a quelle greche, come testimonia Giovanni nel suo vangelo (12,20).

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21) Il tradimento della Chiesa

Il fallimento del grandioso progetto umano e politico del movimento nazareno è stato per così dire sublimato, dall'ideologia petro-paolina, in una concezione mistica della morte in seguito alla scoperta della tomba vuota del Cristo. Il culto della morte espiatrice e riparatrice è iniziato, nel cristianesimo primitivo, nel momento stesso in cui non si è stati più capaci di affrontare le contraddizioni della vita, espresse dall'oppressione nazionale. La paura della sconfitta ha fatto nascere l'illusione di poter trovare il coraggio di rivivere nella morte del Cristo risorto.

Paolo esprimeva bene questo concetto quando scriveva in Gal 2,20: “Non sono più io che vivo [cioè che combatto contro le contraddizioni sociali e politiche del mio tempo, 'la carne e il sangue'], ma è Cristo che vive in me [cioè è lui che mi limita a combattere contro le 'potenze dell'aria', quelle che lui già domina completamente]”. In vita la morte non si vince con la vita ma con la morte, nella fede certa della resurrezione per un'altra vita.

A partire da Pietro si fece della tomba vuota l'asse portante della vittoria sulla morte, rinunciando così a lottare nella vita per la realizzazione degli ideali che portavano alla liberazione dalla schiavitù. Intorno al concetto di “resurrezione”, che è solo un'interpretazione della tomba vuota, è nato il cristianesimo di Pietro e di Paolo, quindi è intorno a questo concetto che si deve convogliare lo sforzo esegetico della moderna cultura laica.

S'è cominciato a reinterpretarlo dopo la I guerra mondiale, con le opere di Barth e Rahner, e soprattutto dopo la scoperta fotografica della Sindone. Fino adesso su questo concetto sono state dette molte cose, che evidentemente non sono bastate a rendere evidenti le falsificazioni del cristianesimo. Vediamo le tre principali che interessano la nostra ricerca:

1. la resurrezione è servita alla Chiesa per distogliere gli uomini dall'affronto dei loro problemi reali, affidando a un risorto immaginario il compito di realizzare la giustizia in un invisibile aldilà, in un futuro imprecisato; essa ha sempre sostenuto che se la liberazione terrena non è stata possibile al Cristo, non potrà esserlo con nessun altro uomo;

2. la Chiesa, con questo concetto, ha trasformato un inspiegabile evento privato-personale di tipo biologico (che al massimo poteva essere interpretato come “scomparsa inspiegabile del cadavere”) in un fatto politico-ideologico regressivo, in quanto nell'economia salvifica del Cristo la resurrezione non aveva alcun peso (tutti i suoi cosiddetti “preannunci”, tutte le cosiddette “prefigurazioni veterotestamentarie”, tutti i racconti di apparizioni e ascensioni vanno considerati inventati);

3. la resurrezione, guardando la Sindone, non è un'interpretazione adeguata della tomba vuota non solo perché il Cristo “risorto” non fu mai visto da nessuno, ma anche perché, tecnicamente, sarebbe stato meglio parlare di “irradiazione” o di “trasformazione della materia in energia”.

L'affermazione centrale di Paolo: “Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede” (1Cor 15,14), rende evidente l'inapplicabilità del vero “vangelo” di Cristo sulla terra, in quanto esclude a priori che le idee di questo vangelo, che non fu certamente quello di Pietro o di Paolo, possano “risorgere” nelle idee di altri tentativi rivoluzionari a favore della giustizia, della libertà, dell'uguaglianza.

Se vogliamo azzardare un'interpretazione “mistica”, potremmo dire che proprio la “resurrezione” del Cristo rende vana la fede cristiana, che si è fino ad oggi servita di quella interpretazione per negare la possibilità e la necessità delle rivoluzioni. Vana è questa fede proprio perché la scomparsa di Gesù dalla tomba non cambiava niente ai fini del progetto di liberare Israele dallo sfruttamento e dalla corruzione. Cioè l'interpretazione della Chiesa è stata completamente sbagliata anche nel caso in cui Cristo fosse effettivamente risorto!

Infatti la legge della trasformazione perenne della materia, che è fondamentale nell'universo, non pregiudica affatto l'esigenza di ricercare nella vita terrena il significato che le appartiene e che non può certo essere quello della morte come “sconfitta”, né, tanto meno, quello dell'interpretazione mistica che vede nella resurrezione una “vittoria”. Il maggior tradimento della Chiesa è stato proprio quello di aver voluto far credere che senza la resurrezione, la vita di Gesù non avrebbe avuto alcun senso, ovvero che solo in virtù di essa si poteva dire con sicurezza che Gesù era, nel contempo, messia e figlio di dio. La tomba vuota in realtà non solo non costituisce una “prova” della divinità del Cristo, ma non dimostra neppure nulla sull'esistenza di Dio. Anzi un Cristo che si “autoridesta” (come risulta in Mc 16,6) rende vana l'idea stessa di Dio. Cosa che i teologi, in genere, non vogliono ammettere, in quanto le espressioni “Cristo è resuscitato da se stesso” o “È stato resuscitato da Dio” sono per loro equivalenti.49

Le parole che il Cristo disse sulla croce: “Tutto è compiuto” (Gv 19,30) non volevano affatto dire che tutto si sarebbe “compiuto” dopo la sua morte, con la sua resurrezione. Volevano semplicemente dire che tutto quanto era nelle sue possibilità era stato fatto; il resto era compito dei discepoli. Il problema non era quello di come superare la morte fisica ma quello di superare la morte etica e politica dovuta alla schiavitù e alla corruzione.

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22) Nascita e sviluppi della falsificazione cristiana

Gli apostoli, ovvero una parte di essi, non potevano mistificare il significato della morte di Cristo se nella loro falsificazione non vi fossero stati degli elementi di verità, o comunque degli elementi che potevano essere soggetti a opposte interpretazioni, essendo ambigua la loro natura: si pensi p. es. a parole come “regno”, “salvezza”, “innalzato” o “elevato”, “figlio dell'uomo”... sino alla stessa parola “fede”, che la Chiesa intende esclusivamente in maniera religiosa.

Chi pensasse che i vangeli siano soltanto una manipolazione del messaggio di Gesù, commetterebbe un grosso errore. Essi non sono, per così dire, dei “falsi patentati”, come p. es. la Donazione di Costantino o i Protocolli di Sion, proprio perché l'esperienza che volevano mistificare doveva necessariamente essere guardata non con occhi del tutto distaccati, ma all'interno di un dramma insieme politico ed esistenziale, ove gli apostoli erano direttamente coinvolti. D'altronde è risaputo che non c'è migliore falsificazione di quella che s'innesta in un contesto storicamente attendibile.

La mistificazione è stata il frutto di alcune scelte opportuniste prese dalla comunità post-pasquale guidata da Pietro, è stata una conseguenza logica, necessaria, di decisioni sbagliate che potevano anche non essere prese o che potevano essere prese diversamente. Le decisioni sono state libere, le conseguenze sono state inevitabili. E le decisioni sono state prese a prezzo di forti tensioni, conflitti, compromessi, traumatiche rotture (di cui la principale fu quella di Giovanni Zebedeo). Se i vangeli canonici fossero stati un evidente falso come quelli apocrifi, se il loro contenuto non avesse in qualche modo riflesso delle contraddizioni sociali autentiche, non avrebbero avuto un così imponente influsso sulle masse; men che meno l'avrebbero avuto dopo che, a partire dalla rivoluzione francese, si è cominciato a rileggerli senza il paraocchi della fede, evidenziando forti incoerenze, controsensi, inspiegabili lacune e omissioni.

Il cristianesimo non è semplicemente una “religione” ma una “cultura”, cioè una concezione della vita che riguarda tutti i campi dello scibile e del comportamento umani. Il fatto che col tempo esso abbia perduto un ruolo politico egemone non deve farci dimenticare ch'esso continua ad avere la pretesa di svolgerne uno sul piano sociale e culturale, aspetti, questi ultimi, che penetrano nelle profondità della coscienza umana, offrendo risposte cui bisogna trovare un'adeguata alternativa laica.

Il processo di falsificazione s'è dapprima imposto nella tradizione orale (con l'interpretazione della tomba vuota come “resurrezione”, come si può rilevare nelle lettere di Paolo), e quando s'è sufficientemente consolidato, lo si è messo per iscritto nei vangeli, cui ha dato in un certo senso l'imprimatur la stessa distruzione di Gerusalemme nel 70, che ha posto fine a quasi tutte le speranze politico-nazionalistiche degli ebrei. Per le ultime ci penserà la distruzione del 135.

Il cristianesimo petro-paolino, con la sua dottrina della “resurrezione”, ha rappresentato, dal punto di vista politico, un doppio tradimento: nei confronti del messaggio rivoluzionario del Cristo e nei confronti della volontà di resistenza antiromana del giudaismo.

Ovviamente Pietro e Paolo rappresentano soltanto dei simboli politico-intellettuali: in realtà l'autore vero dei vangeli sono delle comunità aventi origini culturali diverse (giudaiche, galilaiche, samaritane, ellenistiche, essene ecc.), legate da un'idea comune: la “resurrezione”; sono comunità che riflettono su di loro stesse, che s'interrogano sul loro destino post-pasquale e che danno, alle loro domande, delle risposte politicamente inadeguate rispetto al messaggio originario del Cristo. I vangeli di queste realtà divenute cristiane rispecchiano in maniera mistificata, cioè non semplicemente riduttiva o parziale, il vangelo nazareno del messia Gesù.

Su questo è bene esser chiari: qui non si ha a che fare con una falsificazione dovuta a incapacità tecnica o strutturale all'essere umano. Le manomissioni (interpolazioni e omissioni) compiute a livello redazionale non sono state un prodotto involontario, inevitabile, irrilevante rispetto al contesto preso nel suo insieme. Molti esegeti confessionali hanno infatti sostenuto che nessuno può riprodurre esattamente ciò che osserva; nessuna traduzione è fedele all'originale; di fronte allo scorrere del tempo nessuna memoria va esente da errori, e così via. Qui non si sta parlando di imprecisioni, inesattezze, lacune, riguardanti i dettagli di un episodio o di un evento da raccontare, ma si sta parlando di manipolazioni consapevoli, di alterazioni volute su fatti fondamentali della predicazione e della vita del Cristo. Non si è trattato di “incidenti di percorso”, di “casualità fortuite”, ma di precise responsabilità, la cui maggiore o minore gravità va interpretata obiettivamente dagli esegeti.

Si può anzi dire che i vangeli siano stati scritti soltanto dopo che la predicazione orale di alcuni apostoli era riuscita a far passare come acquisita la falsificazione di due aspetti fondamentali del messaggio cristico: quello politico riguardante l'istanza rivoluzionaria, e quello umano riguardante l'istanza ateistica. Per rendere credibile tale falsificazione era necessario un certo lasso di tempo, soprattutto era necessario estromettere dalle comunità tutti quelli che non erano disposti ad accettarla, i quali sicuramente non dovevano essere pochi tra i componenti della prima generazione del movimento nazareno.

La comunità cristiana post-pasquale, nel momento stesso in cui ha deciso di proseguire, reinterpretandolo, il cammino intrapreso da Gesù, si è assunta determinate responsabilità, ed essa va giudicata (dalla storia) non solo per le decisioni che ha preso, ma anche per il modo in cui le ha attuate. Sarebbe davvero ridicolo pensare che, solo per il fatto che dopo la morte di Gesù è esistita una comunità cristiana, successivamente ramificatasi in varie correnti, non può in alcun modo essere messa in dubbio la sostanziale continuità fra il messaggio di Gesù e quello degli apostoli (già dovrebbe indurci in sospetto, come minimo, il semplice fatto che dei “Dodici” noi vediamo protagonisti dei vangeli solo pochissimi apostoli: p. es. di Giacomo Zebedeo, uno della triade fondamentale, non sappiamo praticamente nulla, e così del protoclito Andrea, fratello di Pietro).

Spesso non ci si rende conto che quando è in atto una falsificazione, i dettagli possono anche essere incredibilmente attendibili (se mettiamo a confronto la Sindone con la descrizione delle torture subite, noteremo facilmente che sono pochissime le informazioni aggiuntive che ci offre quel reperto: i chiodi nei polsi, le cento frustate e poco altro: non è guardando queste cose che si può inferire che i vangeli “mentono”).

I vangeli non sono il frutto di un fraintendimento soggettivo, come avviene nel gioco del telefono senza filo. La canonicità di questi testi non è stata decisa da qualcuno in particolare in un unico momento, ma da un'élite di intellettuali in momenti diversi. Se nel vangelo esistono delle parole-chiave che possono essere fraintese (si pensi soltanto alla parola “spirito”), ciò appunto dipende dal fatto ch'esse sono state collocate in uno sfondo deformato, che rende ambiguo ciò che in origine era sufficientemente chiaro.

Gli esegeti devono sforzarsi di capire meglio perché in luogo dell'autocritica, la comunità cristiana post-pasquale ha preferito elaborare una propria versione della vita e soprattutto della morte di Gesù. Nel vangelo di Marco, infatti, le maggiori falsificazioni sono state operate a partire dall'ultimo viaggio di Gesù verso Gerusalemme (che poi nei Sinottici è anche l'unico).

A dir il vero, la stessa scelta del genere letterario della “biografia”, ancorché romanzata, della vita di Gesù, dovremmo considerarla come il risultato finale di un processo di falsificazione iniziato molto tempo prima. C'è chi sostiene che i vangeli non vogliono essere una vera e propria “biografia di Gesù”, in quanto contengono molti aspetti inventati dalla fede religiosa (i cattolici in luogo della parola “inventati” usano la parola “rielaborati”), tuttavia questo non significa affatto che i vangeli non siano una biografia.

Se la comunità cristiana avesse veramente proseguito il messaggio di Gesù, si sarebbe limitata a riportare le sue frasi più significative o i suoi atteggiamenti più inequivocabili in senso politico (e questo senza considerare che duemila anni fa la trasmissione orale aveva un'importanza molto superiore a quella odierna, soprattutto nei paesi orientali e mediorientali, soprattutto in un paese schiacciato dal dominio di un impero).

I vangeli invece appaiono come un'interpretazione ufficiale del pensiero e della vita di Gesù, considerati come qualcosa di statico, di chiuso, di definitivo. La comunità cristiana si è servita dei vangeli per sostenere alcune proprie tesi innovative (p. es. la lealtà nei confronti degli imperatori romani non poteva arrivare a riconoscere le loro pretese divine e doveva per questo presumere una certa separazione tra religione e politica); ma nei confronti del Cristo ha preferito assumere una posizione dogmatica, di tipo mistico.

Ogni biografia, infatti, è una sorta di imbalsamazione di un cadavere. Essa ci è utile per capire lo svolgimento della vita e del pensiero di un individuo, ma questa utilità è, nel migliore dei casi, di tipo “storico” non “politico”. Non si diventa dei politici rivoluzionari imparando a memoria la biografia di un leader rivoluzionario. Non a caso la comunità primitiva, non avendo pretese eversive, poté falsare quella biografia in molti aspetti decisivi.

Se vogliamo, è stato lo “strumento” delle lettere di Paolo a rappresentare, seppur in maniera mistificata, la prosecuzione più naturale della vita e del pensiero di Gesù. Paolo cioè ebbe l'intelligenza di capire che il modo migliore di continuare quel messaggio era quello di affidarsi, oltre che alla propria testimonianza di fede, anche al mezzo espressivo e aggregativo delle lettere pastorali, in cui gli aspetti biografici del Cristo risultavano del tutto assenti.

