STUDI LAICI SUL NUOVO TESTAMENTO


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MIKOS TARSIS

JOHANNES

Il discepolo anonimo, prediletto e tradito

Introduzione - 1) Chi era Giovanni Zebedeo? - 1.1) Addendum sulla questione del discepolo prediletto - 2) Il IV vangelo in nuce - 3) La parte iniziale del vangelo - 3.1) Il Prologo - 3.2) La figura del Battista - 3.3) Le nozze di Cana - 3.4) La prima insurrezione (Addendum) - 3.5) L'incontro con Nicodemo - 3.6) L'ultimo incontro col Battista - 3.7) L'incontro coi Samaritani - 4) La guarigione del figlio di Cuza - 5) Il paralitico di Bethesda - 6) L'ateismo mistificato del Cristo - 7) Il cosiddetto miracolo dei pani - 8) I parenti di Gesù e la festa dei Tabernacoli - 9) L'adultera e la pena di morte - 10) Il misticismo del Cristo - 11) Il cieco-nato e il rapporto tra malattia e colpa - 12) La parabola del buon pastore - 13) La festa della Dedicazione e l'ateismo del Cristo - 14) Lazzaro di Betania e la reazione di Caifa - 15) I preparativi all'ingresso messianico - 16) L'ingresso messianico a Gerusalemme - 17) Dopo l'ingresso messianico - 18) La mistica della morte - 19) L'ultima cena - 20) Il tradimento di Giuda - 21) Il rinnegamento di Pietro e le astratte consolazioni - 22) La femminilizzazione del cristianesimo - 23) La vite e i tralci - 24) Cristologia e Pneumatologia - 25) Il patetismo nei discorsi di addio - 26) La cattura di Gesù - 27) L'udienza informale di Gesù e il ruolo di Pietro - 28) Il processo di Gesù davanti a Pilato - 29) La crocifissione - 30) La sepoltura - 31) L'invenzione delle apparizioni (Maria Maddalena, Tommaso) - 32) Il secondo finale - Appendici: 33.1) Il Cristo folle del IV vangelo - 33.2) Gesù nazireo - Conclusione

Introduzione

I

Uno dei trucchi per verificare se la propria interpretazione dei vangeli è sufficientemente coerente con le proprie idee di fondo è quello di reinterpretarli da capo, lasciando perdere completamente ciò che su di essi si era scritto in precedenza. Eventualmente il confronto coi testi passati verrà fatto dopo, per verificare se per distrazione o smemoratezza si è tralasciato qualcosa d'importante. Naturalmente non si deve aver la pretesa di restare coerenti con tutte le idee che nel corso degli anni si sono avute, poiché inevitabilmente esse sono andate modificandosi, ma soltanto con quelle che si ritengono indispensabili, cui per nessuna ragione si rinuncerebbe.

Se a distanza di 10, 20, 30 anni si sono formulate, nella sostanza, le medesime idee, nonostante le molteplici letture fatte nel frattempo, ciò significa che da quella originaria interpretazione non ci si vuole discostare o non si è in grado di farlo, se non pagando una inaccettabile incoerenza nei confronti di se stessi. Di per sé ovviamente l'incoerenza non può far paura ad alcun intellettuale onesto. Ma per poterla accettare bisogna esserne convinti, e tale convinzione può darla solo la percezione di un approfondimento della verità. Si accetta l'incoerenza quando si è persuasi di aver fatto un certo progresso intellettuale, cognitivo.

Per esempio Da giovane pensavo che Giuda fosse un estremista, poiché Giovanni inizia a parlare della sua intenzione di tradire subito dopo il racconto fantasioso dei pani miracolati, cioè quando Gesù rifiuta di accettare la proposta dei 5000 galilei di diventare re e di marciare su Gerusalemme. Ero convinto che Giuda, da buon galileo, pensasse a come creare delle forme di pressione politica con cui indurre Gesù a diventare un messia davidico, indifferente all'uso politico di metodi democratici. Col tempo però mi sono convinto ch'egli fosse un progressista moderato, non sufficientemente convinto che l'insurrezione nazionale sarebbe potuta riuscire senza l'appoggio significativo dei farisei, o almeno di una parte importante di questo partito. Mi sono convinto di questo quando, vedendo che la sorella di Lazzaro aveva usato un profumo molto costoso sul capo e sui piedi di Gesù, Giuda se ne risentì dicendo che si sarebbe potuto venderlo e dare il ricavato ai poveri. E mi sono chiesto: come poteva un leader politico affermare una cosa del genere il giorno prima che Gesù entrasse in maniera trionfale a Gerusalemme? Avrebbe dovuto immaginare che se l'insurrezione avesse avuto buon esito, non ci sarebbe stato più bisogno di fare la carità ai poveri. Evidentemente Giuda, pur entrando con Gesù nella capitale, non era convinto al 100% che l'insurrezione andasse fatta. Secondo lui essa doveva dipendere da alcune condizioni, e quella principale doveva essere l'assenso da parte del partito farisaico. E visto che Gesù mandò via dal cenacolo proprio lui col compito di fare una cosa molto importante (“ciò che devi fare, fallo presto”), secondo me Giuda doveva contattare i farisei e riferire a Gesù se poteva contare su di loro oppure no. Il tradimento fu del tutto inaspettato. Giuda fu convinto dai farisei che l'insurrezione non avrebbe potuto avere alcun successo senza il loro consenso. Quindi secondo me Giuda non era affatto galileo ma giudeo, e probabilmente era un seguace di Nicodemo, poiché lo si vede entrare in scena dopo l'epurazione del Tempio, stando alla cronologia di Giovanni. E non è da escludere che la parte più democratica dei farisei, con Paolo di Tarso in testa, abbia aderito alla teologia petrina della resurrezione con un certo senso di colpa per non aver appoggiato Gesù in quel momento decisivo. I farisei comunque – non dimentichiamolo – non sono riusciti soltanto, grazie a Paolo, a porre le fondamenta del tradimento più sofisticato del messaggio politico-rivoluzionario del Cristo, creando quella religione che passerà alla storia col nome di “cristianesimo”, ma sono riusciti anche a tenere in vita l'ebraismo dopo la completa distruzione d'Israele da parte dei Romani.1

Tuttavia, il fatto che io abbia cambiato opinione su Giuda e su altri aspetti non modifica di una virgola il giudizio negativo che ho sempre dato all'interpretazione della tomba vuota come “resurrezione”. Giuda è stato sicuramente un traditore, ma lo sono stati anche Pietro e Paolo.

Un altro esempio potrei farlo in riferimento ai manipolatori del IV vangelo. Solo in età adulta mi sono convinto, esaminando il testo con maggiore rigore etico, ch'essi dovevano appartenere a un ambiente monastico, luogo ideale per la formulazione di idee sofisticate, particolarmente esigenti, più “apocalittiche” che “integrate”, con cui si poteva agevolmente manipolare una fonte storica e politica come doveva essere il vangelo originario di Giovanni, scritto sicuramente in aramaico, assai prima di quello che ci è pervenuto; un ambiente che non poteva essere il suo, essendo Giovanni un politico di razza, un combattente, che non a caso decise di uscire dal movimento di idee, in ultima istanza, moralistiche dell'esseno Battista.2 Questa è la ragione per cui amo Giovanni.

Amo Giovanni perché, nonostante i manipolatori del suo vangelo gli abbiano fatto dire cose orribili sui Giudei e cose assolutamente inverosimili su Gesù Cristo, è l'unico apostolo che può farci capire qualcosa su come si siano svolti veramente i fatti.

II

C'è qualcosa di vero nelle fiabe per bambini? A volte sì, ma non sappiamo cosa, o almeno non lo sappiamo esattamente. La verità storica s'è persa col tempo, anche perché i poteri dominanti non avrebbero permesso di dare, alle loro vicende, delle versioni o interpretazioni diverse dalle proprie. Ecco perché è rimasta soltanto una verità morale, la quale, proprio perché destoricizzata, non è detto che abbia un riferimento preciso alla morale dei fatti realmente accaduti.

Prendiamo p.es. la fiaba di Biancaneve e i sette nani. Oggi è assodato ch'essa fa riferimento a una certa Maria Sofia von Erthal, nata a Lohr nella Bassa Franconia, in Baviera, nel 1725. Era figlia del principe Philipp Christoph von Erthal, rappresentante locale del principe elettore ecclesiastico di Magonza, uno dei sette preposti a scegliere l'imperatore del Sacro Romano-Germanico Impero. La madre, baronessa von Bettendorff, era morta nel 1738 e Philipp si era risposato nel 1743, quando Maria Sofia aveva 18 anni.

La seconda moglie, Claudia Elisabeth Maria von Venningen, contessa di Reichenstein, iniziò a usare la sua nuova posizione sociale per favorire i figli avuti dal precedente matrimonio, a scapito appunto di Maria Sofia, la quale, esasperata dalle vessazioni, decise di andarsene dal palazzo, diventando una specie di vagabonda in mezzo alla foresta limitrofa. Fu assistita da alcuni minatori, ch'erano bassi di statura, in quanto nella regione erano presenti molte miniere con dei cunicoli di non facile accesso. Tuttavia dopo pochi anni la ragazza morì di vaiolo, suscitando una certa avversione, da parte della popolazione locale, nei confronti della matrigna.

Il cosiddetto “specchio parlante” non era che un giocattolo acustico che il padre della ragazza aveva regalato alla seconda moglie: esso era in grado di registrare e riprodurre le frasi pronunciate da chi vi si specchiava. Esiste ancora oggi nel museo di Spessart nel castello di Lohr.

Quanto al veleno della mela, nella regione cresceva in abbondanza una pianta chiamata “solanum”, il cui veleno veniva usato nelle farmacie.

Invece la bara di cristallo, in cui nel racconto viene deposta Biancaneve, fa riferimento a famose vetrerie e cristallerie della regione.

Il fatto che nella fiaba venga detto che la matrigna aveva un carattere orribile o interessi egoistici di per sé non è certo sufficiente a spiegare che, nell'ambito della classe sociale cui essa apparteneva, tali atteggiamenti non erano certo inconsueti, soprattutto quando si doveva decidere il destino dei figli legittimi o naturali, dei primogeniti o dei cadetti, dei figli di primo o di secondo letto, dei figli maschi o delle femmine, e così via.

Nelle fiabe la critica sociale è ridotta a una critica morale, proprio perché non si poteva fare diversamente, se si voleva che un determinato testo potesse essere divulgato. Nei vangeli la cosa non è molto diversa. Qui è Gesù che viene fatto risorgere dal Padre, là è Biancaneve che viene risvegliata con un bacio dal principe azzurro.

Tutto ciò per dire che i vangeli sono falsi per necessità. Sono scritti da ebrei (o simpatizzanti dell'ebraismo, come Luca) che avevano alti ideali politici e che sono stati sconfitti su tutti i fronti, o comunque hanno ereditato, come acquisita definitivamente, l'idea che la Palestina non avrebbe potuto liberarsi dal dominio romano.

Non a caso sono stati scritti in greco, cioè gli autori hanno accettato di considerare come loro principali lettori i pagani convertiti al cristianesimo. Sono libri ad uso interno, per chi ha già la fede cristiana: di storico non hanno quasi nulla, sia perché hanno il compito di presentare le cose in maniera mistificata, sia perché i loro lettori (i quali, in quanto di origine pagana, non sono interessati al mondo ebraico vero e proprio, anzi tendenzialmente sono antisemiti) non vogliono dei testi politicamente eversivi, ma soltanto eticamente edificanti, possibilmente conditi con particolari fantasiosi, come appunto accade nelle fiabe.

Infatti gli aspetti fantastici aiutano a far sognare, a evadere da una serie di contraddizioni sociali tipiche del sistema schiavistico. I vangeli sono favole paragonabili ai racconti omerici, con la differenza che Omero doveva mettere in cattiva luce l'epoca pre-schiavistica, mentre i redattori cristiani dovevano spoliticizzare al massimo un leader anti-schiavista come Gesù.

Ecco perché si può tranquillamente sostenere che tutto il Nuovo Testamento è venuto incontro a un'esigenza di sincretismo culturale tra ebraismo e paganesimo in cui il ruolo di quest'ultimo risultava prevalente, anche se, col passare dei secoli, esso dovrà accettare di trasformarsi in cristianesimo.

III

Per capire i vangeli bisogna mettersi nei panni dei loro protagonisti o dei loro redattori, e chiedersi: “Che cosa c'è di vero in quello che raccontano?”. Ci si pone questa domanda dando per scontato che molte cose siano false, nei cui confronti diventa inevitabile porsi un'altra domanda: “Perché gli eventi sono stati falsificati?”.

Ovviamente non è detto che, se si riesce a rispondere alla seconda domanda, si sia anche in grado di rispondere alla prima. E tuttavia si possono porre le basi per avvicinarsi alla verità. Essendo state le fonti manipolate in varie maniere, è impossibile sapere l'esatta verità delle cose; ma non si può neppure sostenere che, siccome lo sono state, nulla di quanto esse dicono sia vero. Dobbiamo evitare quello che gli psicologi chiamano “effetto alone”.

Semplicemente dobbiamo accontentarci di trovare delle argomentazioni plausibili con cui smascherare le falsificazioni, sperando, in tale maniera, d'aver impilato un altro mattone nell'edificio della verità.

Non bisogna mai scordare che la verità può essere raggiunta solo in maniera oggettiva, non assoluta. Questo perché anche nel caso in cui avessimo sotto mano delle fonti attendibili, la libertà di coscienza - il bene più grande che l'uomo possa disporre - impedisce sempre che di un qualunque fatto o evento si possa dare un'interpretazione univoca o unilaterale. Siccome siamo umani, sono sempre possibili sfumature esegetiche non previste.

Detto questo, per quale motivo nei vangeli non è possibile trovare una coerenza perfetta nella falsificazione? Cioè perché si trovano cose che sembrano contraddirsi tra loro? I motivi sono sostanzialmente tre:

a) anzitutto i vangeli (soprattutto il quarto) sono opere collettive scritte da autori anonimi in momenti diversi, e per controllare la loro coerenza interna i redattori o gli editori non avevano certamente gli strumenti di cui disponiamo oggi;

b) i vangeli non sono opera di invenzione o di falsificazione integrale, bensì di mistificazione, nel senso che i loro autori si sono basati su fatti realmente accaduti (conservati, in qualche modo, nella memoria di testimoni oculari) o anche su un testo originario, il quale, dopo essere stato profondamente manipolato, è andato distrutto.3 Tuttavia, in tale manipolazione a volte si possono rinvenire tracce del testo originario;

c) il IV vangelo è stato scritto da intellettuali giudaici, i quali non erano così stupidi da non capire che se avessero scritto un testo completamente inventato e assolutamente coerente nella propria falsificazione, sarebbero stati meno credibili di quanto non sarebbero apparsi in virtù delle sue interne contraddizioni. Non a caso nel Canone si rifiutò d'inserire quei testi che troppo chiaramente apparivano come frutto di fantasia.

Questo non significa che tali redattori siano dei mostri d'intelligenza: le incoerenze, la scarsa unità di stile, le tante ripetizioni... sono una costante in questo vangelo; persino identici concetti hanno subito differenti formulazioni. Si pensa addirittura che i capitoli 5 e 6 siano stati accidentalmente invertiti di posto, in quanto le determinazioni spazio-temporali appaiono insensate.

È relativamente da poco tempo che si è cominciato a capire che il IV vangelo è un tale guazzabuglio di imperfezioni redazionali da far dubitare alquanto che sia stato opera di Giovanni, o quanto meno si pensa che sia esistito in origine un testo sufficientemente organico, che ha subìto col tempo molteplici e apparentemente inspiegabili manipolazioni. Tuttavia gli esegeti che ammettono queste cose (p.es. in Italia Mauro Laconi4 e Benedetto Prete5) non traggono mai le conseguenze più radicali, proprio perché si sentono tenuti a difendere posizioni clericali o confessionali.

Tra i grandi esegeti stranieri, il primo che cercò di farlo fu Rudolf Bultmann, che però, proprio per questa ragione, venne subissato di critiche, tanto che il suo notevole commento al IV vangelo (Das Evangelium des Johannes">, 1941) non è mai stato tradotto in lingua italiana.

Le sue tesi, tuttavia, si possono leggere in Teologia del Nuovo Testamento (ed. Queriniana, Brescia 1992), che qui possiamo riassumere nella maniera seguente: il IV vangelo sembra portare all'estremo la teologia paolina. Infatti il Cristo non svolge esattamente la funzione di mediatore tra uomo e Dio, né ha intenzione di predicare un “regno di Dio”, con tanto di sacramenti e apparati ecclesiastici, ma egli stesso si pone come incarnazione di Dio, preesistente a qualunque cosa, e affronta la morte non come un dovere imposto dal Padreterno, o per riconciliare quest'ultimo con l'umanità peccatrice, o per dimostrare che la morte può essere vinta dalla resurrezione, ma proprio per far capire l'infinita distanza che separa lui dagli uomini, totalmente ignari del comandamento dell'amore.

IV

La critica dei vangeli non ha ovviamente lo scopo di affermare che, siccome in essi di storicamente vero non vi è quasi nulla, sono da preferire i testi della filosofia greca o ellenistica. Se volessimo mettere a confronto, sul piano etico, i testi filosofici del mondo greco (classico o ellenistico) e quelli evangelici, non potremmo non ammettere che la profondità esistenziale va a favore di quest'ultimi. Cioè, pur nelle più o meno evidenti falsificazioni, i vangeli, con la loro etica-religiosa, restano qualcosa di così coinvolgente che nessuna filosofia (non solo quella greca) è in grado di eguagliare.

Quando si prendono in esame i testi filosofici si ha sempre l'impressione di avere a che fare con due limiti ben evidenti: 1) l'individualismo del filosofo, che in genere non partecipa a un'esperienza sociale o collettiva, in cui si sente completamente coinvolto; 2) come conseguenza di ciò, l'intellettualismo astratto, che acquista un minimo di concretezza quando si pone su posizioni agnostiche o ateistiche.

Per trovare qualcosa d'interessante nella filosofia, dobbiamo arrivare a quella che vuole agganciarsi alla politica per realizzare i propri ideali. Il che, in ambito filosofico, è piuttosto raro o, quanto meno, non così pregnante come in ambito religioso ebraico-cristiano, dove l'esperienza della comunità non viene mai dissociata dalla riflessione culturale.

D'altra parte la differenza principale tra ebraismo ed ellenismo sta proprio nel concetto di “essere umano”. Nell'ebraismo l'uomo è parte di un popolo e non potrebbe neppure concepire se stesso senza il riferimento a una determinata collettività, che non può essere equiparata a una istituzione astratta come lo Stato, sia esso schiavistico o borghese. Lo si vede anche nel modo di scrivere. Tutti gli autori della Bibbia si preoccupano assai poco di “psicologia individuale”; non scrivono mai qualcosa che possa paragonarsi a una novella o a un romanzo. Le preoccupazioni dominanti riguardano sempre i fatti reali, pur venendo essi stravolti da interpretazioni teologiche.6

Nell'ellenismo invece la realtà sociale (sia essa la polis o lo Stato o l'impero) è in funzione dell'identità del singolo individuo. Cioè il singolo avverte l'altro singolo come un potenziale nemico o come un alleato provvisorio o come una necessità da sopportare, un peso inevitabile prodotto dalle circostanze, le cui tendenze arbitrarie, potenzialmente sempre presenti, vanno regolamentate da un'istituzione esterna, appunto lo Stato. Il concetto di “fratellanza” viene al massimo applicato alla propria parentela, basata su rapporti di sangue e soggetta alle regole della successione ereditaria.

Nell'ebraismo possono anche esserci queste cose, ma ve ne sono altre d'importanza maggiore, in quanto il legame sociale è basato su tradizioni ancestrali, su leggi profondamente condivise, su riti e funzioni comuni, che qualificano espressamente l'identità di un popolo. Il senso del collettivo è molto più spiccato nell'ebraismo proprio perché si è in presenza di un'ideologia che accomuna, che ha più forza dell'interesse reciproco. L'ideologia finisce per contrapporre il popolo ebraico agli altri popoli, che sono appunto visti come entità basate sull'interesse privato, sull'individualismo, tutelato dalle istituzioni di potere. Quando nell'ebraismo viene meno l'unità popolare, e quindi la coesione intorno ai princìpi, ne risente profondamente anche il singolo: tutto va in rovina.

Viceversa nel mondo ellenistico il singolo può anche contrapporsi alle esigenze collettive, e in genere lo fa, proprio perché vuole affermarsi come singolo o, nel migliore dei casi, come gruppo particolare che vuole imporsi su altri gruppi. Quando nell'ellenismo vi è la presenza di un'ideologia, essa deve soddisfare o tutelare un interesse privato o di piccoli gruppi o di una classe sociale particolare. L'ideologia è sempre in funzione di un interesse non popolare, che non riguarda l'intero popolo.

In una situazione del genere non può esserci “sviluppo” nell'ebraismo, ma solo “conservazione” dell'esistente. Qualunque tipo di sviluppo è visto come una minaccia alle tradizioni condivise (legali e rituali). C'è “sviluppo” quando il soggetto ebraico si isola dal popolo di riferimento ed entra in contatto con l'ellenismo: in tal caso egli può gareggiare con l'individualismo del mondo pagano, perdendo ogni riferimento al proprio passato ebraico; anche perché, se decide di conservarlo, rischia d'essere emarginato o addirittura perseguitato, in quanto il mondo greco-romano non sopporta ciò che mette in discussione il proprio individualismo; non sopporta di vedere le realtà collettive che, di fronte agli antagonismi dell'individualismo, riescono a sopravvivere senza apparente difficoltà.

Ecco in tal senso i vangeli non hanno fatto altro che introdurre elementi di ebraismo all'interno dell'ellenismo, trasformando un concreto nazionalismo politico in un astratto universalismo teologico. Tale trasformazione è avvenuta in ambienti ebraici ellenizzati, i quali, già con la traduzione in greco dell'Antico Testamento (i Settanta), compiuta nell'Alessandria tolemaica, si erano mostrati disponibili a una sorta di scambio culturale reciprocamente vantaggioso, anche perché la stessa cultura greca, sollecitata, in questo, dalla travolgente conquista asiatica di Alessandro Magno, aveva cominciato a provare interesse per le culture diverse dalla propria.

Purtroppo questa sinergia culturale incontrò un ostacolo di non poco conto sul piano politico, quando l'impero romano cominciò a espandersi in Medioriente, cioè in sostanza a partire dal 63-64 a.C., la data in cui Gneo Pompeo Magno conquistò la Siria e Gerusalemme. E qui si può anticipare che, mentre l'iniziativa rivoluzionaria del Cristo costituisce il tentativo di recuperare un'identità nazionale contro l'invasore straniero, pur senza nulla concedere all'integralismo politico-religioso del giudaismo; l'insieme del Nuovo Testamento vuole invece ricollocarsi in quel progetto di fusione semplicemente culturale tra ebraismo ed ellenismo in cui la politica è ridotta al minimo.

Sul versante puramente ebraico il principale artefice di questa fusione, vantaggiosa principalmente al paganesimo, è stato il più grande storico ebreo dell'antichità, Giuseppe Flavio, che assisté impotente alla distruzione di Gerusalemme da parte di Tito e Vespasiano, passò dalla parte del nemico e raccontò la storia del suo popolo in maniera politicamente corretta per Roma (e successivamente anche per i cristiani, che misero mano ai suoi testi).

V

Dopo mille e settecento anni in cui il Nuovo Testamento veniva considerato un testo “sacro”, la cui esegesi doveva necessariamente essere dogmatica, il primo studioso che ha cominciato a porre la distinzione tra “Gesù storico” e “Gesù dei vangeli” (e il primo a capire che il Gesù storico era paragonabile a un messia nazionalista) è stato il linguista e orientalista Hermann S. Reimarus (1694-1768). Una parte del suo fondamentale scritto, Apologia di coloro che adorano Dio secondo ragione, ch'egli tenne nel cassetto per timore di spiacevoli conseguenze, fu pubblicata da Gotthold E. Lessing tra il 1774 e il 1778 col titolo Frammenti dell'Anonimo di Wolfenbüttel, provocando un pandemonio nel dibattito filosofico tedesco sulla religione, poiché Reimarus si spingeva ben oltre le tesi dei deisti francesi e inglesi, che si erano limitati a separare dalla religione l'etica, la filosofia e la politica.

In seguito, nell'ambito della Sinistra hegeliana, fu il filosofo ateista David F. Strauss (1808-74), noto per aver demitizzato i vangeli, a pubblicare una sintesi dell'opera di Reimarus con il titolo H. S. Reimarus e il suo scritto in difesa di coloro che adorano Dio secondo ragione. Lo stesso Strauss e Bruno Bauer posero le basi per un'esegesi critica dei vangeli.

Poi venne l'anglicano Samuel G. F. Brandon (1907-71), che coi suoi due testi, recentemente ripubblicati: Processo a Gesù. Zelota, sedizioso e sovversivo (ed. Pgreco, 2015); Gesù e gli Zeloti. Il cristianesimo sovversivo prima di Paolo (ed. Pgreco, 2014), costituisce un punto di riferimento fondamentale per chi vuole affrontare i vangeli in chiave politica.7 Ma bisognerebbe anche andarsi a leggere il classico di Karl Kautsky, L'origine del cristianesimo (ed. Samonà e Savelli, Roma 1970), che offre un inquadratura generale del periodo in chiave marxistica.

Dopo il grande Brandon l'esegesi laica, quando non si limitava a negare la storicità al Cristo dei vangeli, era tutta incentrata nel cercare di dimostrarne l'identità politica. Opere fondamentali sono quelle di Fernando Belo, Una lettura politica del Vangelo (ed. Claudiana, Torino 1975)8; Giorgio Girardet, Il vangelo della liberazione. Lettura politica di Luca (ed. Claudiana, Torino 1975); Leonardo Boff, Gesù Cristo liberatore (ed. Cittadella, Assisi 1973); Marcello Craveri, Gesù di Nazareth. Dal mito alla storia (ed. Lionello Giordano, Cosenza 1982); Joel Carmichael, La morte di Gesù (ed. Ubaldini, Roma 1971) e The Birth of Christianity (ed. Hippocrene Books, N.Y. 1991) e varie opere di David Donnini, ma tra gli italiani è interessante anche il testo di Pier Francesco Zarcone, Il Messia armato (Massari editore, Bolsena 2013).

Di recente, chi ha tentato di rilanciare la tesi di un Cristo politico è stato il musulmano Reza Aslan, Gesù il ribelle, ed. Rizzoli, Milano 2013 (tit. or. Zealot: The Life and Times of Jesus of Nazareth).

È comunque molto difficile incontrare degli esegeti davvero laici, poiché anche quando si è convinti, come p.es. nel caso del IV vangelo, che il testo sia stato scritto in momenti e da redattori molto diversi, raramente si finisce con l'ammettere che è l'impianto generale dell'opera, e non solo la singola pericope o il singolo versetto, ad essere stato oggetto di una solenne impostura. Generalmente infatti si dà per scontato che il testo originario di Giovanni abbia avuto un contenuto religioso e che quindi le manipolazioni non siano state fatte per mistificarne uno di tipo politico. L'opera originaria - si dice - fu soltanto ritoccata, rimaneggiata, completata, ma non travisata. Vi confluirono tradizioni paoline, sinottiche, lucane, qumraniche, battistiche, palestinesi, samaritane, gnostiche, ecclesiastiche e chi più ne ha più ne metta, ma nessuna di esse mise in discussione la teologia fondamentale del testo.

Anzi, il testo è apparso per tutto l'Ottocento così teologico che non c'era esegeta che non lo escludesse dalle fonti storiche su Gesù Cristo. Infatti ci si basava sul principio secondo cui quel che è più antico è anche più vero, per cui il vangelo più sicuro doveva essere quello di Marco. Oggi invece è quasi il contrario: sia perché s'è capito che anche Marco non è meno teologico di Giovanni e quindi non meno inaffidabile, sia perché ci si sta rendendo conto che nel IV vangelo si possono intravedere, dietro le falsificazioni operate, alcune importanti tracce di un Cristo alquanto politicizzato.

Naturalmente l'esegesi confessionale (soprattutto quella cattolica) non ha dubbi nel qualificare di velleitarismo, utopismo, romanticismo... gli studi che vedono nel Cristo un politico eversivo. Di qui le nette e reiterate condanne (scomuniche) di tutte quelle esperienze che tendono ad associare il cristianesimo al socialismo. Per restare in epoca moderna è sufficiente ricordare la teologia della liberazione, il catto-comunismo, il cristianesimo per il socialismo, il cattolicesimo modernista, ecc.: tutte correnti di pensiero o esperienze pratiche che han cercato di conciliare, stando dentro la Chiesa, una visione laica del Cristo con una religiosa, salvo poi rendersi conto che un'operazione del genere non aveva alcun senso. Esse comunque hanno avuto il vantaggio di far capire che la ricerca della verità storica è un processo molto lungo e faticoso.

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1) Chi era Giovanni Zebedeo?

I

A confronto dell'Enciclopedia Treccani, che non arriva neanche a 400 parole, Wikipedia offre un mare di informazioni sull'apostolo Giovanni, molte delle quali però sono piuttosto fantasiose, a testimonianza che coi protagonisti del Nuovo Testamento non è la quantità che fa la qualità.

Infatti che sia nato a Betsaida di Galilea il 10 d.C. e morto a Efeso verso il 98-99, è tutto da dimostrare. Conosceva troppo bene la Giudea per essere stato un galileo. Inoltre se fosse davvero nato a Betsaida, avrebbe parlato molto di più della Galilea; e i Greci che vollero parlare con Gesù, dopo l'ingresso messianico, avrebbero contattato anche lui, oltre che Filippo, ch'era appunto di Betsaida e che quindi conosceva la lingua greca, e questi non si sarebbe limitato a parlare con Andrea, fratello di Pietro e amico di Giovanni, in quanto entrambi ex discepoli del Battista. Si può quindi presumere che Giovanni non solo non fosse un galileo, ma anche che non conoscesse neppure la lingua greca, almeno non al momento in cui fu discepolo di Gesù. Molto probabilmente quindi il suo vangelo originario, andato perduto, fu scritto in aramaico e solo quando fu riscritto si usò la lingua greca, probabilmente in un territorio non palestinese.9 L'ultima stesura però avvenne sicuramente dopo la morte dell'apostolo e senza rispettare l'impostazione originaria del vangelo, che non solo non poteva avere un misticismo di così alto livello, ma non aveva neppure alcuna forma di teologia.10

La tradizione qualifica Giovanni come un apostolo di Gesù e l'autore del IV vangelo, ma anche su questo si potrebbe scrivere un intero libro. Le più antiche indicazioni a proposito dell'attribuzione a lui della redazione del IV vangelo risalgono alla prima metà del II secolo. Nei vangeli sinottici il suo nome appare sempre insieme a quello di Giacomo, suo fratello maggiore, e a quello di Pietro, ma nel suo vangelo è del tutto assente, al punto che non pochi esegeti hanno messo in dubbio l'identificazione dell'evangelista col “discepolo prediletto” da Gesù o con “l'altro discepolo”.11 La tradizione cristiana è stata costretta a tale identificazione, poiché, in caso contrario, sarebbe apparso stranissimo che un personaggio di primo piano nei Sinottici e presente, seppur sullo sfondo, nella primissima parte degli Atti degli apostoli fosse totalmente assente nel IV vangelo.12 Tuttavia non è stato possibile spiegare adeguatamente il motivo di tale censura. Giovanni non è mai neppure chiamato direttamente con l'appellativo di “apostolo”, sebbene appaia sempre negli elenchi dei Dodici.

Di sicuro chi non capisce che dietro il vangelo manipolato di Giovanni c'è comunque Giovanni, non ha capito la differenza tra lui e i redattori-falsificatori. Delle due infatti l'una: o il nome di Giovanni è stato inventato da dei redattori fortemente antisemitici per dare autorevolezza al proprio testo, sicché essi non avrebbero operato alcuna manipolazione a spese dell'apostolo, ma l'avrebbero utilizzato soltanto per mostrare che la loro ideologia e la loro scelta di vita, pur essendo diversa da quella propagandata da Pietro e da Paolo, non era comunque lontana dalla predicazione del Cristo; oppure Giovanni è stato manipolato da redattori che dovevano restare in linea con la teologia cristiana ufficiale, quella appunto petro-paolina. In ogni caso questi autori sono giudei che odiano i giudei.

Inoltre nei Sinottici non si capisce il motivo per cui Giovanni debba apparire nella triade dei discepoli preferiti da Gesù, quando, nei fatti, il suo ruolo autonomo è piuttosto insignificante (per non parlare di quello di Giacomo, che sembra quasi inesistente). Non solo, ma questi due fratelli (figli di Zebedeo e forse di Salome13) a volte vengono addirittura visti in cattiva luce (perché troppo ambiziosi), soprattutto nel vangelo marciano, che è influenzato da Pietro e da Paolo.14

Di sicuro sappiamo che prima di diventare un seguace di Gesù era stato un discepolo del Battista, poiché su questo profeta egli è in grado di dire molti particolari del tutto sconosciuti ai Sinottici (ed è anche in grado di smentire la tesi marciana secondo cui Gesù iniziò a predicare dopo l'arresto di Giovanni). Praticamente lui e Andrea, fratello di Pietro, furono i primi due discepoli che, staccatisi dal Battista, iniziarono a seguire Gesù, e lo fecero a Betania, presso il fiume Giordano (che non è la Betania di Lazzaro e delle sue sorelle).

Del tutto fantasiosa quindi è la chiamata di Giovanni da parte di Gesù, così come narrata da Marco e Matteo, che la collocano “presso il mare di Galilea”, mentre lui e il fratello sono sulla barca col padre Zebedeo, intenti a riparare le reti da pesca. Luca addirittura inserisce la vocazione all'interno del racconto della cosiddetta pesca miracolosa.

Se il discepolo prediletto coincide con Giovanni, bisogna dire che tale evangelista risulta essere in controtendenza su alcuni aspetti decisivi riportati dai Sinottici: dalla cosiddetta “epurazione del Tempio” (che per lui avvenne non alla fine ma all'inizio della carriera di Gesù15) al rapporto coi Samaritani (visti positivamente) e coi farisei (vedi p.es. la figura di Nicodemo), dal rapporto coi Galilei in occasione del racconto denominato “i pani miracolati” sino al momento in cui Gesù decide di organizzare l'insurrezione armata e di entrare a Gerusalemme. Indubbiamente il IV vangelo è frutto di una profonda manipolazione teologica, e tuttavia è possibile scorgere tra le righe alcune interpretazioni politiche dei fatti che non collimano con quelle dei Sinottici.16

Secondo antiche tradizioni cristiane Giovanni sarebbe morto in tarda età ad Efeso, ultimo sopravvissuto dei dodici apostoli. Ma si tratta di leggende, di cui il cristianesimo, come qualunque religione, è pieno. Oggi p.es. è difficile incontrare un esegeta che confermi che le tre lettere del Nuovo Testamento, attribuite a Giovanni, siano state veramente scritte da lui.17 Persino quando si mettono a confronto l'Apocalisse col IV vangelo, salta subito agli occhi la profonda differenza di stile e di contenuto.18 Parimenti è da escludere che l'Apocrifo di Giovanni lo riguardi da vicino.

La sofisticata teologia del IV vangelo non gli apparteneva affatto, non perché Giovanni fosse un “pescatore” di scarsa cultura, quanto perché l'approccio ch'egli aveva nei confronti della realtà aveva per oggetto la politica. Se non fosse stato così, sarebbe rimasto col Battista, il quale, non a caso, non partecipò alla prima, fallita, insurrezione di Gesù, quella contro le autorità sacerdotali del Tempio, per la quale lo stesso Gesù, coi suoi primi discepoli, fu costretto a espatriare in Galilea.