Il problema però, per quanto riguarda Paolo, è che le sue lettere sono state lo strumento principale per tradire proprio quel messaggio. Invece di interpretare il “sacrificio della croce” come il tentativo estremo di scongiurare su tutto il movimento nazareno gli effetti disastrosi del tradimento di Giuda, egli preferì circoscrivere quel sacrificio a un tipo di salvezza meramente religiosa, finalizzata alla liberazione dell'umanità dalle conseguenze del peccato originale. Solo quando fu chiaro che “indietro” non si poteva più tornare, la comunità decise di affidarsi alla biografia paludata detta “vangelo”.

Che i vangeli siano una falsificazione più o meno forte del messaggio originario di Gesù, è documentato anche dal fatto che il vangelo scritto per primo, quello di Marco, è una falsificazione meno forte di quella operata nei vangeli di Matteo e Luca, che spesso contengono aspetti analoghi a vari testi apocrifi e che sono arrivati a falsificare persino la loro stessa fonte principale, e cioè Marco. Clamoroso, p. es., il fatto che la versione più antica del vangelo di Marco non riporti alcun racconto di apparizione del risorto.

Un caso a sé è il vangelo di Giovanni, il quale, pur essendo stato scritto per ultimo, conserva aspetti più autentici di quelli di Marco, benché collocati in una prospettiva che, quanto a falsità, supera ogni altra fonte del Nuovo Testamento. Ciò sta a significare, in maniera molto evidente, che gli autori del vangelo di Giovanni provenivano da due tradizioni culturali molto diverse: una di derivazione più giudaica, l'altra nettamente ellenistica. Quest'ultima non solo è prevalente, in senso quantitativo, ma ha pure condizionato l'altra sul piano qualitativo, al punto che la falsificazione nel quarto vangelo non si pone solo nei confronti del messaggio cristico originario, ma è anche interna allo stesso vangelo, nei confronti di quella tradizione giudaica rappresentata da Giovanni, sicché questi è stato paradossalmente censurato dai suoi stessi discepoli o da quelli che tali si dichiaravano, che ne hanno ereditato il patrimonio culturale. Non è da escludere, in tal senso, che sia esistito un testo originale del quarto vangelo ben diverso dalla copia che ci è stata tramandata.

Alla maggiore precisione dell'interpretazione giudaica che Giovanni ha dato del messaggio di Gesù, visto nettamente in chiave storicopolitica, ha fatto da contrappeso una falsificazione spiritualistica di altissimo livello, le cui fonti ispiratrici vanno cercate non solo nella teologia paolina, ma anche in quella essenica e persino nelle filosofie stoiche e gnostiche ribattezzate in senso cristiano.

*

In sintesi. Per capire le falsificazioni presenti nei vangeli bisogna partire dal presupposto che i redattori mentono sapendo di mentire. Siccome però sono opere collettive, che rispondono a esigenze comunitarie, la menzogna doveva apparire credibile, basata su un fondamento di verità. Tale fondamento era uno solo: la tomba di Giuseppe d'Arimatea, in cui era stato deposto provvisoriamente e frettolosamente Gesù, il giorno stesso della sua morte, era stata trovata vuota il giorno dopo. Dentro il sepolcro, che aveva l'uscio aperto, si trovò soltanto il lenzuolo che aveva avvolto il cadavere, nonché i legacci per terra che avevano avvolto il lenzuolo in più punti.50

La scomparsa misteriosa del corpo, sicuramente morto, in quanto attestato dal militare romano col colpo di lancia al costato, non poteva essere dipesa da un qualche trafugamento, proprio a motivo del fatto che il lenzuolo (sindone) si trovava ripiegato su se stesso e collocato in un luogo a parte del sepolcro (nessun ebreo nel periodo pasquale avrebbe toccato un cadavere sporco di sangue). Dopo un primo momento di totale sconcerto, gli apostoli rimasti a Gerusalemme cominciarono a pensare che chi può scomparire in una maniera così inspiegabile, può anche tornare, e magari in maniera trionfale, sbaragliando i nemici romani e le autorità giudaiche colluse con loro. Si rimase quindi in attesa per un certo tempo, sostenendo l'idea che Gesù era “risorto” per conto proprio. Questa era la tesi di Pietro.51

Benché nessuno avesse rivisto il Cristo redivivo, Pietro sostenne ch'era “risorto”, senza limitarsi a dire ch'era “stranamente scomparso”. Nei vangeli però non viene utilizzata la sindone per giustificare la tesi della resurrezione, poiché essa, di per sé, non è in grado di dimostrarla. Si preferirà sostenere, mentendo, che Gesù era fisicamente ricomparso. Cioè qualcosa di insolito, che lasciava molto perplessi, verrà sostituito con dei racconti completamente inventati.

In ogni caso Pietro pose il movimento nazareno in uno stato di attesa passiva, ancorché ansiosa. Quando poi ci si rese conto che non sarebbe tornato tanto presto e che la situazione in Israele stava drasticamente peggiorando, in quanto il dominio romano, sempre più oppressivo, appariva insuperabile, si cominciò a dire, con Paolo di Tarso, che Gesù era niente di meno che l'unigenito figlio di Dio, risorto da Dio stesso, e che sarebbe tornato solo alla fine dei tempi, per giudicare i vivi e i morti. Una rivoluzione politica anti-romana e anti-sadducea (contro il Tempio) non aveva più alcun senso. Il messaggio da trasmettere doveva essere religioso non politico, universale non nazionale. E a tale messaggio si doveva credere per “fede”, senza aver bisogno di vedere la sindone, che probabilmente rimase in mano all'apostolo Giovanni.

Detto questo, sorgeva il problema di come presentare al mondo la storia di un leader politico, la cui misteriosa scomparsa dalla tomba veniva interpretata, arbitrariamente, come “resurrezione”. In pratica si fece questo ragionamento: un Cristo risorto da morto può aver compiuto qualunque cosa da vivo. Di qui i tanti racconti di miracoli, di guarigioni strabilianti, di profezie o premonizioni anticipatrici degli eventi, ecc. Il Cristo di cui si parla nei vangeli è esplicitamente inventato là dove si comporta in maniera sovrannaturale, quale “figlio di Dio” in via esclusiva, come solo lui poteva essere, essendo dotato di una duplice natura: umana e divina.

La maestria dei redattori sta nell'aver mescolato pochi aspetti veridici con molti aspetti fantastici, del tutto irreali, al fine di rendere quest'ultimi più credibili. Ecco perché i vangeli sono “ad uso interno”, nel senso ch'essi non servono per far acquisire una fede religiosa, ma semplicemente per fortificare, confermare una fede già in atto. In questi vangeli falsificati (canonici o apocrifi non fa alcuna differenza52), basati sul fatto che la fede deve credere in cose umanamente impossibili, l'unico reperto autentico di tutto il Nuovo Testamento, e cioè la Sindone, viene praticamente rimosso. Essa infatti non può “dimostrare” la resurrezione di un cadavere. Può soltanto “mostrare” una stranezza, inspiegabile dal punto di vista della ragione. Ma questo non può bastare per fondare una nuova religione, una nuova concezione mistica dell'esistenza, che ha bisogno, per essere creduta e praticata, di una fede sicura, incrollabile.

Dunque la mistificazione è nata sulla base di un'errata interpretazione della Sindone, la quale però non è stata utilizzata per indurre i pagani alla fede. Ciò che li doveva convincere a rinunciare alla loro religione pagana era lo stile di vita degli stessi cristiani, basato su regole non individualistiche ma collettivistiche, i cui comportamenti comportavano maggiori esigenze etiche (di tipo stoico). Inoltre i cristiani rifiutavano di riconoscere agli imperatori qualunque attributo divino, rifiutavano di partecipare ai riti pagani e chiedevano che, sul piano religioso, la loro Chiesa fosse separata dallo Stato, cioè non venisse strumentalizzata per esigenze di potere. Apparivano ideologicamente eversivi pur essendo politicamente opportunisti, concilianti, conservatori.

Questo per dire che tutti i racconti evangelici in cui il Cristo appare più di un essere umano violano categoricamente il principio della libertà di coscienza, in quanto presumono d'imporre con la forza dell'evidenza qualcosa che va al di là delle umane possibilità, dell'umana comprensione.

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23) La mistica della morte

L'idea di morte che fa più paura non è tanto quella biologica, poiché qui ha ragione lo scettico Epicuro quando dice: “Se c'è la morte non ci sei tu, se ci sei tu non c'è la morte”. Non può quindi far paura una cosa che impedisce di esistere: al massimo possono far paura le sofferenze che precedono la morte. È dunque limitativo sostenere che l'idea della sopravvivenza dell'anima è una compensazione psicologica della paura di morire.

La morte, in astratto, è un fenomeno così naturale che, in condizioni d'esistenza normali, viene addirittura accettata, dal diretto interessato, con un certo sollievo, poiché solo essa, in definitiva, può porre termine al dolore estremo, alla malattia insanabile, alla progressiva decadenza fisica e intellettuale, e quindi al disagio di vivere sempre più fuori del proprio tempo. Se e quando si pone in maniera naturale, la morte andrebbe considerata come una liberazione. E quando non lo è, perché frutto di violenza, accidentalità o altro, allora andrebbe considerata come uno strumento pedagogico per “imparare la liberazione”, cioè per capire quanta strada ancora resta da fare perché certe disgrazie o tragedie non abbiano a ripetersi.

La tragedia di una morte improvvisa non dovrebbe portarci a credere che la vita non ha senso, ma che il senso della vita va costruito e continuamente ricostruito, cioè che alla vita non bisogna mai smettere di dare un senso, se vogliamo che la morte si presenti come un fenomeno naturale. Gli uomini infatti non diventano migliori con la paura che nell'aldilà sconteranno il fio delle loro colpe, anche perché la religione cristiana permette loro di pentirsi in punto di morte.

Gli uomini muoiono da quando è nata la razza umana: eppure l'idea di una immortalità dell'anima, in cui credere con tutte le proprie forze, non è certo preistorica. Essa praticamente risale alle prime formazioni sociali schiavistiche della storia, nelle quali per la prima volta la morte ha cominciato ad essere avvertita come “problema”. È in queste società, inclusa ovviamente la nostra, che in teoria non si vorrebbe morire mai o che mai morissero i propri cari, proprio perché nell'individualismo ci si sente soli e deboli.

La morte fisica, tuttavia, non fa paura quando è abituale, al massimo fa tristezza, perché quando scompaiono persone a noi care si fa fatica ad accettarla. La morte può mettere angoscia quando assistiamo al progressivo, ineluttabile spegnersi di queste persone. Tuttavia per certuni la morte può anche essere considerata come una liberazione dalle sofferenze fisiche (eutanasia) o dall'insignificanza della propria vita (suicidio). Non sono pochi inoltre quelli che credono di poter riscattare una vita inutile o disperata (o come tale percepita) col gesto supremo del martirio personale. Quando una persona non riesce a realizzare i propri ideali, può anche sperare, mostrando che per quegli ideali è persino disposta a morire, che i suoi interlocutori le riservino maggiori attenzioni e che addirittura mettano in pratica i suoi insegnamenti.

Quando qualcuno a noi caro muore, da un lato ci rassicura il fatto che la sua “anima” non vaghi indisturbata per la nostra casa a osservare ogni nostro movimento; dall'altro però speriamo che dopo la nostra morte ci sia la possibilità di rivederla. Quindi il bisogno di credere che la morte non sia la fine di tutto, ma solo un momento di passaggio, è piuttosto naturale (ed è in fondo una delle cose che ci distingue dagli animali, i quali comunque, in taluni casi e non meno di noi, provano una certa tristezza quando un loro congiunto muore).

Credere che la morte fisica sia assolutamente la fine di tutto, significa assumere una posizione non meno intellettualistica di chi sostiene che solo nell'aldilà sta il vero significato della vita. In fondo questa perenne trasformazione della materia è un processo quotidiano della natura vivente, che possiamo osservare senza problemi.

Il problema semmai è un altro, ed è un problema che può essere colto solo da chi fa della morte una realtà che va oltre la mera biologia. Vi sono infatti persone (e qui non ci riferiamo unicamente ai soli cristiani né ai soli credenti in generale) che fanno della morte una sorta di concezione ideologica (metafisica o mistica) della vita, per la quale la vita stessa perde di ogni vero valore.

Chi non crede nella possibilità di vivere una vita libera, giusta, equilibrata su questa terra, spesso e volentieri addebita alla morte (fisica) il motivo del proprio pessimismo esistenziale e, in tal modo, fa di un semplice evento naturale una giustificazione tendenziosa della passività, una sorta di apologia della rassegnazione. Spesso proprio queste persone fanno della morte l'occasione per realizzare una rivincita personale sulla loro vita, cioè scelgono la strada del martirio, dell'autoimmolazione, per dimostrare che la loro idea di morte era giusta e che la vita non ha veramente senso, o meglio, che ha senso solo nella misura in cui si pone come “vita per la morte”.

Il cristianesimo infatti ha sempre predicato il concetto che la lotta rivoluzionaria a favore della giustizia è inutile, poiché alla fin fine esisterà sempre la morte, che renderà vana quella lotta, in quanto la morte non può essere evitata, proprio perché essa è la condizione dell'uomo peccatore, che in seguito al peccato originale ha pagato un prezzo che ne indica in maniera inequivocabile la sua tendenza al male. Chi rifiuta questa necessità facilmente si trasforma in un ateo.

Ecco, proprio questa concezione astratta, cervellotica, della morte è servita al cristianesimo per legittimare la rinuncia alla lotta rivoluzionaria. L'uomo è incline al male, han sempre detto il cristianesimo e tutta la filosofia idealistica; per impedirgli di compiere sciocchezze, è bene sostenere un governo forte, autoritario, che consideri l'uomo come un bambino da guidare dalla culla alla tomba.

D'altra parte in una qualunque società o civiltà ove regni l'antagonismo e il bisogno di dominare, lì è sempre presente la religione, con tutti i suoi miti, i suoi dogmi e la sua organizzazione gerarchica. La sua funzione è quella di fare da supporto a un tipo di vita sociale in cui le differenze di casta o di classe giocano un ruolo dominante. Quanto più la divisione in classi è profonda, quanto più forte è la resistenza a tale divisione, tanto più la religione si perfeziona nei suoi contenuti anti-democratici.

Infatti, là dove non esiste antagonismo sociale, generalmente non esiste neppure alcuna religione, o comunque non esiste un suo uso ideologico, strumentale, né esiste una legge che debba permettere una convivenza civile altrimenti impossibile. La religione degli uomini primitivi non era certo un'arma che una classe sociale usava contro l'altra: era solo il frutto di un'ignoranza comune, che riguardava l'intera collettività e che, in ogni caso, non ne condizionava più di tanto la vita quotidiana.

Dunque più che di “paura della morte” bisognerebbe parlare, per spiegare l'origine delle religioni, ivi incluso il cristianesimo, di “angoscia della vita”, cioè di incapacità a vivere sino in fondo il proprio desiderio di liberazione. Tutta l'importanza che il cristianesimo ha sempre assegnato ai concetti di anima, aldilà, giudizio universale ecc., è stata una diretta conseguenza dell'incapacità di vivere la vita, cioè di essere se stessi. “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”, diceva Paolo (Gal 2,20).

In questo senso si può dire che al cristiano fa paura la “vita come morte”, cioè la vita come non-senso, come disperazione, come ipocrisia...: e, in luogo di questo squallore, egli preferisce pensare (come fosse un adolescente) a qualcosa di perfetto, non costruito da lui, che potrà essere vissuto solo dopo la propria morte biologica. Il cristiano non va a cercare le cause storiche, sociali del non-senso della vita, ma un luogo utopico (il paradiso) in cui quel non-senso non esista più. Il cristiano attende sempre una “rivelazione divina”, un evento – direbbe Heidegger – “illuminante e proteggente”, proprio perché non vuole confrontarsi coi vari problemi della vita sociale.

Il cristiano infatti odia la propria esistenza, e tutto il suo amore per quello che sulla terra non c'è, non fa che aumentare, in ultima istanza, l'odio nei confronti di se stesso e soprattutto nei confronti degli altri, che, a suo giudizio, gli rendono la vita ancora più insopportabile. È davvero un paradosso che una religione che predica l'astratto “amore universale” finisca col promuovere il concreto “odio universale”. O che il concreto amore particolare che dice di vivere, venga usato proprio per non affrontare le cause di fondo che determinano l'antagonismo sociale (come p.es. quella della proprietà privata).

Potremmo semmai chiederci, laicamente, in che maniera mettere in rapporto la dura violenza che le singole persone hanno subìto nel corso della loro vita col fatto che non hanno potuto ottenere alcuna vera compensazione prima di morire. Questo è un problema che non può essere risolto solo alla luce di una “considerazione storica”, pensando cioè che una qualche riparazione potrà essere fatta post-mortem, a beneficio delle generazioni successive. È una magra consolazione, per l'individuo offeso, sapere che se una verità esiste, presto o tardi essa emergerà, facendo giustizia dei torti subiti.

Una cosa è l'individuo, nella sua singolarità, un'altra le generazioni, nella loro universalità. Come potrà la singola persona deceduta, che ha compiuto un torto, rendersi conto della propria colpevolezza? E se l'ha subìto, al punto di morirne, come potrà ottenere soddisfazione? Forse col “giudizio universale” predicato dai cristiani?

Qui in sostanza c'è un problema storico la cui soluzione non viene a coincidere con la soluzione che occorre dare al problema individuale. La storia non può essere soltanto lo svolgimento della vita di un essere umano astratto, che diventa concreto solo in quanto “soggetto storico” e non “soggetto individuale”. La storia non è un “processo senza soggetto” (come invece diceva Althusser), e non è neppure una superfetazione del tutto irrilevante allo svolgimento di una vita individuale. La storia non può essere né un processo determinato da fattori assolutamente inevitabili, né la risultante incidentale delle vicende degli esseri umani generalmente intesi. Noi non possiamo prescindere dal fatto che la storia personale di ogni individuo è una componente unica e irripetibile del processo storico dell'intero genere umano.

Peraltro va considerata anche l'eventualità che la storia personale di un individuo possa essere qualitativamente “migliore” della storia di molti individui. Dovremmo forse considerare “degno di storia” solo ciò che in un determinato tempo è risultato prevalente agli occhi della collettività? Per quale ragione dovremmo ritenere “vera” (cioè conforme alle esigenze dell'essere umano) la posizione di una determinata maggioranza? Non è forse possibile un “errore di massa"? Non lo sono forse tutte le dittature?

Qui c'è un vuoto che il laicismo non è stato ancora in grado di colmare. Occorre che gli esseri umani si convincano che il loro unico destino è quello dell'immortalità e che la loro storia personale non è solo un anello della assai più grande storia universale dell'umanità, ma è anche una specifica storia individuale, che chiede d'essere vissuta in ogni tempo e spazio.

Non si può accettare l'idea che siccome l'uomo è “mortale”, bisogna accontentarsi di una giustizia meramente “storica”. Si tratta invece di convincersi che la morte è solo una porta che apre la possibilità di continuare a vivere la storia (individuale e universale) in un'altra dimensione, dove ciò che cambia non è la sostanza ma la forma (benché un qualunque cambiamento della forma abbia sempre ripercussioni sulla sostanza delle cose: si pensi p. es. al concetto di “uccidere”; noi lo applichiamo a realtà fisiche e morali, ma se sapessimo di non poterlo applicare alle prime probabilmente affineremmo tutte le strategie per applicarlo soltanto alle seconde).

La morte non è la fine della vita, ma il passaggio da una dimensione esistenziale a un'altra, dove l'esigenza di affermare il senso dell'umanità resta invariata. In questo senso gli uomini gravemente colpevoli di crimini contro l'umanità, che si suicidano perché non vogliono essere giudicati dalla storia, s'illudono non meno di quelli che sperano di ottenere nell'altra vita un facile perdono per i loro crimini.

Noi non abbiamo bisogno della religione per credere in queste cose, meno che mai in una religione che ha trasformato la “memoria storica” in “dio-padre”, l'“istanza di liberazione” in “spirito santo”, la “contraddizione” in “peccato”, la “volontà collettiva” in “grazia”, l'“esperienza di liberazione” in “comunione eucaristica” e così via.

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24) Addendum sulla Sindone

I problemi che la Sindone pone sono i seguenti:

  1. Poiché la flagellazione e le torture subite dal Cristo possono essere considerate inumane, va considerata destituita di qualunque fondamento la tesi evangelica secondo cui Pilato voleva liberarlo. Ma perché su questo punto tutti i vangeli mentono?

  2. Poiché la formazione di quell'immagine è avvenuta per noi in maniera inspiegabile, si deve per forza sostenere che tale evento sia stato operato da un agente o entità esterna (che dobbiamo chiamare “dio” o “dio-padre”), oppure si può pensare che ciò sia stato operato dallo stesso Gesù Cristo?

  3. Se in Gesù vi era un elemento (o una natura) che umanamente ci risulta incomprensibile, perché non l'ha usato per sottrarsi a una fine così terribile, visto che gli permetteva di vincere un ostacolo da noi considerato insormontabile: la morte?

  4. Per quale motivo la Sindone è stata ritrovata in un luogo a parte, ripiegata? Cioè perché non è scomparsa insieme al corpo?

  5. Per quale motivo la scomparsa del corpo è stata associata a un sepolcro “aperto” e non “chiuso"?

  6. Per quale motivo tutti i racconti di riapparizione di Gesù risorto vanno considerati, senza alcun dubbio, del tutto inventati?

  7. Se Gesù fosse morto di vecchiaia, vi sarebbe stata lo stesso una Sindone?

Risposte

  1. I vangeli mentono perché sono antisemitici, poi perché il cristianesimo petrino è uscito sconfitto dall'idea di una parusia immediata e trionfale del Cristo (quella per la quale si era rinunciata all'insurrezione nazionale), infine perché la teologia paolina, dopo aver posticipato alla fine dei tempi la suddetta parusia, ha cercato un compromesso strategico con l'impero romano: i cristiani avrebbero riconosciuto l'autorità imperiale sul piano politico, ma non la sua pretesa divinità su quello religioso.

  2. La Sindone non dimostra affatto l'esistenza di dio, ma semmai l'esistenza di una natura particolare nella persona del Cristo, che per noi resta non identificabile o indicibile. Tuttavia, finché è vissuto su questa Terra, egli non ha mai fatto nulla che non fosse alla portata dell'uomo. Resta comunque probabile che se egli ha avvertito la necessità di presentarsi al cospetto degli uomini per mostrare loro come risolvere gli antagonismi sociali che impediscono d'essere liberi, non è da escludere che gli uomini partecipino, in qualche maniera, alla suddetta natura.

  3. Tutta la vicenda di Gesù va letta all'interno di una concezione democratica dell'esistenza, nel senso ch'egli non avrebbe mai compiuto un'insurrezione nazionale armata senza rispettare la volontà popolare (almeno di quella maggioritaria o di quella più progressista), ovvero senza il concorso delle popolazioni che avrebbero dovuto difendersi dagli attacchi dei nemici interni ed esterni alla nazione. Qualunque tentativo di utilizzare poteri provenienti dalla sua particolare natura, avrebbe costituito una violazione delle regole della democrazia.

  4. La Sindone rappresenta ciò che Gesù ha voluto lasciare di se stesso, a prescindere dalle interpretazioni che i discepoli potevano dare del suo messaggio. L'ultima testimonianza di Gesù è la Sindone e altre non possiamo averne. Qualunque altra sua testimonianza su questa Terra minerebbe la convinzione che gli uomini devono maturare di poter risolvere da soli le contraddizioni sociali che impediscono loro d'essere liberi.

  5. La tomba è stata trovata aperta perché l'energia che ha prodotto l'immagine nel lenzuolo non può annullare la fisicità della materia: corpo e spirito, energia e materia sono assolutamente indissolubili.

  6. Tutti i racconti di riapparizione del Cristo sono inventati perché nessun essere vivente può vedere o anche solo mettersi in contatto con un morto redivivo. Verrebbe automaticamente violata la libertà umana di coscienza. La verità delle cose non può essere un'evidenza che s'impone da sé. La Terra appartiene all'Universo e l'Universo è insondabile, essendo illimitato e infinito sia nello spazio che nel tempo.

  7. È evidente che se Cristo fosse morto di vecchiaia, vi sarebbe stata lo stesso una Sindone, ma in realtà la domanda da porsi è un'altra: se gli uomini avessero vissuto in maniera umana e naturale, ci sarebbe stata l'incarnazione del Cristo? Probabilmente no. D'altra parte gli uomini han smesso d'essere se stessi sin dalla nascita dello schiavismo, che è avvenuta circa seimila anni fa. Quanto tempo può durare questa anomalia? In questi ultimi duemila anni si è passati dallo schiavismo al servaggio e al lavoro salariato, giuridicamente libero: in nessun momento siamo riusciti a tornare, con sicurezza, all'epoca del comunismo primitivo, che è esistito per milioni di anni. Può forse essere considerato casuale che il Cristo si sia incarnato proprio nel momento in cui il peggior sistema schiavistico di tutti i tempi stava vivendo la sua crisi più acuta, quella del passaggio dalla Repubblica all'Impero? Visto il fallimento della sua iniziativa, dobbiamo forse affermare che l'uomo ha bisogno di una nuova incarnazione del Cristo, questa volta, ovviamente, sulla base di condizioni molto diverse dalla precedente? Oppure dobbiamo pensare che l'uomo possa farcela da solo a risolvere i propri problemi? È possibile pensare che l'incarnazione del Cristo vada considerata come un evento unico e irripetibile e che gli uomini devono assolutamente contare, per il loro stesso bene, sulle loro forze per liberarsi degli antagonismi sociali irriducibili?

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25) Mauro Pesce e la Sindone

Il noto esegeta Mauro Pesce ha pubblicato sulla rivista “Micromega” (n. 4/2010) un articolo, “I vangeli e la sindone”, in cui esprime tutto il proprio scetticismo sull'autenticità di questo reperto, e lo fa prendendo in esame esclusivamente i testi che in teoria dovrebbero parlarne, cioè i quattro vangeli canonici e alcuni documenti considerati apocrifi dalla Chiesa (Vangelo secondo gli ebrei, Vangelo di Pietro, Atti di Tommaso, Vita di Gesù in arabo, Atti di Filippo, Vangelo di Nicodemo, Atti di Taddeo).

Esordisce dicendo che nel vangelo marciano, quando si parla di sepolcro vuoto, le donne non vedono alcun lenzuolo: “nessuno è andato nella tomba a recuperare il lenzuolo in cui era stato avvolto il cadavere di Gesù per conservarlo”.

Un'osservazione del genere è piuttosto strana, in quanto, se le donne fossero state mandate a recuperare il lenzuolo, avrebbero potuto farlo solo sapendo già in anticipo che lui era scomparso. Invece nei vangeli la scoperta della tomba vuota avviene in maniera puramente casuale: nei Sinottici si vuol far credere, falsamente, che vi si erano recate per completare l'inumazione affrettata compiuta al momento della sepoltura. Nel quarto vangelo due donne vi si recano per motivi personali, non inerenti alla sepoltura. Sicché si può tranquillamente affermare che il lenzuolo non è stato “recuperato” intenzionalmente da nessuno proprio perché non aveva senso che qualcuno lo facesse prima d'aver visto l'immagine ivi impressa. Il lenzuolo è stato conservato non tanto perché aveva avvolto il corpo di Gesù, quanto perché si era notato che l'avvolgimento del suo corpo aveva prodotto l'intera sua immagine, cosa che non poteva essere spiegata solo in considerazione del fatto che il cadavere era tutto sporco di sangue (anzi dalla Sindone appare chiaro che quando il corpo fu avvolto nel telo il sangue colava ancora). A tale proposito il quarto vangelo lascia vagamente intendere che il lenzuolo fu conservato dall'apostolo Giovanni, il quale non lo trovò per terra, vicino alle bende che lo tenevano stretto, ma ripiegato e posto in una parte del sepolcro.

Da notare che in tutti e quattro i vangeli si parla di un lenzuolo, o nei racconti della sepoltura o in quelli della scomparsa del corpo o in entrambi. La differenza sta nell'importanza che i redattori attribuiscono all'oggetto. La tesi sostenuta da Pesce è che quel lenzuolo non coincide con la Sindone di Torino, per cui questa sarebbe un falso medievale o comunque un prodotto artistico.

L'autore fa questo curioso ragionamento: siccome per credere nell'idea di resurrezione non c'era bisogno di fare riferimento ad alcun lenzuolo, anche se avessero avuto a disposizione la Sindone di Torino, non l'avrebbero esibita; oppure, se davvero l'avessero avuta, l'avrebbero esibita come prova della resurrezione: cosa che non fecero proprio perché il lenzuolo usato per seppellire Gesù non aveva alcunché di particolare. Quindi o la Sindone è un falso oppure è un reperto inutile.

Cosa c'è che non va in questa tesi? Indubbiamente è vero che la Sindone non “dimostra” alcuna resurrezione, ma è anche vero che, se essa è autentica, resta il fatto che qualcosa di strano era avvenuto nel sepolcro. È stato proprio sulla base di questa stranezza che Pietro, arbitrariamente, ha potuto inventare la tesi della “resurrezione”, fondando così una nuova “religione”. Il termine “resurrezione” implica un riferimento inequivocabile a qualcosa di mistico, e quando si affronta la realtà in chiave mistica non è necessario avvalersi di oggetti specifici. In particolare Pietro associa il termine “resurrezione” a quello di “imminente e trionfale parusia”, cioè fa della “teologia-politica”. L'uso del lenzuolo gli sarebbe parso come una forma di superstizione.

Che sia stato Pietro a inventare la tesi della resurrezione come interpretazione della tomba vuota, lo lascia capire il vangelo di Luca, il quale lo fa entrare da solo nel sepolcro, non insieme a Giovanni. Egli vide per terra solo le bende (le fasce o i panni: in greco othonia) che avvolgevano il corpo di Gesù; del lenzuolo viene negata persino l'esistenza, pur essendo stato citato nel racconto della sepoltura, dove viene usata espressamente la parola sindôn.53 Quindi è evidente che quando Luca scrive il suo vangelo, la rottura tra Pietro e Giovanni si era consumata da tempo e il cristianesimo primitivo aveva accettato la teologia petro-paolina.

Tuttavia Mauro Pesce, che considera il vangelo lucano il migliore dei quattro, dà una curiosa interpretazione della parola greca, “othonia”, usata da Luca per indicare le bende che avvolgevano il corpo di Gesù. “Spesso othonia viene tradotto con la parola 'bende', ma questa traduzione è contestabile dal punto di vista lessicale. Più che di bende si tratta di una stoffa piuttosto grande, che potremmo chiamare 'panno' o 'lenzuolo'”. Cioè Pesce nega che Luca abbia usato la parola al plurale (i panni o le bende); per lui l'ha usata al singolare, intendendo appunto un “lenzuolo”.54 Dice questo per sostenere un'altra tesi, quella secondo cui Pietro, pur vedendo tale lenzuolo, non lo tenne in alcuna considerazione, per cui si deve per forza arguire ch'esso non contenesse alcunché di strano.

Un'altra interpretazione però, relativa al fatto che Luca usa due parole diverse per indicare apparentemente la stessa cosa, potrebbe essere la seguente: il versetto in cui egli parla di “sindone” è originario; l'altro, in cui si parla di “bende”, è posticcio.55 Nel senso che un secondo redattore ha aggiunto il versetto dedicato a Pietro in chiave polemica contro il testo o la tesi di Giovanni, in cui si racconta che al sepolcro arrivarono in due e che entrambi videro le bende per terra e il lenzuolo da una parte. Infatti è proprio il quarto vangelo che ci fa capire in maniera sufficientemente chiara che una cosa è la sindone, un'altra le bende che la tenevano legata attorno al corpo di Gesù.