Che fosse un discepolo interessato alla politica è dimostrato anche dall'appellativo aramaico con cui i fratelli Zebedeo vengono chiamati da Gesù: “Boanèrghes” (“figli del tuono”), in relazione al loro temperamento focoso, forse maggiore in Giacomo, che non lo si vede tra i discepoli del movimento battista e che forse apparteneva al movimento nazionalista zelota, come probabilmente lo stesso Pietro.19

Appare piuttosto strano, in tal senso, ch'egli sia l'unico degli apostoli a non aver subìto il martirio, in quanto nel vangelo di Marco gli autori fanno a dire a Gesù che i fratelli Zedebeo avrebbero bevuto “il suo calice”, cioè avrebbero avuto sofferenze fino al martirio. Di fatto però la tradizione cristiana lo dice morto per anzianità e non in modo violento, anche facendo leva sul fatto che nel IV vangelo si fa cenno alla morte di Pietro e viene fatto dire a Gesù che Giovanni non sarebbe morto fino al suo ritorno.20 La stessa tradizione lo indica anche come il più giovane degli apostoli e l'unico celibe, al quale, non a caso, Gesù, mentre era sulla croce, avrebbe affidato la propria madre. In quell'occasione egli sarebbe stato l'unico dei discepoli presenti alla crocifissione, di cui racconta il particolare agghiacciante della ferita al costato di Gesù, inferta con una lancia da un militare per verificarne il decesso.

Non si saprà mai invece com'egli abbia potuto assistere all'udienza preliminare di Gesù davanti al sommo sacerdote Anna o Anania. Nella tradizione cristiana il solo Eusebio di Cesarea riporta un'affermazione, attribuita a Policrate di Efeso (fine II secolo), secondo la quale Giovanni faceva riferimento a una delle classi sacerdotali che gestivano il culto del Tempio di Gerusalemme. Probabilmente aveva frequentato gli ambienti di Anania prima ancora di frequentare quelli del Battista.

Alcuni esegeti invece hanno supposto che la famiglia di Giovanni appartenesse al ceto medio: il padre aveva dei garzoni e i suoi figli vengono detti “soci” di Simon Pietro. Se dunque la famiglia faceva parte di una sorta di cooperativa di pescatori, è possibile che Giovanni fosse conosciuto dai domestici del palazzo di Anania, che lo fecero entrare durante il primo informale interrogatorio a carico di Gesù.

Circa gli anni successivi agli eventi narrati negli Atti degli apostoli, che si concludono ai tempi di Nerone, le antiche tradizioni cristiane concordano nel collocare l'operato di Giovanni in Asia (l'attuale Turchia occidentale), in particolare a Efeso, dove avrebbe scritto il vangelo, vivendo con la madre di Gesù e dove sarebbe morto durante l'impero di Traiano (98-117)21, con una breve parentesi di esilio nell'isola di Patmos, voluta dall'imperatore Domiziano (qui avrebbe scritto, nel 68-69, l'Apocalisse, in cui le idee religiose vengono usate per uno scopo politico antiromano). A Efeso non si sa quando sia giunto: forse dopo che, nel 60, Paolo ebbe terminato il suo ministero in Asia Minore (la Lettera agli Efesini non parla di lui).

Accenni contenuti in testi patristici nominano alcuni discepoli di Giovanni, che poi giocarono ruoli di primo piano nella storia e nella letteratura cristiana: Papia di Ierapoli e Policarpo di Smirne. Ma di storicamente sicuro non vi è nulla (soprattutto quando di mezzo vi sono questioni religiose), anche perché ancora oggi esistono a Efeso due tombe che portano il nome di Giovanni; e non pochi esegeti pensano che sia Papia sia Policarpo siano stati in realtà discepoli di Giovanni il Presbitero e che non abbiano mai conosciuto Giovanni l'Apostolo.

II

Il vangelo che gli viene attribuito nella sua forma attuale fu completato, verosimilmente, intorno al 150-160, anche se una prima redazione può essere fatta risalire intorno al 10022, vista l'influenza che ebbe su Ignazio di Antiochia (morto verso il 107) e sulle Odi di Salomone (inizio del II sec.). Ignazio potrebbe essere stato a conoscenza della tradizione teologica giovannea, ma non cita il vangelo, anche se le sue lettere rivelano una notevole assimilazione di tale tradizione.

Tuttavia nella letteratura cristiana a noi nota c'è poca evidenza del suo uso al di fuori dei circoli gnostici prima del 170 (da notare infatti che la fusione del Cristo incarnato con il Logos di Filone e degli gnostici23 non si era ancora realizzata - stando a Giustino - prima del 165). L'unica citazione sicura, prima degli scritti di Ireneo di Lione (190), si trova nel testo di Teofilo d'Antiochia, Ad Autolycum, databile dopo il 180.

Lo stesso Giustino, morto appunto verso il 165, non cita esplicitamente il vangelo, né vi allude con chiarezza. Taziano invece, nella sua redazione del racconto unificato dei quattro vangeli (il Diatessaron), compilata tra il 160 e il 175, sembra già avere presente la redazione definitiva del IV vangelo, al quale si appella anche il vescovo di Efeso Policrate (verso il 190), nella controversia sulla data della Pasqua. Anche la letteratura apocrifa, eretica e i polemisti pagani del II secolo utilizzano il vangelo di Giovanni; anzi, lo gnostico Eracleone, tra il 160 e il 170, ne scrive addirittura il primo commento, di tipo allegorico. Altre influenze del IV vangelo appaiono nella Didaché.

Insomma la non immediata utilizzazione di questo vangelo e il silenzio nei suoi riguardi nei primi anni del II secolo può indicare sia che il vangelo non era molto diffuso, sia che si era esitanti nell'utilizzarlo a causa di qualche sospetto in merito alla sua ortodossia. Chiunque infatti può facilmente accorgersi che in esso non esiste alcuna parabola24, alcuna istruzione morale, alcuna controversia in fatto di legge o di casistica, come quelle che si trovano nei Sinottici. Non vi è neppure il cosiddetto “segreto messianico”, in quanto il Cristo giovanneo parla come se fosse già risorto: l'espressione apodittica “Io sono” appare quasi 40 volte!

Solo cinque pericopi di Giovanni ricorrono nei Sinottici: epurazione del Tempio, moltiplicazione dei pani, camminata sulle acque, unzione di Betania e ingresso messianico a Gerusalemme. Di queste, la seconda e la terza sono chiaramente inventate, per cui si pensa che i redattori del IV vangelo non potessero prescindere dall'impostazione falsificata delle cose, in generale, che il vangelo di Marco (alias Pietro) aveva imposto. I redattori potevano dare interpretazioni differenti su taluni particolari, rispetto alla versione dei fatti riportata nel protovangelo, ma a condizione che, nella sostanza, non fossero opposte a quelle ufficiali. Anche questo modo di comportarsi ha fatto ovviamente pensare che i redattori avessero sotto mano il testo originario di Giovanni, che doveva discostarsi alquanto dalle tesi marciane, e che abbiano fatto in modo di farle coincidere il più possibile.

Dei 29 miracoli riportati nei Sinottici solo due - moltiplicazione dei pani e camminata di Gesù sulle acque - trovano eco nel IV vangelo, che non prevede neppure alcun esorcismo, né alcuna guarigione di lebbrosi. Dei sei miracoli narrati in quest'ultimo - segno di Cana, guarigione del figlio di Cuza, guarigione dell'infermo della piscina, guarigione del cieco nato, resurrezione di Lazzaro, la pesca dopo Pasqua - nulla è presente nei Sinottici, che pur amano mostrare gli “atti di potenza” del Cristo. Eppure, a parte l'ultimo, vengono presentati come pubblici nel IV vangelo: sarebbe stato impossibile, se fossero stati veri, dimenticarli, anche perché particolarmente straordinari, ancorché Giovanni li presenti solo come “opere buone” che si possono compiere anche di sabato, o “segni” di qualcosa che va al di là della guarigione in sé (p.es. la guarigione del cieco nato viene messa dopo che Gesù dice d'essere la “luce del mondo”, mentre i Giudei son tutti “ciechi”, nel senso di “ipocriti”).

Non è da escludere che il vangelo originario di Giovanni non contenesse alcun miracolo e che i redattori si siano risolti a inventarne qualcuno sfruttando lo stile redazionale del vangelo marciano, oppure perché indotti da pressioni esterne, che pretendevano una rappresentazione favolistica o mitizzata del Cristo teologico.25

Dei discorsi giovannei di Gesù, neppure uno è registrato nei Sinottici. D'altra parte nel IV vangelo non esistono i discorsi sinottici della Montagna, né quelli apocalittici, ecclesiali e missionari. Non solo, ma, mentre nei Sinottici i discorsi sono spesso un accostamento artificiale di pericopi che in origine erano separate tra loro; nel IV vangelo invece essi risultano abbastanza armonici e dotati di una certa logica stringente.

Anche la cronologia e la logistica del ministero pubblico di Gesù in Giovanni si differenziano radicalmente da quelle dei Sinottici: Marco (da cui dipendono Luca e Matteo) si concentra sulla Galilea (nel senso che i destinatari della predicazione di Gesù sono le folle galilaiche) e racchiude tutta la predicazione nell'arco di un anno, facendo andare Gesù a Gerusalemme solo una volta, l'ultima settimana della sua vita. Viceversa Giovanni non solo parla di un'attività pubblica in Giudea anteriore a quella galilaica, ma presenta almeno tre viaggi a Gerusalemme (1,13; 5,1; 7,10), l'ultimo dei quali inizia un periodo di sei mesi, tutti trascorsi nella città o nelle zone limitrofe.26 Le nozze di Cana e la guarigione del figlio di Cuza sono stati inseriti tardivamente e sono del tutto inverosimili: non hanno caratteristiche stilistiche ed espositive giovannee e risentono nettamente di un'influenza della tradizione sinottica.

In ogni caso le circostanze di tempo e luogo (per non parlare dei nomi delle feste liturgiche o rituali, cui vengono collegati determinati episodi) sono fissate con molta cura da Giovanni, cosa che nei Sinottici non avviene mai.27 L'archeologia ha dimostrato che il villaggio della samaritana (Sicar o Sichem) è a pochi minuti dal pozzo di Giacobbe, da cui si può vedere anche il monte Garizim; la piscina a cinque portici, cui fa riferimento il racconto della guarigione del paralitico, è stata ritrovata effettivamente con questa caratteristica28; il lastricato in cui Pilato giudicava, detto “lithostrotos”, era in effetti un cortile della fortezza Antonia pavimentato con cospicue pietre; è stato altresì confermato il fatto che Giovanni battezzasse a Ennòn, vicino a Salìm, presso un'altra località, Betania, che si chiamava come quella in Giudea, in cui sono state ritrovate delle vasche ch'egli utilizzava quando il Giordano, dopo le piogge invernali, era impraticabile, e così via.

Abbiamo però in questo vangelo molte allegorie, simbolismi, vocaboli usati in maniera volutamente ambigua, e una serie di asserzioni magistrali troppo teologiche per essere credibili: “Io sono il pane di vita… la luce del mondo… la porta (del gregge)… il buon pastore… la risurrezione e la vita… la via, la verità e la vita… la vera vite”. Sembrano autoattestazioni esclusivistiche aventi la funzione di accentuare al massimo la consolazione di chi, pur nella propria sconfitta politica, non ha rinunciato a credere in qualche ideale, eticamente impegnativo, per cui vivere. Qui la religione svolge chiaramente una funzione oppiacea: la comunità cristiana si chiude in se stessa, soffrendo una specie di autismo teologico.

La confessione di fede di Pietro29, fondamentale punto di svolta nel vangelo marciano, non viene neppure presa in considerazione. Ma neanche i tre preannunci della passione, la trasfigurazione, il discorso escatologico, l'istituzione dell'eucaristia...

Gli esegeti ritengono che il greco di questo vangelo sia molto semplice nel lessico (contiene meno di un migliaio di vocaboli diversi e di questi solo 74 sono di uso esclusivo30), abbastanza corretto nella grammatica e nella sintassi e con uno stile diretto, con cui si fa poca distinzione tra il modo di parlare del narratore e quello di Gesù. Il pensiero si snoda in proposizioni brevi, quasi sempre collegate mediante semplice accostamento e con la ripresa della parola più importante della proposizione precedente. Vi sono numerose assonanze di tipo ebraico, come “fare la verità” (3,1), “credere nel nome di…” (1,12; 2,23; 3,18) che rimandano a un modo di pensare e scrivere aramaico. La stressa frequenza di frasi disposte in parallelismo simmetrico o antitetico richiama il classico ritmo della poesia ebraica.31

Solo a partire dalla metà del II secolo il vangelo viene espressamente e unanimemente attribuito all'apostolo Giovanni, quando ormai si era sicuri che nessuno dei suoi più stretti collaboratori avrebbe potuto smentire tale paternità (tant'è che i numerosi inni liturgici presenti in questo vangelo hanno fatto pensare all'esistenza di un'organizzazione di culto già attiva). Oggi comunque molti esegeti tendono ad attribuirlo, per gran parte, a Giovanni il Presbitero, morto a Efeso nel 135, di cui la Chiesa si sarebbe servita per costruire la figura di Giovanni l'evangelista.32

Sino a metà del Novecento gli esegeti, a motivo dell'alto spessore teologico di questo vangelo, lo ritenevano inaffidabile sul piano storico, scritto da un autore che certamente non poteva essere Giovanni né alcun testimone oculare degli eventi che vi si raccontano.33 In particolare si pensava che i redattori del IV vangelo, essendo così indipendenti sul piano letterario, non conoscessero affatto i Sinottici, o quanto meno non avessero avuto alcuna intenzione di servirsene. Ciò però appariva piuttosto sconcertante, in quanto, p.es., lo schema del racconto della passione doveva essere stato fissato molto presto nella tradizione orale e poi scritta, sicché un autore che avesse voluto scrivere un vangelo, mezzo secolo dopo la morte di Gesù, non avrebbe potuto ignorarlo, meno che mai se avesse voluto far parte di una unica Chiesa cristiana. È quindi da poco che si è cominciato a pensare che Giovanni abbia scritto un testo originario in polemica soprattutto col protovangelo, e che solo successivamente, secondo varie fasi, si sia proceduto a manipolarlo per renderlo appunto il più conforme possibile proprio a quel vangelo, che costituisce il modello anche per quelli di Matteo e Luca.

Comunque oggi i giudizi sono completamente cambiati (anche grazie alle scoperte archeologiche), benché gli esegeti non abbiano ancora osato ipotizzare l'idea che il Cristo non avesse nulla a che fare con la religione.

III

Quanto alla Sindone, cui nel nostro commento si farà a volte riferimento, si può legittimamente presumere che sia stata portata da Giovanni a Efeso, non essendo Pietro interessato alla sua conservazione; nel 525 fu trovata a Edessa; nel 944 venne trasferita a Costantinopoli e da qui finirà in Francia in occasione della quarta crociata. Oggi si trova a Torino e costituisce, a detta di alcuni esegeti, il quinto vangelo, autorizzato a interpretare gli altri.

Su questo reperto dobbiamo premettere alcune cose, a scanso di equivoci. È evidente, infatti, che se essa è davvero il lenzuolo che ha avvolto il corpo di Gesù, noi siamo di fronte a una persona che non era esattamente come gli altri, anche se di ciò i suoi discepoli si sono accorti solo al momento della sua morte. Tuttavia qui bisogna fare alcune precisazioni:

  1. la Sindone non è in grado di dimostrare che Gesù abbia compiuto dei prodigi che vanno oltre le capacità umane; non tanto perché noi pensiamo che dette capacità possano essere definite tali solo entro determinati limiti, quanto perché s'egli si fosse presentato come una persona assolutamente straordinaria, al di là di una comprensione razionale delle cose, l'adesione al suo progetto di liberazione nazionale sarebbe stata influenzata negativamente. In altre parole, anche se noi non possiamo sapere a priori fin dove le capacità umane possono spingersi34, di sicuro possiamo affermare che se una persona si avvalesse delle proprie straordinarie facoltà per ottenere un consenso popolare, tale consenso non avrebbe alcun valore etico o politico. Pertanto siamo propensi a negare che Cristo abbia compiuto qualcosa di strabiliante a fini propagandistici o per dimostrare che in lui c'era qualcosa di sovrumano.

  2. Anche dando per scontato che il corpo avvolto nella Sindone sia - come dicono i cristiani - “risorto”, ciò non implica affatto ch'egli sia “ricomparso” dopo morto. Noi abbiamo sempre dato per scontato che tutti i racconti di “riapparizione” di Gesù redivivo siano stati inventati, tardivamente, dai redattori dei vangeli per avvalorare la teologia petro-paolina. La stessa versione originaria del vangelo di Marco non prevede alcuna riapparizione. Ciò ovviamente non vuol dire che quei racconti non siano significativi e che non contengano elementi di verità: di sicuro però tali elementi non riguardano le “apparizioni” di Gesù. Questo perché una qualunque “riapparizione” condizionerebbe negativamente la libertà di coscienza dell'uomo, cioè la indurrebbe a credere in qualcosa in maniera forzosa.

  3. Se davvero Gesù si è improvvisamente e inspiegabilmente ridestato dopo essere morto, noi non attribuiamo la spiegazione di tale fatto a una morte apparente, ma a qualcosa di cui ci sfugge al momento la natura e, in parte, anche la dinamica, benché sia ormai assodato che in quel lenzuolo si è verificata una sorta di esplosione di luce, come appunto avviene su un negativo fotografico: cosa che oggi ci risulta difficile riprodurre negli stessi termini, pur con tutti i mezzi tecnologici di cui disponiamo.

    Ciò tuttavia non sta di per sé a significare ch'esista un “Dio” o un “Dio-padre”, nei cui confronti il Cristo abbia dovuto rendere conto, o che lui stesso avesse una natura divina a noi ignota. Noi siamo fermamente convinti che Gesù non avesse alcuna coscienza religiosa e che anzi l'odio giudaico nei suoi confronti dipese anche dalle sue concezioni ateistiche in materia di fede religiosa, oltre che dal suo progetto politico di liberazione nazionale in cui sarebbe stata esclusa dal potere la casta sacerdotale del Tempio di Gerusalemme. Se esiste un cosiddetto “aldilà”, ciò non implica l'esistenza di alcun Dio che possa far sentire l'uomo come un essere inferiore, bisognoso di protezione, incapace di realizzare la propria felicità col semplice uso delle proprie forze.

  4. Anche ammesso che Cristo sia “risorto” da morte, ciò non autorizzava gli apostoli (in primis Pietro) a sostituire l'obiettivo dell'insurrezione nazionale con la fede nella “resurrezione” di un leader carismatico, nell'attesa di un suo glorioso e imminente ritorno. L'idea di “resurrezione” è stata usata contro quella di “insurrezione”, e quindi in maniera politicamente regressiva e opportunistica. L'attendismo propugnato da Pietro ha destabilizzato il movimento nazareno, facendo sprecare una grande occasione rivoluzionaria.

  5. Ovviamente se Cristo è davvero “risorto”, è lecito chiedersi lo scopo della venuta di questo “extraterrestre” nel nostro pianeta. La risposta che possiamo dare però è del tutto aleatoria. Si può soltanto ipotizzare ch'egli volesse riportare l'umanità alla sua condizione originaria, quella precedente alla nascita dello schiavismo: una condizione che dovremmo far coincidere con quel periodo storico comunemente chiamato “stato di natura” o “comunismo primitivo”. Il fatto che non vi sia riuscito sta semplicemente ad indicare che non è possibile ritornare allo stato di natura se non attraverso un libero consenso. Non ci può essere alcuna imposizione.

    Poiché gli uomini hanno rifiutato l'opportunità offerta dal Cristo, ne pagheranno le conseguenze, non tanto perché, ovviamente, verranno puniti da un'entità divina, quanto perché il progressivo allontanamento da tale stato di natura ci renderà sempre più disumani. L'uomo tende ad autodistruggersi proprio continuando sulla strada dell'antagonismo sociale.

  6. Il fatto che Cristo sia stato trattato dai nemici in una maniera che, ai nostri occhi, appare molto disumana, va visto alla luce di una considerazione storica. Nell'epoca schiavistica i rapporti di forza erano così cruenti proprio perché lo schiavismo era avvertito come assolutamente incompatibile col comunismo primitivo, di cui si aveva ancora un certo ricordo e che comunque era ancora praticato da molte popolazioni asiatiche, africane, americane e persino est-europee con cui gli imperi schiavistici, anche di molto antecedenti a quello romano, erano venuti a contatto. Oggi si ha meno bisogno di una durezza del genere proprio perché, a partire soprattutto dalla scoperta europea dell'America, l'antagonismo sociale, come stile di vita, ha avuto modo e tempo di diffondersi su tutto il pianeta, saccheggiando impunemente le risorse umane e materiali e facendo del comunismo primitivo un'esperienza perduta, di cui non si ha neppure il ricordo. Tuttavia è aumentata a dismisura l'alienazione sociale, con cui gli uomini compiono cose del tutto insensate e persino autodistruttive, a motivo dell'enorme potenziale bellico di cui dispongono.

IV

Un piccolo cenno sulla questione sinottica e dei suoi rapporti col IV vangelo. Dei quattro vangeli canonici non vi è solo Luca come autore relativamente sicuro, ma anche Marco. Il primo rappresenta in gran parte la teologia paolina; il secondo quella petrina, che però ha subìto, nella versione definitiva che ci è giunta, un aggiustamento sulla base della stessa teologia paolina, risultata vincente soprattutto dopo la catastrofe del 70.

Il nome di Matteo, invece, rientra nella pseudoepigrafia. Che quello pervenutoci in greco non sia il Matteo aramaico, nessuno lo mette in dubbio. Fu Papia di Ierapoli il primo a sostenere ch'era stato Matteo a raccogliere i detti nella lingua aramaica di Gesù, ma questo non vuol dire che non ci siano state varie tradizioni orali. Vuol soltanto dire che l'Ur-Matheus doveva contenere unicamente i detti (o loghia) di Gesù, incorniciati dentro la tesi petrina della resurrezione e della parusia imminente.35 Non aveva senso produrre una biografia come quella marciana, poiché le biografie si fanno pensando a un passato remoto, privo di conseguenze sul presente (e quella marciana è stata scritta dopo 30-40 anni dai fatti). Invece sulla base dei detti si poteva ancora pensare a un ritorno trionfale del Cristo.

Questi detti possono essere equiparati alla fonte Q, una fonte molto antica, che stranamente Marco non ha voluto utilizzare. Perché? Forse perché il protovangelo è frutto di una tradizione galilaica, meno speculativa di quella giudaica. Forse perché la tradizione galilaica, essendo più influenzata dall'ellenismo, rispetto a quella giudaica, preferiva focalizzarsi su altri aspetti, più pratici, più spettacolari, come p.es. i miracoli, le guarigioni, gli esorcismi... Il Gesù storico si poteva mistificare in due maniere: una più semplice, trasformandolo in un operatore di prodigi sensazionali; l'altra invece più complessa, trasformandolo in un rabbino alternativo all'ideologia religiosa dominante.

Invece la fonte Q presente nel vangelo aramaico di Matteo è stata utilizzata da Luca, che andò a riscriverla sulla base della propria utenza di origine pagana. La fonte Q si ritrova anche nel vangelo apocrifo di Tommaso, di derivazione gnostica. Le stesse lettere paoline scritte negli anni 50 non sono interessate ai fatti di Gesù, proprio perché li danno per scontati: in un certo senso sono una “fonte Q” esse stesse.

La parte iniziale del vangelo matteano, relativa alla nascita di Gesù, proviene da un'altra fonte, di tipo ellenistico-orientale, probabilmente elaborata in territorio egizio, perché troppo simile ad altri racconti pagani di eroi mitologici del Medioriente e persino del mondo indo-buddistico. Questa parte matteana, scritta in greco, è stata scopiazzata e riscritta da Luca, che forse aveva anche collegamenti con la tradizione giovannea, perché mostra uno spiccato interesse per Maria.

I fatti di Gesù, riportati da Matteo e anche da Luca, son tutti presi da Marco (che ha “inventato” il genere letterario del vangelo), da cui dipendono enormemente (forse sarebbe meglio dire dall'Ur-Markus, poiché quello greco che ci è arrivato è anch'esso pieno di interpolazioni). Semmai ci si può chiedere: perché di tanti vangeli a quel tempo in circolazione, Matteo e Luca presero come punto di riferimento proprio quello marciano? Probabilmente perché sapevano che dietro Marco c'era Pietro, fonte autorevole per eccellenza, l'ideatore n. 1 delle due tesi della resurrezione e della parusia imminente.

In altre parole, l'idea di scrivere un vangelo, in cui la parte centrale non fossero le parole ma i fatti (per lo più inventati) del Cristo, non poteva venire in mente a Marco, che del Gesù storico conosceva molto poco, ma venne in mente a Pietro, di cui Marco, che sapeva scrivere in greco, era discepolo. Ma perché gli venne in mente? Forse perché la sua utenza, non essendo palestinese e non potendo quindi fruire di una propria tradizione orale, gli chiedeva con insistenza di delineare, almeno per sommi capi, la vita di un Dio incarnato di cui, attraverso i pochi discepoli sopravvissuti, poteva soltanto ascoltare i detti o loghia. Fu così che nacque una biografia, alquanto romanzata della vita di Gesù, ridotta a un anno di predicazione, ove gli unici veri nemici del messia sono le autorità religiose del Tempio.

Certo, oggi sappiamo che Marco s'è inventato cose assurde, come, p. es., il processo di Gesù davanti a Caifa, di cui l'unico testimone, non a caso, è lo stesso Pietro36, ma quella volta non si aveva alcun motivo di mettere in dubbio i suoi racconti. Al massimo, con Matteo e Luca, si procedette a ridurli, proprio per fare spazio ai detti, ai racconti della natività e ad altri non meno fantasiosi. Non vi era altra fonte in grado di smentirli. Semmai ci si potrebbe chiedere quanto fosse consapevole Marco delle falsità di Pietro: si era fidato anche lui di quanto l'apostolo raccontava o era consapevole che le sue falsità non sarebbero state smentite da nessuno?

Diciamo che l'evangelista, siccome (al pari di Pietro) non voleva darla vinta ai Giudei, i quali potevano sempre dire che l'idea di resurrezione era falsa in quanto non si era verificata alcuna parusia, decise di avallare tutto quanto Pietro gli aveva raccontato, e forse addirittura si mise d'accordo con lui su come imbastire un resoconto immaginifico dei fatti, che contenesse però degli aspetti realistici. In fondo, quando si tratta di mistificare le cose, non è indispensabile essere in tanti; anzi, meno si è e più probabilità vi sono che la truffa non venga scoperta.

Solo quando venne fuori il IV vangelo ci si accorse che i fatti narrati da Marco (e copiati dagli autori di Matteo e da Luca) lo erano stati in maniera distorta, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro: di qui l'esigenza di mettere a tacere Giovanni, rimuovendo completamente la sua identità redazionale, e di manipolare il suo vangelo in maniera radicale. Quando lo fecero, erano già morti tutti gli evangelisti e tutti gli apostoli. Nessuno poté impedire questa manipolazione, nessuno fu in grado di contestarla. Dopo il 70 la teologia paolina aveva stravinto.

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1.1) Addendum sulla questione del “discepolo prediletto”

Gv 1

[35] Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli

[36] e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!».

[37] E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.

[38] Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: «Che cercate?». Gli risposero: «Rabbì (che significa maestro), dove abiti?».

[39] Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio.

[40] Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. [L'altro discepolo era evidentemente Giovanni Zebedeo].

Gv 13

[23] Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù.

[24] Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: «Di', chi è colui a cui si riferisce?».

[25] Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?».

Gv 18

[15] Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote e perciò entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote;

[16] Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare anche Pietro.

Gv 19

[25] Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala.

[26] Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!».

[27] Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.

Gv 20

[1] Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro.

[2] Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!».

[3] Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo, e si recarono al sepolcro.

[4] Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.

[5] Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò.

[6] Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra,

[7] e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte.

[8] Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.

Gv 21

[7] Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!».

[20] Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?».

[21] Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: «Signore, e lui?».

[22] Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi».

[23] Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te?».

[24] Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera.

[25] Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.

*

La definizione “il discepolo che Gesù amava” (Gv 21,7.20), riscontrabile solo nel vangelo giovanneo, deve essere stata messa da un secondo o terzo redattore del vangelo, al posto del nome di Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo. Sul motivo di questa decisione redazionale l'esegesi ha elaborato varie ipotesi, di cui le migliori ci paiono le seguenti:

1. i primi manipolatori del vangelo si erano resi conto che il testo di Giovanni, essendo fortemente in contrasto coi Sinottici, doveva essere modificato; tuttavia non poteva esserlo completamente, poiché si trattava comunque della testimonianza oculare da parte di un discepolo diretto del Cristo, che godeva di grande popolarità; di sicuro però si doveva censurare il nome del suo autore, lasciando ai successivi lettori il dubbio sull'identità del vero autore di questo oppositore di Pietro, il quale, ad un certo punto, dovette estrometterlo dalla propria “comunità cristiana”;

2. lasciando anonimo il nome del “discepolo prediletto” s'impedì di credere che il vero successore di Cristo, come leader del gruppo degli apostoli, avrebbe dovuto essere Giovanni e non Pietro. Nel vangelo di Marco (1,16 ss.) è completamente inventata la chiamata all'apostolato da parte del Cristo nel mentre le due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, erano intente a pescare. Molto più affidabile è il resoconto fatto da Giovanni (1,40 ss.), secondo cui questi, insieme ad Andrea, era già discepolo del Battista (quest'ultimo, peraltro, era imparentato con lo stesso Gesù). È probabile che nel vangelo di Marco (o di Pietro) si sia voluta mistificare l'origine giudaica dei fratelli Zebedeo (il trasferimento in Galilea, anche da parte del Cristo, avvenne dopo l'epurazione del Tempio, per motivi di sicurezza);

3. per umiltà Giovanni omise di dire che il prediletto era lui e comunque sarebbe stata una forma di vanità autodefinirsi «prediletto del Cristo», un sentimento, questo, del tutto estraneo a una personalità così sobria ed essenziale come Giovanni. Anzi, è nel vangelo di Marco che appare chiaramente quanto Pietro si ritenesse il discepolo più importante alla sequela del Cristo;

4. non ha senso sostenere che Giovanni poté dire d'essere stato il «prediletto» solo quando nessuno ormai poteva più contraddirlo, anche perché nel suo vangelo, che pur non era destinato alla prima generazione del movimento nazareno, non appare mai il suo vero nome;

5. i lettori dovevano avere l'impressione che tutto il suo vangelo fosse stato scritto da un'unica persona, ideologicamente spiritualista e vicina a Paolo, come infatti risulta nei lunghi discorsi di addio del Cristo e nelle tre lettere attribuite all'apostolo e che invece furono scritte da un altro Giovanni, detto il Presbitero, il principale artefice della manipolazione del quarto vangelo;

6. se Giovanni si autodefinì «prediletto», senza mai svelare la propria identità, lo fece solo da vecchio, per celare la propria incapacità a seguire sino in fondo le orme politico-rivoluzionarie del Cristo; Giovanni cioè può essere stato effettivamente designato dal Cristo alla successione, ma o non ebbe il coraggio sufficiente per adempiere a questo compito, oppure incontrò fra gli apostoli-discepoli una resistenza troppo forte (il primo dei quali ovviamente fu Pietro);

7. se Giovanni ha sentito il bisogno di scrivere il vangelo da vecchio, significa che avvertì la necessità di smentire o precisare alcuni racconti dei vangeli precedenti sulla cui verità non si discuteva più, e allora omise la propria identità semplicemente per non scandalizzare i lettori cristiani già consolidati nella loro fede spiritualistica di derivazione petro-paolina. Non dimentichiamo che nel quarto vangelo non si registra solo il trauma di una separazione definitiva tra Pietro e Giovanni, ma anche il tentativo di una ricomposizione su basi mistiche, operata da redattori ispirati all'ideologia paolina e gnostica.

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2) Il IV vangelo in nuce

Nel IV vangelo Gesù ottiene i primi seguaci dall'ambiente del Battista, poiché questi rinuncia al ruolo di messia e indica proprio in lui chi avrebbe potuto vantarlo. Le giustificazioni che ne dà sono apparentemente di tipo mistico e i suoi discepoli vi credono proprio perché esse sono di questo tipo.

In realtà il distacco dal Battista avvenne in maniera politicamente traumatica, in occasione della prima insurrezione del Cristo, chiamata nei vangeli, in maniera moralistica, “purificazione del Tempio”. Ad essa il Battista non volle partecipare, pur sapendo che la corruzione dell'alto clero era molto forte. E non lo fecero neppure i farisei, che pur si sentivano rivali dei sadducei e dei sommi sacerdoti. L'unico loro leader interessato a un dialogo col Cristo fu Nicodemo, che però s'incontrò con lui in via ufficiosa o privata.37

La conclusione fu che Gesù dovette espatriare in Galilea, con una parte dei seguaci del Battista. Nel percorso che fece stabilì un'alleanza coi Samaritani, in nome della libertà di coscienza in campo religioso, nel senso che, per lui, ch'era giudeo, non sarebbe stata più ammissibile una priorità religiosa del Tempio di Gerusalemme rispetto a quello costruito sul monte Garizim. L'obiettivo principale era di liberarsi delle legioni romane e i Samaritani lo condivisero pienamente.

La permanenza in Galilea è tutta volta a dimostrare ch'egli rifiutava un primato storico alla Giudea e rifiutava anche tutte quelle discriminazioni sociali tra i vari clan familiari e tribali, tra i generi sessuali, tra ebrei puri e onesti ed ebrei collusi col sistema romano ma disposti a pentirsi (come fece il pubblicano Levi, ma si veda anche l'incontro con l'ufficiale Cuza). È disposto persino a non fare differenza tra ebreo e pagano, se entrambi vogliono liberarsi dell'oppressione romana. Se le tradizioni, gli usi e i costumi dell'ebraismo vengono utilizzati per discriminare la popolazione, li rifiuta decisamente (p. es. la questione dei cibi puri e impuri, le offerte al Tempio che vincolano a comportamenti indegni, ma anche la non frequentazione di gente considerata reietta perché gravemente malata o perché svolgeva mestieri giudicati in sé riprovevoli). Rifiuta anche tutte quelle interpretazioni della legge mosaica contrarie al buon senso e all'esigenza di soddisfare i bisogni della gente comune (vedi ad es. la questione del sabato, ovvero le guarigioni o l'assistenza medica compiuta in un giorno festivo a persone non in pericolo di morte).

Vuole che tutti si concentrino verso un obiettivo comune: liberare la Palestina dai Romani. In tal senso è indifferente a pratiche cultuali o religiose. Quando frequenta le sinagoghe o il Tempio, lo fa soltanto per discutere sulla strategia anti-romana. Sostanzialmente in campo religioso si comporta come se fosse ateo.

Dopo qualche anno d'intensa predicazione in tutta la Galilea, circa cinquemila discepoli sono convinti che sia giunto il momento di scendere in Giudea per compiere l'insurrezione anti-romana. L'episodio viene raccontato, in maniera mistificata, nel racconto della “moltiplicazione dei pani”, che risente di un condizionamento sinottico. Lui però rifiuta, poiché, pur sapendo che il numero dei seguaci era sufficiente per liberarsi dei Romani, anche senza l'aiuto dei Giudei, è però convinto che non sia sufficiente per resistere all'inevitabile reazione di Roma. Vuole cioè che i Giudei si alleino su un piede di parità soprattutto coi Galilei.38

La decisione desta scandalo e molti se ne vanno, profondamente delusi. A partire da quel momento però egli inizia a predicare in Giudea. L'odio dell'alto clero contro di lui, già presente quando si trovava in esilio, ora sale alle stelle: non sopportano il suo ateismo né il progetto politico di liberare la Palestina dai Romani e dai sacerdoti collusi con loro. Tuttavia non riescono a catturarlo, perché non pochi Giudei lo proteggono, aiutandolo a fuggire e a nascondersi.

La svolta decisiva avviene con la morte del leader giudeo Lazzaro, che aveva cercato di insorgere, senza pensare a un'intesa coi Galilei. Gesù capisce che quello è il momento buono per indurre i Giudei ad accettare questa alleanza per compiere una rivoluzione armata. Così i Galilei scendono in massa a Gerusalemme in occasione della Pasqua, il momento e il luogo più favorevole per compiere scelte eversive.