Scrive il nostro esegeta: “Pietro sembra non avere intenzione di toccare alcunché”. E l'intenzione non l'ha proprio perché non riteneva importanti quei reperti o perché non esisteva alcun reperto da conservare. Poi aggiunge: “Si guarda bene dal toccare le lenzuola o prenderle con sé per conservarle”.56 Siccome Pesce non spiega il motivo per cui Pietro avrebbe dovuto “guardarsi bene” dal fare ciò (di sicuro non poteva dire “perché erano sporche di sangue”), si può anche pensare che l'espressione “si guarda bene” sembri, in realtà, una sorta di lapsus freudiano, nel senso che Pietro non tocca o non conserva la sindone non tanto perché la riteneva insignificante, quanto perché, se l'avesse fatto, avrebbe avvalorato la tesi che il corpo impresso in quel lenzuolo era proprio quello di Cristo: cosa che nessun esegeta laicista o razionalista potrebbe accettare.

La tesi, insomma, vuol essere sempre la stessa: che Pietro abbia visto qualcosa di singolare o di plurale, non cambia nulla, poiché se davvero avesse intravisto in un qualunque oggetto l'immagine del corpo di Gesù, di sicuro l'avrebbe conservato e magari l'avrebbe anche esibito, se non come prova, almeno come indizio che la tesi della resurrezione era valida o sostenibile.

A tale proposito egli aggiunge che se davvero la Sindone di Torino fosse autentica, gli Atti degli apostoli ne avrebbero parlato. Lo dice come se non sapesse che quando gli Atti furono scritti, la teologia petro-paolina era già nettamente prevalente e antitetica a quella giovannea, che proprio negli Atti scompare quasi subito.

Non a caso Pesce deve per forza stravolgere l'interpretazione della versione manipolata del quarto vangelo, in merito al racconto della sepoltura, per poter sostenere la tesi di Marco e di Luca. In questo vangelo vi sono infatti due versetti chiaramente interpolati, messi apposta per contraddire la versione giovannea della sindone: “Vi andò anche Nicodemo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre.” (19,39). Questo versetto nega la sepoltura affrettata e quindi l'idea che potesse esistere un lenzuolo con l'immagine del corpo di Cristo sporca di sangue. “Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende (othonia) insieme con oli aromatici, com'è usanza seppellire per i Giudei.” (v. 40).57 E con questo si nega addirittura la presenza di un lenzuolo, in quanto si vuol far credere che la sepoltura fosse stata del tutto regolare, con l'avvolgimento del corpo in larghe o lunghe bende. Pertanto Maria Maddalena e un'altra donna anonima non poterono andare al sepolcro con l'intenzione di completare l'inumazione.

Per il nostro esegeta tali resoconti sono oro colato. Facendoli passare per autentici, è evidente che il corpo di Gesù fu unto e profumato, sia da Nicodemo che da Giuseppe d'Arimatea: cosa del tutto incompatibile con l'immagine della Sindone.

Addirittura nel quarto vangelo, pur di non parlare di sindone, si usa la parola “sudario” (20,7), che nella tradizione cristiana occidentale si è fatto coincidere con una specie di fazzoletto posto sul volto di Gesù, quando invece si trattava di una semplice mentoniera per tenere chiusa la bocca (se ne parla anche in Gv 11,44, a proposito del racconto inventato della resurrezione di Lazzaro). Ovviamente non è da escludere che Giovanni abbia usato questa parola proprio come sinonimo di “sindone”, cioè di lenzuolo funebre vero e proprio. Di sicuro nel quarto vangelo gli othonia non sono che bende o fasce: semmai non è esplicitato se queste bende avvolgevano direttamente il corpo di Gesù o soltanto il lenzuolo. Diciamo però che se la sepoltura è stata affrettata e che se Giuseppe ha dovuto acquistare un lenzuolo per poterla fare, non c'è ragione di pensare che gli othonia non siano state proprio le bende che tenevano unito quel lenzuolo attorno al corpo di Gesù. Non si capisce perché non si debba accettare la soluzione più semplice, quando questa è perfettamente coerente.

Per il nostro esegeta, che vuole negare a tutti i costi la presenza della Sindone, ciò che Pietro e Giovanni videro piegato e riposto da una parte fu soltanto il soudarion, il quale, se conteneva qualcosa di strano – sembra dire Pesce –, di sicuro non poteva essere l'immagine dell'intero corpo.

Peraltro egli è convinto che se i due apostoli, vedendo per terra le bende e, da un'altra parte, il sudario ripiegato su se stesso, avessero conservato qualcosa, i vangeli l'avrebbero detto. Cioè Pesce non è arrivato a chiedersi in che maniera i due apostoli avrebbero potuto parlare di misteriosa scomparsa del cadavere o addirittura di “resurrezione” senza esibire almeno gli oggetti con cui era stato avvolto il corpo. Come fa un esegeta di chiara fama internazionale a non rendersi conto che la stranezza stava proprio nel fatto che se qualcuno avesse trafugato quel corpo, non avrebbe avuto senso che l'avesse privato del lenzuolo o anche solo delle bende?

Scrive inoltre: “Giovanni non dice affatto che il volto e il corpo di Gesù fossero impressi sulle lenzuola e/o sul soudarion”. In sostanza l'evangelista, nel momento in cui scopre la stranezza di un corpo volatilizzato, avrebbe citato delle cose senza guardarle accuratamente. È credibile? No. Infatti anche Pesce lo esclude. Solo che trae una conseguenza del tutto sbagliata: Pietro e Giovanni hanno esaminato tutto accuratamente e siccome non hanno trovato alcunché di strano negli oggetti della sepoltura, la Sindone di Torino non può essere quella del sepolcro.

Qui è inutile ribadire che Pietro non poteva parlare della sindone come prova della resurrezione, in quanto essa non è in grado di dimostrare alcunché in maniera inequivocabile: al massimo essa “mostra” qualcosa di strano. L'unica prova della resurrezione di un corpo morto (sul cui decesso non vi sia alcun dubbio) è la sua riapparizione, ma siccome il Cristo non è mai ricomparso, in quanto avrebbe violato la libertà di coscienza (per cui tutti i racconti che ne parlano sono chiaramente inventati58), è evidente che una nuova fede religiosa non poteva essere fondata su quel lenzuolo.

Semmai qui è sufficiente far notare che se Giovanni parla di sudario (alias sindone) posto da una parte e ripiegato su se stesso, come se dovesse essere conservato, allora vuol dire che riteneva quest'ultimo più importante delle bende sparse per terra. E non è da escludere che sia stato proprio Giovanni a conservare la sindone fino alla sua morte; e che se anche l'ha fatto pensando a qualche idea di “resurrezione”, non ha però voluto costruirci sopra una religione. Fu Pietro a sostenere che se Cristo era risorto, allora doveva per forza tornare in pompa magna per trionfare sui suoi nemici. Una tesi, questa, che faceva perdere al movimento nazareno l'occasione buona per insorgere contro Roma e la casta sacerdotale.

Il bello è che Pesce sa benissimo che “se (i discepoli) avessero pensato che la fede si basa sulla vista e sul tatto, avrebbero fatto ricorso a questo lenzuolo (se l'avessero posseduto)”. Ma cosa ne deduce? Che siccome il lenzuolo non l'avevano, chiedevano di aver “fede” nell'idea di resurrezione! Questo ragionamento è completamente sbagliato e proprio nel punto in cui si sostiene che utilizzando la sindone, se l'avessero avuta, i discepoli avrebbero potuto far credere nell'idea di resurrezione, ovvero che, anche non avendola, sarebbe stato del tutto normale parlare di resurrezione.

In realtà Pietro cominciò a parlare di “resurrezione” proprio perché non voleva fare riferimento alla sindone. Infatti, se l'avesse fatto, avrebbe dovuto sostenere ch'era del tutto irrilevante che il Cristo fosse o non fosse risorto, per cui la sindone non avrebbe avuto alcuna importanza per la strategia rivoluzionaria che il Cristo stesso, da vivo, aveva intrapreso per liberare la Palestina. Il problema non era se impostare la nuova religione sulla vista e sul tatto o invece sulla speranza e sulla fede, ma se continuare, politicamente, la strategia insurrezionale del Cristo o se rinunciarvi, misticamente, in attesa del suo ritorno trionfale.

L'errore di fondo del nostro esegeta sta nel fatto che vuole negare a tutti i costi che la Sindone di Torino sia il lenzuolo di cui parlano i vangeli. Arriva persino a dire che le donne non trovarono nulla nel sepolcro proprio perché la tesi della resurrezione si basa esclusivamente sulla fede, sicché anche se ci fosse stato qualcosa, non l'avrebbero conservato.

Così dicendo però si trascura il fatto che quando fu scritto il protovangelo marciano si evitò di dire in maniera esplicita che l'autore dell'idea di resurrezione era stato Pietro proprio perché si voleva dare a quell'idea una scontatezza teologica proveniente (falsamente) dallo stesso Gesù, al quale la si fa preannunciare per ben tre volte. Viceversa, nel vangelo di Luca si fa capire, facendo entrare Pietro da solo nel sepolcro, che di quell'idea fu autore proprio lui; e siccome Luca non parla della presenza contestuale di Giovanni, si può facilmente presumere che al tempo della redazione del suo vangelo, si era consumata da tempo la rottura tra i due apostoli. In entrambi i vangeli (di Marco e Luca) si fa chiaramente capire che l'idea di resurrezione non proveniva dalle donne, ma da un'evidenza extraterrena, sovrannaturale, cioè dallo stesso Gesù Cristo, che nel protovangelo anticipa con precisione tutto quanto gli sarebbe accaduto, mentre nell'altro viene aggiunta la sua riapparizione. La mistificazione sta appunto in questo, che si attribuisce a un “dio” ciò che fu semplice invenzione umana. L'unico indizio che gli apostoli avevano a disposizione, che poteva far pensare a qualcosa di strano, di inconsueto, era appunto la sindone, che però non utilizzarono per creare il cristianesimo.

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26) Il lenzuolo

Si ritrovano nell'aldilà Pietro, Giovanni, Andrea (fratello di Pietro), Tommaso e Paolo. Sono vestiti con un lungo lenzuolo bianco, a mo' di poncho, seduti attorno a un tavolo. Stanno discutendo di ciò che è avvenuto un secolo prima, quando Cristo morì in croce e scomparve dalla tomba.

Giovanni. Quando arriverà cosa gli diremo? Non ne abbiamo fatta una giusta. È morto per niente. Chi avrà il coraggio di guardarlo in faccia?

Pietro. Scusa ma che cosa dovevamo fare? In fondo ci hanno ammazzati tutti. Solo tu sei morto di vecchiaia.

Giovanni. Veramente volevano far fuori anche me. Se non ci sono riusciti non è colpa mia. E comunque io non voglio essere giudicato da uno come te.

Pietro. Eh, quanto sei suscettibile! Volevo solo dirti che se anche non abbiam preso le decisioni più giuste, abbiamo comunque pagato caro il prezzo delle nostre scelte.

Giovanni. Mi chiedo solo se ne valeva la pena. Fare delle scelte sbagliate e poi pagarne il prezzo, non è stato un gran guadagno per la nostra causa. Avevamo un preciso progetto, che di fatto non siamo stati capaci di realizzare.

Paolo. Ma che dici? Abbiam creato una struttura molto potente, che darà del filo da torcere ai romani, e vedrai che un giorno sarà più forte di loro.

Andrea. Noi però siamo ebrei. Te lo sei dimenticato? Dovevamo liberare la Palestina e non ci siamo riusciti.

Paolo. Per adesso non ci siamo riusciti. Solo per adesso. Ma vedrai che prima o poi la chiesa ci riuscirà.

Andrea. Sì, con l'aiuto di qualche sovrano. Per colpa tua abbiamo creato una struttura incapace di fare politica da sola. Ha sempre bisogno di appoggiarsi a qualcuno. Ci siamo legati le mani e i piedi quando potevamo benissimo farne a meno.

Paolo. Intanto grazie a me la chiesa ha iniziato a diffondersi in tutto il Mediterraneo e vedrai che lo farà anche in tutto l'impero dei Cesari. Se fosse stato solo per te o per i fratelli Zebedeo, al massimo avreste liberato la Palestina. Invece così siamo diventati cosmopoliti.

Andrea. Sì, mistici e cosmopoliti, anzi universali. E così abbiamo perso la nostra identità politica e nazionale. Davvero un bel guadagno.

Paolo. E che scelte avevamo? La partita coi romani, a quel tempo, era persa. Non avevamo forze sufficienti. Gli zeloti e i farisei in Galilea erano già stati sconfitti quando regnava Erode il Grande. I samaritani collaboravano col nemico perché odiavano i giudei. Su chi potevamo contare? Sugli idumei, che abbiam fatto diventare ebrei con la forza? Sugli esseni, che vivevano nel deserto?

Tommaso. Veramente il progetto che avevamo era quello di tenere tutti uniti contro Roma e contro la casta sacerdotale, corrotta e collusa. Che il sommo sacerdote dovesse essere scelto da Pilato era il colmo.

Paolo. Lo dici come se non conoscessi gli ebrei, la loro litigiosità. Devi piuttosto dire che grazie a me l'ebraismo è riuscito a sopravvivere dentro la cultura greca e latina.

Tommaso. Sì? e in che modo?

Paolo. In un modo o nell'altro che importanza fa? La nostra cultura è la più solida di tutte, la più esigente. Prima o poi avrà la meglio. Non siamo nati ieri.

Giovanni. Io dico che la partita, quella politica, non era ancora persa.

Tommaso. Lo dico anch'io. Quest'idea di proclamare il Cristo risorto per me è stata una grande scemenza. Ha demoralizzato il movimento invece di esaltarlo. Tutti erano in attesa del suo ritorno, ma in maniera passiva.

Paolo. Guardate che l'idea non era mia ma di Pietro, e voi lo sapete bene.

Andrea. Sì, ma i farisei ci credevano già in questa idea bislacca della resurrezione. A te bastava poco far due più due.

Paolo. Il mio partito ci credeva in senso lato, senza pensare a qualcuno in particolare. Noi tutti pensavamo che alla fine dei tempi avrebbe dovuto esserci una resurrezione dell'umanità, o almeno della sua parte migliore. In questo eravamo di sicuro diversi dai sadducei, che non credevano in niente.

Andrea. A me vien solo da ridere a pensare che dentro quella tomba mio fratello s'è comportato come un mistico fariseo, lui che veniva dal movimento zelota, il più combattivo di tutti, il più eversivo.

Paolo. In ogni caso è con lui che devi parlare, non con me. Io non ho fatto altro che portare alle estreme conseguenze la sua interpretazione della tomba vuota.

Tommaso. Maledetto me che ho creduto alle vostre cretinate. Parlare di resurrezione al posto di insurrezione è stata una vera stupidaggine.

Andrea. Quando verrà a trovarci sprofonderemo nella vergogna.

Tommaso. È un dio! È un dio! È il figlio di dio! [Poi si rivolge a Paolo] Come t'è venuta in mente una cosa del genere? Dimmi te quando mai l'abbiam visto fare qualcosa di sovrumano? Qualcosa che non fosse alla portata di qualunque uomo?

Andrea. Giusto! E non si capisce perché siano state raccontate tutte quelle scemenze nei vangeli.

Paolo. Per favore, non parlate a vanvera. Cercate di ragionare con la vostra testa e seguite i princìpi della logica. Pietro ha detto ch'era risorto. Io ho aggiunto ch'era un dio. Se un dio riesce a fare la cosa più difficile, come vincere la morte, non è forse in grado di fare le cose per lui più semplici, come per esempio guarire le malattie? Tutte le malattie?

Giovanni. Bravo! Bel ragionamento! [e applaude] Così se è vera la falsità maggiore, sono vere anche le falsità minori. Aristotele si rivolterebbe nella tomba, anzi uscirebbe dal suo loculo e verrebbe a sputarti in faccia. Che razza di logica è la tua?

Paolo. La mia? Ormai l'avrò ripetuto un milione di volte! Se accetti l'idea di resurrezione, puoi accettare anche quella di divinità, e se accetti che lui avesse una natura divina, potenzialmente poteva fare qualunque cosa. Che poi l'abbia fatta o non l'abbia fatta che differenza fa? La prima idea è quella che conta. Le altre sono tutte relative. Io non l'ho neanche scritto nelle mie lettere che lui era in grado di fare dei prodigi. Sono gli stupidi che credono solo se vedono miracoli, segni dal cielo!

Andrea. Sì, però tu e mio fratello vi siete attribuiti cose inverosimili. La stessa visione che dici d'aver avuto non era forse qualcosa di miracoloso? E quando il serpente t'ha morso e tu hai fatto vedere di non aver subìto alcuna conseguenza? Perché non ci dici che quel serpente non era affatto velenoso? E tu fratellino mio quando volevi far credere di poter curare gli ammalati solo con la tua ombra? Perché vi siete inventati cose così ridicole?

Giovanni. Lascia perdere Andrea. Vediamo le cose essenziali. La domanda fondamentale può essere una sola: se era davvero un dio, perché s'è lasciato ammazzare come un uomo? Poteva reagire no? Gli ci voleva poco per dimostrare ch'era il più forte. [Poi si rivolge a Pietro]. Non è stato forse quel rimbambito di Matteo a scrivere nel suo vangelo: “Riponi la spada nel fodero. Potrei mandargli contro dodici legioni di angeli e sterminarli tutti”? Ti rendi conto Pietro che con frasi del genere sembra che lui abbia cercato il suicidio? Ti rendi conto che se questa era la sua intenzione, noi siamo stati seguaci di un pazzo scatenato?

Pietro. Ma perché ti scaldi tanto? La risposta alla tua domanda è molto semplice: s'è lasciato inchiodare solo per farci capire che senza di lui non siamo in grado di far niente.

Paolo. Anche secondo me. Per questo ho scritto nelle mie lettere che dai tempi del peccato adamitico la situazione s'è talmente aggravata che tornare indietro è diventato impossibile. L'umanità può soltanto sperare in un suo ritorno.

Tommaso. Però i romani furono fermati dai Germani sulle rive del Reno, e dai Parti sulle rive dell'Eufrate. Potevamo farcela anche noi e senza l'aiuto di alcun dio. L'idea di parlare di divinità, di natura divina, di figliolanza divina è stata una vera e propria assurdità.

Giovanni. Senza poi considerare che se oggi siamo qui a parlare di queste cose, anche noi possiamo considerarci di natura divina. Tutti gli esseri umani sono delle divinità. Non esiste nessun dio onnipotente che ci legga nel pensiero.

Pietro. Veramente all'inizio non avevo detto ch'era stato dio a farlo risorgere. Avevo semplicemente fatto capire ch'era risorto, ma poteva anche averlo fatto da solo. Certo, in che maniera non lo so di sicuro. È stato Paolo a parlare di figliolanza divina, di figlio unigenito e altre scemenze del genere. Così ha fatto capire che poteva esistere un dio-padre superiore al dio-figlio. E io poi gli sono andato dietro, come un deficiente. D'altra parte chi poteva tenergli testa? Paolo ha una lingua che taglia e cuce, io no di sicuro.

Tommaso. È un uomo, un uomo, un uomo come noi! E noi siamo degli dèi come lui! Questo dovevamo dire. Invece abbiamo detto il contrario, il contrario, il contrario!

Giovanni. E non solo, caro Tommaso. Ma da qualche parte deve esserci anche una donna. Una donna come lui, un archetipo di tutte le donne. Altro che dio-padre e dio-figlio. Qui c'è solo un'essenza umana, divisa per genere, maschile e femminile. Questa essenza ci ha fatto da modello, è come un prototipo, e ha la nostra stessa natura.

Andrea. E tu pensi che gli uomini arriveranno mai a capire queste cose?

Pietro. Per favore Giovanni, non facciamo filosofia. Ne parliamo un'altra volta.

Giovanni. Va che se c'era la Maddalena avremmo discusso questo argomento. Andrea, perché non la vai a chiamare?

Pietro. Per favore, non adesso. Pensiamo piuttosto a cosa dire quando lui verrà.

Andrea. Pensaci tu, fratellino mio. Noi ti siamo venuti soltanto dietro, come delle pecore illuse.

Pietro. Senti Andrea, ormai quello è stato è stato. Non stiamo sempre lì a piangerci addosso.

Giovanni. Io comunque l'avevo detto sin dall'inizio che interpretare la tomba vuota come resurrezione era una forzatura. Come si può parlare di corpo risorto, o redivivo, quando nessuno l'ha più rivisto?

Paolo. Su questo non vi capisco. Se la gente accetta l'idea di resurrezione, chi può negare l'idea di apparizione? Qualcuno tra i cristiani mi ha forse contestato quando dicevo d'aver avuto una visione sulla via di Damasco?

Tommaso. Quella volta sei stato davvero ridicolo. Hai fatto mostra d'essere arciconvinto della tua visione e la gente ti ha creduto. “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Cose da pazzi. Sei tanto furbo quanto cinico.

Paolo. Tu guardi i mezzi e i modi, ma devi guardare il risultato finale, ch'era quello di far sopravvivere un movimento di tante persone demoralizzate, che non si aspettavano certo il loro maestro in croce.

Andrea. Ascolta Pietro, qui rischiamo d'impantanarci in discorsi senza costrutto. Rispiegaci bene come t'è venuto in mente di parlare di resurrezione, entra di più nei dettagli e vediamo di trovare le parole giuste per quando lui verrà. Forse riusciamo a salvar la faccia, almeno in parte.

Pietro. Allora ve lo ripeto per l'ennesima volta. Sembra che facciate finta di non capire o di non ricordare. Quel maledetto venerdì io e Giovanni ci eravamo nascosti nella casa di Marco. Quella pazza della Maddalena si era alzata molto presto il mattino dopo della crocifissione e con sua sorella era andata a piangere sulla sua tomba.

Tommaso. Scusa, ma perché la chiami pazza? In fondo era innamorata. Se non fosse morto, l'avrebbe sposato. Il voto che lui aveva fatto di non sposarsi finché la Palestina non fosse stata liberata, prima o poi l'avrebbe sciolto.

Andrea. Già, anche perché se non fosse stato tradito da quel porco di Giuda, sicuramente avremmo vinto.

Pietro. Vabbè, ritiro ch'era pazza. È che, secondo me, era un'esaltata. Era troppo convinta che lui ce l'avrebbe fatta. Non vi ricordate la storia del profumo? Era morto suo fratello Lazzaro, quel disgraziato che aveva voluto fare l'eroe contro Pilato, senza aspettare il nostro aiuto. Poi lei ci mandò a chiamare nel nostro nascondiglio, in Perea, rischiando di farci catturare. Lo convinse ad andarla a trovare, a consolarla, lei e sua sorella. E anche lì abbiamo rischiato d'esser presi. C'era già il mandato di cattura che pesava sulla sua testa. Poi s'è messa a piangere ai suoi piedi, e alla fine lui ha ceduto. L'aveva convinto ad anticipare l'ingresso a Gerusalemme, che invece doveva essere fatto più tardi, molto più tardi.

Giovanni. Ti sbagli. Lazzaro era molto popolare tra i giudei. La sua morte li aveva sconvolti. Secondo me quello era il momento giusto per fare l'insurrezione. I giudei si sarebbero alleati molto più facilmente coi galilei.

Andrea. Sì, anch'io ricordo bene quel profumo costosissimo, versato sui piedi di lui. Tutta la casa ne era piena. L'aveva profumato come se dovesse entrare in città da sicuro vincitore, in quattro e quatt'otto. Voleva che suo fratello fosse riscattato.

Tommaso. Giuda s'era indignato parecchio. “Cos'è tutto questo spreco?”, aveva detto, senza sapere che quel profumo lei l'aveva già riservato a lui per il giorno della sua sepoltura.

Pietro. Insomma perché divaghiamo? Lei venne ad avvisarci d'aver trovato la tomba aperta. Erano entrate dentro e l'avevano trovata vuota. Tutte e due erano convintissime che avessero rubato il corpo. Ma chi poteva fare una cosa del genere, spiegatemelo? Quella era una giornata sacra: nessuno avrebbe violato un sepolcro per essere escluso dalla pasqua.

Giovanni. Senti Pietro, ma cosa volevi che pensasse? Non vedendo niente dentro, era naturale credere che qualcuno l'avesse trafugato.

Pietro. Il fatto è proprio questo, e ve lo ripeto, a scanso di equivoci. Quando siamo entrati dentro abbiamo avuto un'impressione molto diversa da quella di Maria. Già vi ho detto che siccome c'era la festività pasquale, che impediva di toccare i cadaveri, la sepoltura era stata molto affrettata. Questo me l'avevi raccontato proprio te, Giovanni, ch'eri lì, insieme alla Maddalena.

Giovanni. Infatti lo lasciammo lì tutto sporco di sangue, avvolto in quel lenzuolo che Giuseppe d'Arimatea aveva acquistato sul momento. Il corpo l'avremmo ripulito per bene finito il sabato.

Tommaso. Certo che se adesso ci fosse anche la Maddalena, sarebbe meglio.

Andrea. Ha detto che verrà più tardi. Andiamo avanti, tanto non è lei che deve giustificarsi davanti a lui.

Pietro. Sì, andiamo avanti. Dunque dov'ero rimasto? Ah sì. Io e Giovanni siamo subito corsi verso la tomba. Io gli stavo dietro, perché lui sapeva dov'era. Nessuno ci ha visti quando siamo arrivati. E siamo entrati dentro. La prima cosa che abbiamo trovato sono state delle bende per terra.

Giovanni. Erano le fasce che avvolgevano il lenzuolo. Lo tenevano unito.

Pietro. Non c'era nessun corpo. Le uniche cose che abbiamo trovato sono state le due monetine che gli avevano messo sugli occhi e naturalmente il lenzuolo. Non c'era altro. Ah sì, la corona di spine.

Giovanni. Già il lenzuolo, ripiegato e posto da una parte, come se dovesse essere conservato. Una cosa molto strana.

Pietro. L'abbiamo guardato e subito ci siamo chiesti che senso avesse rubare un corpo, tutto nudo e sporco di sangue dalla testa ai piedi, per poi lasciare nella tomba il lenzuolo che l'avvolgeva.

Giovanni. La seconda cosa ve la dico io. Ci siamo chiesti che senso avessero quelle macchie di sangue. Ci sembravano troppo regolari, troppo perfette per essere delle semplici macchie. Il lenzuolo era robusto. Eppure era come se fosse stato marchiato a fuoco. Si vedeva una sagoma da ambo i lati. Una cosa assolutamente inspiegabile. Non erano le semplici macchie delle ferite che aveva. Per noi non avevano alcun senso.

Pietro. Non avevano alcun senso per te. Per me il senso era molto chiaro. Quel corpo si era risvegliato, era risorto. Era assurdo pensare che qualcuno l'avesse rubato in una maniera così strana. Ed era anche assurdo pensare che si fosse risvegliato da un sonno profondo. Proprio tu m'avevi detto [si rivolge a Giovanni] che quando uno dei militari l'aveva trafitto al costato, lui era già morto. Non aveva emesso alcun gemito.

Tommaso. E quindi? Solo da questi indizi si doveva dedurre ch'era risorto? E poi risorto come? Da solo?

Pietro. Scusa, ma cos'altro dovevamo dedurre?

Giovanni. Non che era risorto.

Pietro. E allora che cosa? Abbiamo già discusso su questo.

Giovanni. Non si può parlare di resurrezione se il corpo non lo rivedi vivo. E lui non l'abbiamo più rivisto.

Pietro. Lo so, secondo te bisognava soltanto dire ch'era scomparso in maniera strana. Ma potevamo raccontare questo a tutti gli altri discepoli? Magari mostrando un lenzuolo sporco di sangue? Ma andiamo!

Giovanni. Sì, se avessimo cercato di realizzare l'obiettivo che ci eravamo prefissi. Dovevamo realizzare un progetto, con o senza di lui. Non lo ricordi? L'insurrezione andava fatta lo stesso. Altro che parlare di resurrezione! Non a caso non hai usato il lenzuolo come prova. Perché quello non dimostra proprio niente. Capisci la differenza tra “mostrare” e “dimostrare”, vero?

Andrea. Veramente mio fratello non parlava solo di resurrezione, ma anche di parusia, di trionfo sui nemici proprio grazie e lui, grazie al suo ritorno trionfale, che sarebbe dovuto avvenire in tempi brevi.

Pietro. Infatti per me non avrebbe avuto senso parlare di resurrezione senza parlare di parusia, senza che lui tornasse in pompa magna.

Giovanni. Ecco, è stato così che abbiamo rinunciato alla rivolta. Aspettavamo di farla solo dopo il suo ritorno. Solo che lui non è mai tornato e noi abbiamo perso l'occasione propizia.

Tommaso. E voi non vi siete chiesti perché lui non sarebbe potuto tornare? Ditela tutta.

Giovanni. Io sì, me lo sono chiesto. Lui non lo so [indica Pietro con un dito]. Avevamo creato un movimento democratico, egualitario, non monarchico. Aspettare un suo ritorno trionfale sarebbe stato un controsenso. Ma Pietro ha insistito. È difficile ragionare con lui.

Pietro. Continui a mettere il dito nella piaga. Ancora non ho capito cosa dovevamo raccontare al movimento. Ch'era scomparso dalla tomba in maniera strana? Che avevamo trovato solo un lenzuolo sporco di sangue? Che quelle macchie indicavano ch'era risorto? Chi ci avrebbe creduto? Ci avrebbero preso per matti.

Giovanni. Già. Invece raccontare che siccome la tomba era vuota, lui doveva per forza essere risorto, per te era normale? Su questo proprio non ti capisco. Per paura d'esser preso per matto, hai preteso che diventassero matti tutti gli altri.

Pietro. Se uno crede in dio può credere anche nella resurrezione e se crede nella resurrezione perché mai non dovrebbe credere in una parusia trionfale e immediata?

Giovanni. Scusa, ma quando mai l'hai sentito parlare di dio? I sacerdoti li vedeva come sepolcri imbiancati, una massa di ipocriti senza speranza, soprattutto quelli che gestivano il tempio. Sapeva benissimo che l'insurrezione non sarebbe mai passata attraverso il tempio dei sadducei o attraverso le sinagoghe gestite dai farisei. E lo sapevamo anche noi.

Pietro. Ti ripeto che se mi fossi messo a parlare di strana scomparsa del cadavere, il movimento si sarebbe demoralizzato. Tutti potevano sempre pensare che i vertici stessero nascondendo qualche verità scomoda. Ci avrebbero considerato degli ipocriti o comunque delle nullità. Avrebbero sempre potuto dirci che non avevamo fatto abbastanza per lui, né per impedire che venisse giustiziato né per impedire che il suo corpo venisse trafugato.

Giovanni. Perché con l'idea di resurrezione e con quella, ancora peggio, della parusia trionfale non disarmavi il movimento? Tutti si erano messi a braccia conserte, ad attendere la manna dal cielo, come ai tempi di Mosè. Sono arrivato a un certo punto a chiedermi chi aveva fatto più danni, se tu o Giuda. In fondo Giuda aveva tradito soltanto perché non riteneva possibile l'insurrezione. Ma tu hai giustificato questa rinuncia tirando in ballo questioni del tutto fantastiche. Il tuo primo discorso a Gerusalemme me lo ricordo bene: “Il messia doveva morire perché così ha voluto dio-padre! Pentitevi e noi vi perdoneremo!”.