L'ingresso trionfale di Gesù nella città spaventa a morte sia l'alto clero che la guarnigione romana: costoro temono che, se scoppia la rivoluzione, nessuno di loro si salverà. Gesù, tuttavia, non vuole una carneficina, ma che i nemici si arrendano all'evidenza. Chiede a Giuda di contattare i farisei per l'ultima volta, affinché si convincano che la rivoluzione è inevitabile, con o senza di loro, ma che sarebbe stato meglio per tutti se loro vi avessero aderito spontaneamente. Quindi è da escludere a priori che Giuda fosse uscito dal Cenacolo con l'intenzione di tradire, sia perché nessuno (neanche un Dio lo potrebbe) è in grado d'interpretare le intenzioni altrui, sia perché, se davvero avesse avuto un'intenzione del genere, dovremmo inevitabilmente pensare che fosse un infiltrato da parte di qualche partito ostile ai nazareni; o, peggio ancora, che Gesù lo tenesse tra gli apostoli selezionati proprio allo scopo d'essere tradito da lui, che è poi la motivazione cui inevitabilmente si arriva seguendo il misticismo dei vangeli.39

Giuda invece tradisce quando si lascia convincere che la rivoluzione, anche se fosse stata vittoriosa contro la presenza romana in Palestina, non avrebbe potuto resistere alla inevitabile ritorsione di Roma. Tradisce rivelando il nascondiglio del quartier generale, probabilmente dietro la promessa che non avrebbero giustiziato Gesù, ma solo incarcerato (e mai l'avrebbero consegnato a Pilato). Invece i farisei si allearono coi sadducei e insieme informarono il governatore su come catturare Gesù e tutti i suoi principali seguaci.

L'operazione sul Monte degli Ulivi ebbe buon esito, anche perché Gesù, pur di risparmiare i suoi, si consegnò spontaneamente, convinto che ormai essi avessero la forza sufficiente per liberarlo o per proseguire la strategia rivoluzionaria anche senza di lui.

Invece le cose andarono diversamente. Gli apostoli non ebbero la forza di fare alcunché di decisivo. E Gesù, dopo un processo-farsa imbastito da Pilato, finì sul patibolo.

Dopo la sua morte, la rinuncia a compiere la rivoluzione fu confermata da Pietro quando si poté constatare la tomba vuota. Al cospetto di quell'inspiegabile evento, Pietro cominciò a dire che il Cristo era risorto e che presto sarebbe tornato sbaragliando i suoi nemici. E così, a un suo tradimento dovuto alla paura d'essere catturato, Pietro ne aggiunse un altro, ancora più grave: la mistificazione. L'apostolo Giovanni smise di fidarsi di lui e se ne andò via dal movimento col fratello Giacomo, fondando una propria comunità.

Quando ci si rese conto che il Cristo non sarebbe tornato nell'immediato e che le condizioni per realizzare la liberazione della Palestina non erano più quelle di prima, Pietro fuggì da Gerusalemme e la Chiesa cristiana fu gestita da Giacomo, fratello di Gesù, che cercò un compromesso col giudaismo. Nonostante ciò i cristiani furono duramente perseguitati dai Giudei, uno dei quali però - ed era Paolo di Tarso - cominciò a dire che il Cristo era risorto non tanto perché la tomba era stata trovata vuota, quanto perché era l'unigenito Figlio di Dio.

Il rapporto coi Giudei veniva a essere compromesso definitivamente. Si guastarono persino i rapporti tra Paolo e Pietro, oltre a quelli tra Paolo e Giacomo. Paolo capì che la sua predicazione avrebbe potuto avere successo solo nel mondo pagano, e così fu. Col suo cristianesimo non solo non si sarebbe più parlato di ateismo e di rivoluzione politica, ma si sarebbero abbandonate anche tutte le usanze ebraiche.

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3) La parte iniziale del vangelo

3.1) Il Prologo

Il cosiddetto “Prologo” del IV vangelo, attribuito all'apostolo Giovanni, è troppo mistico per pensare che sia stato scritto da lui, proprio perché parla di Dio e non solo di Gesù Cristo. È molto probabile che il suo autore sia lo stesso della prima lettera attribuita a Giovanni, in quanto presentano gli stessi concetti e lo stesso stile; anzi la lettera sembra voler proseguire il Prologo in maniera ottimistica, dando fiducia ai cristiani.40

Il Prologo non è un brano di prosa, ma una specie di inno: è una poesia di altissimo livello, che non ha paralleli nel resto del vangelo; presenta alcuni termini o temi (come logos, grazia, pienezza...) che non si ritrovano nei capitoli successivi. In tal senso più che un Prologo è un Epilogo, poiché presume il vangelo stesso, aggiungendo qualcosa di originale, scritto secondo un registro poetico e teosofico, dove l'elemento semitico41 si mescola con quello ellenistico (filoniano).

La sintesi vuole andare oltre quella di Filone, il quale si era limitato a proporre una mediazione tra l'unità di Dio, assolutamente trascendente, e la molteplicità del mondo, la cui esistenza dipendeva in tutto e per tutto dal Logos, uguale per natura alla divinità ma simile alla Sapienza ebraica, senza essere dotato di personalità umana vera e propria. Tale concezione era poi connessa da Filone a un disegno teleologico unitario, secondo cui gli ebrei, pur essendo episodicamente sottomessi da popolazioni straniere, si vedranno in ogni caso confermati come popolo prediletto da Dio.42

La falsità del Prologo sta comunque nel fatto che Gesù non è mai stato “Figlio di Dio”, semplicemente perché non esiste alcun “Dio”. D'altra parte ciò viene detto - seppur non in maniera così esplicita - al v. 18: “Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui l'ha rivelato”. L'ha rivelato senza però poterlo “dimostrare” (al massimo, infatti, l'ha “mostrato” facendolo coincidere con se stesso: il che, se ci pensiamo, può essere fatto da chiunque, poiché, da parte dell'interlocutore, implica soltanto un atteggiamento di fede o di fiducia). Con questo versetto, addirittura, si smentisce l'esperienza mistica di Mosè e di Elia, con cui gli ebrei presumevano di poter “dimostrare” un rapporto diretto con la divinità.

Vogliamo considerare Gesù l'unico vero Dio presente nell'universo? Egli però aveva tutte le caratteristiche dell'essere umano: dunque anche noi siamo dèi.

C'è differenza tra la sua divinità e la nostra? Se c'è non c'interessa, poiché se siamo divini siamo eterni, e se siamo eterni non siamo mai nati. Noi, come essenza umana, esistiamo da sempre.

Lui era la Parola, la Vita, la Luce, la Verità, la Grazia? Lo siamo anche noi.

Le tenebre non l'hanno accolto? Siamo liberi di scegliere, proprio perché umani. Gli animali non scelgono. Abbiamo fatto una scelta sbagliata? Ne abbiamo pagato le conseguenze, e continueremo a pagarle se non faremo la scelta giusta. Ma la scelta giusta non sarà quella di credere in lui come “Figlio di Dio”; sarà piuttosto quella di credere in lui come “figlio dell'uomo”, che sarà come credere in noi stessi, in quello che dovremmo essere.

Dunque, visto che il versetto 18 afferma che “nessuno ha mai visto Dio”, si potrebbe anche aggiungere che nessuno potrà mai vedere una cosa che non esiste. L'unico che poteva farcelo conoscere era il suo unigenito Figlio? No, lui ci ha fatto soltanto conoscere come l'uomo dovrebbe essere.

Tutto il Prologo è falso, anche se poeticamente sublime.43 Non può averlo scritto Giovanni. E poi ha potuto essere scritto solo dopo che la teologia cristiana era già abbastanza sviluppata secondo le direttive di Paolo di Tarso, il vero fondatore del cristianesimo, oltre ovviamente a Pietro: di qui la necessità di parlare di teologia petro-paolina.44

Peraltro gli autori di questo testo non si rendono conto che se le loro parole vengono portate alle conseguenze più logiche, si arriva a pensare che tra Dio e Gesù non vi sia alcuna differenza, nel senso che potrebbe anche non esistere alcun Dio diverso da Gesù, che però era un uomo. Infatti se tutto è stato fatto da lui o per mezzo di lui, al genere umano dovrebbe interessare poco sapere se esiste o no un'altra divinità ancora.

Il Prologo, in fondo, potrebbe essere considerato un inno a Cristo, non a Dio. Non esordisce dicendo: “In principio era Dio, e presso Dio era il Logos, e il Logos era Dio”. Partendo direttamente dal Logos, pone Dio in subordine o addirittura lo nega. Infatti la sequenza dei versetti potrebbe anche indicare la successione della consapevolezza umana nei confronti del Logos, la cui conclusione è categorica: il Logos coincide con Dio, quindi non esiste alcun altro Dio. Il fatto che nessuna cosa sia stata fatta senza la volontà del Logos, indica che la presenza di un'entità diversa dal Logos, il cosiddetto “Dio-padre”, è del tutto irrilevante, o comunque lo è la credenza nella sua esistenza.

L'avverbio “presso” non starebbe ad indicare “una vicinanza ad altro da sé”, come se si trattassero di due entità metafisiche (la cosa, peraltro, in un vangelo pneumatologico come questo, avrebbe avuto poco senso, in quanto la diade Padre-Figlio sarebbe riduttiva, mancando la terza Persona). Quel “presso” starebbe piuttosto ad indicare una prossimità metafisica all'idea di divinità, che diventa, nel terzo passaggio, quello conclusivo, una identità piena. Gesù è il Logos e il Logos è divino, proprio perché non c'è nessun altro Dio, tant'è che tutto quello che è stato fatto è opera soltanto sua e di nessun altro. Il nome “Dio” nel testo greco non ha l'articolo, quindi ha solo una funzione predicativa (indicante non una persona ma una natura, una condizione); infatti, quando nel resto del vangelo ha l'articolo, indica il “Dio-padre”, con cui però Cristo s'identifica completamente. Il che fa pensare che in entrambi i casi venga confermato il principio dell'ateismo, nel senso che una stretta identificazione tra Gesù e Dio esclude che una qualunque entità divina possa rivendicare un'alterità assoluta rispetto all'identità umana. Gli ebrei coevi al Cristo dovevano aver interpretato così il suo ateismo, e non si vede perché noi dovremmo comportarci diversamente.

Ma se le cose stanno così, allora non è da escludere che il Prologo voglia intenzionalmente riprendere il tema della Creazione, facendo del Dio del Genesi, che passeggia nell'Eden insieme alle sue creature, un modo antico, figurato, non sufficientemente chiaro, di parlare del Logos. In tal senso avevano ragione gli antichi teologi quando dicevano che il Cristo s'è fatto uomo perché l'uomo potesse diventare Dio, cioè potesse acquisire la consapevolezza di esserlo per natura e non solo per “partecipazione” o indirettamente.

Si potrebbe addirittura sostenere che nel Prologo, reinterpretando il racconto della Creazione, si voglia indicare che l'autore non individuale di quel “facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza”, sia proprio la coppia Logos-Pneuma. Indubbiamente nel Prologo la figura centrale è il Logos, ma il IV vangelo dà dignità anche allo Spirito, che è la parte femminile della divinità.

La figura di Dio, in un certo senso, permane, perché comunque il cristianesimo resta una religione, ma come in ombra. Viene usata, più che altro, per esaltare quella del Logos. In ogni caso, se per un ebreo l'idea di equiparare Gesù a Jahvè non era che una forma di spregevole ateismo (per quanto loro stessi, col loro monoteismo assoluto, apparissero degli atei ai politeisti pagani), a maggior ragione la medesima impressione dovrebbe averla un ateo, per il quale la divinizzazione dell'essere umano, inteso in senso lato, dovrebbe essere considerata assolutamente accettabile.

Se vogliamo ragionare in termini aristotelici, il sillogismo dovrebbe essere molto semplice: Posto che Gesù era Dio, posto che Gesù era uomo, ogni uomo è Dio. Se col termine “Figli di Dio” s'intende che dobbiamo essere autenticamente umani, bene, nessun ateo avrà motivo di rifiutare tale interpretazione. L'ateismo è in fondo una garanzia non contro ogni falsa rappresentazione dell'umanità dell'uomo, ma contro una falsa rappresentazione di tale umanità, quella religiosa, che è falsa di per sé.

Nel Genesi infatti la religione nasce nel momento stesso in cui si considera il comunismo primitivo un qualcosa di irrimediabilmente perduto: la religione è una forma d'illusione mistica, un miraggio che sostituisce una realtà concreta, la cui realizzazione, senza l'aiuto divino, diventa letteralmente impossibile. Viceversa nella concezione ateistica del Cristo il comunismo, come realtà sociale, deve diventare, grazie alla volontà umana, un obiettivo da ricercare nel presente. Gli esseri umani devono amarsi reciprocamente, cioè devono concepirsi come se fossero una cosa sola.

D'altra parte quando Gesù dice ai suoi discepoli: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri.” (Gv 13,34), dov'è Dio? Questo comandamento non è “nuovo” nel senso che si aggiunge a quelli mosaici, ma nel senso che li sostituisce completamente; eppure - può accorgersene chiunque - è un precetto esclusivamente umano, che può non aver nulla di religioso. Si rendevano conto gli estensori di questo vangelo delle possibili conseguenze ateistiche che le loro argomentazioni rischiavano di far emergere? Se la risposta è affermativa, si può forse aggiungere ch'essi parlavano di Dio solo quel tanto che bastava per non passare per degli eretici?

Che poi il Prologo sia davvero così sublime è vero sino a un certo punto. Si leggano infatti i seguenti versetti: “È venuto in casa sua [Israele] e i suoi [concittadini] non l'hanno ricevuto” (v. 11), ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio: a quelli, cioè, che credono nel suo nome” (v. 12); i quali non sono nati da sangue [ebraico], né da volontà di carne [matrimonio], né da volontà d'uomo [ceti superiori, aristocratici], ma sono nati da Dio” (v. 13).

In tali versetti c'è del razzismo, seppur in chiave teologica: infatti i “figli di Dio” son solo quelli che riconoscono Gesù come essere divino e, in particolare, come “Figlio di Dio”. Tutti gli altri non sono “figli di Dio”; non lo sono teologicamente, ma, detto così, sembra che non lo siano in alcun senso. Solo perché non l'hanno riconosciuto, han smesso d'essere considerati “figli di Dio”. Quindi non è previsto per questa gente il pentimento.

Nei Sinottici sono soltanto i leader giudei a odiare Gesù; nel IV vangelo (almeno in molte sue parti) è l'intero popolo giudaico! Cioè i redattori di questo vangelo sono disposti a salvare il Dio dei Giudei, ma quando parlano di tale popolo, che non vuole riconoscere la divinità del Cristo, arrivano a dire che il Dio degli ebrei è il demonio. In Gv 8,42-47 fanno dire a Gesù che i Giudei seguono Satana, il bugiardo. Questa particolare forma di razzismo si chiama “antisemitismo”.

Dunque, ricapitoliamo. Se si parte dal Verbo e non da Dio, si finisce inevitabilmente nell'ateismo, non foss'altro che per una ragione: se tutta la creazione dipende dal Verbo (o è in relazione a lui), che esista o non esista Dio è del tutto irrilevante per gli esseri umani. Questi infatti possono pensare che la relazione Dio-padre/Dio-figlio sia di pertinenza del solo Verbo e che non debba affatto riguardare il genere umano. Oppure è possibile pensare che i primi tre versi del Prologo siano semplicemente un modo per spiegare che il Verbo non è soltanto umano ma anche divino. Nel Verbo cioè esisterebbe una specie di diade, una dualità, sia nella natura che nella funzione, tra umano e divino e persino, se vogliamo, tra maschile e femminile (o comunque qualcosa che porta a tale distinzione di genere, che fa parte della natura in tutte le sue funzioni). E di questa dualità tutta l'umanità è partecipe attivamente, sia nella natura che nella funzione.

Il Logos è Dio in quanto è in grado d'incarnarsi come essere perfettamente umano, in tutto e per tutto, e l'altro Dio è ciò che lo integra e gli si oppone, avendo identità diversa: la Sapienza (Ruah in ebraico, Pneuma in greco), poiché all'origine di tutto vi è la dualità, la duplicità, che è maschile e femminile. La “grazia su grazia” elargita agli esseri umani indica che uomini e donne son come il Logos e il Pneuma: quel che possiedono corrisponde alla natura dei due prototipi.

Se esiste un “Dio-padre” diverso dal Logos, può essere solo il “Non-essere”, in quanto l'essere umano è copia di un prototipo divinoumano, diviso per genere. La figura del “Padre”, come entità separata dal “Figlio”, ci è del tutto irrilevante, essendoci impossibile una qualunque identificazione o rappresentazione. Da tempo sappiamo, per i princìpi della dialettica, che il non-essere o il nulla ha la stessa dignità dell'essere, in quanto esprime il “totalmente altro”. Ma sappiamo anche che il concetto di “Dio-padre” è stato introdotto dal cristianesimo per giustificare il fallimento dell'insurrezione nazionale del Cristo. Viene infatti fatto dichiarare al Cristo che solo Dio conosce il momento della realizzazione del suo regno (Mc 13,32).

Il fatto, storicamente inteso, che il Verbo sia stato rifiutato da una parte rappresentativa (quella più significativa) del genere umano, sta appunto a indicare che gli esseri umani sono dotati di quella stessa facoltà di scelta, di quella libertà che solo il Verbo possiede. Quindi non è vero, in senso proprio, che solo quanti hanno creduto in lui sono diventati “figli di Dio”. Lo siamo già tutti, da sempre. Per “natura” nasciamo “figli di Dio”. Il massimo che possiamo fare è diventarlo anche nel “modo”.

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3.2) La figura del Battista

Forse il vangelo di Giovanni potrebbe iniziare a partire dal v. 1,19, con la testimonianza del Battista, che uscì dalla comunità monastica di Qûmran45, per protestare contro la corruzione della casta sacerdotale. A differenza degli Esseni, egli aveva capito che la protesta più efficace non stava nel ritirarsi nel deserto, ma nell'esporsi pubblicamente.

Era diventato molto famoso col suo gesto rituale (non reiterabile) del battesimo nel fiume Giordano: un simbolo con cui chiedeva di pentirsi dei propri peccati, di cambiare vita e di prepararsi, politicamente, alla realizzazione del regno di Dio. A motivo di questo suo stile di vita, ma in contraddizione col contenuto del suo messaggio eversivo, egli verrà considerato dalla tradizione cristiana un modello di vita contemplativa e monastica, una sorta di reincarnazione del profeta Elia, che sarebbe dovuto ricomparire per annunciare l'era messianica. Stranamente però, mentre per i Sinottici egli effettivamente rappresentava l'Elia redivivo (Mc 9,13; Mt 11,14; 17,12), in questo vangelo egli rifiuta decisamente tale identificazione (1,21). Forse perché Elia fece scannare 450 sacerdoti di Baal nel torrente Kison, dopo che avevano dovuto ammettere che il suo Dio era superiore al loro (1Re 18,40).

In missione ufficiale le autorità giudaiche (sacerdoti, leviti, farisei46) si chiedevano che intenzioni avesse, e lui rispondeva di non essere il messia che tutti attendevano per liberare Israele dall'oppressione romana, ma di essere semplicemente un “precursore”, un apripista alla venuta di questo messia. Chiedeva di non attenderlo passivamente, ma di dimostrare, con la “conversione personale”, d'essere meritevoli della sua prossima venuta.

Giovanni Battista era cugino di Gesù. Quando le autorità gli chiesero perché stesse battezzando, lui rispose che in mezzo a loro esisteva uno più grande di lui, che avrebbe meritato di diventare messia. Ecco perché Giovanni diceva di essere semplicemente un profeta, applicando a sé un versetto politico del profeta Isaia, che preannunciava la fine della schiavitù (40,3). I due dovevano conoscersi da tempo: probabilmente erano cresciuti insieme, entrambi da Giudei nella Giudea.47

Chi sta scrivendo queste cose sapeva bene dove le autorità avevano incontrato il Battista: a Betania, una cittadina posta oltre il Giordano, non quella vicino a Gerusalemme. Lo sa bene perché lui stesso era stato un discepolo del Battista: è appunto l'autore del vangelo, Giovanni Zebedeo, fratello di Giacomo il Maggiore.

A ciò che il Battista proclamava le autorità di Gerusalemme non credettero, non diedero alcun peso; e di questo i redattori approfittano, facendo vedere che il loro antisemitismo era giustificato anche per il modo in cui il Precursore era stato trattato. Tant'è che per loro, siccome i Giudei sono ritenuti inidonei a conoscere Gesù (1,26), è preferibile far dire al figlio del sacerdote Zaccaria d'essere venuto “a battezzare con acqua perché egli [Gesù] fosse fatto conoscere a Israele” (v. 31). Israele, sensu lato, è il vero “popolo di Dio”.

Viceversa, alcuni discepoli del Battista cominciarono a vedere in Gesù, dopo averlo sentito parlare, un probabile liberatore nazionale. Non fu Giovanni a seguire Gesù - stranamente, dobbiamo dire48 -, ma Andrea, il fratello di Simon Pietro, e Giovanni Zebedeo, il cui nome non apparirà mai in questo vangelo, non avendo egli condiviso la teologia petro-paolina. Una delle condizioni perché questo vangelo potesse essere accettato dalla Chiesa primitiva fu proprio quella di censurare il nome dell'apostolo Giovanni.

Questi due uomini, seguaci del Battista (che probabilmente rimasero insieme buona parte della loro vita, visto che anche su Andrea è caduta la mannaia della censura), chiesero a Gesù dove abitava e lo seguirono fin dentro la sua dimora. Giovanni indica persino il momento esatto in cui presero a farlo: circa l'ora decima, cioè le quattro del pomeriggio (1,30). Per loro iniziava una nuova avventura e la iniziavano con un giudeo, non con un galileo, come invece appare nel vangelo marciano.49

Andrea andò ad avvisare il fratello Simone sul fatto che, secondo loro, Gesù sarebbe potuto diventare il messia che cercavano, e anche Simone (che probabilmente era uno zelota) si aggregò alla comitiva, ricevendo da Gesù il nome di “Kepha”, cioè “roccia” o “pietra”, poi trasformato in “Pietro”.

Con loro tre si recò in Galilea, poiché aveva intenzione di compiere a Gerusalemme qualcosa d'importante, che il movimento battista, privo di consensi significativi da parte dei farisei, non era riuscito a fare: liberare il Tempio dalla casta sacerdotale corrotta.

A Betsaida, città galilea di Andrea e Pietro, Gesù trovò nuovi seguaci, tra cui Filippo, il quale convinse Natanaele a seguirli. Si stava creando una rete sovversiva, che non doveva essere esigua, visto che si voleva attaccare il Tempio. Non è anzi da escludere che i redattori abbiano censurato le adesioni di massa a Gesù proprio per evitare ch'esse venissero interpretate in chiave politica, e abbiano preferito limitarsi a mere conversioni individuali. Se fosse così, si può addirittura pensare che, mentre Giovanni Zebedeo personifichi la scissione che visse il movimento battista quando Gesù decise di attaccare il partito sadduceo che gestiva il Tempio, Andrea invece può rappresentare quella parte di Galilei che aveva inizialmente aderito al Precursore e che poi passarono dalla parte di Gesù, convincendo a farlo anche a quella parte di zeloti in cui si riconosceva Pietro, fratello di Andrea. D'altra parte senza un'adesione significativa di seguaci sarebbe stato impossibile fare qualcosa di eversivo contro il Tempio e uscirne indenni.

Al v. 1,45 vi è una curiosa indicazione biografica relativa al Cristo. Filippo dice a Natanaele: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti: Gesù da Nazareth, figlio di Giuseppe”. È un'indicazione falsa. Anzitutto non si sa chi sia questo Natanaele (in genere si tende a identificarlo con Bartolomeo); in secondo luogo non è scritto da nessuna parte che il messia dovesse provenire da Nazareth (semmai doveva nascere a Betlemme, come Davide)50; in terzo luogo Gesù era nativo della Giudea, e a Nazareth (o a Cafarnao) si trasferì soltanto dopo l'epurazione fallita del Tempio.51 La chiamata dei primi discepoli nel mare di Galilea (Mc 1,16) è troppo mistica per essere vera. Marco l'ha elaborata non solo perché il suo vangelo è fortemente anti-giudaico, ma anche per far vedere che tra i primi discepoli di Gesù vi era Pietro.

È quindi probabile che qualche interpolatore abbia voluto uniformarsi alla tesi di Marco, la cui principale fonte è Pietro; e per far credere che Gesù era un galileo, si è inventato la parte relativa al dialogo mistico tra Gesù e Natanaele. Quest'ultimo infatti si chiede: “Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?” (1,46). In questa maniera non risulta con chiarezza che Gesù si era recato in Galilea per preparare coi Galilei la sua prima insurrezione, quella contro il Tempio, sperando di ottenere il consenso dei Giudei. Si ha invece l'impressione ch'egli abbia fatto quell'epurazione proprio perché, essendo di origine galilaica, non si fidava del consenso dei Giudei.

Stando a Eusebio di Cesarea, Nazareth era un villaggio di Giudei posto nella bassa Galilea. Se questo è vero, si può forse pensare che, proprio a causa dell'epurazione, non condivisa da quei Giudei, Gesù iniziò a essere trattato così ostilmente da indurlo a trasferirsi a Cafarnao, a pochi chilometri dalla culla del movimento zelota: Gamala.

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3.3) Le nozze di Cana

Altro racconto mistico, del tutto fuori luogo rispetto al contesto, è quello riguardante le nozze di Cana, ove il miracolo della trasformazione dell'acqua in vino (il primo prodigio) è stato inventato al fine di dimostrare che i Galilei erano superiori ai Giudei, le cui simboliche sei giare di pietra, preposte alle abluzioni rituali previste dalla legge mosaica, sembrano rappresentare la vuotezza (2,6), l'aridità giudaica, la fine di una civiltà, che va sostituita col fervore del vino, con l'esuberanza dei Galilei o addirittura dei pagani che iniziano a farsi cristiani.

Qui avviene anche il primo tentativo di “deificare” la madre di Gesù, rappresentata come una che sa già fin dove possono arrivare i poteri del figlio. E questo nonostante la domanda molto dura che Gesù le rivolge: “Che ho da fare con te, o donna?”. Sembra quasi che qui si voglia evidenziare una sorta di estraneità tra madre e figlio, come se lei rappresentasse l'ebraismo tradizionale e lui l'alternativa radicale al sistema, e il rapporto tra i due non fosse altro che la ricerca di un momentaneo compromesso.

Da notare che l'autore della pericope non sembra voler includere tra i “discepoli” di Gesù anche i suoi “fratelli” o i parenti più stretti e neppure i servi dello sposo: di nessuno di questi dice esplicitamente che “credettero in lui”; anzi, a ben guardare, non lo dice neppure di Maria, che nel racconto sembra strappare il prodigio più in quanto “madre” che non in quanto “discepola”. Stando a Mc 3,30 ss. e a Gv 7,5, i rapporti tra il Gesù politico e la madre (ivi inclusi i fratelli e le sorelle) spesso erano difficili, benché alcuni fratelli militassero nella cerchia dei Dodici. Forse questo racconto sta a significare che tra Gesù e il suo parentado s'era stabilita una certa riconciliazione, dopo l'evento di pericolosa rottura istituzionale quale fu la cacciata dei mercanti dal Tempio. È probabile che l'esilio in Galilea abbia coinvolto solo una parte del parentado, all'interno del quale non si vede la figura di Giuseppe (cosa che ha indotto alcuni esegeti a pensare che il padre di Gesù sia rimasto in Giudea e che lo si riveda nella figura di Giuseppe di Arimatea, titolato a richiedere a Pilato il corpo del figlio crocifisso).

In ogni caso tutti i particolari di tale pericope (abbondanza di vino, grande banchetto, festa nuziale...) sono immagini tradizionali usate nell'Antico Testamento per parlare dell'attesa messianica, che qui viene data per acquisita mostrando un Gesù in grado di fare miracoli portentosi.

L'autore, abbastanza ingenuamente, sostiene che i discepoli, vedendo questo prodigio, “credettero in lui” (2,11). In realtà Gesù era già riuscito a convincere alcuni discepoli del Battista ad abbandonare quest'ultimo e a seguirlo per compiere l'epurazione del Tempio (Gv 1,35 ss.). Peraltro, in nessuna parte del vangelo di Giovanni, né in quello di Marco, egli compie dei prodigi spettacolari per convincere qualcuno a diventare suo discepolo. Con la trasformazione dell'acqua in vino non si manifesta alcuna particolare “gloria”, poiché il Cristo, in quella occasione, sarebbe anche potuto apparire più come uno stregone che non come un messia. Se poi era davvero il primo miracolo e Gesù ancora non si era “manifestato”, avendo qui agito in segretezza, non si comprende in che cosa i suoi discepoli avrebbero dovuto credere. Non solo, ma se i servi dello sposo avessero davvero visto il prodigio di mutare centinaia di litri di acqua in ottimo vino, il “protagonista” del matrimonio sarebbe stato Gesù, non gli sposi, anche se da parte dei servi non vi fu alcuna reazione.

Alcuni fantasiosi esegeti han pensato d'intravedere il matrimonio di Gesù con la Maddalena, in quanto Maria dà ordini ai “servi dello sposo”. Ma il Cristo aveva fatto voto di nazireato, come il Battista, per cui non avrebbe potuto sposarsi finché il motivo del voto non fosse stato soddisfatto.

Sul piano stilistico la pericope è comunque priva di una fisionomia giovannea, per cui è da presumere sia stata inserita tardivamente e probabilmente insieme all'altra della guarigione del figlio del funzionario Cuza, entrambe influenzate dalla tradizione sinottica.

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3.4) La prima insurrezione (fonti)

La descrizione della prima insurrezione di Gesù è tutta incentrata su di lui, come se da solo avesse potuto fare una cosa così ardita e, in fondo, così pericolosa. In effetti, anche ammesso ch'egli abbia potuto cacciare dal Tempio i mercanti e i cambiavalute, cogliendo tutti di sorpresa, è difficile pensare che le guardie del Tempio l'avrebbero lasciato fare del tutto indisturbato o che gli avrebbero permesso di andarsene in tutta tranquillità, dopo aver creato quel pandemonio.

È quindi evidente che chi ha revisionato questo racconto, che in origine doveva avere un contenuto politico, ha fatto in modo di ridurlo a qualcosa di simbolico, avente un semplice significato etico-religioso: non a caso la Chiesa gli ha messo il nome di “purificazione del Tempio”. Infatti la motivazione ch'egli avanza per giustificare il suo gesto è espressa al v. 2,16: “Non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”.52 Una frase del tutto opposta a quella che dirà qualche giorno dopo ai Samaritani: “L'ora viene che né su questo monte [Garizim] né a Gerusalemme adorerete il Padre” (4,21).

Peraltro quella tentata insurrezione non era tanto rivolta ai mercanti e cambiavalute, quanto piuttosto alla casta sacerdotale, che concedeva loro le licenze per i traffici commerciali, i quali comunque erano indispensabili per ottemperare alle prescrizioni cultuali. Non avrebbe avuto senso prendersela con l'ultimo anello della catena. Gesù aveva di mira il sommo sacerdote, i sadducei, gli anziani, i leviti, gli scribi... Questo perché sarebbe stato impossibile pensare di poter fare un'insurrezione nazionale contro Roma se prima non ci si fosse liberati del potere più corrotto d'Israele, ampiamente colluso con quello straniero.

La casta sacerdotale s'illudeva e voleva illudere la popolazione che se i Romani non avessero toccato il Tempio, cioè finché avessero permesso ai capi-giudei la gestione autonoma degli aspetti religiosi ed economici connessi al Tempio, la libertà sarebbe stata comunque assicurata. Era sostanzialmente cieca, sia perché non voleva vedere la crescente insofferenza della popolazione nei confronti dell'oppressione romana, che s'era imposta nettamente sin dai tempi del censimento che Quirinio aveva pretesto nel 6 d.C. per estorcere tributi; sia perché non riusciva ad accettare l'idea che i Romani, prima o poi, non trovando una vera resistenza davanti a loro, avrebbero occupato anche il ricchissimo Tempio, trasformando tutta la Palestina in una loro colonia, come già avevano fatto con Egitto e Siria.

Il Tempio era al centro dei commerci di tutta la Giudea, la sua principale istituzione finanziaria e la sua banca più importante. Custodiva gli archivi dei documenti aventi valore legale, nonché le genealogie degli ebrei facoltosi, oltre ovviamente ai testi sacri. Era il Tempio che, con le sue feste periodiche, scandiva la vita di tutti gli ebrei. La politica d'Israele non poteva prescindere dalla ierocrazia del Tempio, che si comportava come una casta feudale. La stessa carica di sommo sacerdote (generalmente annuale ma riconfermabile, anche se non più ereditaria dal 37 a.C.53) era riservata a un ristretto gruppo di famiglie che se la passavano come un bene di loro proprietà, benché il titolo, in ultima istanza, dovessero acquistarlo direttamente dai Romani, anche loro interessati a lucrare su tutto. Il procuratore romano custodiva perfino i sacri paramenti del sommo sacerdote, che venivano utilizzati in occasione delle feste liturgiche; e pretendeva il sacrificio quotidiano di un animale per la salute dell'imperatore. Gli ebrei erano soltanto esonerati dal culto esplicito dell'imperatore.

Gesù aveva tentato l'insurrezione o comunque un'epurazione politica durante la Pasqua, con l'aiuto dei Galilei (probabilmente per il tramite dei fratelli Andrea e Pietro), confidando nel sostegno della popolazione di Gerusalemme e soprattutto del partito farisaico, ostile ai sadducei. E non è da escludere una collaborazione da parte di frange del movimento essenico (per il tramite di Giovanni Zebedeo, discepolo del Battista), i cui affiliati avrebbero potuto tranquillamente sostituirsi ai sadducei.

Il racconto però è stato ampiamente manipolato. Si fa parlare Gesù come se fosse un extraterrestre: “Demolite questo Tempio e in tre giorni lo farò risorgere!” (2,19). Si fanno riferimenti mistici all'espressione “in tre giorni lo farò risorgere”: “parlava del tempio del suo corpo. Quando fu risorto dai morti, i suoi discepoli si ricordarono ch'egli aveva detto questo” (2,21 s.). Frasi teologiche del genere hanno sostituito frasi di tipo politico.

La pericope si chiude addirittura con un certo antisemitismo. Da un lato, infatti, si afferma che “molti credettero nel suo nome” (2,23); dall'altro però si precisa che gli credevano solo perché vedevano “i miracoli ch'egli faceva” (ib.). Sicché il redattore non può che concludere, con molta supponenza nei confronti dei Giudei: “Gesù però non si confidava con loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro; egli infatti sapeva quello che c'è in ogni uomo.” (vv. 24-25).

In che senso li conoscesse tutti non viene detto. Si potrebbe infatti pensare che, vivendo egli a Gerusalemme, conoscesse molti dei suoi abitanti, ma i redattori hanno in mente ben altro: vogliono farlo passare per uno che, essendo di natura divina, era in grado di possedere una certa facoltà onnisciente o preveggente. Cioè per uno che non si fida dei Giudei proprio in quanto Giudei. Non si fida dell'appoggio morale e politico che gli potevano dare, poiché li riteneva, a priori, degli ipocriti, delle persone insincere. Il redattore sta scrivendo con lo sguardo rivolto alla seconda insurrezione, quella che al Cristo sarà fatale.

Qui si può soltanto arguire che il tentativo insurrezionale fallì a causa di un appoggio politico inconcludente o non convincente. Peraltro non vengono neppure citati i discepoli del Battista, né viene detto che Gesù si comportò in maniera così eversiva per cercare di realizzare politicamente gli obiettivi etici del Precursore. Anzi, in un certo senso si può dire che, facendo compiere a Gesù un'azione meramente simbolica, i redattori lo presentano come un seguace del Battista, con l'aggiunta di una maggiore determinazione in carattere. Il suo obiettivo - così i redattori vogliono far credere - era semplicemente quello di operare un ricambio generazionale alla guida del Tempio, senza alcuna finalità politica destabilizzante. Infatti se si fosse trattato soltanto di “purificare” quel luogo sacro, non ci sarebbe stato bisogno di mettere in discussione il rapporto d'Israele con Roma.

In realtà con questa epurazione Gesù voleva occupare il Tempio per poi occupare la fortezza Antonia, mentre col secondo tentativo insurrezionale vorrà fare il contrario. I veri traditori sono stati i farisei, che non a caso saranno presenti anche sul Getsemani, al momento della sua cattura. Lo sono stati anzitutto nei confronti dei loro stessi ideali, che dicevano d'essere più etici e democratici di quelli dei rivali sadducei. In un certo senso essi verranno riscattati soltanto da Paolo di Tarso, il quale, pur predicando un Cristo spoliticizzato, farà in modo di porre le basi affinché l'intero impero romano ne venisse a conoscenza. In nome di un'ideologia integralistica i farisei avevano rinunciato a liberare la Palestina; viceversa gli zeloti, ideologicamente farisaici, si serviranno dello stesso integralismo come arma politica e militare contro i Romani, portando definitivamente Israele alla rovina (66-70 d.C.).

In ogni caso, senza alleanze sicure, era impossibile per Gesù e i suoi più stretti seguaci restare incolumi a Gerusalemme, dopo aver compiuto quel gesto eversivo. Ecco perché sono costretti a espatriare, andando in esilio in Galilea (salvo Andrea e Pietro che già ci vivevano). Prima però dovevano accadere tre cose molto importanti: 1) l'incontro segreto col fariseo Nicodemo; 2) l'ultimo incontro col Battista; 3) l'incontro coi Samaritani. Quest'ultimo chiude il racconto della prima insurrezione, poiché in Galilea inizierà una nuova strategia rivoluzionaria.

Addendum

Il primo Tempio, distrutto dai Babilonesi nel 586 a.C., fu ricostruito sotto i Persiani. Quando costoro furono vinti da Alessandro Magno, Gerusalemme fu invasa dall'ellenismo, che proseguì coi Tolomei egiziani dal 323 sino al 198 a.C., allorché ebbe la meglio il seleucide Antioco III il Grande, il quale cercò di abolire il culto ebraico, scatenando così la rivolta dei fratelli Maccabei (175-164 a.C.). Costoro diedero vita alla dinastia degli Asmonei (re e sacerdoti), che regnò sulla Giudea per circa un secolo, finché un contrasto insanabile tra i due fratelli Ircano (filofariseo) e Aristobulo (filosadduceo) portò alla guerra civile. Entrambi chiesero aiuto ai Romani, i quali nel 63 a.C., con Gneo Pompeo, entrarono a Gerusalemme, parteggiando per Ircano e conferendogli la prestigiosa carica di sommo sacerdote. Tuttavia la carica politica, dopo che la Giudea era stata trasformata in un protettorato romano, fu concessa a Erode il Grande (50 a.C.), che ricostruì Gerusalemme, ampliando la struttura del Tempio. Il figlio di Aristobulo cercò di riconquistare la città con l'aiuto dei Parti, ma nel 37 a.C. venne sconfitto da Erode il Grande, che assunse il titolo di re dei Giudei sino al 4 a.C. I Romani, comunque, una volta entrati con Pompeo, non usciranno più da Gerusalemme, almeno sino all'arrivo dei Persiani sasanidi-islamici di Cosroe II (614 d.C.); cambieranno soltanto la loro religione, che da pagana politeistica diventerà cristiana triteistica. Il Tempio però, distrutto nel 70 d.C. da Tito, non verrà più ricostruito, in quanto né gli imperatori cristiani né i sovrani islamici lo permetteranno. La casta sacerdotale dei sadducei scomparirà per sempre, sostituita dal partito farisaico, preposto a sviluppare l'ebraismo rabbinico attraverso le istituzioni sinagogali. Tutta la Palestina rimase sotto l'islam quasi ininterrottamente da Cosroe II sino al 1917, quando i Britannici posero fine all'impero Ottomano. Nel 1948 nacque lo Stato d'Israele per volere dell'ONU.

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3.5) L'incontro con Nicodemo

Il politico fariseo Nicodemo viene definito “uno dei capi dei Giudei” (3,1), quindi un membro del Sinedrio (il Gran Consiglio), una persona molto influente, che avrebbe potuto convincere il suo partito ad appoggiare l'epurazione del Tempio, ma non viene detto che lo fece.54

Egli esprimeva, in un certo senso, l'eccezione che confermava la regola. Il fatto stesso che volesse incontrare Gesù di notte e quindi di nascosto, per timore dei propri compagni di partito, lo confermava.55 I farisei volevano gestire in proprio la contestazione nei riguardi del Tempio; infatti, come non avevano accettato la predicazione del Battista, così - almeno nella loro maggioranza - non sembravano essere intenzionati ad accettare quella del Cristo. Il loro era un partito progressista negli ideali ma moderato nella strategia.56

Nicodemo si rendeva conto della giustezza dell'epurazione, ma non riusciva a trarne le dovute conseguenze politiche. Il dialogo tra lui e Gesù è abbastanza lungo, ma di autentico non c'è quasi nulla.

Si fa fatica a capire, vista la pesantezza delle manipolazioni, che cosa si siano potuti dire. Tutto il dialogo presenta affermazioni molto slegate tra loro: non si capisce neppure dove termini, poiché alla fine è solo un monologo. È probabile che Nicodemo gli abbia detto che il Tempio, pur essendo gestito da una casta sacerdotale corrotta, restava comunque un'istituzione imprescindibile per gli ebrei d'Israele, i quali potevano opporsi efficacemente ai Romani proprio restando tenacemente attaccati alle loro tradizioni.

Gesù invece gli avrà risposto, evitando discussioni accademiche su temi teologici, che per opporsi a una potenza imperiale come Roma, le cui leggi venivano applicate a prescindere dalle religioni ch'essa incontrava nella sua espansione, sarebbe stato controproducente fare del culto nel Tempio una discriminante tra ebreo ed ebreo.

Detto altrimenti: l'opposizione a Roma doveva prescindere dall'atteggiamento che si aveva nei confronti della religione. Ai battisti e ai Samaritani confermerà questo punto di vista. La religione poteva anche sembrare un'arma per opporsi ai Romani, ma rischiava di non avere alcuna efficacia se diventava uno strumento di divisione all'interno dell'ebraismo: p.es. tra Giudei e Galilei (quest'ultimi considerati ebrei di seconda categoria, esattamente come gli Idumei57) o tra Giudei e Samaritani (quest'ultimi considerati addirittura degli eretici). In questo senso va interpretata l'espressione “rinascere dall'alto” (3,3), che naturalmente i redattori non hanno mancato di qualificare in senso mistico.

Per cambiare mentalità bisognava, quanto meno, accettare il rito di penitenza del Battista, per il quale il regno di Dio sarebbe stato realizzato dagli ultimi della società, visto che i primi non riuscivano in alcun modo a farlo.

Da ultimo si può dire che forse l'adesione di Giuda al movimento nazareno può essere fatta risalire proprio al rifiuto del suo partito, quello farisaico, di partecipare attivamente all'epurazione del Tempio, che pur la si riteneva legittima sul piano etico. Non a caso durante l'ultima cena Gesù incaricò lo stesso Giuda di compiere una missione decisiva, e qui si può presumere che dovesse incontrare proprio i farisei progressisti per convincerli ad aderire all'insurrezione nazionale antiromana, superando l'indecisione della volta precedente contro i sadducei.

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3.6) L'ultimo incontro col Battista

La rivalità però scoppia anche tra battisti e nazareni: quelli non vogliono che questi battezzino, poiché fanno loro perdere l'ascendente sulle masse.

Che cosa si siano detti i due gruppi politici è impossibile saperlo. Probabilmente la differenza principale stava nella finalità della conversione interiore: poteva diventare politica o doveva fermarsi sul piano etico? Giovanni rifiutò di assumere il ruolo politico di messia, per cui non poteva essere un seguace di Gesù. Il rapporto tra i due s'interromperà a Enon, presso Salim (3,23), e non si ricomporrà mai più (almeno finché Gesù sarà in vita), anche perché il Battista, verso la fine degli anni Venti, verrà fatto imprigionare e decapitare da Erode Antipa, il quale, stando alle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe, lo eliminò semplicemente perché lo temeva per la sua grande popolarità, non perché gli contestava la relazione con Erodiade (moglie di suo fratello), che probabilmente fu successiva a quella esecuzione.

Solo a partire dalla teologia petro-paolina si realizzerà un'intesa tra cristiani e una parte dei battisti, ma sarà esclusivamente sul piano etico-religioso.58 Significativo resta il fatto che, secondo l'autore di questo vangelo, non era Gesù che battezzava ma i suoi discepoli (4,2), benché in 3,22 si dica che lo faceva anche lui.59 Ciò a testimonianza ch'egli non attribuiva a tale rito simbolico alcun vero significato eversivo. Peraltro in questo vangelo non è neppure detto che Giovanni battezzò Gesù.60

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3.7) L'incontro coi Samaritani

Il racconto di Gesù al pozzo di Giacobbe, in Samaria, è uno dei più significativi di tutto il vangelo, per quanto anch'esso ampiamente manipolato.

Vi sono vari aspetti che meriterebbero d'essere discussi. Uno l'abbiamo già visto: Gesù non battezzava, ma lasciava che lo facessero i suoi discepoli, quelli che provenivano dalle fila del Battista. A tale proposito il redattore esordisce dicendo: “quando il Signore seppe che i farisei avevano udito ch'egli faceva e battezzava più discepoli di Giovanni, lasciò la Giudea e se ne andò di nuovo in Galilea” (4,1-3). E siccome non voleva essere seguito, decise di attraversare la Samaria (v. 4), terra odiata dai farisei.61

Perché questo atteggiamento? Non aveva forse cercato consensi politici da parte dei farisei al momento dell'epurazione del Tempio? Perché ora rifiutarli? Si fa fatica a capire il motivo, poiché il redattore è reticente: non vuol far sapere che Gesù si comportava come un politico.

In precedenza, quando i farisei andarono a parlare col Battista, costui non si era sottratto al dibattito, neppure davanti alla volontà farisaica di non credere nel valore etico del gesto simbolico del battesimo. Perché Gesù invece vi si sottrae? Probabilmente perché aveva già offerto a tale partito l'occasione di un'intesa politica: la prima volta durante l'epurazione del Tempio; la seconda nel dialogo con Nicodemo. Cosa aveva ottenuto? Nulla. Cosa sarebbe servito discutere con ideologi così indecisi e opportunisti, che non volevano assumersi delle precise responsabilità? I farisei s'interessano del movimento di Gesù soltanto quando vedono che fa più proseliti del Battista: si comportano così non perché vogliono realizzare un'alleanza, ma perché lo percepiscono come un concorrente. È come se volessero fargli capire che in Giudea sono loro a gestire il consenso popolare, col quale sperano un giorno di potersi sostituire ai sadducei.

Gesù non vuole rischiare d'essere strumentalizzato, né gli interessano le diatribe teologiche tra farisei e sadducei, per cui decide di ritornare in Galilea. Ha definitivamente capito che la sua prima insurrezione è stata un'occasione perduta per la Giudea. Ora deve cambiare strategia, e il primo modo per farlo è quello di stabilire un'intesa politica coi Samaritani.

Il secondo aspetto interessante da sottolineare in questo racconto è che la donna samaritana che attingeva l'acqua al pozzo di Giacobbe, identifica immediatamente Gesù (dalla parlata) come un “giudeo” (4,9), e forse, guardando la barba e i capelli lunghi, come un “profeta”. E si meraviglia che chieda da bere a lei, avversaria dei Giudei sotto ogni punto di vista, in quanto “eretica”. Se Gesù fosse stato un galileo, probabilmente lei non avrebbe avuto la stessa identica reazione: i Galilei infatti avevano l'abitudine ad attraversare la Samaria per recarsi a Gerusalemme.62

Di questo racconto, ampiamente manipolato, a noi interessa solo un aspetto. Dicendo alla samaritana: “l'ora viene che né su questo monte [Garizim] né a Gerusalemme adorerete il Padre” (4,21), praticamente Gesù relativizzava l'atteggiamento nei confronti della religione. Cioè affermava la piena libertà di coscienza. Ai fini della liberazione nazionale dall'oppressione romana era per lui del tutto indifferente una particolare professione di fede religiosa. Semmai era importante affermare, in un campo così spinoso, la tolleranza reciproca, in quanto ciò che più importava era avere un obiettivo politico comune.

Il suo successo in Samaria fu straordinario: “quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti di più credettero per la sua parola... perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo” (4,40-41); un titolo, questo, che lasciava presagire che la missione politica di Gesù possedeva, in nuce, un carattere di universalismo, pur all'interno di una strategia finalizzata a realizzare un'insurrezione nazionale.

I Samaritani erano pronti ad allearsi con lui per eliminare la corruzione della casta sacerdotale e per combattere contro Roma. Avevano capito che il vero problema non stava più nel sostituire una pratica religiosa con un'altra, una fede con un'altra.

“Trascorsi quei due giorni, egli partì di là per andare in Galilea; poiché Gesù stesso aveva affermato che un profeta non è onorato nella propria patria” (4,43-44), cioè in Giudea. Quindi praticamente aveva accettato l'idea di fare il profugo per motivi politici.63 “Quando dunque andò in Galilea, fu accolto dai Galilei con gioia, poiché avevano visto le cose ch'egli aveva fatto in Gerusalemme durante la festa” (4,45).64 I Galilei, dopo l'epurazione, seppur fallita, del Tempio, avevano smesso di sentirsi degli ebrei di seconda categoria.

Soltanto adesso il redattore dice che a Gerusalemme Gesù non era andato da solo a compiere l'insurrezione. È una sottolineatura tardiva, ma importante.

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4) La guarigione del figlio di Cuza

Del tutto inventata invece è la guarigione a distanza del figlio del funzionario reale Cuza, amministratore di Erode Antipa, e marito di Giovanna, discepola facoltosa di Gesù (cfr Lc 8,3). Probabilmente la pericope è stata messa perché, grazie alla moglie, il marito s'era convertito al cristianesimo. Non è da escludere che il racconto miracolistico rispecchi l'alleanza tra mondo cristiano e mondo pagano, realizzata, in chiave religiosa, dopo la morte del Cristo, sulla base della teologia petro-paolina.

Che il racconto sia inventato lo si capisce da un semplice dettaglio: Cuza è convinto che Gesù sia un taumaturgo, ma prima di questa guarigione non ne aveva fatte altre. Lo stesso redattore scrive, pensando di dare credibilità al racconto, che questa guarigione fu il “secondo miracolo” compiuto in Galilea (4,54). Ma il primo è quello di Cana, ove trasforma l'acqua in vino, anch'esso del tutto inventato, al punto che l'accostamento redazionale tra questi due prodigi appare piuttosto insensato. Per giustificare il secondo, il redattore ha dovuto dire che a Cana Gesù si era recato una seconda volta e, proprio in quell'occasione, aveva incontrato Cuza. Può una falsità rendere più vera un'altra falsità solo perché si cerca di tenerle strettamente collegate?

Altro motivo di totale inattendibilità della pericope sta nelle parole fatte dire a Gesù in risposta alla supplica del funzionario: “Se non vedete segni e miracoli, voi non credete” (4,48). Gesù sembra che si stia riferendo a una mentalità pagana, che a un qualunque giudeo appariva rozza e provinciale. Ma durante l'epurazione del Tempio gli stessi Giudei gli avevano chiesto una cosa analoga: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (2,18). E più avanti: “Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome”. (2,23). Dunque anche i Giudei chiedevano i miracoli, non solo i pagani o gli ebrei filo-romani.

Cuza chiede forse la guarigione perché aveva saputo che Gesù ne aveva già fatte a Gerusalemme? Sembra di sì, ma come mai di queste guarigioni miracolose il redattore del IV vangelo non dice nulla? E per quale motivo fa dire a Nicodemo che “nessuno può fare questi miracoli che tu fai, se Dio non è con lui” (3,2)? Se erano così straordinari, perché non parlarne? Perché introdurre la prima grande guarigione solo al capitolo 5? Qui è evidente che i redattori, dopo aver omesso alcuni passi giudicati scomodi, ne hanno aggiunti altri di tipo convenzionale, senza badare troppo alla coerenza del testo.

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5) Il paralitico di Bethesda

La stranezza del racconto sulla guarigione del paralitico di Bethesda (5,1-16) non sta tanto nella guarigione in sé (che è del tutto inventata dai redattori), quanto piuttosto nel fatto che si ribadisce l'assurda equazione ebraica secondo cui una malattia fisica doveva per forza essere associata a una colpa morale.

Prima però di parlare di questo argomento, notiamo che al v. 16 viene detto che siccome Gesù faceva queste guarigioni di sabato, i Giudei cercavano di ucciderlo. Per quale motivo i redattori dei vangeli siano stati indotti ad associare la violazione del sabato a una guarigione miracolosa, non è dato sapere, benché sia facile ipotizzare che quando vi è di mezzo la religione, cioè la rappresentazione di concetti mediante immagini, la necessità di apparire il più possibile “popolari” abbia influito in maniera decisiva sul rifiuto di trattare in maniera puramente filosofica l'argomento della libertà dell'uomo nei confronti delle leggi.

Poiché noi diamo per scontato che Gesù non abbia compiuto alcun miracolo, e che se ha compiuto delle guarigioni fisiche, queste erano alla portata di ogni uomo, dovremmo supporre ch'egli violasse il sabato senza una motivazione precisa (quale appunto poteva essere quella di soddisfare un'esigenza di guarigione). Lo violava semplicemente perché non voleva sentirsi vincolato ad alcun precetto religioso, fermo nella convinzione che il sabato è fatto per l'uomo e non il contrario, come peraltro dice lo stesso Talmud.

Gesù non seguiva le minuziose regole dietetiche degli ebrei (cfr Mc 2,23) né le particolari regole di purificazione rituale (cfr Mc 7,2). Peraltro chiamava alla sua sequela o frequentava gente proveniente da qualunque rango sociale e professione. Regole troppo rigide da rispettare uniscono solo chi le pratica, ma poi dividono da tutti gli altri.

Vien quindi da pensare che i redattori dei vangeli si siano indotti ad associare la violazione del sabato alle guarigioni miracolose proprio perché avevano divinizzato la figura di Gesù. Cioè al fine di dimostrare ch'era nel suo diritto guarire quando e come gli pareva, l'han fatto agire come “Dio”, non come “uomo”.

Per gli ebrei il sabato era un precetto sacro, strettamente collegato alla fede religiosa. In questo giorno essi dovevano frequentare - ancora oggi lo fanno - ambienti religiosi o compiere azioni religiose, oppure non compiere talune azioni tipiche dei giorni feriali. Ci tengono a far vedere che questo giorno è per loro molto particolare, per cui anche il loro modo di viverlo deve essere diverso da quello degli altri giorni. E vogliono che questo loro atteggiamento venga notato dai non-ebrei, cioè dai pagani, affinché questi capiscano che non possono chiedere loro di trasgredirlo in alcuna maniera.

Tuttavia Gesù lo trasgrediva in quanto ateo, non perché sapeva d'essere “Figlio di Dio”. Anzi, considerando che il sabato era un precetto religioso, se davvero egli fosse stato un soggetto “teologico”, avrebbe avuto una ragione in più per rispettarlo.

La Chiesa primitiva però ha fatto un altro ragionamento. Poiché i Giudei, legati al sabato, non hanno riconosciuto il Cristo come loro sacerdote, allora il sabato va sostituito con la domenica, giorno della sua resurrezione. Nei vangeli, quindi, egli compie guarigioni miracolose di sabato perché agisce come se per lui fosse più importante la domenica, il giorno dell'eucarestia, cioè del memoriale del suo estremo e supremo sacrificio.

Non era possibile per i redattori giustificare altrimenti la violazione del sabato. Stando però a Mc 2,23 ss. si può dedurre ch'egli, insieme ai suoi discepoli, violasse la regola del sabato a prescindere dall'esigenza di compiere delle guarigioni. A suo giudizio doveva essere semplicemente il bisogno a giustificare determinati comportamenti.

Certo è che, a fronte di una fallita insurrezione antiromana, che si è cercato di giustificare accampando fantasiose motivazioni religiose (di cui la principale era quella di considerare la croce come strumento privilegiato per riconciliare Dio con l'umanità), sarebbe stato difficile per la Chiesa primitiva associare la violazione del sabato a una semplice affermazione etica dei valori umani. Gli ebrei che avessero voluto convertirsi al cristianesimo non l'avrebbero considerata sufficiente. Tant'è che anche dopo la morte di Cristo gli ebreo-cristiani, guidati da Giacomo il Giusto, continuavano a frequentare il Tempio, a seguire le regole dietetiche, a pretendere la circoncisione, ecc.65

L'ateismo del Cristo avrebbe potuto avere un certo successo solo a condizione che l'insurrezione fosse risultata vittoriosa. In un ambiente come quello israelitico una sconfitta politica avrebbe comportato facilmente il trionfo assoluto della religione su qualunque rivendicazione etica. Persino una qualunque vittoria politica doveva sempre avere un solido riferimento alla religione. Oggi, laici come siamo, l'avremmo definito un popolo chiaramente “fanatico” o “fondamentalista”.

Che questo trionfo della religione sia ben visibile anche nella primitiva comunità cristiana è attestato, qui, dalla coincidenza che si pone tra malattia e colpa. A Gesù il redattore della lunga pericope fa dire una frase sconcertante: “Ecco, tu sei guarito; non peccare più, ché non ti accada di peggio” (5,14). Ed era infermo (praticamente allettato) da ben 38 anni (v. 5)!

Che senso può aver avuto dire a un malato del genere che la sua condizione dipendeva da qualcosa ch'egli aveva fatto nel passato? Queste cose le dicevano i Giudei: basta leggersi il libro di Giobbe. Per loro era impossibile, data l'esistenza di un Dio giusto giudice, che un uomo dovesse soffrire pene terribili senza una qualche motivazione morale o religiosa. Se non era stato proprio il malato a fare qualcosa di immorale, dovevano essere stati i suoi parenti o qualche lontano antenato. Accettare l'idea di caso imprevedibile o di destino inspiegabile o d'improvvisa sfortuna sarebbe stato come fare professione di paganesimo.

La frase di Gesù resta quindi inspiegabile, anche perché lui stesso dirà, davanti al cieco-nato del cap. 9, che “né lui ha peccato né i suoi genitori; ma è così affinché le opere di Dio siano manifestate in lui” (v. 3). Il che, tradotto laicamente, voleva dire: “È nato cieco per mettere alla prova l'abilità degli uomini a farlo vedere”. Oggi ovviamente avremmo fatto un discorso più scientifico per spiegare la non-vedenza cronica, e ci vantiamo di usare la scienza proprio per superare ostacoli che, a prima vista, ci paiono insormontabili.

Ma nella pericope del paralitico di Bethesda vi è ancora un'altra stranezza assai poco spiegabile. Al v. 6 è scritto: “Gesù, vedutolo che giaceva [nel suo lettuccio] e sapendo che già da lungo tempo stava così, gli disse: Vuoi guarire?”. Che cos'altro poteva volere quell'infermo? Perché una domanda così banale, che rasenta la presa in giro? E perché quello risponde in maniera così vittimistica? “Signore, non ho nessuno che, quando l'acqua è mossa, mi mette nella vasca [terapeutica], e mentre ci vengo io, un altro discende prima di me” (v. 7).

Sembra, questa, una denuncia dell'indifferenza o dell'egoismo dei Giudei. Possibile che in 38 anni nessuno l'avesse aiutato? Possibile ch'egli non avesse alcun parente o amico? Viene quasi da pensare ch'egli, in realtà, non volesse guarire, ma solo fare la vittima del sistema, dell'ingiustizia sociale, quella con cui poteva giustificare la colpa o comunque la causa che l'aveva portato alla paralisi.

Se ci si avventura in considerazioni psicologiche di tal fatta, non se ne esce più. Meglio pensare che il racconto sia stato completamente inventato, e che i redattori-manipolatori abbiano voluto far vedere che non solo Gesù era assolutamente padrone del sabato in quanto di natura divina, ma anche che, di fronte a lui, ogni uomo è colpevole di qualcosa, e che, nella fattispecie del racconto, quei Giudei che volevano perseguirlo per questa guarigione miracolosa compiuta di sabato, inimmaginabile per qualunque altro terapeuta, sono i più colpevoli di tutti.

Si noti, en passant, che la colpevolezza di quell'infermo è confermata dal fatto che, dopo aver ottenuto la guarigione, va a riferire ai Giudei ch'era stato proprio Gesù a dargliela, ben sapendo che la loro reazione sarebbe stata molto negativa. Avrebbe potuto risparmiarsi di fare il delatore, soprattutto di fronte a una guarigione di così grande portata per la sua vita. Anche questo - almeno per come viene impostato - sembra essere un racconto profondamente antisemitico.

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6) L'ateismo mistificato del Cristo

I

La lunga pericope riguardante Gesù che dichiara la sua uguaglianza col Padre (5,17-47) è tutta inventata e non meriterebbe d'essere presa in considerazione. Salvo che per un aspetto.

Si noti anzitutto come essa venga posta subito dopo la trasgressione del sabato. Si è già detto che tale violazione, dopo la sconfitta politica del movimento nazareno, non poteva essere connessa a motivazioni semplicemente etiche o umane; ne occorrevano altre di tipo religioso e sovrumane, altrimenti sarebbe stata poco spiegabile. Gesù - stando ai redattori - violava il sabato non tanto in quanto uomo libero da vincoli precostituiti, in conformità alle situazioni di bisogno che di volta in volta incontrava; ma proprio perché di “natura divina”, cioè perché padrone assoluto di ogni cosa, incluso ovviamente il precetto del sabato. Di qui il fatto che il suo messaggio volesse apparire più “spirituale” di quello giudaico, preoccupato, quest'ultimo, di legare la perfezione morale al rispetto scrupoloso di riti, precetti e formule religiose.

Tuttavia, nella pericope in oggetto vi è qualcosa che potrebbe essere interpretato in maniera difforme da come fanno generalmente gli evangelisti e gli esegeti confessionali.66 Viene detto al v. 5,18: “I Giudei cercavano di ucciderlo perché non soltanto violava il sabato, ma anche perché chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”.

Bisogna ammettere che il discorso è complesso, per cui cercheremo di svolgerlo gradualmente. Partiamo anzitutto dal presupposto che Gesù non si è mai dichiarato né “figlio di Davide” (in quanto il titolo politico-messianico prevedeva un nazionalismo di tipo teocratico) né “Figlio di Dio”, ma al massimo poteva dichiararsi “figlio dell'uomo”, un titolo già usato dal profeta Daniele (7,13); l'attributo religioso relativo alla figliolanza divina, gli è stato applicato, in senso esclusivo (in quanto solo lui poteva esserlo), da Paolo di Tarso. Infatti, tutta la pericope risente della teologia paolina, e probabilmente sono stati questi inserimenti tardivi a permettere che l'originario vangelo giovanneo potesse essere preso in considerazione, altrimenti l'avrebbero censurato del tutto.

Ora, un uomo che pretende di violare il sabato in quanto uomo, agli occhi degli ebrei (e soprattutto dei Giudei) appariva come un eretico, una persona blasfema, una specie di miscredente. Poteva essere anche gravemente sanzionato o punito o comunque tenuto ai margini della società, escluso dalle sinagoghe e soprattutto dal Tempio, particolarmente se fosse stato un intellettuale.

In questo vangelo i redattori fanno dire a Gesù ch'egli violava il sabato in quanto “Figlio di Dio”. Per i Giudei un titolo del genere, usato in maniera letterale e in via esclusiva, era pari a una bestemmia. Era come equipararsi alla divinità. Cosa fanno i redattori cristiani per evitare un'accusa del genere? La loro preoccupazione è stata quella di trovare una risposta convincente all'accusa di ateismo formulata dai Giudei. L'hanno trovata facendo dire a Gesù d'essere inferiore al Padre: “il Figlio non può da se stesso far cosa alcuna, se non la vede fare dal Padre” (5,19). E più avanti: “Io non posso far nulla da me stesso; giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (5,30).67

In tale maniera i cristiani proponevano un compromesso agli ebrei: si sarebbe continuato a credere in Dio, ma considerando Gesù superiore a tutti i Padri d'Israele, a tutti i suoi messia, profeti e sacerdoti. Un compromesso teologico dopo la sconfitta politica del movimento nazareno e soprattutto dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera delle legioni romane. Un compromesso che avrebbe reintegrato religiosamente il mondo ebraico, previa un'ammissione di colpa per aver misconosciuto non tanto chi poteva liberarli dall'oppressione straniera, quanto piuttosto chi si poneva come un redentore universale di una umanità straziata irreparabilmente dal peccato originale; un redentore inviato da Dio per perdonare l'umanità, che altrimenti si sarebbe sentita maledetta, abbandonata dal suo Creatore. Il sacrificio cruento del Figlio serviva appunto a riconciliare l'umanità col Padreterno.

Un'ultima cosa sul fatto che la volontà di uccidere Gesù si manifesta già a partire da Gv 5,18, cioè praticamente subito dopo l'inizio della sua attività politica. Secondo i redattori-falsificatori sembra che tale volontà sia dipesa da una irriducibile incompatibilità tra lui e i Giudei, e non tanto dalla decisione di voler epurare il Tempio dalla corrotta classe sacerdotale, collusa coi Romani (argomento, questo, su cui Gesù avrebbe facilmente trovato non pochi seguaci in tutta la Palestina).

Un esegeta confessionale, se davvero fosse esistita una incompatibilità di fondo tra Gesù e i Giudei, dovrebbe per forza chiedersi che senso abbia parlare di “incarnazione” quando si poteva tranquillamente prevedere che coi Giudei sarebbe stata impossibile una qualunque intesa. Non sarebbe stato meglio “incarnarsi” presso un'altra popolazione soggetta ugualmente al dominio romano? Perché non puntare esclusivamente sui Galilei o sui Samaritani o sugli Idumei, o addirittura su una popolazione pagana? Si può davvero pensare, misticamente, che l'incarnazione doveva servire per dimostrare che il primato storico-politico di Israele andava superato a favore dei pagani? Non è questo un modo antisemitico di affrontare le cose?

Può un esegeta confessionale arrivare a capire che Gesù era un giudeo che voleva anzitutto la liberazione politico-nazionale della Giudea, con l'apporto decisivo dei Giudei, oltre che dei Galilei, dei Samaritani, ecc.? Può arrivare a capire che i Giudei avevano tutte le carte in regola per vincere l'imperialismo romano in Palestina, e che, sino all'ultimo momento, erano sicuri che ce l'avrebbero fatta?

Dopodiché sarebbe bello se lo stesso esegeta arrivasse a chiedersi: lo volevano uccidere solo per motivi politici o anche ideologici? Se l'odio ideologico da parte dei Giudei era irriducibile (in quanto p.es. Cristo aveva manifestato il proprio ateismo), perché egli non ha provato a fare l'insurrezione solo coi Galilei, stringendo alleanze coi Samaritani o gli Idumei? Perché cercare a tutti i costi un'intesa coi Giudei? Voleva per forza rischiare di morire, oppure pensava che questa intesa andava considerata strategica ai fini del successo della liberazione nazionale? E che senza di questa forse si sarebbe potuto vincere lo scontro coi sadducei, ma di sicuro non contro i Romani? Per caso, non è che i redattori-falsificatori han voluto porre come prioritario lo scontro ideologico tra Gesù e i Giudei proprio perché han voluto censurare la finalità politica del movimento nazareno?

Chiunque abbia un progetto insurrezionale a livello nazionale non può non sapere che la ricerca di intese e alleanze politiche è decisamente da preferire agli scontri meramente ideologici, che il più delle volte risultano controproducenti. Se Gesù sapeva che sul piano ideologico avrebbe avuto poche possibilità d'intendersi coi Giudei, per quale motivo, dopo i primi tentativi di linciaggio, ha insistito così tanto su questa strada, come appare nel IV vangelo? Ciò non lo rendeva forse simile a un folle autolesionista? Non sono forse i fanatici o gli invasati che esasperano a tal punto gli interlocutori da indurli a compiere gesti estremi?68

II

Facciamo ora un'altra riflessione, aprendo un'ampia parentesi. Chiediamoci: per poter dire che un uomo è sano di mente o di idee democratiche o di intenzioni virtuose, è sufficiente sentirlo sostenere di non voler fare la propria volontà ma quella di “suo” Padre, quando nessuno è in grado di vedere o di interagire con questo “Padre”? Quali garanzie può offrire una persona del genere relativamente alla esplicita dichiarazione di non voler fare la “propria volontà”? Non era forse giusto chiedere a Gesù un “segno particolare” che giustificasse una così alta e nobile pretesa? Ha senso che un individuo singolo, sulla base della propria dichiarata “figliolanza divina”, pretenda di sostituirsi a tradizioni religiose consolidate nel tempo, che fanno capo a una casta sacerdotale, al sommo sacerdote e alla istituzione del Tempio? Se davvero il Cristo rappresentato dai vangeli fosse stato una persona reale, non avrebbero forse avuto ragione gli ebrei a ostacolarlo in tutte le maniere?

Paradossalmente gli stessi pagani, avvezzi al politeismo, a fronte di una pretesa “figliolanza divina”, intesa in via esclusiva, sarebbero stati legittimati a provare sentimenti di fastidio, dovuti a quella che per loro sarebbe parsa come una insopportabile supponenza. Non a caso le autorità romane nutrirono per molto tempo sospetti di inaffidabilità nei confronti dei cristiani. Al mondo pagano il cristianesimo appariva come una pura e semplice variante dell'ebraismo, chiuso e settario come quest'ultimo. Anche se non avesse avuto un motivo politico per eliminare Gesù, Pilato ne avrebbe potuto avere uno di tipo religioso, esattamente come potevano averlo gli ebrei, cioè un motivo che andava considerato molto importante, in quanto “indirettamente politico”, essendo la religione funzionale al sistema, sia per la cultura romana che per quella ebraica.

Dunque chiediamoci: non sarebbe stato sufficiente, per il Cristo, sostenere, sul piano religioso, che la sua idea di “Padre” voleva porsi in maniera diversa da quella ebraica di “Jahvè”, senza pretendere che gli ebrei credessero in una “esclusiva figliolanza divina”? Se si fosse limitato a presentare una concezione di Dio più universale, più tollerante, più umana, più misericordiosa, ecc., avrebbe incontrato un'opposizione così radicale?

Il fatto è, purtroppo, che la Chiesa primitiva ha avuto bisogno di associare tale nuova concezione religiosa della realtà e della divinità a una pretesa e unilaterale figliolanza divina proprio perché essa si poneva, sin dal momento del tradimento del messaggio politico del Cristo, in maniera antisemitica e non voleva realizzare col giudaismo alcun compromesso alla pari: ciò che chiedeva a quest'ultimo era soltanto una completa sottomissione alle nuove idee religiose, che risentivano di marcati influssi ellenistici.69

Quando i vangeli furono messi per iscritto, la rottura col giudaismo si era consumata da tempo. La fine stessa di Israele ad opera dei Romani veniva vista come una giusta punizione divina per non aver accettato il suddetto compromesso religioso, quello con la teologia petro-paolina. Il cristianesimo, politicamente, era già colluso col potere romano in funzione anti-giudaica. Non a caso Paolo di Tarso, perseguitato dagli ebrei, si avvarrà della propria cittadinanza romana per farsi giudicare da un tribunale dell'impero, piuttosto che continuare il confronto col mondo ebraico. Paolo appariva un sovversivo nei confronti dei Giudei, ma in realtà si limitava a predicare soltanto una variante della loro religione, una variante che le autorità romane, dopo alcuni secoli, riusciranno finalmente a capire come poteva essere strumentalizzata per puntellare meglio l'idea di “impero”. Lo capiranno soltanto quando accetteranno l'idea che la Chiesa poteva porsi come un potere parallelo a quello dell'imperatore, un potere istituzionale a volte sottomesso e a volte no. Chiusa la parentesi.70

III

Torniamo ora al discorso iniziale e chiediamoci, questa volta, come nella realtà (quella che i vangeli censurano o mistificano) saranno andate le cose. Noi infatti non possiamo pensare che Gesù parlasse ai suoi interlocutori come una “divinità”, cioè come uno che deve giustificare teologicamente una sconfitta politica irreversibile. Egli parlava come un uomo intenzionato a compiere un'insurrezione armata contro l'occupante straniero e contro i suoi collaborazionisti interni. Una persona che viola il sabato, dandosi delle motivazioni etiche, non religiose, sarebbe apparso ugualmente ateo agli occhi dei Giudei, ma non secondo le motivazioni dei redattori cristiani.

Se un uomo dichiara di sentirsi “padrone” anche del sabato, che è un precetto religioso antichissimo, strettamente connesso all'identità divina, in quanto persino Jahvè, al momento della creazione, “fece sabato”, cioè si riposò dalla fatica appena compiuta; se un credente non rispetta un precetto del genere (che è fondamentale nella legge mosaica), non può qualificarsi come “ebreo”, non può appartenere ad alcuna stirpe ebraica, non può frequentare ambienti ebraici, è oggetto di grave scandalo per i propri connazionali, e quella volta indeboliva la resistenza contro Roma. È una persona, soprattutto se intellettuale, molto pericolosa, che va eliminata, in un modo o nell'altro.