Paolo. In effetti devo dire che all'inizio mi facevate piuttosto schifo. Le autorità l'avevano consegnato ai romani perché secondo loro non c'era in quel momento alcuna possibilità di vincere. Ma solo in quel momento. Tutti speravano che prima o poi sarebbe arrivato un messia figlio di Davide, che avrebbe liberato Israele. Per questo mi avevano incaricato di perseguitarvi. Agli occhi delle autorità religiose sembravate soltanto dei disfattisti, passavate per dei rinunciatari.

Giovanni. Tu non ci crederai [si rivolge a Paolo], ma ti capivo di più quando ci mettevi in galera che quando hai smesso di farlo. Purtroppo però anche tu sei arrivato a dire che si era immolato volontariamente. Si era lasciato uccidere per riconciliare dio con l'umanità.

Paolo. Guarda che sei curioso. La morte è stato un fatto, da cui nessuno poteva prescindere. Potevano mandarlo al patibolo anche se non fosse stato tradito da Giuda. Tutto il resto erano interpretazioni. Pietro ha tirato fuori la sua, dicendo ch'era risorto e che sarebbe tornato subito. A me sembrava un pazzo. Però se davvero fosse tornato, mi sarei ricreduto, ovviamente. E come me, tanti altri.

Tommaso. Il bello è che ti sei ricreduto lo stesso.

Paolo. Sì, ma per un altro motivo. Finché vi mettevo in carcere, mi sentivo tranquillo. Facevo il mio dovere di aguzzino. Ma quando ho fatto ammazzare Stefano, la coscienza ha cominciato a rodermi. Lì ho capito che potevate anche aver ragione.

Andrea. In effetti non si trova tutti i giorni qualcuno disposto a morire per un fantasma. Stefano era così convinto che Pietro avesse ragione che tuonava contro il tempio come un matto: “Siete tutti corrotti! Avete ammazzato l'unico che poteva liberarvi dai romani! Avete fatto del tempio una vergogna, una spelonca di ladri!”.

Tommaso. A proposito, Stefano dov'è? Avrei voglia di rivederlo.

Paolo. Sì, anch'io, perché devo chiedergli scusa per come l'ho trattato. Ma la posta in gioco era alta. Il tempio era l'ultima istituzione rimasta che potevamo usare contro i romani. Certo, era gestito da una banda di ladri. Ma gli uomini possono essere cambiati. Le idee no. Almeno certe idee non si cambiano.

Giovanni. Tu però hai cambiato anche quelle. Sei passato dalla lotta politica a quella spirituale. “Non dobbiamo combattere contro la carne e il sangue, ma contro le potenze dell'aria”, dicevi. Sembravi un matto anche te.

Tommaso. Con le tue idee abbiamo perso la guerra. Tra te e Pietro non sapevo chi scegliere.

Paolo. Vi ripeto che io non ho fatto che portare le idee di Pietro alle loro conseguenze più logiche. Se parli di un uomo che muore e risorge, quello non può essere un uomo. E se è un dio, può tornare quando vuole e vincere come vuole.

Andrea. E secondo te perché non l'ha fatto?

Paolo. Pietro diglielo te, perché tuo fratello ancora non l'ha capito.

Pietro. Non è tornato solo perché voleva metterci alla prova. Voleva vedere cosa avremmo potuto fare senza di lui. Voleva darci il tempo sufficiente per pentirci.

Giovanni. E così abbiam perso la guerra contro i romani. Siam stati lì a batterci il petto e non abbiamo approfittato dell'occasione favorevole. [Con le braccia alzate] “È risorto! Non è un uomo, è un dio! Anzi è l'unico vero figlio di dio! Avrebbe potuto vincere senza problemi, ma s'è lasciato ammazzare come una pecora al macello! L'ha fatto per farci capire che senza di lui non siamo in grado di far nulla! Prima o poi tornerà per dimostrare che aveva ragione!...

Tommaso. Abbiamo infilato un'assurdità dietro l'altra. E con queste scemenze abbiam perso la guerra.

Paolo. E basta con questo “abbiam perso la guerra”. Noi abbiamo vinto il mondo! Abbiamo fatto capire che il suo messaggio di liberazione era per tutto il mondo, non solo per gli ebrei!

Giovanni. Messaggio di liberazione? Non mi far ridere! Vorrai dire di redenzione morale o spirituale. Nel suo nome non abbiamo liberato proprio nessuno. Tutta Israele è rimasta una colonia romana, oppressa dai debiti e dai tributi. Gli schiavi non sono stati certo liberati.

Paolo. Lo saranno quando anche i romani diventeranno cristiani. Saranno vinti dalla nostra cultura, dai nostri valori. E quando tutti saranno cristiani, che senso avrà la schiavitù?

Giovanni. Tu sogni ad occhi aperti. Da quando l'hanno ammazzato è passato un secolo, e non è cambiato un fico secco.

Paolo. Dai tempo al tempo. Vedrai che quando viene a trovarci mi darai ragione.

Giovanni. Sempre che venga. Queste tue incrollabili sicurezze m'han sempre colpito.

Tommaso. Sì anch'io son convinto che lui lascerà cuocere l'umanità nel suo brodo. Se gli uomini non si rendono conto da soli dei loro errori, resteranno bambini in eterno. Non possono andare avanti sperando che qualcuno risolva magicamente i loro problemi.

Andrea. Allora tutto quello che ci siamo detti oggi è stata solo una perdita di tempo. Facciamo sempre i conti senza l'oste.

Giovanni. Dillo a me, che ho cercato di scrivere un vangelo spiegando bene com'erano andate le cose e me l'hanno stravolto completamente.

Andrea. Vorrà dire che la prossima volta ci faremo una chiacchierata sul tuo vangelo. Tanto qua il tempo non ci manca.

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Conclusione

La Sindone non può essere usata come una bandiera di vittoria contro la morte, poiché per l'uomo della Sindone la morte non era l'argomento principale della vita.

Da come è stato trattato, appare evidente che il suo argomento principale doveva essere la libertà. Gli uomini han bisogno di sentirsi liberi, anche a costo di sacrificare la loro vita. Una vita da schiavi è indegna.

Quella non è l'immagine di un uomo rassegnato, come in genere lo sono i credenti davanti alle contraddizioni di tipo antagonistico, irriducibili. Quella è l'immagine di un lottatore per la libertà, personale e collettiva.

La Sindone ci insegna a fare della politica democratica uno degli strumenti con cui ottenere la libertà. Senza libertà dalla schiavitù non c'è dignità e la vita non merita d'essere vissuta.

La sconfitta politica dell'uomo sindonico non è il modello da imitare, l'obiettivo da perseguire. Essa è stata soltanto prodotta dalle circostanze, ma noi abbiamo il dovere – visto che lo schiavismo, seppure in forme diverse, permane inalterato – di creare nuove possibilità di liberazione umana: crearle autonomamente, senza aspettarsi l'intervento miracoloso di qualcuno.

Dobbiamo tornare ad essere quel che eravamo all'inizio, quando ancora non si era schiavi né delle prepotenze altrui, né delle proprie debolezze; quando non si faceva della propria forza un pretesto per dominare e non se ne giustificava l'uso dietro il paravento del diritto; quando non si aveva bisogno dell'illusione per sopportare meglio le proprie frustrazioni.

*

Nessuna persona umana riuscirebbe a sopportare la vista, in questo mondo, di un'altra persona con caratteristiche divine o sovrumane. La sua coscienza si sentirebbe talmente schiacciata da non poter più prendere delle decisioni libere e responsabili, le quali richiedono un certo margine di rischio e di insicurezza.

Immediatamente infatti scatterebbe il meccanismo della delega (in bianco). E, anche in questo caso, si preferirebbe non avere un rapporto diretto con la divinoumanità, poiché ci si sentirebbe continuamente giudicati a causa delle proprie debolezze.

Non è forse questa la ragione per cui gli ebrei si costruirono un dio assolutamente inaccessibile e i greci molte divinità con i difetti degli uomini?

Ecco perché qualunque cosa il Cristo abbia detto o fatto che lasciasse anche minimamente presagire che in lui potesse esistere qualcosa di “sovrumano” o di “soprannaturale” o di “extraterreno”, va assolutamente considerato come un'invenzione della primitiva comunità cristiana. Qualunque cosa egli abbia fatto o detto rientra necessariamente nelle possibilità umane.

La presunta “divinità” del Cristo è soltanto il frutto di una speculazione astratta fatta a-posteriori, che la Chiesa ha elaborato nel momento stesso in cui ha cominciato a tradire il vangelo originario del Cristo, che di religioso non aveva nulla.

L'unico, vago, indizio che possa far pensare a qualcosa di “strano” o di “particolare”, non facilmente comprensibile (ma quante cose “umane” sono incomprensibili!), lo si può riscontrare nella Sindone, cioè in quel lenzuolo piegato che Pietro e Giovanni trovarono nella tomba vuota.

La formazione chimico-fisica di quell'immagine resta ancora un mistero, in quanto nessun essere umano sperimenta, al momento della morte, un'esplosione di luce, cioè una sua totale trasformazione in energia, benché questo processo della materia non ci sia affatto ignoto. Conosciamo infatti un'energia di tipo elettrico che sviluppa un particolare fenomeno chiamato “effetto corona”: una miriade di microscariche legate a emissione di elettroni ad altissimo potenziale.

L'uomo è in grado di trasformare la materia a lui esterna in energia, e può fare anche il processo inverso; ma non è in grado di trasformare totalmente se stesso in energia, senza morire, né è in grado di tornare integralmente in vita, col proprio corpo, dopo essersi trasformato in energia, affinché si possa dire che “l'esperimento è riuscito”.

Quindi, in conclusione, si può affermare che sull'impossibilità delle riapparizioni del Cristo è sufficiente leggersi, per via analogica, la parabola lucana del ricco epulone e del povero Lazzaro: “tra noi e voi è stabilito un grande abisso” (16,26). Questo perché se qualcuno potesse essere visto da redivivo su questa Terra, essendo scontato per tutti che fosse morto, e se questa persona si mettesse a parlare dell'aldilà come di una dimensione realmente esistente, vi sarebbe una violazione della libertà di coscienza in chi vive ancora una condizione di vita semplicemente terrena, poiché lo costringerebbe a credere nell'evidenza di ciò che vede coi propri occhi e ascolta con le proprie orecchie. E il Cristo, nella sua predicazione, non ha mai costretto nessuno a credere, altrimenti non sarebbe entrato a Gerusalemme in groppa a un asino, ma a un cavallo, con tanto di esercito armato al suo seguito.

Tutte le dichiarazioni o descrizioni o rappresentazioni circa la visione del “Risorto”, non vanno prese alla lettera, ma come una metafora o una simbologia del fatto che, a partire da Pietro, si è cominciato a credere nella “tesi” o nella “interpretazione” della tomba vuota intesa come “resurrezione”; nel senso che, per poter essere definiti come “cristiani”, si doveva credere per forza in tale “tesi”, e lo si doveva fare semplicemente per “fede”.

Questo perché non esisteva una prova “materiale” che fosse risorto. Le uniche due prove erano la tomba vuota e la Sindone, che però non “provavano” alcunché in maniera scientifica, incontrovertibile, tant'è che non furono utilizzate come “prova”. L'idea (petrina) che passò fu che il Cristo “doveva risorgere” (perché lui l'aveva predetto, perché era figlio di dio e altre amenità del genere): ecco perché non fu trovato nella tomba.

Al momento in cui la trovarono vuota le interpretazioni potevano essere solo due, oltre a quelle scartate a priori: 1) del trafugamento del corpo (di derivazione giudaica e che poteva venire in mente istintivamente, come alla Maddalena), e 2) del risveglio improvviso del cadavere caduto in trance, in morte apparente o in stato comatoso (tesi docetistica). Una era quella della strana o inspiegabile scomparsa del corpo, l'altra quella della resurrezione. Quest'ultima fu formulata da Pietro e passò al movimento nazareno (secondo me non fu condivisa da Giovanni, poiché con questa idea si rinunciava a compiere l'insurrezione nazionale contro i Romani e i sacerdoti corrotti e collusi del Tempio, in quanto si demandava il suo compimento al ritorno immediato del Cristo).

Nell'idea di “resurrezione personale del Cristo” (in quella “generale degli eletti” già vi credeva, da buon fariseo) prese a convincersi Paolo, che, come Pietro, l'associava alla parusia imminente e trionfale: almeno così appare nelle sue prime lettere. Solo quando la parusia non si verificò, Paolo la procrastinò alla fine dei tempi; e Pietro, dal canto suo, dovette convenire, seppur obtorto collo, ch'era la soluzione migliore, poiché indietro non si poteva più tornare nella falsificazione, anche se le idee paoline di “giudizio universale”, di “morte riparatrice per tutta l'umanità oppressa dal peccato originale”, di “figliolanza unigenita del Cristo”, e altre di natura assolutamente mistica, implicavano la fine del primato storico-politico d'Israele e la necessità di mettere i pagani sullo stesso piano degli ebrei.

Tuttavia l'autore dell'Apocalisse, scritta nel 68-69, ancora crede nella parusia imminente. Cosa molto strana, perché in tutti i racconti di riapparizione Gesù fa capire che non avrebbe fatto un bel nulla di politico sulla Terra, in quanto il suo regno era nei cieli. D'altra parte, se davvero fosse tornato subito, avrebbe violato due volte la libertà di coscienza, in quanto gli uomini devono risolvere da soli i problemi che li affliggono, se vogliono uscire dallo stato di minorità che li caratterizza.

*

Certo è che se davvero l'uomo sindonico va considerato come il “prototipo” dell'umanità (maschile), per noi si mette male. Avremmo eliminato chi con sicurezza avrebbe potuto dirci come essere noi stessi, o come tornare a esserlo dopo aver smarrito “la retta via”. Le domande angoscianti qui si sprecano, e ad esse è difficile trovare delle risposte convincenti.

Chi può perdonare se stesso d'aver ridotto il proprio modello a un essere irriconoscibile?

Davvero la nostra coscienza può sentirsi sollevata dal fatto che quel modello ha potuto tornare ad essere quel che era, a prescindere dalle sofferenze che gli abbiamo inflitto?

Quale pena o punizione potrà soddisfare un senso di colpa così profondo?

Che tipo di consapevolezza dovremmo avere per poter dire che la pena sarà davvero adeguata alla nostra colpa?

Chi mai potrà dire che il nostro pentimento sarà davvero sincero?

Se non avremo più il coraggio di guardarci in faccia o di uscire dal labirinto della vergogna che proviamo per quello che abbiamo fatto, non era meglio non essere destinati a esistere? Cioè perché di fronte alle nostre colpe, che ci paiono imperdonabili, non ci viene data la possibilità di morire in eterno?

C'è forse una condanna più grande della morte interiore, cioè della disperazione?

Esiste forse un'attenuante che possa alleviare questa indicibile sofferenza?

Qualcuno può dirci, con un margine sufficiente di sicurezza, che non sapevamo quello che facevamo? È sufficiente dire che in certe situazioni si compiono cose che in altre situazioni non si farebbero mai? Siamo davvero sicuri che non le ripeteremmo? Chi può impedire a noi, che siamo fatti di libero arbitrio, di ripetere le tragedie del passato (magari in altre forme e modi)?

Come possiamo tornare a una coscienza da bambini innocenti, ora che siamo adulti profondamente colpevoli? Come si può ricostruire l'essere umano dopo averlo devastato così profondamente? Ci basterà sapere che avremo tutto il tempo che vogliamo per ricominciare? Davvero è solo questione di tempo?