Ora, chiunque si rende facilmente conto che se un uomo, nel mondo ebraico, si dichiara “padrone del sabato”, si fa inevitabilmente “uguale a Dio”, ma se si fa “uguale a Dio”, è evidente che, per lui, Dio non esiste. Se un uomo come Gesù pretendeva di violare il sabato sulla base dei bisogni che di volta in volta incontrava, allora ogni uomo avrebbe potuto farlo. Ogni uomo quindi avrebbe potuto equipararsi a Dio. Dio non esiste proprio perché ogni essere umano, potenzialmente, lo è. Le differenze tra giudeo, galileo, samaritano, idumeo ecc. crollavano irrimediabilmente. Persino quelle tra ebreo e pagano.

Dunque se ogni uomo è Dio di se stesso, le differenze dove stanno? Ovviamente non nella propria origine divina o naturale, quanto piuttosto nel modo di viverla. La differenza fondamentale stava nell'impedimento che alcune popolazioni e classi sociali ponevano ad altre popolazioni e classi sociali di sentirsi libere. La vera differenza stava nell'esercizio della libertà.

Poteva il movimento nazareno limitarsi ad accettare questa verità dopo la sconfitta politica del Cristo? Sì, poteva farlo, ma non l'ha fatto. Ha preferito limitarsi a chiarire la differenza tra cristianesimo ed ebraismo, trasformando un messaggio politico in un messaggio religioso; dopodiché ha chiesto al mondo romano di essere accettato come movimento esclusivamente religioso, che non fa politica, anche se, in campo religioso pretendeva un'autonomia che il potere politico romano, abituato a strumentalizzare la religione pagana, non era disposto a concedere, e non lo sarà fino a Costantino.

La seconda parte della pericope in oggetto, quella che va dal v. 31 al v. 47, è molto meno disposta al compromesso col mondo ebraico; anzi, dà per scontato che gli ebrei non siano in grado di convertirsi al cristianesimo, per cui vengono condannati senza appello. Gesù infatti afferma di sapere che negli ebrei “non c'è l'amore di Dio” (v. 42); essi ritengono Mosè superiore a lui, quando sarà proprio Mosè “ad accusarli davanti al Padre” (v. 45). L'antisemitismo è netto. Cioè se il rapporto tra cristianesimo ed ebraismo viene posto esclusivamente sul terreno religioso, è impossibile evitare di cadere nell'antisemitismo, proprio perché il cristianesimo si considera, per definizione, un superamento teologico dell'ebraismo. L'ebraismo viene accettato solo nella misura in cui si avvicina alle tesi teologiche del cristianesimo. Oggi, p.es., gli esegeti confessionali, siano essi favorevoli al cristianesimo o all'ebraismo, tendono a sottolineare l'ebraicità del Cristo, ma solo perché la si circoscrive, in modi ovviamente diversi e, a volte naturalmente opposti, in un ambito meramente religioso.

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7) Il cosiddetto “miracolo dei pani”

I

Se si dovesse dar retta a Giovanni, bisognerebbe ammettere che Gesù in Galilea non ha fatto alcun miracolo, dando ovviamente per scontato che quelli di Cana e del figlio di Cuza siano stati inseriti successivamente. E bisognerebbe anche dire che quelli compiuti in Giudea hanno un tono troppo teologico per essere considerati veri. Persino i tanti miracoli descritti nel vangelo di Marco appaiono meno mistici, meno intenzionati a dimostrare la divinità del Cristo.

E non possiamo neppure dire che, siccome l'apostolo Giovanni era un giudeo, non era in grado di raccontare tutto quello che Gesù fece in Galilea; non possiamo dirlo proprio perché i fratelli Zebedeo seguirono il loro maestro dall'inizio alla fine, ovunque egli andasse; lo stesso protovangelo li qualifica come pescatori del lago di Genezaret.

Tuttavia, quando si legge il racconto dei pani moltiplicati si resta un po' sconcertati. Infatti, alla samaritana, presso il pozzo di Giacobbe, Gesù aveva detto che “la salvezza viene dai Giudei” (4,22), non dai Samaritani, che “adorano [pregano, venerano] quel che non conoscono”. Ma qui, in Galilea, è difficile dire che la salvezza viene dai Giudei. Come avevano reagito i Giudei di fronte alla prima insurrezione, quella dell'epurazione del Tempio? Molto male. Troppa indifferenza, troppa passività. I Galilei invece erano rimasti entusiasti della sua predicazione e avevano intenzione di farglielo capire chiaramente.

Anche il racconto dei pani è stato profondamente manomesso (a dir il vero tutto il cap. 6 è il risultato di più fonti e tradizioni). Le cose più realistiche son forse tre: 1) il fatto che la festività pasquale fosse vicina e che ci si trovasse presso il lago di Tiberiade, ai piedi di un promontorio; 2) il fatto che Gesù e gli apostoli fossero in presenza di un numero considerevole di seguaci (il testo parla di 5000 uomini71); 3) il fatto che volessero farlo diventare re e condurlo a Gerusalemme per compiere l'insurrezione nazionale.

Ora, che cos'è che i redattori non possono dire? Sicuramente che quelle folle volevano farlo diventare re per motivi politici. Essi quindi devono per forza sostituire detti motivi con altri di tipo teologico. Nei vangeli la teologia viene sempre usata contro la politica; in tal senso tutti i redattori rifiutano anche la commistione ebraica di teologia e politica, poiché ciò non li farebbe uscire dalla rivendicazione giudaica di una identità nazionale. Se si elimina la politica in sé, si fa del messaggio teologico cristiano un qualcosa di “universale”; ed è evidente che un messaggio universale, per essere più credibile di quello ebraico, deve contenere aspetti spirituali più profondi, più mistici. E di questa svolta s'incaricherà il fariseo Paolo di Tarso.

Dunque, come può essere presentata la folla che segue e ascolta Gesù presso il mar di Galilea? Deve essere presentata in maniera negativa, al punto da indurre Gesù a nascondersi per non esaudire le sue richieste. Infatti, la folla “lo seguiva perché vedeva i miracoli ch'egli faceva sugli infermi” (6,2). Ma allora perché lo vuole far diventare re? Appunto perché si era accorta del prodigio dei pani e dei pesci moltiplicati per tutti. La teologia infatti da un lato si sovrappone alla politica, mentre dall'altro si serve dei miracoli per giustificare se stessa.

Ma perché Gesù avrebbe fatto un prodigio di questo genere, sapendo benissimo che non sarebbe potuto passare inosservato? Cosa risponde il redattore che manipola il vangelo? Per metterli alla prova. La folla supera la prova? No, proprio perché essa è istintiva, agisce d'impulso. Allora la prova a chi è servita? È servita agli apostoli, che, nella fattispecie, sono stati rappresentati da Filippo e Andrea, nativi della Galilea e non sufficientemente in grado di capire le finezze teologiche di un giudeo come Gesù. Costoro sanno di non poter far nulla per quei 5000 seguaci e postulanti, ma sanno anche che a Gesù tutto è possibile. E così i redattori s'inventano il miracolo.

Poi, all'interno dello stesso miracolo s'inventano una specie di istituzione dell'eucarestia: Gesù, infatti, “prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì” (6,11). Per i redattori è stata una tentazione troppo forte: là dove si parla di “pane”, non si può non associarlo alla “comunione eucaristica”.

Cos'è stato censurato con questi trucchi teologici? Semplicemente il fatto che per Gesù compiere un'insurrezione armata contro Roma, senza l'aiuto dei Giudei, sarebbe stato un avventurismo imperdonabile, che li avrebbe portati a una sicura sconfitta. Una cosa, infatti, era vincere la guarnigione romana presente a Gerusalemme o immobilizzare quella stanziata a Cesarea Marittima, ove risiedeva il procuratore romano72; un'altra invece era resistere alla inevitabile ritorsione da parte delle legioni che da Roma sarebbero state inviate.73

Gesù “si ritirò di nuovo sul monte, tutto solo” (6,15), per evitare ogni forma di sterile avventurismo.74 I redattori invece l'han fatto passare per uno che non aveva saputo calcolare in anticipo la reazione entusiastica dei 5000 uomini alla vista di quel prodigio spettacolare. Anche se poi si serviranno di tale reazione istintiva per rimarcare la grande differenza tra il Gesù “spiritualista” e la folla “materialista”.

II

Che poi i redattori, in un secondo momento, abbiano fatto camminare Gesù sull'acqua del lago, si spiega abbastanza facilmente. Dovendo rinunciare all'insurrezione armata che i Galilei avrebbero voluto, gli apostoli erano rimasti molto delusi, anche perché dovevano aver contribuito non poco a organizzare quel grande evento presso il lago di Tiberiade. Non erano cose che si vedevano tutti i giorni. Loro stessi si erano esposti, avevano fatto delle promesse, suscitato delle speranze...

Ora, di colpo, lui aveva mandato tutto all'aria. Come possono i redattori consolare la tristezza degli apostoli? Facendo compiere a Gesù qualcosa di non meno spettacolare del prodigio appena compiuto, qualcosa che li lasciasse senza parole, ma che li facilitasse nel capire il motivo per cui lui aveva rifiutato la candidatura al trono. Infatti, se uno, in grado di vincere tranquillamente la forza di gravità, camminando sulle acque, rifiuta la sovranità regale su Israele, significa che ha in mente qualcosa di ancora più grande, o comunque ha in mente una strategia operativa che al momento solo lui può conoscere.

Un racconto come questo spiega perché, quando si definiscono i vangeli dei racconti favolistici, non si è molto lontani dalla verità. Purtroppo però essi non sono esattamente delle fiabe, come quelle che tutti noi conosciamo. Essi sono piuttosto delle falsificazioni, anzi, delle mistificazioni, in quanto usano racconti surreali per confondere delle cose realmente accadute, per ingarbugliare una matassa in maniera tale che non si possa più ritrovare l'inizio del filo.

III

Consolati misticamente gli apostoli, ora ai redattori non resta che trovare il modo di spiegare alla folla di prima il motivo per cui Gesù ha rifiutato di diventare re; e anche qui essi devono dar fondo a tutta la loro immaginazione teologica. I vangeli non sono opere di sprovveduti o di redattori con poca cultura, ma di sapienti mistificatori, nella cui falsità ancora oggi, dopo duemila anni, milioni e milioni di persone credono ciecamente.

Forse a qualcuno potrà apparire stupefacente che siano così tante le persone che possano ritenere veri dei fatti o dei dialoghi del tutto inverosimili, ma non bisogna dimenticare che il cristianesimo ha rappresentato, nei confronti sia dell'ebraismo che del paganesimo, una grandissima illusione, che non permetteva, proprio per la sua intrinseca forza suggestiva, d'interpretare i vangeli in maniera libera, autonoma.

La Chiesa è un'istituzione di potere, gerarchica, vincolante, piena di dogmi: non è possibile interpretare “criticamente” i vangeli senza prima essersi liberati di questo fardello. Se non si esce dall'angusto perimetro della originaria falsificazione dei fatti, una qualunque esegesi critica dei vangeli resterà sempre “confessionale”.

IV

Che i dialoghi tra Gesù e la folla siano surreali lo comprende chiunque li legga in maniera distaccata, cioè senza dare per scontato che Gesù sia davvero “il Figlio di Dio”, autorizzato a parlare come gli pareva, non disposto a scendere a compromessi con gente che non aveva intenzione di credergli e di seguirlo. Anche quello che andiamo a esaminare ha tutta l'aria d'essere un dialogo tra sordi. Si arriva al punto di chiedersi se davvero i redattori fossero così abili nel mistificare le cose, tant'è che non pochi esegeti hanno sottolineato che la folla dei vv. 6,26-27 non può essere la stessa dei vv. 6,30-31, poiché questa chiede a Gesù un segno simile alla manna veterotestamentaria caduta dal cielo (che avrebbe anche potuto essere interpretata come un fenomeno naturale), quando in realtà aveva già ottenuto ben di più coi pani miracolati, compiuti da un uomo in carne ed ossa.

Il fatto è che i vangeli non servivano per convincere qualcuno a diventare cristiano; lo si diventava per altre ragioni: bisogno di assistenza, ammirazione per il coraggio dimostrato di fronte alle persecuzioni, esigenze di socializzazione, necessità di credere in una salvezza ultraterrena, opposizione etico-religiosa al sistema dominante, ecc. Una volta che la persona finiva nella “rete” della comunità, i vangeli (come tutto il Nuovo Testamento e le opere dei Padri) servivano soltanto per confermare una fede che già si possedeva. Chi li leggeva non doveva giungere alla conclusione che Gesù era davvero il “Figlio di Dio”; lo dava per scontato: era la premessa ermeneutica da cui doveva partire.

Rebus sic stantibus, un credente del genere non avrebbe potuto mettere in discussione nulla di quanto leggeva. Ai suoi occhi tutto era effettivamente accaduto così come veniva raccontato. Un atteggiamento del genere lo si riscontra in tutte le religioni. Chi mette in discussione i testi sacri è perché ha già smesso di credere nella Chiesa.

Tuttavia oggi chi giunge su posizioni laicistiche, raramente si preoccupa di scoprire dove stiano le falsificazioni nei vangeli. Preferisce pensare ch'essi siano dei testi del tutto inutili per comprendere l'epoca contemporanea; e che, se anche è esistita una persona chiamata Gesù, non può certo essere quella descritta dai vangeli. E siccome non esistono altre fonti attendibili, è impossibile scoprire la verità dei fatti all'interno delle loro mille falsificazioni. In questa maniera i vangeli continuano a essere interpretati soltanto dai credenti di varie confessioni e tendenze ermeneutiche, i quali si limitano a discutere tra loro, mentre i non-credenti s'interessano di tutt'altri argomenti.

V

Vediamo dunque il dialogo tra Gesù e la folla che assistette al presunto miracolo dei pani “moltiplicati”. I redattori han voluto porre una differenza netta tra la “manna del deserto”, al tempo di Mosè, e il “pane di vita” rappresentato da Gesù. Dovevano per forza essere originari della Giudea, intenzionati a trovare un'alternativa etico-religiosa all'ebraismo, in rapporto alle tradizioni giudaiche.

L'intento dei redattori è quello di mostrare che la folla credeva in Gesù come “uomo”, non come “Dio”. Lui, infatti, lo dice a chiare lettere: “Mi cercate non perché avete visto dei miracoli [segni], ma perché avete mangiato dei pani e siete stati saziati” (6,26).

È un brutto modo, questo, di presentare le cose, poiché in realtà lo stavano cercando proprio per il miracolo straordinario della moltiplicazione dei pani (stando almeno al racconto falsificato visto prima). Qui i redattori han voluto contrapporre la parola “miracolo” (o “segno” miracoloso) alla soddisfazione della fame ottenuta tramite il pane. Cioè han voluto far capire che se la folla avesse colto il significato religioso del “segno” (miracoloso), avrebbero cercato Gesù non per avere altro pane, ma per credere nella sua identità “divina”.

Il discorso è tutto assurdo - è evidente -, ma ci serve per capire il senso della mistificazione. In pratica i redattori vogliono far credere al lettore che il prodigio dei pani miracolati andava interpretato non per l'effetto che aveva procurato di soddisfare la fame, ma per la causa che l'aveva generato: dimostrare che prodigi del genere solo il Figlio di Dio poteva compierli.

Gli autori però sono antisemiti e vogliono cercare di far capire al lettore che non ce l'hanno solo con gli ortodossi Giudei, ma anche con quei Galilei che lo cercavano solo per gli effetti dei suoi prodigi, non per le motivazioni di fondo. Il dialogo è surreale proprio in questo senso, che si cerca di opporre a un'esigenza materialistica un'esigenza spiritualistica. Gli ebrei sarebbero inferiori ai cristiani proprio perché si accontentano del “cibo che perisce” (v. 27), come quello della manna nel deserto (v. 31), e non vogliano accettare il “cibo che dà la vita eterna”, che i redattori identificano nella persona stessa di Gesù.

Il surrealismo sta proprio nel fatto che si censura l'esigenza materialistica espressa dalla folla, che non era affatto quella di soddisfare la fame, ma quella di liberare il paese dall'oppressione romana, per cui la differenza tra l'esigenza di quella folla e quella del Cristo stava unicamente nella strategia politica con cui soddisfare la fame di giustizia e di liberazione nazionale. Nella pericope invece, pur di non parlare di questa problematica, si rovesciano completamente i termini della questione e ci s'inventa una diatriba del tutto inesistente.

È notevole l'antisemitismo di questo dialogo in cui Gesù viene presentato come un Dio dalla scienza infusa, mentre la folla non capisce nulla di quanto lui dice. Si arriva al punto che quando Gesù chiede di credere in lui come mediatore esclusivo tra Dio e gli uomini, la folla, che pur aveva assistito a un miracolo straordinario il pomeriggio precedente, ha il coraggio di chiedergli: “Quale miracolo fai tu perché lo vediamo e ti crediamo?” (v. 30).

Cioè i redattori obbligano la folla a chiedergli un miracolo supplementare col quale egli possa dimostrare d'essere l'unigenito Figlio di Dio! Essi vogliono far vedere che per questi seguaci così “prosaici” non era bastato il prodigio dei pani moltiplicati: ne volevano uno ancora più grande. Infatti chi moltiplica i pani può essere al massimo “il profeta che deve venire nel mondo” (6,14) - come dicevano i Galilei -, non necessariamente è “il Figlio di Dio”.

È tutta qui la controversia tra giudaismo e cristianesimo: una cosa squisitamente teologica, in cui si fa parlare Gesù come in nessun modo la gente avrebbe potuto capirlo. Frasi o espressioni come “io sono il pane della vita”; “sono disceso dal cielo per fare la volontà di colui che mi ha mandato”; “ho il potere di dare la vita eterna, di resuscitare nell'ultimo giorno”; “nessuno può venire a me se non lo attira il Padre”; “solo io ho visto il Padre”; “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue avrà la vita eterna” - sono tutte frasi che Gesù non può aver detto, non solo perché non l'avrebbero capito, ma anche perché non hanno alcun senso. Si pensi solo al fatto che la “vita eterna” viene garantita soltanto a chi “crede”, mentre tutti gli altri son destinati a “morire” o a essere “giudicati” (3,16; 5,24; 6,40.54).

Sono espressioni mistiche elaborate da una teologia paolina portata all'eccesso, che lo stesso Paolo probabilmente non avrebbe condiviso. La giudeofobia è netta, poiché gli ebrei vengono fatti passare per degli increduli senza scampo, assolutamente irriducibili. Addirittura si arriva a dire che la loro “incredulità” è voluta da Dio, sicché essi avrebbe dovuto necessariamente essere rimpiazzati dai cristiani di origine pagana!

In questo dialogo presso la sinagoga di Cafarnao non c'è un solo versetto attendibile. Quindi si può pensare che il dialogo originario sia stato completamente sostituito; e doveva essere stato un dialogo piuttosto acceso, poiché Gesù si sentiva in obbligo di trovare le parole giuste per spiegare loro che un'insurrezione armata contro Roma e la corrotta casta sacerdotale del Tempio non avrebbe potuto essere fatta senza il concorso attivo dei Giudei, proprio di quei Giudei che i Galilei disprezzavano, ritenendoli non sufficientemente combattivi contro Roma e troppo legati a tradizioni obsolete.

Gesù doveva trovare il modo di far capire a quelle folle politicamente agguerrite che stavano sopravvalutando le loro forze o sottovalutando quelle romane e che, per vincere, bisognava allargare i consensi il più possibile, in quanto la rivoluzione doveva essere nazional-popolare, non un semplice atto di forza compiuto da 5000 seguaci che entravano armati a Gerusalemme durante la Pasqua. Questa folla era immatura non perché non credeva in Gesù come “pane di vita”, ma perché non credeva sufficientemente nella democrazia politica, cioè non credeva, in ultima istanza, in se stessa. Pretendeva un re davidico, come nell'antico e glorioso passato d'Israele.

VI

La mistificazione continua anche nel dialogo tra Gesù e gli apostoli, i quali arrivano a dire: “Questo parlare è duro; chi può intenderlo?” (6,60).75

Ora, se si resta all'interno di tale mistificazione, è evidente che gli apostoli, con la loro domanda, si riferiscono all'aspetto altamente mistico delle parole dette da Gesù (cosa impensabile per gli stessi Sinottici). Tuttavia se si esce da questo ambito, risulta non meno evidente ch'essi intendevano riferirsi alla necessità di realizzare un'alleanza coi Giudei, fino a quel momento considerati piuttosto negativamente, anche alla luce della fine ingloriosa che avevano fatto fare al Battista e all'indifferenza con cui avevano assistito all'epurazione del Tempio. Come poteva infatti il profugo Gesù cercare nella sua patria quel consenso che gli avevano recisamente negato? Non stava chiedendo troppo? Era forse un illuso? Aveva senso disperdere il consenso sicuro, già ottenuto in Galilea, per cercarne un altro di così difficile realizzazione?

Gli apostoli erano ovviamente turbati, scandalizzati, depressi. Ma i redattori ne approfittano per rincarare la dose, cioè per far vedere che anche tra loro e Gesù vi erano differenze abissali. “E che sarebbe se vedeste il figlio dell'uomo ascendere dov'era prima?” (6,62), gli fanno dire.

Tutti gli evangelisti, inclusi ovviamente questi redattori, rappresentano Gesù come una sorta di extraterrestre dotato di poteri straordinari, che non vuole però usare, in quanto ha in mente un progetto di salvezza non politico, ma esclusivamente etico-religioso, in cui lui farà la parte della vittima sacrificale, disposta a obbedire a un Dio-padre che ha bisogno dell'olocausto del Figlio per potersi riconciliare col genere umano. La teologia paolina infatti sostiene che il genere umano è stato voluto, in origine, dal Figlio, il quale però, a causa del male compiuto (che con lo schiavismo romano sembra aver raggiunto l'apice), deve ora pagarne le conseguenze. La colpa è entrata nella storia con Adamo ed Eva, e con Cristo è stata definitivamente tolta.

I redattori quindi vogliono far capire che Gesù stava mettendo alla prova la lealtà dei discepoli, chiedendo loro di credere sulla parola circa la divinità ch'egli affermava di possedere. Quindi non stava affatto cercando di verificare il loro senso della democrazia politica. Non a caso sospetta che qualcuno di loro voglia indurlo a compiere delle scelte sbagliate, cioè a prendere decisioni avventuristiche.

Si faccia però attenzione al tipo di mistificazione che è stata messa in atto. I redattori non vogliono far vedere che la controversia tra Gesù e gli apostoli verteva sulla strategia politica da adottare. Quando mostrano che lui comincia a sospettare la possibilità di un tradimento, il lettore non la deve intendere nel senso che qualcuno tra gli apostoli avrebbe potuto indurlo a prendere delle decisioni che andassero al di là delle esigenze della democrazia politica.

I redattori sono dei falsificatori, per cui devono svolgere il discorso in chiave teologica e devono farlo in maniera convincente. Ora, guardando le cose dal punto di vista della mistificazione religiosa, bisognerebbe ammettere che non aveva alcun senso parlare di “tradimento”. Infatti sarebbe bastato, per gli apostoli, smettere di seguirlo, così come avevano fatto alcuni di loro nei confronti del Battista. Che senso ha tradire uno che dice cose che appaiono inaccettabili sotto ogni punto di vista? Generalmente i tradimenti politici avvengono quando si condividono alcune idee, o anche tutte, ma non il modo di realizzarle. Si tradisce per un fine di bene, almeno sulla base delle proprie intenzioni. Non a caso lo si fa restando dentro la propria organizzazione di riferimento, cercando di spostare il consenso verso la propria parte, oppure se ne crea un'altra, con vari seguaci, per realizzare le stesse idee della precedente organizzazione, seguendo ovviamente modalità diverse.

Qui però i redattori presentano le cose in maniera piuttosto curiosa. Vediamo la sequenza dei versetti: “Tra di voi ci sono alcuni che non credono. Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano, e chi era colui che l'avrebbe tradito. Diceva: Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è dato dal Padre. Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Perciò Gesù disse ai Dodici: Volete andarvene anche voi?” (6,64-67).

Salta subito agli occhi come i redattori abbiano tentato di assemblare aspetti politici e aspetti religiosi, cercando di mistificare i primi coi secondi. Quando Gesù dice che “alcuni non credono” sembra riferirsi ai Dodici, in quanto l'intera folla risulta, ad un certo punto, assai poco convinta a seguirlo. Poi però il redattore scrive: “molti dei suoi discepoli si tirarono indietro”. Qui però non si sta riferendo ai Dodici, bensì alla folla anonima dei seguaci, che effettivamente smise di seguirlo, almeno per un certo periodo di tempo. Infatti subito dopo Gesù si rivolge agli apostoli, chiedendo se anche loro vogliono smettere di stare con lui.

I redattori vogliono far vedere che la folla aveva smesso di seguirlo perché Gesù appariva troppo teologico. Infatti essi affermano che nessuno poteva seguire Gesù se il Padre non voleva; e così spariscono di scena, in un colpo solo, ben 5000 seguaci! Restano però gli apostoli, cui Gesù rivolge la fatidica domanda: “Volete andarvene anche voi?”. Al che Pietro risponde, in chiave mistica: “Tu hai parole di vita eterna; e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (6,68-69).

A questo punto però Gesù, soddisfatto di questo misticismo, ribadisce che qualcuno lo tradirà (anzi, sa già che lo farà, anche se non lo vuol dire): “Non ho io scelto voi Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!” (6,70). In che senso? Stando all'interpretazione mistica il senso può essere uno solo: Giuda rappresenta l'istanza politica che vuole sovrapporsi a quella teologica, cioè egli rappresenta il lato giudaico più tradizionale, che vuole opporsi a quello cristiano.

È molto strano che nel IV vangelo appaiano frasi del genere. L'apostolo Giovanni, dopo la constatazione della tomba vuota, era diventato un avversario di Pietro, che l'aveva interpretata come “resurrezione”, cioè in maniera esclusivamente mistica. Se questa pericope fosse stata davvero scritta da Giovanni, non avrebbe attribuito a Giuda l'istanza politica ebraica contro quella teologica del Cristo, ma l'avrebbe attribuita allo stesso Pietro, come appare in maniera molto evidente nel vangelo marciano. È a lui e non a Giuda che Gesù si rivolge dicendo: “Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini” (Mc 8,33).

Dunque che cosa c'entra Giuda in tale pericope? È difficile dirlo. Egli proveniva sicuramente dalla Giudea, probabilmente era uscito dall'ala farisaica progressista; non era uno zelota integralista, come altri apostoli. È difficile pensare che in quel frangente storico, in cui la defezione galilaica era stata di massa, Giuda avesse pensato di tradirlo in nome del proprio estremismo. Semmai poteva aver trovato una conferma alle proprie supposizioni, e cioè che senza il consenso del partito farisaico - il più popolare di tutti quelli giudaici -, sarebbe stato molto difficile avere la meglio sui Romani.76

Gesù quindi in quel momento può aver chiesto ai Dodici se volevano rinunciare all'insurrezione, ma non può aver detto che qualcuno aveva intenzione di tradirlo. Semmai può aver fatto capire, in modo molto chiaro, che senza l'alleanza coi Giudei, lui non avrebbe organizzato alcuna insurrezione nazionale. Di fronte a una prospettiva del genere non aveva senso tradirlo; al massimo lo si poteva abbandonare al suo destino. Non avrebbe avuto alcun senso pensare di tradire una persona che aveva improvvisamente perduto ogni consenso popolare. Semplicemente i redattori han voluto far vedere che gli apostoli non erano di molto superiori a quella folla anonima; e, poiché sono antisemiti, se la sono presa con l'apostolo più giudaico di tutti.

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8) I parenti di Gesù e la festa dei Tabernacoli

L'atteggiamento che i parenti di Gesù hanno nei suoi confronti (7,1-9)77 è completamente diverso da quello descritto nel vangelo di Marco (3,31 ss.), dove infatti temono d'essere coinvolti negativamente nella sua predicazione eversiva, per cui vorrebbero sottrarlo ai suoi seguaci, senza ovviamente riuscirvi, anzi, rischiando d'essere disconosciuti da lui.

Al contrario nel vangelo di Giovanni i suoi fratelli gli dicono chiaramente che uno che si espone pubblicamente come lui, non può limitarsi a predicare in Galilea: deve per forza andare in Giudea, a Gerusalemme.78 Nel primo vangelo i parenti vengono descritti come opportunisti e rinunciatari; qui invece appaiono come degli avventuristi irresponsabili.

Gesù infatti non voleva, in quel momento, andare in Giudea, poiché “i Giudei cercavano d'ucciderlo” (7,1). Un versetto, questo, che la dice lunga sulla sua presunta volontà auto-immolatrice o sulla necessità d'essere sacrificato per il bene dell'umanità.79 La risposta di Gesù è realistica: “Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo, invece, è sempre pronto” (7,6). Il che non voleva dire, come fanno sembrare i redattori, che per lui ancora non era giunto il tempo di morire, ma, al contrario, che non erano ancora maturi i tempi per l'insurrezione nazionale. È facile chiedere a qualcuno di assumersi delle responsabilità pubbliche, senza condividere con lui le conseguenze di tale manifestazione.

Stante le cose in questi termini, il v. 5 non è proprio esatto: “Neppure i suoi fratelli credevano in lui”. In realtà gli credevano, ma in maniera sbagliata. E forse non è neppure esatto dire che non volevano condividere con lui i rischi impliciti in una aperta propaganda politica in Giudea.

Un'altra cosa è poco chiara. A quali “discepoli” si riferiscono i suoi parenti quando affermano: “Parti di qua [Galilea] e va' in Giudea, affinché i tuoi discepoli vedano anch'essi le opere che tu fai” (v. 3)? Da quanto dicono pare evidente ch'egli avesse dei discepoli anche in Giudea: il che, ancora una volta, contraddice il fatto che Gesù avesse iniziato a predicare in Galilea.

I parenti gli avevano forse detto questo per consolarlo della massiccia defezione subita in Galilea dopo aver rifiutato la candidatura al trono d'Israele? Doveva forse mostrare agli ex-seguaci della Galilea che la partita non era ancora chiusa? E che solo lui poteva decidere le condizioni con cui fare l'insurrezione? Oppure i parenti si stanno riferendo ai discepoli ch'egli era già riuscito a ottenere durante l'epurazione del Tempio? In tal caso gli stessi parenti potrebbero essere originari della Giudea. Gli stavano forse dicendo che i discepoli della Giudea avrebbero potuto essere migliori di quelli della Galilea, se solo lui si fosse fatto vedere più spesso?

Fatto sta che Gesù, in un primo momento, decide di non andare alla festa dei Tabernacoli o delle Capanne80; poi però ci ripensa e decide di salire a Gerusalemme “non palesemente, ma come di nascosto” (7,10), dopo che vi erano andati i suoi fratelli. Doveva essere accompagnato almeno da Giovanni, poiché questo racconto non esiste nei Sinottici.

Appena entrati in città, egli si rende conto che lo stavano cercando: “Vi era tra la folla un gran mormorio intorno a lui. Alcuni dicevano: È un uomo per bene! Altri dicevano: No, anzi, svia la gente! Nessuno però parlava di lui apertamente, per paura dei Giudei” (vv. 11-13). Ciò sembra confermare ch'egli avesse dei discepoli anche in Giudea: che fossero Giudei autentici o Galilei trasferitisi nella capitale in occasione della festività, non lo sappiamo. Sappiamo soltanto ch'era già molto popolare, che i pareri su di lui erano discordi, che le autorità gli erano del tutto contrarie e che di questo atteggiamento refrattario, anzi persecutorio, i suoi seguaci avevano paura.

Il fatto quindi ch'egli si sia messo a parlare pubblicamente, nei pressi del Tempio, desta qualche sospetto, anche perché quello che dice appare completamente inventato. Sembra di assistere al solito ritornello mistico: “La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato” (v. 16); “non son venuto da me, ma colui che mi ha mandato è verità, e voi non lo conoscete” (v. 28); “io sono ancora con voi per poco tempo; poi me ne vado da colui che mi ha mandato” (v. 33); “dove io sarò, voi non potete venire” (v. 34). Sembrano le parole di un folle, di un esaltato.

Credere che un uomo abbia mai potuto parlare in questa maniera significa avere un atteggiamento in malafede. Infatti, se anche accettassimo che l'abbia fatto, bisognerebbe quanto meno ammettere che non poteva pretendere d'essere capito. I suoi discorsi andavano ben oltre ogni umana comprensione, tant'è che sono tutti il prodotto di una sofisticata speculazione intellettuale posteriore alla sua morte. Se con questi discorsi - ammesso e non concesso che li facesse - egli pretendeva d'essere accettato sulla fiducia, bisognerebbe, quanto meno, convenire sul fatto che resta impossibile non vedere in essi un atteggiamento di tipo autoritario, assai lontano da quel senso della democrazia politica che, in quanto laici, ci piace attribuirgli. E non possiamo certo sostenere che il suo continuo riferimento a un'entità superiore, il cosiddetto “Dio-padre”, dal quale lui diceva di dipendere, avrebbe potuto rendere i suoi discorsi più vicini alle esigenze della democrazia.

Il Gesù descritto nei vangeli non è molto diverso da quei fanatici che fanno della religione un motivo per creare divisioni a non finire. Peraltro farlo parlare in una maniera così assurda implica, di per sé, una buona dose di antisemitismo, in quanto si dà per scontato che il popolo ebraico, qua talis, non avrebbe potuto capirlo o non era intenzionato a condividere le sue idee.81

Una cosa sensata però viene fatta dire a Gesù: Voi mi volete uccidere perché non rispetto il sabato, ma anche voi non lo rispettate quando in quel giorno vi capita di dover circoncidere i vostri figli. Riassumiamo così i versetti 7,22-23.

Egli tuttavia, parlando della sua violazione del sabato, si riferisce alla guarigione del paralitico fatta la volta precedente.82 In riferimento a questa egli afferma: “Un'opera sola ho fatto e tutti ve ne meravigliate” (v. 21). Un'opera sola? Ma allora quanto diceva Nicodemo era falso: “Nessuno può fare questi miracoli che tu fai, se Dio non è con lui” (3,2). Ed è falso anche il v. 2,23: “Molti credevano nel suo nome, vedendo i miracoli ch'egli faceva”. Se avessero avuto il computer, forse i redattori non sarebbero caduti in sviste così pacchiane.

Dunque Gesù a Gerusalemme avrebbe fatto solo una guarigione, che magari era psico-somatica, in quanto l'infermo sembrava aver trovato il senso della sua vita proprio nella malattia, che lo faceva sentire una vittima ingiusta del sistema. Quindi nessuna guarigione miracolosa, ma una semplice terapia psicanalitica, con cui il terapeuta aveva messo il malato davanti alle proprie responsabilità. Tuttavia era stata fatta di sabato, e questo era vietato, visto che il malato non era in pericolo di vita.

Tutto ciò per dire che si potrebbe anche accettare il riferimento alla guarigione di quel paralitico, compiuta di sabato, come occasione per contestare l'incoerenza dei Giudei, che non dovrebbero circoncidere in questo giorno, ma che sono costretti a farlo se gli otto giorni previsti, a partire dal momento della nascita, finiscono col cadere proprio in quel giorno festivo. A dir il vero ci saremmo aspettati un chiaro riferimento all'epurazione del Tempio, visto che, a causa di questa, era stato costretto a espatriare in Galilea.

Che Gesù fosse un giudeo, lo dice lui stesso alla gente che lo stava ascoltando e che doveva conoscerlo da tempo, anche se lui aveva smesso di frequentare il loro territorio, almeno per un certo tempo: “Voi certamente mi conoscete e sapete di dove sono” (v. 28). Ciò fa presumere ch'egli si stesse rivolgendo proprio a dei Giudei e non a dei Galilei.83

Il racconto ha - come al solito - un tono fortemente antisemitico. Però contiene aspetti interessanti: le autorità lo lasciano parlare liberamente soltanto fino al punto in cui si convincono (insieme ai farisei) che bisogna mandare delle guardie per arrestarlo (vv. 26 e 32); lui però cerca di sottrarsi alla cattura, confidando nell'appoggio popolare (v. 30); la gente non sa più cosa pensare: “molti credettero in lui” (v. 31), anche se, da quel che dice di così mistico, parrebbe impossibile. Infatti, secondo il redattore la folla che lo ascolta non capisce nulla. Alcuni pensano che sia un vero profeta (v. 40); altri addirittura il messia (v. 41). Ma in questo secondo caso vi era non poco dissenso: molti sostenevano che il messia dovesse discendere dalla dinastia davidica e nascere a Betlemme, mentre lui appare come uno proveniente dalla Galilea.

I farisei sono convinti che il messia possa essere soltanto un giudeo, poiché così - secondo loro - dicono le Scritture, e disprezzano gli ebrei che vivono in Galilea. Se la prendono anche con uno dei loro capi, Nicodemo, che aveva detto di non giudicarlo prima di averlo sentito parlare (v. 51).

Le guardie non hanno il coraggio di catturarlo, poiché temono la folla (vv. 45 s.). E i farisei, pieni di odio a causa della popolarità ch'egli riesce ad ottenere, gridano, rivolgendosi alle guardie del Tempio: “Siete stati sedotti anche voi? Ha qualcuno dei capi e dei farisei creduto in lui? Ma questa gentaglia, che non conosce la legge, è maledetta!” (vv. 47 ss.). Insomma “dalla Galilea non sorge profeta” (v. 52). Eppure Gesù era un giudeo. Pur di volerlo morto, i farisei misconoscevano persino le sue origini, e anche i redattori - influenzati dalla teologia petro-paolina - non hanno potuto essere espliciti come avrebbero voluto.

Difficile non vedere, in tutto questo, una rappresentazione, in miniatura, dei moderni talk show televisivi, in cui i politici, intervistati da giornalisti che amano le discussioni fini a se stesse, se ne dicono di tutti i colori, senza mai riuscire a prendere una decisione comune.

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9) L'adultera e la pena di morte

Il racconto della donna adultera (8,1-11) non c'entra nulla nel contesto dei discorsi visti nel capitolo precedente, i quali, se si togliesse il versetto 7,53, potrebbero tranquillamente continuare col versetto 8,12. L'esegesi confessionale ovviamente non ha dubbi nel ritenerlo canonico e storico, anche se nutre dei dubbi sulla sua autenticità, in quanto la pericope non appare in talune versioni antiche di questo vangelo. Alcuni esegeti hanno sostenuto ch'essa sia stata scritta dall'evangelista Luca, in quanto in alcuni codici appare dopo Lc 21,38 (ma in altri dopo Mc 12,17). La pericope è ignorata dai Padre greci e in occidente si è cominciato a commentarla solo a partire dal IV secolo.

Qui vogliamo comunque proporre una breve interpretazione. Si noti anzitutto come al v. 6 venga detto che volevano avere pretesti per accusare Gesù. Per accusarlo di cosa però non si capisce. Il fatto che qui gli pongano una precisa domanda, relativa alla liceità di comminare la pena di morte in caso di adulterio, lascia pensare che già sapessero ch'egli era contrario. Ora, essere contrari alla pena della sentenza capitale implicava forse la possibilità di una qualche imputazione a suo carico? Anche ammesso che fosse stato accusato d'essere troppo indulgente, questo sarebbe stato sufficiente per incriminarlo di qualcosa? Essere contrari alla lapidazione non implicava essere contrari alla legge mosaica, altrimenti si sarebbe dovuta negare tutta la successiva interpretazione orale di quella legge: gli scribi e i farisei avrebbero dovuto facilmente aspettarsi un'obiezione del genere. Dunque che tipo di risposta si attendevano?

In questo racconto Gesù non pone domande alla donna per cercare di capire il motivo dell'adulterio. Dà per scontato che le motivazioni siano irrilevanti, nel senso che nessuna, secondo lui, sarebbe stata sufficiente a giustificare la pena di morte. Infatti l'obiezione che pone è di tipo filosofico o metafisico. In pratica è come se avesse detto che ogni uomo è colpevole di qualcosa, per cui nessuno è titolato a comminare punizioni così gravi e irreversibili da non lasciare spazio al pentimento.

Qui è molto strano che gli scribi e i farisei, cioè gli accusatori che han colto la donna in flagrante, non abbiano ribattuto a Gesù che c'è colpa e colpa. Non per essere colpevoli di qualcosa - avrebbero potuto dirgli - ci si deve sentire non autorizzati a emettere delle sentenze capitali. E certamente nessuno degli accusatori aveva mai compiuto un reato tale da dover meritare la morte, anche nel caso in cui la sentenza fosse poi stata condonata o commutata in altra pena, altrimenti in quel momento non sarebbe stato lì.

Supponiamo infatti che uno degli accusatori, convinto della propria innocenza, avesse voluto tirare la prima pietra contro quella donna: cosa avrebbe risposto Gesù? I redattori sarebbero stati costretti a farlo passare per una divinità senza se e senza ma, in grado di sapere perfettamente qual era la colpa dell'accusatore in questione. Invece così non hanno avuto bisogno di farlo; cioè in sostanza Gesù fa capire che davanti a Dio si è tutti colpevoli, per cui nessuno può sentirsi autorizzato in maniera assoluta a emettere sentenze capitali. In pratica Gesù viene sì fatto passare per una divinità, ma senza dirlo esplicitamente. Lui conosce le colpe di tutti, ma evita di pronunciarle. E gli accusatori se ne vanno perché temono che lui le riveli, le metta allo scoperto, quindi danno per scontato che lui sia una divinità.

Per questa ragione il racconto è completamente inventato, anche perché potrebbe portare a un'incredibile paradosso. Si faccia ora attenzione a questo ragionamento. Gesù si rivolge a scribi e farisei, che nei vangeli vengono fatti passare per degli ipocriti, cioè per delle autorità colpevoli per definizione; ma - ci chiediamo - avrebbe potuto dire le stesse parole se gli accusatori fossero stati alcuni suoi seguaci? In altre parole, davvero i cristiani non avrebbero potuto lapidarla? Non avrebbero potuto farlo perché davanti a Dio devono sentirsi colpevoli come i Giudei? Ma allora a che pro diventare cristiani? Se un cristiano pensa di avere la verità in tasca, perché non lapidarla? Forse perché davanti a Dio si è sempre colpevoli di qualcosa? Ma questo anche Giobbe lo diceva! Dunque tra cristiani ed ebrei non vi sarebbe alcuna differenza qualitativa e il Cristo sarebbe morto invano? Quando, nel passato (e in molti paesi ancora oggi), i cristiani applicavano la pena di morte, non lo facevano forse perché si sentivano, più di ogni altro credente, autorizzati a farlo? La Chiesa romana non ha forse abolito definitivamente la pena di morte, come principio giuridico della Legge fondamentale del proprio Stato, soltanto nel 2001?

L'unica parte interessante di questa pericope è il gesto di scrivere per terra. Un'azione pedagogica inventata da dei redattori abituati a vivere quotidianamente in una comunità relativamente ristretta, composta di non molti fedeli. Quando è forte la tensione, in certi momenti, bisogna sdrammatizzare la gravità delle cose, stemperare gli animi, affrontare i problemi non di petto ma aggirandoli, prendendoli alla larga. Qui è la pedagogia che si contrappone al diritto.

Se Gesù avesse voluto sostenere un dibattito con quegli esagitati, forse avrebbero lapidato lui. Il fatto però che si siano arresi così facilmente, senza obiettare alcunché, la dice lunga sulla credibilità di questo racconto. Peraltro, se davvero lei era stata colta in flagrante adulterio, doveva essere punito anche l'amante, come appunto voleva la legge mosaica, che nel comandamento “non commettere adulterio”, non poneva una differenza di genere. Entrambi dovevano essere messi a morte: così in Lv 20,10.

Perché dunque i redattori han fatto chinare Gesù con l'intenzione di scrivere per terra? Per quale motivo non gli hanno fatto avviare alcun dibattito? Quale messaggio pedagogico è sotteso a questo strano comportamento? Gli accusatori pretendevano una risposta immediata, ma si fa reagire Gesù con la diplomazia, fingendo che l'accusa non sia così grave come gliela presentano.

Si noti inoltre che i redattori lo fanno scrivere per terra dopo averlo collocato all'interno del Tempio, intento a istruire una gran folla. Mentre insegnava la sua dottrina come un rabbino, lui era già a sedere (8,2). Invece al v. 6 sembra che gli abbiano fatto le domande mentre era in piedi: infatti viene detto ch'egli, “chinatosi, si mise a scrivere col dito in terra”. Poi, siccome quelli insistevano, si alza (v. 7), pronuncia la frase relativa alle pietre e ai peccati; e poi di nuovo si china (v. 8), rimettendosi a scrivere. Un vero coacervo di posture!

È evidente che lo scrivente non ha alcuna intenzione di far discutere Gesù con quegli interlocutori, dipinti come fanatici, considerati eticamente irrecuperabili, anche se, ad un certo punto, rinunceranno a lapidarla. Gesù infatti sembra avere la meglio proprio perché i redattori lo presentano come uno che sarebbe in grado di smentire qualunque dichiarazione d'innocenza da parte di chicchessia. Questo fa pensare che in realtà nella pericope non esista alcun messaggio davvero pedagogico, ma solo una insopportabile supponenza.

Alla fine Gesù si alza (v. 10), guarda la donna dall'alto, che è ancora seduta per terra, e la congeda chiedendole di non peccare più. Non dice altro, non gli interessano le motivazioni dell'adulterio, non si mette neppure a discutere sulla legge vigente o sulle discriminazioni di genere. Strano, perché di sicuro il marito l'avrebbe ripudiata. Quindi come può dirle di non peccare più? Questa donna doveva farsi una nuova esistenza e chissà dove.

Che tristezza questo racconto! Per far vedere che la comunità cristiana, alle proprie origini, si poneva, in via di principio, contro la pena di morte, cioè contro delle punizioni sproporzionate alla colpa, si ha avuto bisogno di mostrare che Cristo era l'unica persona innocente perché di natura “divina” e che, per questa ragione, egli era in grado di conoscere in anticipo, in virtù della propria prescienza, tutte le colpe degli accusatori.

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10) Il misticismo del Cristo

Al capitolo 8 si assiste di nuovo a una serie di discorsi in virtù dei quali i redattori vogliono contrapporre un Gesù isolato, stretto in un rapporto univoco, unilaterale con la sua idea di “Dio-padre”, a un'intera tradizione ebraica, a tutte le sue istituzioni, ai partiti politici e ai movimenti sociali della nazione israelitica e a tutti i suoi valori etico-religiosi.

Quando i farisei lo contestano dicendo: “Tu testimoni di te stesso; la tua testimonianza non è vera” (8,13), lui non chiama in causa i suoi discepoli o il Battista o le folle che lo seguivano, ma il suo rapporto col Padre. Cioè parla di Dio come se l'interlocutore potesse vederlo di persona e verificare se le parole che sta ascoltando siano vere o false. E quando qualcuno gli chiede: “Dov'è tuo Padre?” (8,19), lui pensa di dover essere creduto dando una risposta tautologica: “Se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio” (v. 19).

L'assurdità di questi dialoghi è particolarmente evidente.84 La loro funzione infatti non è quella di “dimostrare” che Gesù aveva ragione, ma quella di convincere il lettore credente che la propria fede cristiana, in quanto seguace di una Chiesa, è quella giusta: ciò in cui già si crede è quindi del tutto vero. Questi dialoghi surreali vogliono porsi come un rafforzativo della propria illusione: quindi sostanzialmente hanno una finalità oppiacea, consolatoria.

Se davvero avesse parlato in questi termini, Gesù non avrebbe affatto rassicurato i propri interlocutori sul diritto a usare la propria libertà di scelta, ma anzi avrebbe prospettato loro tutto il male possibile, nel caso in cui avessero fatto una scelta sbagliata. Ecco perché questi sono dialoghi che vanno considerati profondamente diseducativi.

Peraltro essi non vogliono avere alcun contenuto politico. Gesù parla come un sacerdote extraterrestre e vuole essere creduto come un santone. “Se rimanete fedeli alla mia parola - dice a quei Giudei che credono in lui -, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (vv. 31-32). Inutile chiedere, da parte dei farisei, ch'egli mostri la testimonianza di Dio: se prima non credono in lui, non la otterranno mai. È un circolo ermeneutico vizioso, da cui è impossibile uscire.

È lo scontro di due forme di monoteismo: in quella ebraica Dio esiste in quanto è “totalmente altro” e nessun uomo può identificarvisi; viceversa in quella cristiana l'identità o la natura divina è garantita esclusivamente dal Cristo, che si pone come suo “unigenito Figlio”. Pertanto, mentre nell'ebraismo dichiararsi “Figlio di Dio” (in via esclusiva) equivale a bestemmiare, nel cristianesimo invece è l'unico modo per poter credere adeguatamente in Dio.85

La sequela cristiana - come si può facilmente notare - ha una finalità meramente teo-sofica, interiore, priva di preoccupazioni nei confronti della società, del mondo.86 Anzi, si dà per scontato che i discepoli di Gesù siano un'élite molto selezionata, tant'è ch'egli stesso anticipa, solo per loro, la sua morte in croce: “Quando avrete innalzato [sulla croce] il Figlio dell'uomo, allora conoscerete che io sono” (v. 28). “Io sono” era l'appellativo che Dio dava di sé nell'Antico Testamento (cfr Es 3,14), cui ricorre, in abundantiam, la seconda parte del libro di Isaia.

Scrivendo dei racconti così fantastici, in cui Gesù s'identifica totalmente in questa idea di “Dio-padre”, i redattori non si rendevano conto di aver tolto alla divinità ebraica tutto il suo spessore di alterità rispetto alla realtà umana, e di averla ridotta a una semplice “idea” del Cristo, per quanto quest'ultimo venisse presentato non sulla base di una natura esclusivamente umana, bensì divino-umana. La distanza abissale che gli ebrei ponevano tra loro e Jahvè, viene sì ribadita, nel cristianesimo, in quella che Gesù stesso pone tra sé e gli uomini, ma in forma attenuata.

Nel mondo ebraico nessuno poteva farsi una rappresentazione di Dio; nel cristianesimo solo Gesù è autorizzato a farsela, e il credente deve convincersi che, vedendo Gesù, vede in realtà il Dio-padre, il quale assume nel Cristo una sembianza umana. Restando nell'ambito della teologia, bisogna ammettere che, rispetto all'ebraismo, il cristianesimo costituisce una sofisticazione intellettuale di non poco conto, anche se lontanissima dalla realtà dei fatti, da una comprensione oggettiva della realtà.

Si potrebbe quasi dire che il cristianesimo, rappresentando umanamente la divinità (seppure il Cristo non venga considerato come del tutto umano, avendo una particolare natura divina, sconosciuta all'uomo), appaia, rispetto all'ebraismo, come una forma ulteriore di ateismo, cioè come una forma di laicizzazione della fede. Dio non è più il “totalmente altro”, ma un'entità visibile, con cui ci si può confrontare, per quanto le sue parole siano lontanissime dalla capacità di comprensione dell'uomo comune, cioè siano parole piene di mistero, che vanno prese così come sono, senza interpretarle. La divinità in cui credere è un'entità incarnata, che parla però in maniera criptica, e che, per questa ragione, va creduta per fede. “Se lui è davvero Dio, allora ha il diritto a parlare come gli pare” - così ragiona il credente.

Si faccia ora attenzione a come si potrebbe svolgere un discorso del genere, per renderlo il più umano possibile. Se Gesù è un Dio che si è fatto uomo, allora gli uomini potrebbero anche pensare che non esiste alcun Dio diverso da Gesù. Per quale motivo, infatti, si dovrebbe credere a qualcosa che non si vede, quando ciò che si vede ha già tutte le caratteristiche della divinità?

Ed ecco ora il passo successivo. Se si accetta la divinità del Cristo, non si può però dimenticare ch'egli, quand'era in vita, aveva caratteristiche umane innegabili (bisogni e desideri tipicamente umani). Dunque per quale motivo non si dovrebbe pensare che, se Gesù è un Dio-umanizzato, allora l'uomo comune è di natura divino-umana? L'uomo ha una natura divina analoga o equivalente a quella del Cristo. Quindi non solo non esiste Dio, ma bisogna anche attribuire una caratteristica sovrumana all'essere umano. Dio si è fatto uomo affinché l'uomo potesse diventare come lui.87

Detto questo, resta da chiarire in che senso dobbiamo “diventare divini”. Qui davvero i vangeli non ci sono di alcun aiuto. Essi infatti sostengono che di tutti gli uomini, solo uno poteva pretendere d'avere una natura divina. Invece il ragionamento andrebbe capovolto: tutti gli uomini hanno una natura divina, e - si può qui aggiungere - per essere conformi a tale natura, per restarle profondamente coerenti, hanno, di fronte a loro, solo una strada da percorrere: diventare umani. Il vero problema quindi è come diventare umani secondo natura, proprio per poter essere divini.

Il lettore che legge queste considerazioni pensa davvero che esse potrebbero svolgersi in maniera logica, desumendole dal cristianesimo? In realtà il cristianesimo è nato per censurarle. Infatti, se si accetta l'idea di un Cristo ateo, le considerazioni relative alla natura divino-umana dell'umanità in generale facevano già parte del suo bagaglio culturale, essendo deducibili direttamente dalla sua predicazione. Tuttavia il cristianesimo non ha voluto porsi come alternativa soltanto all'ebraismo, ma anche allo stesso Cristo. Esso non è altro che una mistificazione a 360 gradi, la cui principale fonte è la teologia petro-paolina. Pertanto non è possibile portare il cristianesimo all'ateismo in maniera naturale, senza compiere alcuna operazione dolorosa nell'ambito della propria coscienza.

Detto questo, ci si rende facilmente conto che tutta la profonda incomprensione tra Gesù e le folle e persino quella tra Gesù e gli apostoli, in realtà è fasulla. L'incomprensione non stava nel fatto ch'egli parlava come un Dio di fronte a interlocutori che potevano intendere solo discorsi di tipo umano, ma stava unicamente nel fatto che gli interlocutori pensavano di potersi opporre all'oppressione romana e al collaborazionismo di molte autorità giudaiche semplicemente restando legati alle tradizioni dell'ebraismo, le quali, sul piano politico, prevedevano la venuta di un messia autoritario, che si sarebbe imposto con l'uso della forza.

I redattori non hanno fatto altro che spoliticizzare al massimo i contenuti della predicazione del Cristo, rendendo l'incomprensione tra lui e gli interlocutori di tipo esclusivamente teologico.

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11) Il cieco-nato e il rapporto tra malattia e colpa

La guarigione del cieco nato è completamente inventata (9,1 ss.), non foss'altro che per una ragione: il protagonista è un non vedente dalla nascita, cioè un malato cronico e non psicosomatico.

L'unica cosa interessante del racconto è che qui si evita di equiparare malattia e colpa (v. 3): “Né lui ha peccato né i suoi genitori; ma è così affinché le opere di Dio siano manifestate in lui”. I farisei invece amavano ribadire il loro solito aristocraticismo etico: “Sei tutto quanto nato nel peccato e insegni a noi?” (v. 34).

L'altra cosa che viene detta, relativa al fatto che Gesù faceva guarigioni in giorno di sabato, è un déjà vu. I redattori non avevano bisogno di ripeterla. Infatti col racconto del paralitico guarito (5,1 ss.) si era detto che i Giudei cercavano di ucciderlo proprio perché “faceva quelle cose di sabato” (5,16).

Perché dunque ribadire il concetto? Probabilmente i redattori han pensato che se avessero descritto un miracolo più straordinario del precedente e i farisei avessero continuato ad avere una posizione rigidissima circa il rispetto delle prescrizioni relative al sabato, il loro antisemitismo avrebbe trovato ulteriori giustificazioni. In questo racconto, infatti, alcuni interlocutori si chiedono come sia possibile che un “peccatore” come Gesù possa fare delle guarigioni che non sono alla portata di alcun uomo (vv. 16; 31-33).

Detti redattori han voluto porre varie equivalenze simboliche tra i verbi “vedere” e “capire”, che però han poco senso. Il cieco non vede ma si lascia fare da Gesù, e poi arriva a capire chi è lui. I farisei invece vedono, ma siccome non vogliono ammettere l'evidenza delle cose, non capiscono e quindi, in un certo senso, restano ciechi. Il cieco torna a vedere fisicamente e capisce intellettualmente, essendo ben disposto a farlo. I farisei invece, che pur vedono fisicamente, restano ciechi intellettualmente, in quanto risultano prevenuti. Di qui la conclusione del Cristo: “Se foste ciechi [cioè ignoranti circa la verità delle cose], non avreste alcun peccato [nei miei confronti]; ma siccome dite: Noi vediamo [riguardo alla conoscenza della legge], il vostro peccato rimane” (v. 41).

Vedevano cosa? Dalla risposta a questa domanda si comprende bene l'ingenuità dei redattori. Supponiamo infatti che Gesù fosse davvero in grado di risanare un uomo cieco dalla nascita usando soltanto un po' di fango e di saliva, che cosa avrebbe dimostrato? Che pretese poteva avere d'essere maggiormente accettato in ciò che diceva?

Partiamo dall'inizio del racconto. Gesù avrebbe affermato: “Quest'uomo è cieco senza alcuna colpa, ma solo perché le opere di Dio si manifestino in lui” (v. 3). Cosa c'entra Dio? Il guaritore Gesù non poteva forse risanarlo in maniera autonoma, senza voler dimostrare per forza la bontà o la potenza di Dio?

I redattori invece, ad un certo punto, cercano di spiegare il senso di questa frase di Gesù in una maniera esclusivamente teologica. Dapprima fanno dire ad alcuni testimoni: “Come può un peccatore fare tali miracoli?” (v. 16). Poi fanno dire al cieco risanato: “Si sa che Dio non esaudisce i peccatori; ma se uno è pio e fa la volontà di Dio, egli lo esaudisce. Da che mondo è mondo non si è mai udito che uno abbia aperto gli occhi a un nato cieco. Se quest'uomo non fosse da Dio, non potrebbe far nulla” (vv. 31-33).

La prima parte di questo racconto ha la pretesa di porsi in maniera interlocutoria, nel senso che i farisei potrebbero anche non credere che Gesù sia “il Figlio di Dio”; dovrebbero però credere - al cospetto di guarigioni così straordinarie - che Gesù non può essere considerato un peccatore o un impostore. Cioè i redattori pensano - in maniera del tutto arbitraria - che miracoli di tal fatta sarebbero stati sufficienti per credere nella “santità” di Gesù.

Quando poi, nella parte finale del racconto, Gesù chiede al cieco risanato di credere in lui come “Figlio di Dio”, solo perché ha ottenuto una guarigione miracolosa, si finisce nel ridicolo. Il cieco sarebbe stato risanato per poter credere in una cosa ch'era al di là di ogni umana comprensione. In altre parole il vero scopo della guarigione non era quello di soddisfare un bisogno gravissimo, ben oltre la capacità terapeutica di qualunque uomo; non era neppure quello di far vedere che, di fronte a casi del genere, non c'è sabato che tenga né altri impedimenti; e non era neppure quello di far vedere che la guarigione veniva compiuta a titolo gratuito, senza chiedere preventivamente nulla, né in senso materiale né in senso spirituale. Il suo significato, invece, era proprio quello d'indurre il cieco risanato a credere nella divinità esclusiva del Cristo, nel suo particolarissimo rapporto di figliolanza divina col Dio-padre.

A questo punto è impossibile non chiedersi: chi è più prevenuto? Cioè chi soffre di più i pregiudizi? Il fariseo o il redattore cristiano? Chi è più ideologico? Chi non vuole ammettere l'evidenza o chi vuole imporla con la forza? Peraltro, da come i redattori han descritto le cose, vien da pensare che i farisei, anche nel caso in cui avessero effettivamente visto prodigi del genere, avevano tutto il diritto a non trarre, come logica conseguenza, che Gesù venisse considerato “l'unigenito Figlio di Dio”. Era nel loro diritto pensare che non vi può essere una stretta equivalenza tra guarigione miracolosa e santità personale.

Semmai di altre cose avrebbero dovuto essere criticati: 1) la stretta equivalenza che ponevano tra malattia e colpa; 2) il loro divieto di compiere una guarigione nel giorno del riposo assoluto. Ma davvero Gesù sarebbe stato interessato a discutere di questi argomenti quando il suo obiettivo era di tutt'altra natura? Qui i redattori han voluto circoscrivere sul piano giuridico e teologico una controversia assolutamente irrisolvibile, quando nella realtà il rapporto politico tra nazareni e farisei era impostato su un continuo confronto dialettico.

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12) La parabola del Buon pastore

La parabola del Buon pastore, inclusa nel cap. 10, benché presuma di porsi a un livello etico molto elevato, presenta aspetti quanto meno discutibili.88

Si noti anzitutto come il Cristo teologico si paragoni non solo al “buon pastore” ma anche alla “porta dell'ovile”, in assoluta autoreferenzialità. E ha la pretesa d'essere non tanto “un” buon pastore, bensì l'unico, vero pastore d'Israele (e forse del mondo intero), in quanto tutti quelli che l'hanno preceduto vengono giudicati come “ladri e briganti” (v. 8). Di nuovo l'antisemitismo viene qui posto con nettezza.

Gesù disprezza profondamente le autorità giudaiche e salva soltanto il popolo, le “pecore”, che istintivamente non ascoltano chi non le cura, chi non le rispetta (v. 8).89 Il gregge detesta i ladri e i mercenari e apprezza soltanto il pastore buono, che conosce bene le sue pecore. Senonché al momento di crocifiggerlo vedremo la compartecipazione della folla di Gerusalemme alle intenzioni omicide e giustizialistiche delle autorità romane e giudaiche. Una corresponsabilità strumentalizzata e involontaria quanto si vuole, ma pur sempre innegabile.

Per quale motivo questo pastore è così apprezzato dalle pecore? Perché è disposto a dare la sua vita per loro (v. 15). Cioè il pastore è “buono” perché accetta l'idea di autoimmolarsi per il bene dei propri discepoli. Grazie a questa mistica della morte, che tutto purifica e tutto redime, Gesù ha la pretesa d'essere riconosciuto come soggetto etico, anzi etico-religioso; egli infatti dice di comportarsi con le pecore così come il Padre si comporta con lui. E il Padre tanto più lo ama quanto più egli è disposto a sacrificarsi per il bene dei suoi discepoli: “Il Padre mi ama perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo” (v. 17).

Siamo in pieno irrazionalismo. E i redattori sono convinti che Gesù possa sfuggire all'accusa d'essere ritenuto folle proprio perché sa di essere il “Figlio di Dio”: “Io ho il potere di offrire la vita e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio” (v. 18).

Chiunque può facilmente notare che questo è un Cristo che schiaccia completamente la libertà di coscienza dell'interlocutore, il quale viene visto come uno che non può non credere alla parola di un essere così sovrumano, così sicuro di sé. Gli stessi redattori non si rendono conto che quando scrivono: “Essi non capirono di che cosa parlasse” (v. 6); “Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo ascoltate?” (v. 20) - stanno dicendo una cosa giustissima, ma per motivi opposti a quelli voluti.

La loro intenzione, infatti, è quella di far apparire le autorità giudaiche come una massa di dannati; solo che con le loro parole di disprezzo ottengono proprio l'effetto contrario. Chi avesse ascoltato Gesù parlare in quei termini, avrebbe avuto tutte le ragioni a considerarlo un esaltato, un malato mentale con deliri di onnipotenza. Non avrebbero potuto capirlo proprio perché lui - se la rappresentazione che ne danno i vangeli fosse vera - non si faceva capire, nel senso che usava un linguaggio impossibile da comprendersi al di fuori di una comunità cristiana (post-pasquale) di riferimento.

Il cristianesimo che ha prodotto questi dialoghi surreali doveva essere un'esperienza piuttosto chiusa, collocata in luoghi isolati e fondamentalmente autoritaria al proprio interno. I redattori infatti non si preoccupano minimamente del rischio di scrivere cose illogiche, storicamente insensate.

Il cosiddetto “buon pastore” non prova neppure alcuna particolare preferenza per la sua gente, con la quale invece avrebbe dovuto compiere un'insurrezione nazionale per liberare il proprio paese dall'oppressione romana. Egli non vuole fare distinzioni in merito alla provenienza geografica dei propri discepoli, tant'è che dice: “Ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”. Qui si sta già parlando della conversione del mondo pagano al cristianesimo petro-paolino.

Siamo in pieno anti-storicismo, completamente fuori contesto spazio-temporale. Può davvero bastare sapere ch'egli aveva risanato un cieconato (v. 21) per essere sicuri che non stesse parlando come uno “fuori di sé”?

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13) La festa della Dedicazione e l'ateismo del Cristo

Il racconto della festa della Dedicazione (10,22 ss.) è uno dei più importanti del IV vangelo e uno dei più significativi dell'intero Nuovo Testamento. Naturalmente anch'esso va considerato come completamente artefatto; tuttavia vi sono dei versetti che lasciano senza parole.

La parte iniziale sembra la solita propaganda della primitiva comunità cristiana. I Giudei hanno in mente un'immagine di messia politico che non collima con quella di messia teologico che vuole offrire Gesù. L'incompatibilità è netta. Gli interlocutori parlano due linguaggi completamente diversi, pur usando le stesse parole. Sia i Giudei che Gesù credono in un unico Dio, che nessun giudeo però, singolarmente preso, avrebbe il coraggio di chiamare “Padre”, come invece fa Gesù. I Giudei infatti lo chiamavano con vari appellativi o con espressioni piuttosto suggestive, di tipo poetico o filosofico (non però confidenziale o intimistico), come “Io sono”, “Io sono colui che sono”, “Antico di giorni”, “Dio dei viventi”, “Shadday” (Onnipotente), ecc.; al posto della indicibile parola di “Jahvè” usavano “Adonai”, cioè Signore.90

Nessuna di queste denominazioni prevedeva una stretta identificazione di uomo e Dio. Gesù invece la pretende, al punto che dichiara d'essere in grado - proprio come Dio-padre - di poter dare “la vita eterna” (v. 28), in quanto lui e il Padre “sono una cosa sola” (v. 30), com'egli stesso dichiara. Tuttavia un'identificazione personale così categorica non poteva suonare, alle orecchie dei Giudei, che come una bestemmia, tant'è che vorrebbero linciarlo sul posto. “Non ti lapidiamo per una buona opera, ma perché bestemmi; e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio” (v. 33).

È dalla risposta a tale accusa che si potrebbe arrivare a dire che Cristo era un ateo. Certo, in rapporto ai testi si tratta di una forzatura, ma di lieve entità: un nulla rispetto a quello che han fatto i redattori nei confronti della vera predicazione di Gesù.

Dunque “Gesù rispose loro: Non è forse scritto nella vostra Legge91: Io ho detto: voi siete dèi? Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio (e la Scrittura non può essere annullata), a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo, voi dite: Tu bestemmi, perché ho detto: Sono Figlio di Dio?” (vv. 34-36). Gli ebrei pensano che lui sia un eretico per una semplice ragione: nessuno può farsi Figlio di Dio in via esclusiva, cioè escludendo che il resto dell'umanità (o qualcun altro in particolare) possa esserlo nella stessa identica maniera. In ogni caso per loro è impensabile una stretta identificazione tra una cosa assolutamente perfetta e una che non lo è e che su questa Terra non può diventarlo con le proprie forze.

In sostanza il ragionamento che fa Gesù parrebbe essere di questo tipo: se nelle Scritture gli esseri umani vengono considerati da Dio al pari di divinità, cos'è che impedisce di credere che possano esserlo veramente? E se lo sono, cos'è che impedisce di credere che anche lui lo sia? Sembrerebbe una considerazione di tipo laico-umanistico.

L'interpretazione però che ne danno i redattori è quanto meno capziosa. Infatti Gesù sembra che dica quelle cose proprio per indurre i Giudei a credere non che egli abbia una natura divina come tutti gli altri esseri umani, ma che ne abbia una speciale, che solo lui possiede, e che lo fa essere “Figlio di Dio” in maniera letterale, come solo lui può esserlo. In altre parole i redattori hanno intenzione di giustificare la teologia paolina, mostrando che il concetto di “figliolanza divina”, se poteva essere applicato in maniera generica alla specie umana, non poteva esserlo per il Cristo, la cui natura divino-umana è del tutto particolare, cioè specifica a lui solo.

Si badi: qui non si deve vedere il dibattito tra Gesù e i Giudei come una forma di contrapposizione tra una concezione simbolica o metaforica o traslata della “figliolanza divina” e una letterale. Tutti i Giudei, in fondo, avrebbero potuto accettare tranquillamente l'idea di “figliolanza divina”, considerando che nel Genesi era stato detto, al momento della creazione, che l'uomo e la donna erano stati fatti a “immagine e somiglianza del Creatore”. Gli stessi messia, re, sacerdoti, profeti potevano essere considerati, simbolicamente, dei “figli di Dio”.

Per capire il motivo per cui avevano intenzione di lapidarlo dobbiamo invece interpretare la frase veterotestamentaria scelta da Gesù come un invito a credere, da parte di tutti gli esseri umani, in un'altra particolare origine divina, quella che esclude un'entità esterna chiamata “Dio”. È un invito rivolto al “genere umano” qua talis, che deve imparare ad agire con più autonomia, con maggiore consapevolezza della propria unicità nell'universo.

Quindi si può supporre che il Cristo non predicasse affatto un rapporto di figliolanza a lui esclusiva con la divinità, ma semplicemente il fatto che se l'uomo si considera una divinità, non ha bisogno di credere in alcun Dio. Cioè, mentre nei vangeli gli ebrei vogliono lapidarlo perché, equiparandosi in via esclusiva a Dio, egli appariva un ateo presuntuoso, in quanto riduceva Dio a un'entità in cui lui, ch'era un uomo, diceva di potersi identificare completamente e che poteva farlo in via esclusiva; nella realtà invece potrebbe essere stato oggetto della medesima accusa di ateismo per motivi differenti (che i redattori han dovuto necessariamente celare), nel senso che il fatto di attribuire una natura divina all'essere umano poteva anche essere interpretato come forma di esclusione a priori della necessità di credere in un'entità perfetta esterna all'uomo. La coincidenza di uomo e Dio non voleva affatto attribuirla solo a se stesso, ma generalizzarla a tutti gli uomini.

Gesù appariva ateo non perché - come vogliono i vangeli - si paragonava a Dio come nessun altro uomo avrebbe potuto fare, ma proprio perché permetteva a tutti di considerarsi degli dèi, negando l'esistenza di un Dio diverso dall'uomo.

Anche la seguente frase che viene fatta dire a Gesù può essere interpretata in maniera ambivalente: “Se faccio le opere del Padre mio, anche se non credete a me, credete almeno nelle opere, affinché sappiate e riconosciate che il Padre è in me e io sono nel Padre” (v. 38). L'interpretazione religiosa di tale dichiarazione è la seguente: in quello che dice Gesù, cioè di essere Figlio di Dio, i Giudei possono anche non credere, ma siccome compie opere di bene, non si può pensare che Dio non sia con lui. L'interpretazione laica invece è più semplice: i Giudei possono non accettare l'ateismo del Cristo, ma questo non può impedire di considerare positivamente quanto egli fa. Infatti un ateo, non perché ateo, compie cose riprovevoli.

Il dibattito quindi era tutto incentrato sulla questione dell'ateismo. Ha diritto o no l'uomo a considerarsi ateo, senza per questo apparire un essere privo di moralità? Che ogni uomo pretenda di identificarsi con Dio costituisce forse un problema per la convivenza umana? Oppure i problemi della convivenza umana vanno risolti in ambiti sociali, relativi ai bisogni da soddisfare, alla giustizia da realizzare, alla libertà da garantire, nei confronti dei quali essere atei o credenti non costituisce una discriminante di sorta?

Interessante il fatto che questa pericope si concluda con la fuga di Gesù dalla Giudea, in quanto avevano intenzione di linciarlo. Si ritira coi suoi più stretti discepoli “al di là del Giordano, dove Giovanni da principio battezzava e qui si trattenne; molti vennero a lui... e molti credettero in lui” (vv. 39-42). È importante questa indicazione cronologica e logistica, perché da qui Gesù si sposterà, dopo non molto tempo, per recarsi a Betania di Giudea, il paese di Lazzaro e delle sue sorelle, ove deciderà di compiere l'insurrezione armata.