(torna su)

1 Nel nostro testo si dà per scontato che l'espressione “Gesù Nazareno” non voglia affatto dire “di Nazareth”. “Nazarenus” (il titolo affisso sulla croce, insieme a quello di “Rex Judeorum”) voleva dire “aver fatto un voto”, cioè non sposarsi, non bere bevande inebrianti, non tagliarsi né barba né capelli ecc., fino a quando non fosse stato compiuto un determinato obiettivo della propria vita. La parola indicava un appellativo pubblico, con cui si poteva facilmente identificare il Cristo. I suoi seguaci non erano tenuti a fare lo stesso voto. È parso strano che sulla croce, un minuto prima di morire, chiedesse di bere la “posca” (un vino acetato ad uso militare): vi era solo la motivazione della terribile sete causata dal grande spargimento di sangue e di sudore, oppure vi era anche l'intenzione di comunicare che il suo voto non aveva più ragione d'esistere?

2 L'idea di “resurrezione dei morti” si trova nei Maccabei, ma soltanto in riferimento ai soldati caduti in battaglia contro il nemico pagano.

3 Da notare che i sindonologi credenti vanno a cercare nella Sindone le conforme dei vangeli, cioè non usano la Sindone per smentire la versione evangelica di un Cristo pacifista e figlio di dio, di un Pilato disposto a liberarlo e altre amenità del genere. Basta leggersi cosa scrive uno dei più importanti di loro, Pierluigi Baima Bollone: “È chiaro che Gesù era dotato di poteri straordinari. Era in grado di scacciare i demoni, di guarire deformità e malformazioni congenite e di vincere le malattie. È difficile pensare che tali poteri escludessero la chiaroveggenza e conseguentemente pensare che ignorasse il proprio futuro” (Sindone: la prova, ed. Mondadori, Milano 1998, p. 37). È abbastanza incredibile che uno scienziato arrivi a pronunciarsi in una maniera così mistica.

4 Che si tratti di morte reale e non apparente l'attesta - come dice il IV vangelo - il colpo di lancia che il militare romano inferse nel costato di Gesù per verificarne appunto il decesso, evitandogli la rottura delle tibie.

5 Attenzione alla differenza terminologica tra falsificazione e mistificazione. La prima tende a inventare le cose di sana pianta per giustificare una tesi errata; la seconda invece si serve di eventi reali reinterpretandoli in maniera distorta. P.es. nel racconto dei pani moltiplicati il miracolo è falso, ma l'intenzione dei Galilei di far diventare re Gesù e di marciare con lui a Gerusalemme, è vera; l'interpretazione secondo cui volevano farlo diventare re proprio perché aveva moltiplicato miracolosamente i pani, è invece mistificante. Quel che nel racconto non si dice è che Gesù rifiuta la candidatura al trono perché per lui l'insurrezione antiromana andava compiuta insieme ai Giudei, e naturalmente perché la rivoluzione nazionale doveva avere come finalità la democrazia, non la monarchia.

6 Il primo a capire che Gesù aveva caratteristiche politico-eversive è stato - come noto - H. S. Reimarus, ma l'inizio dell'esegesi critica vera e propria va fatto risalire ad alcuni esponenti della Sinistra hegeliana (D. Strauss e B. Bauer), anche se forse il primo che ha cercato con le proprie idee ateistiche di smontare il misticismo dell'Antico Testamento, è stato il filosofo ebreo B. Spinoza.

7 Che la ricerca fosse stata “scientifica” è tutto da dimostrare, in quanto i campioni prelevati dal lenzuolo pesavano quasi il doppio del peso medio per centimetro quadrato del tessuto. Gli scienziati avevano lavorato su reperti arricchiti di una forte quantità di materiale tessile estraneo, senza tener conto che nei secoli la Sindone aveva subìto pesanti restauri. Studi scientifici del 2014, coordinati dal prof. Giulio Fanti ed elaborati dall'Università degli Studi di Padova, corredati da tre datazioni chimiche e meccaniche, hanno confermato che potrebbe benissimo essere un reperto del I sec. d.C. (cfr La Sindone: primo secolo dopo Cristo!, scritto insieme a Pierandrea Malfi, ed. Segno, 2014).

8 Che Pilato fosse una persona del tutto spregevole lo racconta Giuseppe Flavio nei suoi testi e non vi è mai stato motivo per non credergli. Il suo protettore, Elio Seiano, prefetto del Pretorio, era l'uomo più odiato di tutto l'impero romano. Non a caso fu accusato d'ogni sorta di delitti e, con tutta la sua famiglia, fu fatto eliminare dal Senato. Con la morte di Seiano finì la carriera politica di Pilato. I suoi successori, comunque, non gli furono da meno in Palestina. Non dimentichiamo che quando Gerusalemme fu conquistata nel 70 dalle legioni di Tito, i Romani inchiodavano circa 500 ebrei al giorno agli alberi che trovavano nei dintorni della città.

9 Ovviamente gli schiavi potevano essere crocifissi dai loro padroni per motivi meno elevati di quelli politici. I sudditi delle province potevano esserlo per lesioni invalidanti, plagio e magia nera. I cittadini romani esclusivamente per rivolta armata, diserzione, lesa maestà, spionaggio, ribellione e falsificazione di testamento, ma nei loro confronti si procedeva generalmente con la decapitazione.

10 Quei due versetti sono assurdi anche per un'altra ragione: né Giuseppe d'Arimatea né Nicodemo e nessun'altra persona può essere andata al processo di Pilato con l'intenzione di seppellire Gesù. Anche chi faceva parte del corteo che lo portava sul patibolo, non può aver pensato, in quel momento, dove seppellirlo. La richiesta dei sacerdoti di spezzare le gambe ai condannati per affrettare il loro decesso e toglierli dalle croci, fu fatta all'ultimo minuto. Nessun parente o discepolo di Gesù, in quei frangenti, poteva avere con sé gli oggetti sepolcrali per una regolare inumazione. Ecco perché la Sindone fu acquistata in tutta fretta, pensando di terminare le operazioni funerarie una volta conclusa la Pasqua.

11Resta inspiegabile il motivo per cui solo Luca (8,2), che normalmente ha comprensione nei confronti delle donne, consideri la Maddalena un'ex-indemoniata (“C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni”). È curioso che di un esorcismo così singolare (non solo per i sette demoni cacciati, ma anche per il ruolo significativo del personaggio, almeno tra tutte le donne dei vangeli) né Luca né altri evangelisti riportino alcunché. La stessa chiusa di Mc 16,9 non fa che ripetere questo strano comportamento di Luca. Vien quasi da pensare che la Maddalena, ad un certo punto, abbia assunto un atteggiamento assai scomodo all'interno della comunità post-pasquale, forse proprio in relazione al criterio interpretativo della tomba vuota che Pietro volle imporre a tutti.

12 Sulla parola “reliquia” si potrebbero dire tante cose, anche positive, poiché a tutti fa piacere avere un ricordo particolare di qualcuno, da considerare molto prezioso. Di sicuro però non ci si può accostare a una reliquia con l'atteggiamento di chi pensa di poter ottenere dei benefici particolari toccandola.

13 In realtà nella Sindone appare un “casco di spine”, in contrasto con l'iconografia tradizionale. Da notare che questa trovata ingiuriosa da parte dei soldati, che si sono sentiti di utilizzarla proprio perché avevano capito che, una volta inferta quella pesantissima fustigazione, il destino di Gesù, in un modo o nell'altro, era segnato, non trova riscontri nella storia romana. Fu così inumana che vien da pensare che sul Getsemani non avvenne solo una semplice trattativa tra l'autoconsegna di un leader politico e, in cambio, la fuga dei propri seguaci, ma anche uno scontro armato vero e proprio, in cui alcuni soldati romani ci rimisero la vita. Uno scontro che gli evangelisti avrebbero voluto minimizzare nel gesto della recisione dell'orecchio del servo del sommo sacerdote ad opera di Pietro. A meno che la spiegazione di un trattamento così vergognoso non vada cercata nella convinzione che i Romani avevano di una imminente insurrezione durante la Pasqua, che assai difficilmente avrebbero potuto fronteggiare.

14 Tale punizione fu in uso almeno fino all'imperatore Onorio, che nel 390 la ordinò contro l'eretico monaco Gioviniano.

15 L'impronta obliqua lasciata dalla trave orizzontale parte dall'alto della spalla destra e arriva fin sotto la scapola sinistra. Ciò perché tale legno non era soltanto legato alle braccia del condannato ma anche al suo piede sinistro: il camminare quindi imprimeva alla trave un movimento verso il basso per cui essa gravava maggiormente sulla spalla sinistra e infatti questa spalla ci appare nella Sindone più tormentata che non la destra.

16 Non pochi sindonologi han rilevato che un perizoma o anche solo una mentoniera avrebbero impedito l'impressione di tutta la superficie corporea sul telo. Di fatto solo la parte inferiore degli arti inferiori, fino alle ginocchia, risulta meno marcata, e ciò va attribuito al legaccio posto all'altezza delle caviglie per tenere il lenzuolo ripiegato sotto i piedi.

17 Si può qui ricordare che non solo spettava ai procuratori o prefetti romani il potere di vita e di morte su chiunque fosse sotto la loro giurisdizione, ma dipendeva da loro, non essendoci una regola codificata, la durata e l'intensità della fustigazione dei condannati, a differenza della legislazione giudicava, che vietava che i colpi superassero il numero di 40 e che fossero particolarmente debilitanti.

18 I condannati a morte, una volta legati alla trave orizzontale o patibulum, dovevano portarla attraverso la città, in modo che tutti potessero vederli, fino al palo verticale già pronto sul luogo dell'esecuzione, al quale sarebbero stati facilmente infissi. Difficile dire se il fatto che al Cristo misero i chiodi, invece che delle corde, sia attribuibile alla volontà di Pilato di vederlo morto il più presto possibile o alla casualità del trasporto della trave da parte di Simone di Cirene, che obbligò i soldati a sciogliere Gesù.

19 Da notare che in tutte le rappresentazioni antiche della crocifissione i chiodi sono piantati nelle mani, anche se in questo modo il corpo non poteva rimanere appeso in croce. L'ipotetico falsario medievale non poteva saperlo o comunque non avrebbe avuto motivi per contraddire le rappresentazioni della tradizione, rischiando così di dare adito a sospetti. Meno che mai poteva sapere che l'estensione accentuata delle dita delle mani era una conseguenza della ricerca di equilibro di Gesù sulla croce.

20 Di regola gli stipes erano di due tipi: humilis, cioè bassi, per gli schiavi, che potevano anche essere sbranati da animali randagi; e sublimis, cioè alti, per personaggi di un certo rango, in modo tale che la croce si vedesse anche da lontano. Considerando che un militare diede da bere a Gesù con una spugna legata a una canna di issopo, si capisce facilmente a quale stipes fu inchiodato.

21 Se si lega un condannato per i polsi e lo si lascia, sospeso, senza che tocchi per terra, nell'arco di un'ora al massimo muore: il cuore non regge per insufficienza respiratoria. Non a caso la Sindone mostra dei rivoli di sangue che nei piedi, nelle mani e nelle braccia seguono varie direzioni: segno che il Cristo, spostando il peso dai piedi ai polsi e viceversa (accasciamento e raddrizzamento), cercava di muoversi per poter respirare e dire le ultime parole.

22 A proposito di questo colpo di lancia, è stato notato che la spalla destra è più abbassata della sinistra probabilmente perché quel colpo, avendo aperto la cavità pleurica, ha fatto afflosciare il polmone destro e conseguentemente abbassare la spalla destra. D'altra parte anche la gamba sinistra appare più corta dell'altra e il piede lievemente storto, tanto che nell'antichità si pensava fosse zoppo, e non a caso gli iconografi lo rappresentavano su un suppedaneo inclinato (a questo piedistallo, quando lo si paragonerà a una bilancia, la Chiesa bizantina darà un significato simbolico di giustizia). In realtà ciò è una conseguenza del metodo d'inchiodatura dei piedi (un solo chiodo passava per le ossa del metatarso dei piedi sovrapposti) e della rigidità cadaverica repentina, due aspetti scoperti solo in tempi recenti.

23 Le distorsioni che si notano in corrispondenza della schiena, delle mani, delle spalle e dei polpacci del cadavere sono causate dall'avvolgimento del lenzuolo e dai legacci che lo tenevano unito al corpo.

24 Gli scienziati parlano di radiazione non-ionizzante di bassa energia, una sorta di scarica elettrica non superiore a qualche frazione di secondo, che ha coinvolto solo le fibrille più superficiali del tessuto, quelle più sporgenti e non quelle adiacenti. Tutta la massa materiale del corpo si trasformò, secondo la formula di Einstein E=Mc2 in una equivalente massa di energia. Da notare che tutti gli animali a sangue caldo emettono radiazioni infrarosse facilmente captabili anche di notte da alcuni serpenti. È comunque notorio il fatto che un corpo, esposto al Sole, può accumulare radiazioni che poi emette a distanza di qualche ora. Il fisiologo russo A. Gurwitsch individuò inoltre i cosiddetti “raggi mitogenetici” (simili alle radiazioni ultraviolette), relativamente alla divisione delle cellule animali e vegetali.

25 Non pochi scienziati han fatto notare che l'immagine si è formata mentre il sepolcro era completamente buio, in quanto nella Sindone non appaiono tracce di fonti luminose esterne al corpo stesso.

26 Si noti che in Giovanni il titolo non parla di “Nazareno” ma di “Nazoreo”, cioè egli riferisce non la forma greca “Nazarenous”, ma quella ebraica grecizzata “Nazoraios”. A proposito di questo titolo, vi è stato chi ha intravisto nella Sindone una caduta di Gesù durante il trasporto della croce, a causa della quale il volto avrebbe sbattuto sulla tavola del titolo, le cui lettere, che dovevano essere ancora fresche perché scritte da poco tempo, hanno lasciato sul suo volto la loro impronta. Sembra anche che Gesù abbia portato al collo una tavoletta molto più piccola della precedente con le sole parole IN NECE (M) e cioè (condannato) “a morte”. Infatti parti di tale scritta sembrano leggersi tre volte sul volto della Sindone, in caratteri onciali (dell'altezza di cm 2,5), com'erano in uso nel primo secolo.

27 In Gv 11,44 è scritto che Lazzaro, oltre ad avere il volto coperto da un sudario (o mentoniera), aveva anche i piedi e le mani avvolti in bende: il che voleva dire che il corpo non era in grado di muoversi autonomamente; senza poi considerare che nel linguaggio semitico parlare di mani e piedi legati voleva dire che tutto il corpo lo era. Delle due quindi l'una: chi ha manipolato il racconto originario della sepoltura di Gesù, l'ha fatto sulla base del racconto dedicato a Lazzaro; oppure prima si è falsificato il racconto di Giovanni sulla sepoltura, poi si è inventato il racconto su Lazzaro. In ogni caso, mentre nel racconto di Lazzaro i congiunti ebbero tutto il tempo per preparare la sepoltura, non così poté essere per quella di Gesù, anche se il manipolatore vuol far credere il contrario.

28 P.es. Luca 19,20, nella parabola delle mine, indica con la parola “sudario” un semplice fazzoletto o un foulard. Anche in At 19,12 si parla di fazzoletti.

29 Si noti che se, oltre al lenzuolo, fosse davvero esistito un sudario sul volto (e non una semplice mentoniera attorno alle guance e sotto il mento), avremmo dovuto avere due oggetti interessati alla smaterializzazione del corpo, al punto che l'immagine del volto sul lenzuolo sarebbe stata quasi impercettibile.

30 Il sabato per gli ebrei durava dalle 18 del giorno prima (venerdì) fino alle 18 del giorno dopo (all'apparire delle prime stelle). Invece la Chiesa ha provveduto a contare i giorni come i Romani, facendo risultare che quelli della sepoltura erano stati tre.

31 La parola “nazareni”, usata in questo testo, non è intesa in riferimento alla setta giudaico-cristiana dei nazareni (o nazarei o nazorei), che si rifaceva alla tradizione di Giacomo il Giusto e si ispirava al vangelo di Matteo, e che ancora nel 380 d.C. continuava a usare la lingua ebraica, a osservare il riposo del sabato, la circoncisione e a festeggiare la Pasqua il 14 nisan.

32 Marco parla di Maria di Magdala, Maria di Giacomo (in 15,47 parla di Maria madre di Ioses) e Salome; Giovanni parla di Maria di Magdala e di un'altra donna rimasta anonima; Matteo parla di Maria di Magdala e l'altra Maria; Luca parla di Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Da escludere a priori la presenza di Giovanna, la moglie di Cuza, perché troppo sconveniente per un funzionario di Erode. Salome (madre dei figli di Zebedeo) viene citata solo una volta e non nel IV vangelo, il cui autore originario non avrebbe mancato di farlo. Dunque non resta che Maria madre di Giacomo il Minore e di Giuseppe-Ioses, moglie di Cleofa-Alfeo, zio paterno di Gesù, e dunque cognata della madre di Gesù (“sorella” in Gv 19,25, ma così non si spiega perché entrambe si chiamassero con lo stesso nome). Mai appare la madre di Gesù al momento della scoperta della tomba vuota, e di tutte queste donne indubbiamente la più importante è la Maddalena.

33 Normalmente le sindoni erano lunghe tre-quattro metri: il corpo, lavato sette volte, completamente rasato, cosparso di aromi e profumi e rivestito delle sue vesti, vi veniva avvolto fino al mento. Il viso rimaneva scoperto fino all'ultimo momento, quando veniva ricoperto con un sudario. A proposito della lunghezza della Sindone di Torino (quasi 4,5 metri): è difficile pensare che un falsario di epoca medievale, nell'area occidentale dell'Europa, potesse immaginare una cosa del genere in relazione alla sepoltura di un cadavere. Quello peraltro era un telo piuttosto pregiato, sicuramente non di uso comune.

34 Il fatto che non si dica mai che la Maddalena fosse madre o moglie di qualcuno, deve farci supporre che non fosse sposata, come d'altra parte non lo era Maria, sorella di Marta e Lazzaro: il che in un Paese come quello, dove le donne si sposavano molto presto, lascia supporre ch'esse, in realtà, fossero la stessa persona, benché una venga presentata come giudea e l'altra come galilea: d'altra parte anche sull'origine del Cristo vi è la medesima ambiguità.

35 La prima sezione (20,1-18) mostra un numero eccezionale di incongruenze, che rivelano la mano di un redattore che ha ottenuto l'organizzazione combinando tra loro materiali eterogenei.

La Maddalena si reca al sepolcro da sola al v. 1, ma dice “noi” al v. 2. Lei conclude che il corpo e stato trafugato al v. 2, ma sembra che non guardi dentro il sepolcro fino al v. 11.

Vi e un duplicato della della descrizione di Pietro e del discepolo prediletto:

− due frasi di moto a luogo nel v. 2;

− letteralmente: “Pietro usci ... ed essi stavano andando al v. 3;

− la ripetizione di ciò che fu visto ai vv. 5 e 6 ma con due verbi diversi per “vede”;

− la contraddizione fra “egli vide e credette” al v. 8 ed “essi non avevano compreso” al v. 9.

La fede del discepolo prediletto non ha alcun effetto sulla Maddalena né sui discepoli in genere (v. 19). Non e chiaro quando e come la Maddalena sia tornata al sepolcro (v. 11). Perché, al v. 12, lei vede nel sepolcro degli angeli, mentre Pietro e il discepolo prediletto videro gli abiti funebri? Il dialogo della Maddalena con gli angeli, al v. 13, non fa progredire affatto l'azione. Lei si volge verso Gesù due volte (vv. 14 e 16).

36 Il verbo haptō, che alla forma media significa “legare a sé, attaccarsi, aderire, toccare, afferrare, attaccare”, ricorre solo qui nel quarto vangelo, sicché l'ordine di Gesù può essere reso in vari modi: “non mi toccare”, “non mi trattenere”, “non continuare a toccarmi”, con significati che possono avere una diversa espressione.

37 Chiunque è in grado di capire che non ci può essere, sul piano ontologico, un “padre” e un “figlio”, poiché se c'è un figlio c'è dipendenza, quella che tanto piace a tutte le religioni. Il genere umano deve invece emanciparsi da tutte le dipendenze che gli impediscono di raggiungere la maturità. Ci può essere evoluzione nella consapevolezza di sé, ma non ci possono essere ruoli ipostatizzati. Se Cristo è un prototipo dell'umanità maschile, al massimo può essercene un altro per il genere femminile, ma non può esserci alcun padre, almeno non per il genere umano.

38L'interpretazione mistica che ne dà la Chiesa può essere così “romanzata”, sempre in chiave mistica.

- Non mi toccare, perché ancora non sono salito al padre.

- Come! Io ti voglio toccare proprio perché ancora non sei salito al padre!

- Non puoi più toccarmi come prima, perché io non sono più quello di prima. Infatti tu non mi hai riconosciuto. Ma quando smetterai di pensare che il mio corpo sia stato trafugato da qualcuno e crederai che io sono salito al padre, allora mi riconoscerai e potrai di nuovo toccarmi, nella fede. Non posso darti conferma che io sono proprio io se tu non hai fede.

- Dunque devo credere che sei risorto? E a che mi serve se tu sali al padre? Perché non resti sulla terra e trionfi sui tuoi nemici?

- Perché a chi ha fede preparo una dimora eterna nei cieli, dove il padre mio è padre vostro. Dovete rassegnarvi a non poter essere voi stessi su questa terra, perché se hanno crocifisso me, cosa faranno di voi?

- Dunque dobbiamo rinunciare a lottare?

- Sì, pur nella convinzione che la fede vi renderà figli di Dio come lo sono io. Su questa terra solo una parte di voi può essere conosciuta; l'altra parte, quella migliore, può essere riconosciuta solo nei cieli.

39 La Pentecoste di cui si parla in At 2,1 ss. rappresenta in un certo l'ufficializzazione della tesi petrina relativa alla resurrezione. La rinuncia definitiva all'obiettivo della liberazione della Palestina da parte del movimento nazareno comportava l'accettazione dell'idea che il Cristo non solo era risorto ma anche asceso in cielo, per stare alla destra del dio-padre sino alla fine dei tempi.

40 E pensare che nella prima versione della chiusa marciana le donne vengono fatte uscire spaventate dal sepolcro vuoto, incapaci di darsi qualsivoglia spiegazione che non fosse meramente empirica (il corpo era scomparso perché trafugato da qualcuno). L'idea vera e propria di “resurrezione” viene fatta passare dall'evangelista come una trovata geniale di Pietro, il quale infatti se vorrà rivedere il Cristo, dovrà trasferirsi dalla Giudea alla Galilea, lasciando il lettore nel dubbio se si debba rinunciare definitivamente a qualunque aspettativa politica, o se invece credere che l'idea di “morte necessaria”, voluta da dio, non sia affatto incompatibile con un ritorno imminente del messia in veste gloriosa.

41 Stando alla iniziale posizione di Paolo di Tarso, seguace di Pietro, l'idea di resurrezione prevedeva un ritorno del Cristo non in veste di “sacerdote”, bensì come condottiero politico-militare e in tempi relativamente brevi, tali da rendere credibile la suddetta idea. Il che però, se davvero avesse avuto possibilità di realizzarsi, non avrebbe certo potuto comportare l'uso della parola “giudeo” come sinonimo di “nemico”, in quanto si sapeva benissimo che tra i Giudei andavano distinti i sacerdoti corrotti dal popolo in buona fede. Questo per dire che il racconto in oggetto, pur essendo stato scritto in ambienti favorevoli al IV vangelo, è fortemente condizionato dalla teologia paolina matura, quella che effettivamente vedeva i Giudei, complessivamente intesi, come nemici acerrimi del cristianesimo, la cui opposizione religiosa nasceva tutta da motivazioni politiche. Sarà poi nei confronti del paganesimo romano che Paolo cercherà di dimostrare che non vi era alcun senso a perseguitare il cristianesimo per motivi politici.

42Prescindendo da questa lettura esegetica, si potrebbe però intravedere qui il tentativo di sostenere una tesi che a noi pare molto moderna, e cioè che la materia è più complessa di quel che appaia. Tra materia ed energia vi sono rapporti la cui natura non ci è ancora del tutto chiara. I discepoli vedono Gesù in carne ed ossa, non lo scambiano per un fantasma, come nell'episodio fantastico dei pani miracolati, eppure stranamente non lo riconoscono. Sono loro a non riconoscerlo o è lui a non farsi riconoscere? Oppure per poter riconoscere qualcuno che non è più esattamente come prima, deve scattare un qualche particolare meccanismo? Loro sono appena scesi dalla barca, lui si avvicina a loro per chiedere se hanno qualche pesce da dargli da mangiare, ma loro non hanno nulla. Si sono parlati da vicino, ma loro non l'hanno ancora riconosciuto. Quando lui dice di risalire sulla barca e di gettare le reti dalla parte destra della stessa, loro stranamente obbediscono, obbediscono a uno sconosciuto. Questo racconto sembra essere strutturato come un sogno. Gesù viene scambiato per un pescatore che s'intende di quel lago. E vedono che ha ragione.

43 Si noti però che da quando siamo arrivati a capire gli elementi più intimi della materia, con lo studio sul nucleare, stiamo usando questa energia anche per compiere delle distruzioni d'incalcolabile portata e dalle conseguenze di lunghissima durata, praticamente irrisolvibili. Ancora una volta – come ai tempi di Adamo ed Eva – ci siamo spinti oltre il consentito, non avendo la maturità sufficiente per gestire cose così delicate e complesse.

44 Gli scienziati dell'Enea di Frascati, a partire dal 2005, han cercato di riprodurre qualcosa di simile alla Sindone bombardando dei tessuti di lino di pochi centimetri con raggi ultravioletti di brevissima durata (minore di 50 miliardesimi di secondo!) e di una determinata lunghezza d'onda mediante un laser a eccimeri molto potente (alcune migliaia di megawatt per centimetro quadro). I risultati vennero considerati appena sufficienti, in quanto si dovette convenire ch'era estremamente difficile riprodurre un'immagine avente le stesse caratteristiche fisiche e chimiche di quel lenzuolo, che peraltro ha una superficie di 5 metri quadrati. D'altra parte i fisici teorici hanno affermato che l'impronta può essere compatibile con un bombardamento di protoni o di particelle alfa.

45 Lineamenti di storia delle religioni, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 295.

46 Stando però al IV vangelo era presente alla crocifissione e alla sepoltura Giovanni Zebedeo. Nei Sinottici vengono usate le donne per escludere l'ipotesi della morte apparente. Nel IV vangelo invece Giovanni parla del colpo di lancia inferto nel costato del corpo morto di Gesù: cosa confermata nella Sindone.

47 Altri esempi di lettura tendenziosa dell'Antico Testamento: “Come Giona restò nel ventre della balena tre giorni e tre notti, così sarà il figlio dell'uomo nel cuore della terra” (Mt 12,38 ss.); l'uso della citazione di Gioele 3,15 in At 2,16; l'uso delle citazioni di alcuni Salmi in At 2,25 ss.

48 Viene detto nei vangeli: “I Giudei dicevano: 'Come mai costui conosce le Scritture, senza aver studiato?'” (Gv 7,15). Dissero le guardie del Tempio mandate ad arrestarlo: “Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!” (Gv 7,46). E i rabbini in sinagoga: “Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data?” (Mc 6,2).

49 Il 30 giugno 1968 papa Paolo VI arrivò a dire, senza rendersi conto delle implicazioni ateistiche di ciò che diceva, che “Gesù è risorto nel terzo giorno per suo proprio potere”.

50 Stando al laboratorio di Genomica Dafnae dell'Università di Padova il filato del tessuto sarebbe stato prodotto in India, mentre la sua fabbricazione è mediorientale. La maggior parte del DNA estratto dai filtri campionati nelle parti interne del lenzuolo, corrispondenti alle diverse parti del corpo del Cristo, è di origine indiana (84,8%), mentre la maggior parte del DNA estratto dal campione corrispondente al lembo laterale (la parte esterna più soggetta a inquinamento ambientale) è di origine mediorientale (68,5%). I lignaggi umani tipicamente europei rappresentano invece solo l'1,6%.

51 Nel vangelo di Marco viene detto che Gesù risorto stava aspettando gli apostoli in Galilea, ma ciò non va interpretato nel senso che Pietro sarebbe voluto ripartire dal suo territorio d'origine per compiere l'insurrezione nazionale. Se egli avesse accettato l'idea di continuare il progetto iniziale di liberazione, nonostante la morte di Gesù, non avrebbe potuto dire una cosa del genere, in quanto il progetto poteva realizzarsi solo in Giudea e, in particolare, a Gerusalemme. Quella frase venne messa per indicare che Pietro aveva rinunciato al progetto politico e che la Galilea veniva vista in opposizione risoluta alla Giudea e che se una ripresa delle idee di Gesù ci fosse stata, sarebbe avvenuta al di fuori della stessa Palestina (quindi, dobbiamo darlo per scontato, in maniera mistica).

52 In genere gli apocrifi non fanno che accentuare gli aspetti più inverosimili dei canonici, e possono essere utilizzati non per far luce sulle mistificazioni dei vangeli canonici ma solo per capire le dinamiche interne al cristianesimo più primitivo.

53 “Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo...” (23,53). “Pietro corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende.” (24,12)

54 Nel vangelo la parola othonia viene usata al plurale; è solo negli Atti che viene usata al singolare (10,11; 11,5) per indicare una “tovaglia” che contiene vari alimenti. Come se in italiano dicessimo “tovaglia” e “tovaglioli”. È evidente che gli othonia sono oggetti molto più piccoli della othonê.

55 Da notare che nella tradizione ebraica la salma veniva sepolta completamente vestita, in genere con abiti di lino: non si usavano affatto bende o lenzuola; anzi, i morti che avevano subìto spargimento di sangue non venivano neppure lavati ma soltanto vestiti.

56 Si noti, en passant, come per negare la presenza di “un lenzuolo”, l'autore giunga persino a parlare di “varie lenzuola”.

57 L'usanza ebraica di seppellire i morti prevedeva che il cadavere andasse lavato e profumato. I capelli andavano tagliati e anche la barba se era un uomo. Poi veniva rivestito di una camicia bianca di lino, senza mescolanza con la lana e senza cuciture o tasche. Infine si metteva una tela bianca sopra e sotto il corpo. Non vi erano né bende né legature, né stoffe ricamate, né ornamenti, né gioielli, oro o monete. Se il cadavere, al momento della sepoltura, era sporco di sangue, non veniva neppure lavato, ma soltanto avvolto in un lenzuolo e sepolto così com'era: neppure gli abiti venivano tolti. I condannati a morte erano addirittura considerati maledetti da Dio, impuri per definizione. Nel caso di Gesù, però, Giuseppe d'Arimatea dimostrò di non volerlo affatto considerare un “maledetto”, ma anzi una persona di tutto rispetto, al quale riservò un sepolcro di lusso, andando di persona a chiedere il corpo a Pilato, che lo concesse mostrando che la legislazione romana era, in questo, meno rigida di quella giudaica. Tuttavia l'Arimatea evitò una sepoltura regolare proprio in ossequio all'usanza ebraica di non toccare cadaveri durante la settimana santa. Il fatto che i vangeli dicano che le donne si erano organizzate per completare la sepoltura passato il sabato, dimostra che la sepoltura non era avvenuta in quella maniera perché il corpo era sporco di sangue, ma proprio perché lo era in un giorno molto particolare.

58 Il fatto però che i redattori abbiano avuto bisogno d'inventarsi dei racconti di riapparizione sta a significare che l'istanza politica rivoluzionaria, essendo stata repressa dall'idea petrina di resurrezione e da quella paolina di esclusiva figliolanza divina, aveva bisogno di trovare una sorta di compensazione mistica.


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