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14) Lazzaro di Betania e la reazione di Caifa

I

Il racconto di Lazzaro di Betania (11,1 ss.) è uno dei più falsificati e mistificanti del IV vangelo, forse perché proprio in quella cittadina, a pochi chilometri da Gerusalemme, Gesù prese la decisione di compiere l'insurrezione armata.

Vi si narra un evento assolutamente straordinario, il che lascia pensare che si sia voluto censurare qualcosa di politicamente eversivo. Si è sostituita la parola “rivoluzione” o “insurrezione” con la parola “resurrezione”. Si è pensato di poterlo fare proprio perché nel vangelo di Marco si era imposta l'interpretazione petrina della tomba vuota come “resurrezione” o “ridestamento”, e poi l'interpretazione paolina della “resurrezione” come “esclusiva figliolanza divina”. I redattori del IV vangelo non hanno fatto altro che trarre le loro logiche conseguenze mistiche: se un uomo divinizzato è in grado di risorgere dopo morto, allora non può non essere in grado, da vivo, di far risorgere un morto qualunque.

Anche nel vangelo di Marco Gesù è in grado di far risorgere una morta, la figlia di Giairo, ma l'adolescente era appena morta: potevano esserci dei dubbi sul suo effettivo decesso. Qui invece non ve ne sono, poiché Lazzaro era morto da quattro giorni ed era già in fase di decomposizione (11,39).

Di preciso cos'hanno fatto i redattori-falsificatori? Essi dovevano avere in mano l'originario vangelo di Giovanni, dove si parlava della morte di un amico-alleato di Gesù, giudeo come lui, che qui viene chiamato Lazzaro, ma che noi non sapremo mai come effettivamente si chiamasse.92

Quest'uomo può essere morto inaspettatamente o in uno scontro armato: non è importante saperlo.93 Quel che di sicuro si sa è che se Gesù avesse potuto aiutarlo, Lazzaro forse ce l'avrebbe fatta. Tuttavia, essendo ricercato dalla polizia giudaica e costantemente a rischio di linciaggio, egli non aveva potuto far nulla; era rimasto nascosto oltre il Giordano, fuori dalla Giudea. Quando però lo vennero ad avvisare che Lazzaro era moribondo, rischiò il tutto per tutto e s'incamminò, con alcuni discepoli, verso Betania di Giudea, a pochi chilometri dalla capitale, dove l'attendevano le affrante sorelle di Lazzaro, Marta e Maria.

Gesù doveva conoscere queste tre persone da molto tempo, anche se nel vangelo non vengono mai ricordate. È probabile che qualche successivo manipolatore, resosi conto di tale stranezza, abbia cercato di rimediarvi (in maniera, a dir il vero, un po' maldestra), scrivendo al v. 2 che “Maria era quella che unse il Signore di olio profumato e gli asciugò i piedi coi suoi capelli”. Questa cosa però verrà fatta soltanto dopo qualche giorno (o qualche settimana) a questo episodio, tant'è che nel vangelo viene messa al capitolo successivo.

Gesù dunque decide di andare a Betania contro il parere dei suoi discepoli: “Maestro, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti, e tu vuoi tornare là?” (v. 8). E gli fanno presente che se Lazzaro è morto, non ci si può più far nulla.

Già si è detto che quando vennero ad avvisarlo, Lazzaro non era ancora morto, ma quasi (vv. 2-3). Probabilmente Gesù si trattenne altri due giorni nel suo rifugio perché temeva una trappola: p. es. che i messaggeri fossero stati pedinati da qualcuno, oppure che i parenti, gli amici, i colleghi o compagni di Lazzaro si aspettassero che Gesù si facesse vivo e che in mezzo a loro potesse esserci qualche spia o delatore. Insomma voleva agire con molta prudenza, cercando di non compromettere l'obiettivo dell'insurrezione nazionale per delle questioni di carattere personale. Tommaso, uno dei Dodici, era convinto che, entrando in Giudea, sarebbero tutti morti insieme a lui (v. 16). Gesù è consapevole di questo rischio. Infatti preferisce non entrare direttamente a Betania, ma di stare nei pressi (v. 30). Teme che qualcuno lo possa denunciare.

I redattori hanno sicuramente manomesso un racconto molto diverso e non hanno dato peso a delle incongruenze davvero notevoli. P. es. al v. 3 Lazzaro viene definito da uno dei messaggeri: “Colui che tu ami è malato”. Di nessun apostolo, salvo forse Giovanni, viene detta una cosa simile. In che senso l'amava? Fino a che punto? E perché Lazzaro non era un discepolo di Gesù? Questa cosa è stata forse scritta per confondere le acque a sfavore dell'apostolo Giovanni? Cioè per far vedere che di “discepoli prediletti” Gesù in realtà ne aveva due? Oppure l'espressione “colui che tu ami” è stata messa volutamente al posto del nome dell'amico moribondo, che doveva rimanere segreto?

Poi al v. 19 viene detto: “Molti Giudei erano andati da Marta e Maria per consolarle del loro fratello”. Molti Giudei? Ma allora Lazzaro era un personaggio famoso, popolare! Dunque perché in nessun vangelo se ne parla?

Alla fine del racconto viene detto che molti dei Giudei, là convenuti, “credettero in Gesù” (v. 45). Quindi a Betania era stata presa una decisione importante: quale? Doveva essere una decisione politica, poiché “alcuni Giudei andarono dai farisei e raccontarono loro quello che Gesù aveva fatto” (v. 46). Ovviamente non raccontarono del miracolo, altrimenti, con tutti quei testimoni, sarebbe stato folle non credergli: uno in grado di resuscitare i morti può fare qualunque altra cosa; anche vincere i Romani! È probabile quindi che i Giudei siano andati a riferire ai farisei che Gesù era intenzionato a entrare a Gerusalemme per la Pasqua e certamente non per celebrare dei riti religiosi.

Tuttavia Gesù non può essersi deciso per l'insurrezione semplicemente perché “amava” Lazzaro - anche se lo amava così tanto da “piangere” sulla sua tomba (v. 35) -, né perché amava Marta e Maria e si sentiva in colpa per non aver potuto far nulla a favore del loro fratello. È vero, in questo vangelo Maria è l'unica persona che lo fa commuovere, ma la decisione di far qualcosa, da cui non si sarebbe più potuto tirare indietro nei confronti dell'intero paese, egli deve averla presa di comune accordo coi Giudei che dalla capitale erano accorsi lì per consolare le due sorelle. Gesù aveva bisogno di ampi consensi per immobilizzare la guarnigione romana della fortezza Antonia e le guardie giudaiche del Tempio.94

Il racconto non è teatrale nella descrizione dei sentimenti di Gesù e degli altri Giudei, ma nella modalità del prodigio. Gesù chiede a Lazzaro di tornare in vita affinché egli possa dimostrare la propria “figliolanza divina”. Il che, anche se il prodigio fosse davvero avvenuto, avrebbe comportato un tasso di moralità piuttosto basso, in quanto il Cristo avrebbe deciso di resuscitarlo proprio per dimostrare alla folla lì presente ch'egli era “Figlio di Dio”: “Gesù, alzàti gli occhi al cielo, disse: Padre, ti ringrazio perché mi hai esaudito” (v. 41), ecc. Lo si fa parlare come un sacerdote che sfrutta una tragedia per fare l'apologia del misticismo.

E Lazzaro, quando gli viene ordinato di uscire dalla tomba, ha “i piedi e le mani avvolti da fasce, e il volto coperto da un asciugatoio” (v. 44). Gesù deve dire di “scioglierlo”. Quindi era “legato”. Ma s'era legato alle mani e ai piedi, come ha fatto a uscire da solo dal sepolcro? Il finale si presta a considerazioni abbastanza ridicole, che qui però ci risparmiamo.

Molto meglio invece far notare che, dopo questo episodio, le autorità giudaiche si trovavano in grande allarme, non perché - come viene detto dai redattori - Gesù “fa molti miracoli” (v. 47), ma perché ha intenzione di entrare a Gerusalemme per la Pasqua, il momento migliore per compiere un'azione sovversiva, che inevitabilmente sarebbe stata anche contro i poteri costituiti.

“I capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il Sinedrio e dicevano: Che facciamo? Se lo lasciamo fare, tutti crederanno in lui; i Romani verranno e ci distruggeranno come città e come nazione” (vv. 47-49). Chiunque, con un briciolo di senno, si rende conto che un consesso istituzionale come quello non poteva aver fatto considerazioni così altamente politiche solo perché Gesù aveva risorto Lazzaro. Di per sé quel prodigio - anche nel caso in cui fosse stato fatto - non c'entrava nulla con la situazione politica d'Israele, né ai Romani sarebbe importato qualcosa, se non come evento che poteva soddisfare una certa curiosità intellettuale.

Qui piuttosto sono le autorità giudaiche che si stanno chiedendo che cosa sarebbe potuto accadere in Israele se fosse passata la strategia politica del Cristo, secondo cui la casta sacerdotale, essendo collusa con Roma, non avrebbe mai potuto favorire alcuna liberazione nazionale.

Le parole dei sinedriti e del pontefice Caifa sono così dense di contenuto politico che meriterebbero d'essere commentate in un libro a parte. I redattori, invece di censurarle del tutto, han preferito manometterle, ma è evidente che parole di questo genere l'apostolo Giovanni doveva averle apprese da qualche membro del Sinedrio, come p.es. Nicodemo o Giuseppe d'Arimatea.

Noi non sappiamo se tutto il Sinedrio fosse davvero stato convocato, poiché al v. 47 si parla di capi dei sacerdoti e dei farisei, e non anche di anziani o leviti o di scribi. Forse la riunione era informale e la decisione di togliere di mezzo Gesù non venne presa con una votazione esplicita. Di sicuro vi fu un dibattito molto acceso, poiché Caifa, che interviene solo alla fine, lo fa in maniera molto autorevole e definitiva, prendendosela con una parte dei parlamentari, i quali, a quanto pare, dovevano apparirgli troppo indecisi sul da farsi (atteggiamento, questo, tipico dei farisei).

Il motivo per cui, se avessero lasciato fare il Cristo, i Romani avrebbero distrutto Gerusalemme e l'intera nazione, è poco chiaro. Infatti egli viene presentato in tutti i vangeli come un pacifista ad oltranza, come uno che chiede di pagare il tributo a Cesare e che rimanda all'aldilà la realizzazione di un regno di giustizia. Un soggetto del genere avrebbe potuto essere considerato un prezioso alleato di Roma, non un nemico.

È quindi evidente che se le autorità temono un disastro per Israele, è perché pensano che un'insurrezione armata, quale quella prospettata da Gesù, sarebbe risultata sicuramente fallimentare. Esse, infatti, abituate come sono a considerare il potere politico-religioso come uno strumento per dominare la popolazione, per arricchirsi a titolo personale, per tutelare gli interessi dei ceti più facoltosi e per assicurare all'occupante romano dei compromessi reciprocamente vantaggiosi, non possono guardare di buon occhio chi mette in discussione lo status quo.

Le parole di Caifa, in tal senso, sono molto eloquenti: “Voi non capite nulla e non riflettete come torni a vostro vantaggio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione” (vv. 49-50). Con chi ce l'aveva? Probabilmente coi farisei o almeno con la loro ala più progressista. Questo partito infatti era su posizioni ambigue. Da un lato voleva la moralizzazione della casta sacerdotale, si opponeva ai sadducei e aveva creato le istituzioni locali delle sinagoghe in polemica col culto centralizzato nel Tempio. Dall'altro però si limitava a difendere a spada tratta le tradizioni ebraiche contro la cultura pagana, contro i valori dei cosiddetti “Gentili”, nella convinzione che questo fosse il modo migliore per resistere all'imperialismo romano.

Non sempre i farisei si erano manifestati con un atteggiamento ostile nei confronti di Gesù; sicuramente lo erano stati meno di quanto appaia nei vangeli. Loro stessi, infatti, si rendevano conto che l'oppressione romana non poteva essere considerata un fatto compiuto, cui rassegnarsi passivamente. Erano desiderosi anche loro di sapere con quale messia avrebbero potuto risolvere una situazione così anomala. L'avevano cercato in Giovanni Battista, senza però trovarlo; ed erano convinti che un vero messia avrebbe potuto essere solo un giudeo, non un galileo.

È dunque probabile che Caifa si scagli contro di loro, accusandoli di doppiezza, d'imperdonabile indecisione. Ed è altresì probabile che i farisei abbiano accettato la proposta di eliminare Gesù, avanzata da Caifa, per poi rivendicare ulteriori spazi di manovra nei confronti dei sadducei, come spesso succede quando l'opposizione realizza dei compromessi col governo in carica. Bisognava comunque dimostrare a Pilato che il Sinedrio si dissociava completamente dalle intenzioni bellicose di Gesù.

II

Il commento che danno i redattori alle parole di Caifa è del tutto fuori luogo, anzi, per molti versi, è puerile. “Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (vv. 51-52).

In pratica i redattori han fatto di tutto per trasformare in senso mistico-cristiano una proposta politica che Caifa reputava (erroneamente) a favore di una nazione succube di Roma. Egli cioè, senza volerlo, avrebbe profetizzato (ed era nel suo diritto farlo in quanto “sommo sacerdote”!) che la decisione di eliminare Gesù sarebbe stata a favore del mondo pagano, il quale, ricevendo il messaggio spiritualizzato del Cristo, avrebbe rinunciato ai propri dèi falsi e bugiardi.

I redattori avrebbero fatto profetizzare a Caifa una cosa completamente assurda. Se avessero censurato del tutto la sua proposta e si fossero limitati a dire che, di fronte ai prodigi sempre più spettacolari di Gesù, compiuti in nome di una rivendicata figliolanza esclusiva nei confronti della divinità, presero la decisione di arrestarlo, sottoscrivendo un preciso mandato di cattura, si sarebbero esposti di meno all'accusa d'essere ridicoli.

A dir il vero tutti gli evangelisti si sono concentrati sull'idea che le autorità giudaiche volevano la morte di Gesù per motivi religiosi (o comunque, considerando il contesto storico-culturale della Palestina di allora, per motivi politico-religiosi); e, facendo ciò, han cercato di ridurre al minimo la responsabilità politica di Pilato (che infatti viene racchiusa in un ambito meramente giudiziario). Agli occhi delle autorità giudaiche Gesù andava condannato in quanto eretico, poiché si identificava strettamente con la divinità: sulla base di questo concetto-chiave di tutti i vangeli, quello di Marco è molto più coerente. Questo però significa che il vangelo originario di Giovanni presentava le cose in maniera improponibile per la comunità cristiana primitiva.

Si ha in sostanza l'impressione che nel IV vangelo appaiano delle motivazioni che i redattori han fatto fatica a manipolare. Questo vangelo è come la sabbia in un pugno: da qualche parte sfugge sempre qualcosa.

Quando hanno iniziato a metter mano al vangelo originario di Giovanni, i redattori devono essere partiti da due presupposti storico-politici: Gerusalemme era stata distrutta dai Romani in maniera irreparabile; la possibilità di ricostituire la nazione d'Israele era svanita per sempre. A questo punto a loro costava assai poco far dire a Caifa che aveva profetizzato qualcosa di positivo per il mondo pagano; la “positività” per loro stava proprio nella catastrofe irreparabile del nazionalismo giudaico, che avrebbe portato alla diffusione del vangelo manipolato del Cristo al mondo greco-romano, in primis, poi a tutto il mondo pagano. In questa infatuazione mistica possono evitare l'autocritica e fare della religione una sorta di psicofarmaco.

È evidente quindi che questi redattori-falsificatori sono originari della Giudea, ed è altresì evidente che tra la fine d'Israele e la nascita del cristianesimo essi vogliono porre una linea di continuità sul piano religioso, eliminando qualunque istanza di tipo politico. Essi sanno benissimo che al tempo di Gesù erano in gioco i destini politici della nazione giudaica, che lottava per abbattere l'imperialismo romano; per questo motivo non riescono a eliminare completamente la tensione politico-rivoluzionaria sottesa al vangelo di Giovanni. Si limitano a deformarla, ottenendo però dei risultati assai poco convincenti, almeno per chi ha intenzione di leggere il vangelo con spirito critico.

III

Vediamo ora di approfondire l'argomento della congiura contro Gesù.

Dal momento in cui egli realizza l'intesa coi seguaci di Lazzaro, a Betania, ai fini di un'insurrezione armata contro Roma, al momento in cui la maggior parte dei sinedriti decide la sua morte, devono essere accadute delle cose i cui risvolti politici sono stati alquanto mistificati dai redattori del IV vangelo.

Uno dei problemi più difficili da capire è quello relativo all'identità politica di Lazzaro, che è del tutto sconosciuto ai Sinottici: era uno zelota o un fariseo progressista? Forse si può ipotizzare che la parte moderata del suo movimento doveva aver visto negativamente l'intesa tra la parte progressista e il movimento nazareno: di qui l'esigenza, anzi l'urgenza di avvisare i farisei moderati di Gerusalemme.

Quest'ala moderata del partito farisaico chiede subito al sommo sacerdote Caifa di convocare il Sinedrio, per discutere sui provvedimenti da prendere dopo l'intesa di Betania. Era infatti evidente che Lazzaro non aveva ottenuto l'appoggio del Sinedrio per la sua attività eversiva e ora si temeva che dalle ceneri del suo movimento potesse venir fuori qualcosa di ancora più pericoloso per il potere giudaico collaborazionista95.

Ecco, la mistificazione cristiana s'insinua in questi frangenti. L'autorità politica del Cristo viene trasformata in potenza taumaturgica e miracolistica: “Che facciamo? - si chiedono i sinedriti. Quest'uomo fa molti miracoli. Se lo lasciamo fare, tutti crederanno in lui; i Romani verranno e ci distruggeranno come città e come nazione” (11,47 s.).

Si noti l'incongruenza: Gesù fa molti miracoli (qui intesi come straordinarie guarigioni) e, solo per questa ragione, i Romani dovrebbero distruggere l'intera nazione! In questo rapporto di causa ed effetto è difficile trovare un senso logico. Quindi al posto della parola “miracolo” va messa la parola “intesa”: un gruppo politico giudaico (i farisei progressisti) s'era mostrato disposto a cercare col Cristo una collaborazione politica. Era la prima volta che succedeva una cosa del genere: un vero “miracolo”!

Supponiamo (continuando a restare nella realtà fantasiosa dei redattori) che la preoccupazione dei sinedriti fosse un'altra, e cioè che il Cristo volesse servirsi delle proprie capacità taumaturgiche per acquisire un consenso popolare da utilizzare contro il potere giudaico costituito. Se così fosse, ci sarebbe di mezzo qualcosa di “teo-politico”, che i redattori però non dicono. Ma in tal caso perché gli occupanti Romani avrebbero dovuto distruggere la nazione? Cosa avrebbe impedito loro di trovare un'intesa con il Cristo e il suo movimento? In nessuna parte dei quattro vangeli viene detto che Gesù fosse “contro” i Romani: i suoi veri nemici restano sempre i Giudei tenacemente attaccati a quelle che ritengono delle “tradizioni mosaiche” e che invece sono soltanto dei privilegi ingiustificati o delle interpretazioni distorte dell'autentico messaggio degli antichi patriarchi.

Quindi, anche supponendo che il misticismo spiritualistico dei redattori possa essere contestato sul piano strettamente teologico-politico, noi dovremmo arrivare alla conclusione che il Cristo, coi suoi miracoli, voleva sostituirsi al potere giudaico di Gerusalemme e che, solo per questo, sarebbe stato visto con sospetto dai Romani, i quali erano abituati a interferire nella nomina del sommo sacerdote e nei poteri effettivi del Sinedrio. Cioè solo per il fatto di non fare “miracoli” in nome del Sinedrio ma in nome proprio, il potere giudaico si sentiva autorizzato a temere che l'uso di questi prodigi sarebbe stato politicamente eversivo per i sacerdoti e quindi, indirettamente, sarebbe stato considerato pericoloso dal prefetto Ponzio Pilato.

Ma allora i miracoli avevano un contenuto politico che i vangeli tacciono. Gesù avrebbe usato i suoi poteri taumaturgici per dimostrare ch'era “Figlio di Dio” e quindi titolato a sostituirsi, nelle loro funzioni religiose, ai sommi sacerdoti, i quali avrebbero pensato, sbagliando, che, di fronte a tale ribaltamento o, meglio, avvicendamento dei poteri costituiti, i Romani avrebbero reagito molto negativamente.

In altre parole il messia sarebbe stato giustiziato da Pilato per un malinteso di fondo, poiché Gesù, se aveva intenzione di sostituirsi ai sommi sacerdoti, non aveva però intenzione di rifiutare un'intesa coi Romani (ovviamente su basi diverse rispetto a quelle del giudaismo ufficiale). Quindi Gesù Cristo rivendicava soltanto un potere religioso, non politico; cioè, per quanto nel mondo ebraico la politica fosse pesantemente determinata dalla religione, egli sarebbe stato disposto a non contestare la politica degli imperatori romani.

Tuttavia, se l'interpretazione da dare ai passi evangelici fosse questa, sarebbe ben strana. Infatti, una persona che compie miracoli così prodigiosi, al punto da resuscitare dei cadaveri e che pretende di farli in quanto “Figlio di Dio”, non si capisce perché non avrebbe potuto usare quegli stessi poteri anche contro Roma.

In tal senso, supponendo cioè che Gesù volesse utilizzare i propri poteri taumaturgici per rivendicare un potere politico e religioso con cui scardinare lo status quo giudaico, appare del tutto motivata la richiesta di Caifa di farlo fuori quanto prima. Egli infatti non ritiene affatto che quei poteri siano sufficienti per abbattere una superpotenza come Roma, né quindi per giustificare un'alternanza alla carica del sommo sacerdozio. E così, fingendo addirittura di non essere neppure preoccupato per la propria sorte, ma, anzi, col fare distaccato di un supervisore, Caifa afferma: “torna a vostro vantaggio che un uomo solo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione” (11,50). In altre parole se i farisei, che non fanno miracoli come lui, avvertono Gesù come una crescente minaccia per la loro autorità, nei cui confronti si sentono impotenti, devono per forza convincersi che la soluzione migliore è quella di eliminarlo fisicamente, anche se questo dovesse comportare una sollevazione popolare da parte dei suoi seguaci: l'importante è, se si vuole salvaguardare l'interesse nazionale, far vedere che il Sinedrio non è disposto a ribellarsi a Cesare.

Nel testo di Giovanni non appare minimamente una discussione tra Caifa e quella parte progressista del fariseismo che avrebbe anche potuto prospettare l'idea di sostenere l'operato del Cristo proprio per liberare la Palestina dagli invasori romani. Il dibattito è tra un sommo sacerdote prono ai diktat di Roma (insieme al suo partito sadduceo) e un partito, quello farisaico, incerto sul da farsi. Infatti è a questo partito che Caifa dice: “Voi non capite nulla” (11,49). Cioè in pratica non capivano che i rischi che avrebbero incontrato ammazzando Gesù sarebbero stati di molto inferiori a quelli che avrebbero incontrato se non l'avessero fatto. E così “da quel giorno deliberarono di farlo morire” (11,53): lo deliberarono ufficialmente come Sinedrio, mentre prima era stata un'esigenza, per così dire, non ufficiale del potere costituito.

IV

Cosa c'è che non va in questa ricostruzione dei fatti? Tutto. Neanche una tesi è sostenibile. E il fatto che fino adesso l'esegesi laica abbia avuto così tante difficoltà a interpretare tale congiura, probabilmente è dipeso dalla tendenza che i redattori evangelici hanno di mescolare la realtà con la finzione, facendo da un lato credere che una certa attività politica avesse in realtà un contenuto semplicemente religioso e, dall'altro, che una certa attività religiosa non potesse non avere delle ripercussioni politiche.

Insomma, dove sta la mistificazione di fondo? Anzitutto nel fatto che s'è trasformato il Cristo politico in un Cristo teologico e taumaturgico: i suoi miracoli prodigiosi - nella mente tendenziosa dei redattori - servivano appunto a dimostrare ch'egli era una divinità. Negando l'evidenza di questi straordinari prodigi, i Giudei vengono fatti passare per un popolo irrimediabilmente corrotto, almeno nei suoi livelli istituzionali. Tant'è che nel racconto in oggetto viene detto, là dove è usata la parola “Giudei”, che, se è vero che, di fronte alla cosiddetta “resurrezione di Lazzaro”, “alcuni di loro andarono dai farisei a riferire quel che avevano visto” (11,46), mentre “molti di loro credettero in lui” (11,45), è però anche vero che, quando si tratta dei poteri costituiti, non si fa alcuna distinzione tra progressisti e conservatori: dopo che il Sinedrio deliberò la sua morte, “Gesù non andava più apertamente tra i Giudei” (11,54).

Qui però è evidente un'incongruenza che non depone a favore neppure dei Giudei che credevano nel Cristo. Infatti il redattore scrive che molti di loro “ch'erano venuti da Maria [sorella di Lazzaro], credettero in Gesù perché avevano veduto la resurrezione” (11,45). Cioè i Giudei progressisti sono quelli in realtà che hanno bisogno di vedere coi loro occhi dei segni assolutamente prodigiosi. I Giudei peggiori sono invece quelli che, pur avendoli visti, continuano a non credere.

A leggere queste cose è difficile non accorgersi che i redattori stanno subordinando la fede alla visione di miracoli eccezionali, e lo fanno per dimostrare che, nonostante i Giudei li avessero visti di persona, essi, in ultima istanza, continuavano a non credere nella divinità del Cristo. Questo, in poche parole, significa essere antisemiti: la definizione di “popolo deicida” viene da qui. Il giudeo viene fatto passare non solo per uno che crede solo dopo aver visto segni prodigiosi, ma anche per uno che, in definitiva, non crede neppure dopo averli visti.

La contrapposizione che i redattori cristiani pongono tra la fede in un Dio unico assolutamente invisibile e la fede in un Dio-figlio ben visibile, è tutta interna alla teologia, e quindi già appartiene alla mistificazione operata nei confronti del messaggio originario del Cristo.

Per non essere antisemiti, bisogna invece, e quanto meno, dare per scontato che Gesù non avesse compiuto alcun miracolo e che non avesse mai dichiarato d'essere “Figlio di Dio” in via esclusiva, ovvero che non volesse servirsi delle proprie guarigioni per dimostrare la propria diversità dal genere umano; oppure, se anche si vuole ipotizzare l'esistenza di una qualche guarigione, bisogna però precisare che nessuna di esse può essere considerata umanamente impossibile. Non solo, ma anche nel caso in cui, in assenza di qualsivoglia miracolo o guarigione prodigiosa, Gesù abbia detto d'essere “come Dio”, ciò non può essere interpretato come se “solo lui” potesse esserlo, ma va inteso in maniera estensiva o traslata, nel senso cioè che tutti gli uomini devono sentirsi “come Dio”, proprio perché non esiste nessun Dio oltre l'uomo.

Cerchiamo allora di ricapitolare. Se Gesù Cristo non ha compiuto alcun miracolo per dimostrare d'essere Dio, ma ha invece detto che “tutti gli uomini sono dèi” (Gv 10,34), cos'è che “molti Giudei” (non “tutti”) facevano così tanta fatica ad accettare? Era il suo ateismo.

Ma se questa tesi è vera, si faccia ora attenzione alla sua conseguenza operativa. Se non esiste alcun Dio e tutto dipende dagli uomini, non è possibile aspettare che la liberazione dall'oppressione romana e dal potere collaborazionista possa venire da un Dio o da un messia che faccia prodigi spettacolari e neppure dalle autorità costituite, che sono religiose e, per di più, politicamente corrotte. Gli uomini devono liberarsi da soli. Quindi il messaggio politico del Cristo era eversivo sia nei confronti dei sinedriti, che avevano tradito il loro popolo, accettando l'imperialismo romano, sia nei confronti degli stessi Romani, cui non avrebbe riconosciuto alcun potere in Palestina.

Questo era un messaggio politicamente rivoluzionario e il suo principale contenuto non era affatto l'ateismo, bensì l'unità nazionale che prescindesse dalle differenze religiose (quelle appunto tra Giudei, Galilei, Samaritani, Esseni ecc.). Gesù Cristo si risolse a compiere l'insurrezione quando, dopo la disfatta del movimento di Lazzaro, vide che vi erano sufficienti motivazioni per realizzare un'intesa tra tutte le etnie e le tribù della Palestina. Le possibilità di liberarsi dell'imperialismo romano e del potere collaborazionistico giudaico erano del tutto realistiche.

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15) I preparativi all'ingresso messianico (fonti)

Dal giorno in cui si riunì il Sinedrio - come risulta in 11,47 -, al fine di contrastare l'intenzione di Gesù di entrare a Gerusalemme, la decisione di farlo fuori era diventata di pubblico dominio (v. 53). La differenza tra questa volontà e quell'altra di linciarlo con le pietre stava appunto nel carattere di ufficialità.

“Gesù quindi non andava più apertamente tra i Giudei, ma si ritirò nella contrada vicino al deserto, in una città detta Efraim; e qui si trattenne coi suoi discepoli” (v. 54). Sono parole semplici, queste, che smentiscono però clamorosamente una delle tesi fondamentali dei vangeli canonici, e cioè che Gesù voleva immolarsi per adempiere alla volontà del Padre, che chiedeva il suo sacrificio per riconciliarsi con l'umanità.

Ora, chiunque si rende conto che se questa tesi è falsa, nulla impedisce di credere che Gesù, in realtà, non abbia mai parlato di Dio. In tal senso tutti i tentativi che fanno gli esegeti di dipingere Gesù come un ebreo “ortodosso” o come un “credente” ebreo, sono completamente fuori strada.

Di fronte ai tentativi di lapidazione Gesù si è sempre sottratto con solerzia; anche quando volle andare a trovare le sorelle di Lazzaro fu molto prudente. Il suo obiettivo era politico, non teologico: farsi ammazzare per un'idea religiosa era cosa lontanissima dalle sue intenzioni, e probabilmente non l'avrebbe fatto neppure se avesse considerato l'ebraismo come la religione migliore del mondo. Infatti è estranea alla mentalità ebraica un misticismo astratto di così alto livello.

Piuttosto va detto che la tensione politica era molto alta e bisognava approfittarne. “Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione andarono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi” (v. 55). Avevano deciso di andare nella Città Santa solo per la Pasqua? No, ma anche perché “cercavano Gesù e stando nel Tempio dicevano tra di loro: Che ve ne pare? Non verrà egli alla festa?” (v. 56). I redattori collegano queste domande al fatto che “i sommi sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché essi potessero prenderlo” (v. 57).96

In realtà quelle domande andavano collegate anche a un'altra cosa: la speranza. Molti Giudei non stavano pensando solo al legittimo timore che Gesù aveva di essere arrestato, ma anche alla speranza di poter compiere qualcosa di eversivo contro Pilato e contro Caifa, i due peggiori rappresentanti dell'oppressione nazionale, oltre a Erode Antipa naturalmente.

Gesù aveva già preso la decisione di entrare a Gerusalemme. Doveva solo preparare l'ingresso in maniera tale da non causare pretesti per l'intervento delle guardie armate del Tempio e della guarnigione romana di stanza nella fortezza Antonia. L'ingresso trionfale doveva avere le caratteristiche della democraticità, al fine di poter agire con relativa sicurezza, all'interno della città, alcuni giorni prima del fatidico momento.

Non si doveva dare l'impressione che si era disposti a tutto pur di compiere l'insurrezione. Non si voleva fare alcun colpo di stato, ma semplicemente porre le condizioni per delle trattative in cui ogni forza politica progressista avrebbe dovuto giocare il proprio ruolo. Se la rivoluzione non fosse stata popolare, non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo di fronte a un nemico così potente. Ma se Israele avesse dimostrato che, pur essendo una piccola nazione, si poteva anche vincere un grande impero, altre nazioni o altre tribù o etnie si sarebbero ribellate. Occorreva che qualcuno facesse il primo passo, con molta convinzione e risolutezza.

I preparativi dell'ingresso vennero stabiliti a Betania, presso Gerusalemme, nella dimora di Marta e Maria, sorelle di Lazzaro, “sei giorni prima della Pasqua” (12,1).97 In quell'occasione Maria, per ringraziarlo della decisione di aver accettato l'idea di compiere l'insurrezione, “presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell'unguento” (v. 3). Maria lo fece perché era convinta che, entrando in città, Gesù avrebbe reso libera la nazione: lo unse come un messia vittorioso; lo unse come padrona di casa, non come serva, a testimonianza che tra i due doveva esserci grande familiarità.

Giuda Iscariota98 si scandalizza dello spreco e si chiede perché quel profumo non sia stato venduto per darne il ricavato ai poveri. Evidentemente non aveva colto la sfumatura allusiva alla messianicità imminente del Cristo. È quindi probabile che non fosse pienamente convinto della sua sicura realizzazione. Infatti sapeva benissimo che per fare un'insurrezione di successo occorreva un certo consenso popolare, una certa determinazione politica, e di questo nessuno poteva essere matematicamente sicuro. Tuttavia Gesù gli fa notare che quel profumo era destinato al giorno della propria sepoltura, per cui era già suo e non vi era stato alcuno spreco.

Poi i redattori hanno voluto inserire due versetti privi di logica. In uno affermano che Giuda aveva protestato “non perché gl'importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro” (v. 6). Una cosa che, se fosse stata vera, sarebbe apparsa alquanto strana, in quanto Gesù e gli apostoli avrebbero affidato la gestione della cassa comune a un ladro! Qui è evidente che i falsificatori si sono lasciati condizionare dall'immagine sinottica di un Giuda venale, traditore per soldi. Peraltro, se davvero sapevano ch'era un ladro, perché non affidare la gestione delle risorse materiali a Levi-Matteo, che sicuramente s'intendeva di finanze?

L'altra interpolazione è ancor più assurda: Gesù giustifica il gesto di Maria dicendo, come seconda motivazione, che “i poveri li avete sempre con voi, ma non sempre avrete me” (v. 8). In realtà l'insurrezione non aveva solo lo scopo di liberare Israele dall'oppressione romana, ma anche di stabilire una giustizia sociale a livello nazionale. Non avrebbe avuto alcun senso fare una rivoluzione a metà, anche perché, fatalmente, avrebbe comportato la sostituzione di un'oppressione con un'altra. Per non parlare del fatto che sarebbe stato quanto meno egocentrico, da parte di Gesù, tollerare un'ingente spreco di denaro, con cui si sarebbero potuti favorire molti poveri, solo perché riteneva molto più importante la propria esistenza in vita. Nessuna persona abituata ad assistere i poveri avrebbe mai accettato uno spreco del genere a proprio beneficio. I redattori non si sono accorti che col v. 8 avevano fatto un favore a Giuda, dimostrando, indirettamente, ch'egli aveva a cuore la sorte dei poveri più di Gesù. Probabilmente qualche redattore si è accorto di tale incongruenza e ha deciso di aggiungere il versetto relativo alla rappresentazione di Giuda come ladro.

Se poi si vuole addirittura sostenere che in quel momento Gesù stava facendo capire a Giuda che la sua morte poteva anche essere imminente e che quindi l'apostolo, a differenza di Maria, non aveva minimamente intuito questa cosa, allora siamo in piena fantascienza, come lo è il vangelo di Marco, che riporta per primo la suddetta frase relativa ai poveri (14,3-9).

Al v. 9 i redattori devono spiegare il motivo per cui a Betania era accorsa una “gran folla di Giudei”. Non potevano certo dire che si stava preparando un ingresso trionfale finalizzato all'insurrezione. Dunque, che cosa si sono inventati? Il fatto che ci andarono “anche per vedere Lazzaro, ch'egli aveva resuscitato dai morti” (v. 9). Le sciocchezze, una volta dette, vanno poi continuamente giustificate.

Ed ecco il versetto successivo: che Lazzaro fosse davvero risorto è attestato persino dalla decisione che i capi dei sacerdoti presero “di far morire anche lui, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù”. Povero Lazzaro, qui trasformato in un fenomeno da baraccone! Quando mai lo lasceranno morire in pace? Se anche egli fosse stato davvero vivo, che vantaggio avrebbe potuto dare a Gesù la sequela di gente desiderosa soltanto d'ammirare questi interventi strabilianti, degni di un prestigiatore?

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16) L'ingresso messianico a Gerusalemme (fonti)

La folla che aveva preparato l'ingresso messianico era la stessa, anzi sicuramente molto di più, di quella ch'era andata a trovare Marta e Maria, consolandole della morte di Lazzaro. Erano tutti Giudei e, siccome avevano visto quanto Gesù avesse rischiato per venire a omaggiare la salma dell'amico di Betania, pensavano ch'egli fosse la persona giusta per compiere l'insurrezione. Cioè avevano capito che la grandezza di Gesù non stava soltanto sul piano politico, ma anche su quello umano.99

Questa folla lo accoglie festosamente secondo una motivazione squisitamente politica, benché questa, nella Palestina di allora, fosse strettamente legata alla religione. Infatti dicono: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele” (12,13). Gesù appare come un “salvatore della patria”, un novello Davide, un capo zelota anti-romano. Le parole che gli rivolgono sono prese dal Salmo 118, che è eminentemente politico-militare.

Per mostrare però la sua differenza dai messia tradizionali, che usavano la forza per imporsi e che si facevano ungere dai sacerdoti dopo aver vinto militarmente, egli decide di entrare non seduto su un cavallo, bensì su un asino, simbolo della mitezza.

Il v. 15, che i redattori han messo per avvalorare l'idea di un Cristo assolutamente pacifico, è stato preso dal profeta Zaccaria (9,9 s.), il quale però pensava a un messia militare, che avrebbe avuto un impero dal Mediterraneo al Mar Morto, dall'Eufrate all'estremo sud. La Chiesa primitiva ha sempre pensato di poter utilizzare liberamente vari passi anticotestamentari adattandoli alla visione di un Cristo pacifista, agnello sacrificale, ecc., ma l'interpretazione che dà di tutti i passi che sceglie non coglie mai l'essenza del loro vero contenuto.

Il mondo ebraico raramente scinde gli aspetti etici o religiosi da quelli politici, proprio perché crede nella possibilità di realizzare un regno di giustizia su questa Terra. I primi a parlare di “resurrezione dei morti”, in maniera peraltro piuttosto vaga, sono stati i farisei, in un periodo non molto lontano da quello in cui visse Gesù.100

Pertanto, quando i redattori scrivono al v. 16: “Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto.” - quando dunque scrivono ciò, vogliono semplicemente far credere al lettore che Gesù era entrato a Gerusalemme senza alcuna vera pretesa messianica (diversamente da come interpretarono i Giudei), ma solo perché intenzionato a morire, e che di questa sua missione segreta101 egli non poteva dir nulla di preciso agli apostoli, in quanto non l'avrebbero capito; a conferma però di questa decisione, i redattori pensano sia utile riportare un passo di Zaccaria.102

I manipolatori del vangelo di Giovanni si sono rifiutati di accettare l'idea secondo cui la decisione di entrare umilmente a Gerusalemme non era strategica bensì tattica; una decisione che gli apostoli e il movimento galilaico alle loro spalle, lontanissimi dall'idea di un pacifismo ad oltranza, avevano senz'altro condiviso, anche perché, in caso contrario, Gesù non avrebbe fatto alcun ingresso. E se anche qualcuno avesse loro citato il versetto di Zaccaria, l'avrebbero interpretato nella stessa maniera, cioè come una questione di tattica, in quanto la strategia generale, a fronte della necessità di compiere una insurrezione nazionale antiromana, implicante l'abbattimento del potere della casta sacerdotale, avrebbe dovuto necessariamente essere armata.

Sia gli apostoli che la popolazione lì esultante dovevano essere disposti a morire per la liberazione d'Israele. Non era affatto previsto - anche perché sarebbe apparso semplicemente folle - che Gesù morisse per riconciliare il genere umano con la divinità. Gli ebrei non consideravano affatto il cosiddetto “peccato originale” come un evento che rendeva impossibile una piena liberazione umana sulla Terra. Il primo a dare un'interpretazione distorta, perché metafisica, della colpa adamitica è stato Paolo di Tarso.

Gli ebrei attendevano un messia liberatore proprio perché, agli occhi di Jahvè, non si sentivano affatto un popolo maledetto. Anzi, erano convinti che, pur essendo sottomessi a un impero schiavistico più forte di quello egizio o babilonese, sarebbero riusciti ugualmente ad avere la meglio. Non avrebbero mai potuto accettare una libertà semplicemente interiore, relativa alla coscienza; ecco perché dicevano a Gesù: “Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno” (8,33).

I redattori però amano cambiare le carte in tavola e, pur di far vedere che con questo forte senso ebraico della politica Gesù non aveva nulla a che fare, hanno l'ardire di affermare, convinti d'essere creduti da lettori ch'essi s'immaginano sprovveduti (ma in ciò si rivela la pochezza del loro pensiero), che la folla che aveva accolto festante e speranzosa Gesù, l'aveva fatto soltanto perché era a conoscenza della resurrezione di Lazzaro, ovvero perché “aveva udito ch'egli aveva fatto quel miracolo” (v. 18).

Subito dopo vengono descritti i farisei, i quali, disperati, parlano tra loro, dicendo: “Vedete che non concludete nulla? Ecco che il mondo gli è andato dietro!” (v. 19). Il partito politico che, come altri, aspettava la liberazione nazionale della Palestina, resta terrorizzato di fronte all'enorme consenso popolare che uno riesce a ottenere grazie ai suoi spettacolari prodigi! Come se grazie a questa straordinaria magia si potessero vincere le legioni romane!

E poi perché temerlo, visto che voleva fare il pacifista fine a se stesso? quello che, piuttosto che difendersi, usando la violenza, si sarebbe lasciato ammazzare?

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17) Dopo l'ingresso messianico

I

La manipolazione di un testo può essere fatta in varie maniere. Generalmente la più efficace è quella di sostituire delle parole con altre o d'inserirne di nuove, conservando buona parte del testo originario. In questa maniera non si censura in maniera netta: semplicemente si modifica qualcosa, ed è più facile trarre in inganno il lettore.

Nel vangelo di Giovanni si è seguita non solo questa modalità, ma anche quella d'introdurre ampi discorsi attribuiti a Gesù, che, per come sono riportati, non possono certo essere stati detti da lui, né avrebbero potuto esserlo in momenti e luoghi diversi. In tal caso il lettore pensa, a fronte di resoconti che appaiono addirittura stenografici, che qualcosa di vero vi sia sicuramente, magari detto con parole meno esplicite o meno profonde, in senso teologico ovviamente.

Prendiamo ora tre semplici versetti, piuttosto descrittivi, privi di qualunque pathos. Sembrano essere la premessa di qualcosa che però nel prosieguo non c'è, o comunque non c'è come avrebbe dovuto esserci.

“Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c'erano anche alcuni Greci” (12,20). Non viene detto che erano ebrei di lingua greca o ebrei-ellenisti, ma proprio “Greci”: non sembrano essere gli ebrei “dispersi tra i Greci”, di cui si parla in 7,35, dove appunto si fa la differenza dai Greci veri e propri.

Dunque che ci facevano degli Hellenes a Gerusalemme durante la Pasqua? Ed ecco la prima interpolazione: erano venuti per “adorare”. Adorare chi? Il Dio degli ebrei? Il Dio di una religione così esclusivistica e nazionalistica? O erano venuti per fare affari durante la Pasqua, approfittando del grande afflusso di pellegrini? Qui gli esegeti confessionali non hanno difficoltà a sostenere ch'essi erano simpatizzanti del monoteismo giudaico e che per questo motivo venivano ammessi, entro certi limiti, alla partecipazione delle feste. Negli Atti degli apostoli vengono addirittura chiamati “timorati di Dio”.

Niente di tutto questo. “Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea [e che evidentemente conosceva la lingua greca], e gli chiesero: “Signore, vogliamo vedere Gesù” (v. 21). Si noti come l'appellativo “Signore” non abbia per i Greci quel carattere magico che gli attribuiranno i cristiani dopo la morte di Gesù, prendendo appunto la parola dai Greci e caricandola di significati mistici.

Se questi Greci fossero venuti per “adorare” e, nel contempo, per “vedere Gesù”, sarebbero stati delle persone anormali, proprio perché avrebbero dovuto sapere prima che Gesù non aveva mai avuto intenzione di fare alcunché di religioso, meno che mai in quel momento. Certo è però che se si inserisce nel testo il verbo “adorare”, cosa può pensare il lettore? Che evidentemente volevano incontrarlo per motivi religiosi. E siccome questi Greci vengono descritti dai redattori subito dopo che i farisei hanno espresso tutta la loro preoccupazione per il successo di Gesù e il loro odio nei suoi confronti, cos'altro può pensare il lettore? Ovviamente che assai presto i Giudei verranno sostituiti dai Greci (o meglio, dai pagani) nella sequela del Gesù risorto.

“Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù” (v. 22). Evidentemente Filippo non era abbastanza in confidenza con Gesù. Oppure temeva una trappola, un attentato... In fondo quei Greci potevano anche essere degli agenti al soldo delle autorità giudaiche, aventi l'obiettivo d'infiltrarsi nel movimento nazareno. In tal caso parrebbe giusto che Filippo non se la sentisse di decidere da solo e che chiedesse ad Andrea di aiutarlo. Che cosa si saranno detti? Sicuramente qualcosa di politico, poiché anche i Greci sapevano che la Pasqua era il momento migliore per agire in maniera eversiva.

Quei Greci, rappresentanti di altri Greci più importanti di loro, che li avevano mandati in ambasciata, non potevano non sapere che Gesù aveva intenzione di compiere l'insurrezione nazionale. Forse l'avevano appreso dallo stesso Filippo, che andò ad avvisare Andrea per avere la conferma di mettere in contatto diretto Gesù con questi delegati. I quali però non sono stati messi dai redattori per farli parlare di politica con Gesù, ma per assistere a un suo discorso squisitamente teologico. Qui è la seconda mistificazione che s'impone.

II

Che Gesù, entrando pacificamente a Gerusalemme, abbia sostenuto dei discorsi in pubblico appare normale. Generalmente chi non fa “discorsi” sono i militari quando compiono i colpi di stato. Ma che, in quel momento così cruciale per i destini d'Israele, egli abbia fatto un discorso così mistico - quale quello riportato nei vv. 23-50 del cap. 12 - è del tutto inverosimile.

Si noti anzitutto l'attacco del v. 23: “Gesù rispose loro”. A quale domanda rispose? I suddetti Greci non hanno aperto bocca. E poi chi sono questi “loro”? Davvero sono i Greci? Ma allora chi è la folla dei versetti 29 e 34? E cosa c'entrano i capi religiosi del v. 42?

Dunque, che cosa hanno fatto i manipolatori di questo vangelo? Hanno sostituito la sintesi giovannea degli interventi fatti da Gesù, che dialogava con la folla giudaica, con una sintesi di natura completamente mistica, che ovviamente è tutta falsa. Non ci vuole un particolare ingegno per capirlo. Naturalmente noi non sapremo mai cosa egli abbia detto, ma possiamo dire di sapere con sicurezza che non può aver detto neanche una parola di quanto è qui scritto. E possiamo anche arguire che se la manipolazione è stata così pesante, nel proprio misticismo, allora il discorso originario doveva essere particolarmente intenso sul piano politico, da non lasciare dubbi agli ascoltatori su come ci si dovesse schierare per liberarsi della guarnigione romana e della corrotta casta sacerdotale.

Povero Giovanni! Gesù Cristo è stato fatto a pezzi sul piano fisico dai suoi peggiori nemici, ma la falsificazione ideologica che ha dovuto subire dopo morto dai suoi discepoli è stata forse ancora più violenta; e Giovanni, purtroppo, non ha potuto far nulla per impedire che anche la sua ricostruzione dei fatti venisse completamente stravolta.

Ora, nel suo discorso Gesù non fa altro che ribadire la necessità di dover morire. Su questo punto è davvero insistente. “È giunta l'ora che sia glorificato il Figlio dell'uomo” (v. 23). Il verbo “glorificare” va proprio inteso nel senso che Gesù deve risorgere dopo essere stato ammazzato, e non nel senso politico di una insurrezione vittoriosa. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (v. 24). “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (v. 25): un'espressione tipica degli ambienti monastici e molto semitica nella forma.103 “Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre [nell'aldilà] lo onorerà” (v. 26). “Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome” (v. 27). La frase è presa da Mc 14,34 ss., a testimonianza che, nelle sue linee di fondo, il IV vangelo non può discostarsi dal primo, altrimenti sarebbe finito nel dimenticatoio o l'avrebbero addirittura fatto scomparire del tutto. Dio-padre, per la prima e unica volta in questo vangelo, parla dal cielo in suo favore (v. 28) proprio come in Mc 1,11 e in Mc 9,7.

Al v. 32 Gesù fa addirittura riferimento, seppur in maniera sfumata, alla sua crocifissione: “quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. Qui il verbo “elevare” è stato svuotato dai redattori del suo contenuto politico e messo in relazione a un'idea di redenzione etico-religiosa dell'intera umanità, che avverrà grazie alla croce. Gesù è persino contento di finire martire, proprio perché così porta a compimento il disegno divino; non c'è il dolorismo patetico e il bisogno d'obbedire a qualcosa che va oltre la propria volontà, così come si riscontra nei Sinottici. La croce non è la sconfitta politica imposta da un Dio-padre che ritiene impossibile la piena liberazione umana sulla Terra, ma è la vittoria morale di chi sa benissimo, per conto proprio, che l'unica liberazione possibile è nei Cieli. Il Cristo mistico del Giovanni manipolato non ha bisogno di “obbedire” al Padre, come se fosse un Figlio con delle ambizioni teologicamente non condivisibili (comprensibili ma non legittimabili); in un certo senso è “Padre di se stesso”. Il che, ma questo i redattori non potevano prevederlo, può anche essere svolto, se portato alle sue conseguenze più logiche sul piano umanistico, in maniera del tutto ateistica.

Di fronte a discorsi così ostici, perché altamente teologici, e anche così categorici, in quanto il “mondo” viene condannato in maniera solenne104, la folla, naturalmente, viene presentata dai redattori come se non capisse nulla di ciò che lui stava dicendo. In tale maniera viene fatta passare per incredula e dura di cervice, quando, se davvero Gesù avesse parlato così, ne avrebbero avuto ben donde.

D'altra parte gli evangelisti sono antisemiti, non scordiamocelo mai. Se non lo fossero, eviterebbero di scrivere: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (v. 37). Qui poi la falsità è doppia, poiché non solo Gesù non ha mai fatto dei segni miracolosi, ma in questo vangelo, a Gerusalemme, ne ha fatti solo due e nella Giudea solo tre. Anzi essa è tripla, poiché si fanno passare i Giudei come un popolo che aveva bisogno dei miracoli del messia per credere nella verità delle sue parole. Che poi, anche se davvero li avessero visti, che cosa avrebbero dovuto dedurre? Che Gesù doveva per forza essere considerato il messia da tutti atteso? Sarebbe stata logica un'inferenza del genere? Paradossalmente gli ebrei appaiono più logici quando di fronte ai miracoli vien fatto dire loro, nel vangelo marciano (3,22), ch'essi erano opera di Beelzebùl!

Ovviamente non può mancare un riferimento artificioso, interpretato arbitrariamente, a qualche passo dell'Antico Testamento. Questa volta la scelta è caduta sul profeta Isaia, del quale addirittura si dice che “vide la gloria di lui e di lui parlò” (vv. 38-41). Vengono usate le parole di Isaia per sostenere che i Giudei erano destinati da Dio a non credere in Gesù! I manipolatori dicono ciò senza rendersi conto che se davvero i Giudei erano a questo destinati, allora dovevano esserlo anche i suoi discepoli, che infatti - guarda caso - mistificarono completamente il suo messaggio.

Dunque, davvero soltanto i pagani avrebbero potuto comprenderlo? Concediamolo, ma chiediamoci: di fatto come l'hanno compreso? Sul piano storico, quale interpretazione della vicenda di Gesù è risultata vincente? Proprio quella falsificata dai discepoli del Cristo, ch'erano appunto Giudei e Galilei! Dunque quest'uomo da chi potrà mai essere capito?

Lasciamo poi perdere i vv. 44-50, che nella loro reiterazione, in quanto presenti in varie parti di questo vangelo, risultano piuttosto stucchevoli e persino patetici (peraltro contengono un discorso di cui i redattori non dicono quando e dove è stato pronunciato, né a chi fosse rivolto, anche perché sin dal v. 36 Gesù ha deciso di nascondersi). Sembra l'urlo disperato di un fanatico religioso che non riesce a spiegarsi perché i Giudei non vogliano credere alle sue parole. Per motivare la loro cecità, la loro durezza di cuore, i redattori son ben contenti di servirsi del profeta Isaia, allorché Jahvè lo manda a dire al suo popolo: “Ascoltate pure, ma senza comprendere, osservate pure, ma senza conoscere. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro d'orecchio e acceca i suoi occhi e non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore né si converta in modo da esser guarito” (Is 6,9-10).

Eppure al momento dell'ingresso messianico in tanti avevano creduto nella messianicità di Gesù, e senza che lui neppure parlasse, senza fare sfoggio di tutte quelle caratteristiche tipiche dei condottieri militari in procinto di occupare una città o di rovesciare un governo. Che senso ha quindi questa specie di urlo disperato messo subito dopo l'unico versetto un po' realistico, in cui è scritto: “anche tra i capi, molti credettero in lui, ma non lo riconoscevano apertamente a causa dei farisei, per non essere espulsi dalla sinagoga” (v. 42).

“Molti tra i capi”? Allora non tutto era perduto. C'era ancora la possibilità di fare qualcosa di eversivo. Di giorno poteva parlare in pubblico, contando sull'appoggio della folla, senza che nessuno potesse arrestarlo. Solo di notte “si nascondeva da loro” (v. 36). Infatti, ciò che dovevano capire era soltanto una cosa: o la rivoluzione è popolare o non si fa, e non potrà certo esserlo finché non viene estromessa la casta sacerdotale dal proprio potere. È impossibile vincere un nemico esterno come i Romani se prima non si abbatte la dittatura dei sacerdoti, degli anziani e degli scribi che nel Sinedrio rappresentano il potere politico-religioso. Soprattutto sono i farisei che devono decidersi da che parte stare. Sono loro che devono uscire dall'ambiguità che li caratterizza. Ma per i redattori la presenza pubblica di Gesù finisce qui: il popolo giudaico non lo vedrà (né udrà) più se non quando Pilato lo mostrerà al processo.

A questo punto non si capisce più perché Gesù, vedendo una così scarsa disponibilità a insorgere, non abbia ritenuto più opportuno andarsene da quella città “maledetta”...

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18) La mistica della morte

I

Da una rottura interna al movimento essenico era emerso il movimento dei battisti, seguaci di Giovanni, figlio del sacerdote Zaccaria, anche lui, presumibilmente, destinato a una carriera sacerdotale, cui però, ad un certo punto, rinunciò, per mettersi a fare il profeta annunciatore della necessità di realizzare un regno divino, in cui sia i Romani che i gestori del Tempio venissero messi fuori gioco.

La differenza tra i due suddetti movimenti stava nel fatto che il Battista non voleva più limitarsi a contestare la corruzione del partito sadduceo, fortemente colluso coi Romani, nella gestione del Tempio, circoscrivendo la propria azione in un luogo isolato, semidesertico, come appunto quello degli Esseni. Giovanni scelse il fiume Giordano e si attrezzò tecnicamente per organizzare la propria pratica battesimale, non reiterabile, finalizzata all'assunzione di un impegno morale a favore della realizzazione operativa del regno messianico. Presso questo fiume tutti potevano giungere abbastanza facilmente e ascoltare quanto aveva da dire. Molti erano convinti, visto il successo che conseguiva, che il messia avrebbe potuto essere proprio lui.

Tuttavia Giovanni non ebbe il coraggio di compiere un'insurrezione armata contro i gestori del Tempio, così come aveva proposto di fare suo cugino Gesù. Sicché il suo movimento si divise in due parti: una diventò il movimento nazareno o gesuano, più spiccatamente politico; l'altra invece rimase col Battista, e continuò a restare fedele alle sue idee etico-religiose anche dopo che il loro leader venne fatto decapitare da Erode Antipa. Poi, quando il movimento nazareno si trasformò, sotto l'influenza della teologia petro-paolina, in movimento “cristiano”, i battisti (o almeno una loro parte) recuperarono un certo rapporto collaborativo coi cristiani, basato sul compromesso secondo cui essi avrebbe accettato l'idea di messianicità, di resurrezione e di figliolanza divina da attribuire al Cristo, mentre i cristiani avrebbero condiviso la pratica battesimale e altri riti liturgici di derivazione essenica, tra cui l'eucaristia, e naturalmente tutti avrebbero considerato il Battista l'unico vero precursore del Cristo.

In particolare il rito del battesimo venne ulteriormente spiritualizzato: infatti esso non avrebbe dovuto anticipare la venuta di un regno divino in senso politico-religioso e nazionale, ma solo autorizzare a entrare in una Chiesa destinata a superare sempre più gli aspetti politici e nazionali. Il battesimo cristiano non sarà più soltanto di “acqua”, cioè simbolo di una purezza morale o prepolitica, ma diventerà anche di “spirito”, un vero e proprio esorcismo contro il demonio per cancellare dalla propria anima il marchio del peccato originale e poter accedere al regno celeste, ultraterreno.

Tuttavia una parte del movimento cristiano non si limitò a fare un compromesso col movimento battista neo-cristianizzato, ma accettò anche di vivere il suo stesso stile di vita, di tipo monastico, analogo a quello essenico. Anzi, dagli Esseni i cristiani presero anche altri riti o tradizioni, influenzati da un certo ellenismo, e li modificarono con elementi tratti dalla nuova concezione di messia che avevano elaborato.

È notorio che delle quattro principali correnti cristiane che si affermarono dopo la morte di Gesù (quella di Pietro, di Giacomo il Giusto, di Giovanni Zebedeo e di Paolo), inizialmente ebbe la meglio quella galilaico-petrina, poi, dopo il suo esilio da Gerusalemme, prevalse quella giudaico-giacomita e, infine, dopo la disastrosa guerra del 66-70 contro Roma, quella farisaico-paolina (quest'ultima fortemente caratterizzata da una certa impronta ellenistica).

Gli autori-falsificatori del IV vangelo, che hanno scritto per ultimi, dovevano tener conto soprattutto della teologia paolina, per forza maggiore. Senonché, essendo monaci, non erano cristiani itineranti e urbanizzati, come quelli paolini. Noi non sappiamo se fossero o no discepoli dell'apostolo Giovanni. Sappiamo soltanto ch'essi avevano sotto mano il vangelo originario ch'egli aveva scritto in aramaico contro quello di Marco105, e presero a falsificarlo e mistificarlo pesantemente. Il motivo possiamo immaginarlo: quello era l'unico modo per far sopravvivere qualcosa che altrimenti sarebbe stato distrutto.

Questi redattori sono giudeo-cristiani che odiano i giudeo-ortodossi e li odiano perché hanno impedito a Gesù di vincere sia i Romani che i sadducei che gestivano il Tempio. Solo che non possono dirlo. Si sentono soltanto più liberi di dire che almeno una parte di responsabilità, nella morte del Cristo, ricade anche sui Romani; possono farlo perché, anche se sono stati costretti ad accettare la teologia paolina, sono convinti di potersi differenziare, nel loro stile di vita, dalle comunità urbanizzate che tale teologia aveva prodotto. Si sentono superiori, più sofisticati nella riflessione teologica.

Il prezzo che Giovanni pagò fu però altissimo, anche perché la teologia che ne venne fuori fu qualcosa di sconvolgente. I monaci redattori inventarono quella che può essere definita “la mistica della morte”. O meglio, svilupparono in maniera abnorme un concetto che Paolo di Tarso aveva già espresso nelle sue lettere: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno.” (Fil 1,21), anche se altrove farà capire che se è bene morire martiri, non è bene che vi siano dei persecutori.

Proprio perché conducevano un tipo di vita molto particolare, ai margini dell'urbanizzazione imperiale, tali redattori sono arrivati ad avere atteggiamenti assolutistici, estremistici e, in fondo, irrazionalistici, in quanto la rappresentazione che danno di Gesù è quella di un esaltato, che pensa di vincere Satana (il “Principe di questo mondo”); e pensa di farlo proprio nel momento in cui accetta di morire, sapendo bene che vincerà la morte risorgendo. È un Cristo che vince perché vuol dimostrare che, pur avendo ragione, pur avendo tutti i mezzi per dimostrare che ha ragione, è disposto a lasciarsi uccidere senza reagire, da parte di chi rappresenta la menzogna personificata. Ecco perché il suo comportamento coglierà tutti di sorpresa, inclusi i suoi più stretti discepoli.

II

Quando nel IV vangelo viene fatto dire a Gesù, già entrato a Gerusalemme per compiere l'insurrezione nazionale anti-romana, che “il figlio dell'uomo deve essere glorificato” (12,23), con questo verbo, usato al passivo, come se la cosa non dipendesse completamente da lui ma da un'entità superiore (che ai vv. 27-8 viene identificata esplicitamente col “Padre”, il Dio dei cieli), gli autori intendono non il fatto ch'egli sarebbe dovuto diventare un leader politico, riconosciuto a livello nazionale, per la liberazione dell'intero paese, bensì l'idea, del tutto mistica e quindi tendenziosa e falsificante, ch'egli avrebbe dovuto immolarsi, cioè sacrificare la propria vita per indurre gli uomini alla salvezza.106

“Ora la mia anima è turbata” (di fronte alla propria auto-immolazione non può non esserlo, poiché deve per forza chiedersi se il gesto che sta per compiere servirà davvero a qualcosa); “e che dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma se è proprio per questo che ho atteso quest'ora!” (v. 27). Cioè non ha senso avere dei dubbi nel momento stesso in cui si ha la possibilità di dimostrare finalmente quel che si vale al mondo intero. La “determinazione in carattere” va considerata assolutamente decisiva, per usare una terminologia kierkegaardiana; anche se qui ovviamente non si può escludere che, in una concezione così irrazionalistica della vita, il martire non possa avvalersi di strumenti idonei per indurre il potere a eliminarlo. In fondo sta anche nella sua destrezza far passare il proprio suicidio religioso per un omicidio di stato. E, nel caso in oggetto, si potrebbe facilmente pensare che l'ingresso nella capitale, proprio in occasione della Pasqua, sarebbe stata un'occasione ottima per provocare le autorità costituite, occupanti e colluse.

Il “granello di frumento” - di cui si parla al v. 24 - deve “morire” per poter produrre “molto frutto”. Questa mistica della morte è stata elaborata per falsificare un progetto di liberazione politica (ovviamente anche sociale e culturale), di cui i discepoli più stretti (in primis Pietro) non hanno voluto ammettere il fallimento a causa della loro incapacità o inettitudine, non essendo stati sufficientemente risoluti per impedire che quella disfatta avvenisse o per proseguire quel progetto anche dopo l'esecuzione capitale del loro leader.

La morte in croce di un capo politico è stata trasformata in una suggestione psicologica e morale per una salvezza esclusivamente religiosa. Qui infatti si è in presenza di una sorta di paradossale provocazione di tipo metafisico, non scevra da effetti scenico-teatrali, che ricordano le tragedie greche.

La morte accettata consapevolmente, da parte di chi avrebbe potuto evitarla, viene qui considerata come la prova suprema della verità di sé e dell'operato dei propri discepoli, di fronte alla quale il popolo non potrà rimanere indifferente. Il Cristo è “testimone di verità” proprio in quanto martire. Un'equivalenza, questa, la cui forzatura venne sottolineata dal primate danese Martensen al suddetto filosofo Kierkegaard, intento a cercare motivazioni religiose per contestare la Chiesa di stato. Un'equivalenza che ancora oggi troviamo in tante religioni fondamentalistiche.

La salvezza sta quindi nel fatto che ci si deve convertire solo interiormente, opponendo una forma di resistenza etico-religiosa ai poteri costituiti. La vittoria starà soltanto in una progressiva espansione pacifica della virtù, nei cui confronti il potere dovrà ad un certo punto cedere. Infatti, se i credenti seguiranno l'esempio del loro maestro, tutte le persecuzioni non faranno che allargare il consenso. Il seme dà frutto proprio quando muore, cioè quando, penetrando nella terra (nei cuori degli uomini), esplode e fa crescere la pianta, che dà molti frutti.

“Chi ama la sua vita”, cioè chi non è disposto ad accettare il martirio, “la perde”, cioè non si salva, non può diventare un seguace significativo dell'esempio che dovrebbe imitare, e non semplicemente ammirare sul piano etico o apprezzare su quello intellettuale; “e chi odia la sua vita in questo mondo”, ritenendola un nulla al cospetto del bene supremo, della verità che deve affermare, che vuole vedere affermarsi, “la conserverà in vita eterna”, cioè avrà un premio nell'aldilà (“il Padre l'onorerà”, v. 26).

Mistica della morte vuole appunto dire questo, che si deve accettare il martirio non tanto per realizzare la giustizia su questa Terra, quanto piuttosto per poter fruire di una salvezza personale nel regno dei cieli. Su questa Terra, infatti, se il modello originario non è riuscito a realizzare il bene assoluto, è impossibile che vi riesca la sua copia sbiadita, per usare un linguaggio platonico. Il peccato originale ha reso gli uomini incapaci del vero bene. L'unico bene che possono realizzare è quello di accettare una persecuzione sino alla morte, mostrando che di questo mondo non amano nulla, nemmeno se stessi. L'unica cosa che amano è la salvezza della loro anima, che non vuole contaminarsi spiritualmente con alcunché.

Il cristianesimo - direbbe Nietzsche - è la religione degli sconfitti, quelli che vogliono trasformare il fallimento del progetto politico di liberazione in una occasione di redenzione meramente spirituale, una liberazione dalle tentazioni del mondo, da tutte le sue forme di corruzione. “La nostra battaglia - dirà Paolo, il vero fondatore del cristianesimo - non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef. 6,11).

È quindi impossibile che gli autori di questo vangelo non appartengano a una comunità di tipo monastico: la scelta stessa dell'esempio del chicco di frumento lo dimostra. Un monaco agricoltore si accorge facilmente quando il seme non riesce a dar frutto, o perché beccato dagli uccelli o perché seccato dal sole o perché soffocato dalle erbacce.

Per essere coerenti con se stessi, il più possibile, dovevano necessariamente isolarsi dai contesti urbani, cercando di vivere esclusivamente di autoconsumo, di cui il pane era l'alimento principale. Essi finirono col riprodurre una forma di esistenza sociale simile a quella degli Esseni di Qûmran, con la differenza che mentre questi aspettavano un messia liberatore della Palestina, i redattori monaci del vangelo attribuito a Giovanni davano invece per scontato che tale messia era già arrivato e che non sarebbe più tornato sino alla fine dei tempi.

La scelta monastica quindi non sarebbe stata provvisoria, ma definitiva. Dalla comunità monastica non sarebbe più uscito un nuovo predicatore, come p.es. Giovanni Battista, il quale si era reso conto che occorreva rivolgersi più direttamente al proprio popolo, senza aspettare che fosse quello ad accorgersi del valore della comunità qumranica. La comunità cristiana monastica avrebbe dovuto soltanto attendere passivamente, con assoluta rassegnazione, la fine della storia, il ritorno glorioso del Cristo giudice, confidando nel fatto che la scomparsa misteriosa del suo cadavere dalla tomba concessa da Giuseppe d'Arimatea fosse un chiaro segno della sua “divina resurrezione”.

L'unica fatica da fare era quella di resistere alle tentazioni della vita mondana: le comodità, il benessere, i piaceri della carne, la ricerca di un potere personale. Il monaco cristiano doveva continuamente mortificare il proprio corpo, e persino il proprio spirito, se questo gli avesse impedito di vivere in armonia coi compagni di fede.

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19) L'ultima cena

I

Per la parte relativa alla lavanda dei piedi, l'ultima cena (13,1 ss.)107, è descritta come una cerimonia di tipo monastico. Quando in tanti si vive in spazi molto ristretti e i litigi possono avvenire anche per delle cose alquanto banali, ci vuole molta disciplina e, quando questa non basta, si possono anche escogitare dei riti simbolici, in cui si rappresenta l'esigenza dell'amore fraterno, reciproco, come elemento fondamentale per consolidare la comunità. Sono riti ad uso interno, che non vengono comunicati all'esterno. Qui la lavanda dei piedi è stata messa per iscritto allo scopo di far credere che risaliva addirittura a un'iniziativa del Cristo.

Un lettore dei Sinottici potrebbe scandalizzarsi nel non scorgere alcun cenno all'istituzione dell'eucarestia. Ma qui non bisogna pensare che i redattori del IV vangelo non sapessero nulla dei sacramenti: basta vedere come descrivono Gesù nel momento in cui spezza i pani per moltiplicarli a beneficio dei cinquemila Galilei, per convincersi del contrario. Il verbo che usano per spiegare tale gesto è proprio “εὐχαριστία”, cioè “rendere grazie”, che viene traslitterato nella lingua italiana con la parola “eucaristia”.

Nel racconto dell'ultima cena i redattori danno per scontata l'istituzione di questo sacramento, ma per le loro esigenze interne ritengono più significativa la lavanda dei piedi. Entrambe le cose però sono state completamente inventate. La lavanda dei piedi inizia addirittura con una premessa che, se Gesù l'avesse comunicata agli apostoli, li avrebbe letteralmente sconcertati: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo ch'era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi ch'erano nel mondo, li amò sino alla fine” (v. 1). E al v. 3: “Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava...”.

Questi redattori non si sono resi conto che, sulla base di motivazioni così altamente mistiche, hanno inevitabilmente posto una pesante ipoteca sulla credibilità di un gesto che, sul piano umano, per quanto esagerato fosse, si sarebbe anche potuto accettare. Nel senso che avrebbe potuto essere compiuto non tanto per dimostrare fino a che punto il “Figlio di Dio” era disposto ad amare gli uomini, quanto piuttosto per indurre gli apostoli a capire, con un gesto simbolico, che non stavano compiendo un'insurrezione nazionale per sterminare, con tutta la violenza possibile, i propri nemici, o per vendicarsi di qualche torto subìto, o per acquisire un potere personale con cui agire da autocrati, in nome di una verità indiscutibile, che si riteneva infinitamente superiore a quella dei poteri dominanti: gli apostoli dovevano semplicemente mettersi al servizio del popolo, al fine di soddisfare esigenze comuni, in virtù delle quali fosse scongiurato il rischio di creare un nuovo regime antidemocratico.

Lavare i piedi era il gesto che faceva il servo o la serva nei confronti del suo padrone: un gesto particolarmente gradito quando si tornava a casa dopo aver percorso le strade polverose della Palestina. Probabilmente era di uso comune in quelle comunità monastiche istituite presso luoghi isolati, semidesertici, raggiungibili attraverso lunghe strade poco praticabili. Forse era l'azione che i novizi dovevano compiere d'ufficio verso i loro superiori. Qui, nel Cenacolo, non avrebbe avuto alcun senso.

Per far capire ai discepoli che un rivoluzionario deve avere non solo capacità organizzative, tattiche e strategiche, ma anche una grande sensibilità umana, non c'era bisogno di escogitare un gesto del genere, dove peraltro le parti in gioco, di servo e signore, vengono invertite. Gli apostoli avevano già vissuto molto tempo con Gesù (sicuramente più dei tre anni di cui parla il IV vangelo): dovevano aver capito da un pezzo che la liberazione nazionale avrebbe trovato il suo vero senso solo se fatta all'insegna della democrazia, umana e politica.

Indubbiamente l'inversione dei ruoli rendeva dignitoso anche un gesto molto umile, che, nell'ambito di una comunità monastica, poteva anche incontrare una certa resistenza da parte di quegli adepti convinti di dover trovare in essa quell'uguaglianza sociale che non erano riusciti a constatare o a realizzare nei contesti urbani. In tal senso la pericope può essere servita a mostrare che in una comunità monastica l'uguaglianza è possibile anche se esiste una gerarchia da rispettare. Infatti viene detto, da un lato, che i discepoli devono lavarsi i piedi reciprocamente (v. 14) e, dall'altro, che il servo non è maggiore del suo signore (v. 16), anche perché quest'ultimo ha una visione superiore delle cose, di carattere più generale e praticamente infallibile.

D'altra parte, se è vero che esiste una gerarchia che non si può mettere in discussione, è anche vero - e ciò viene detto a titolo consolatorio - che il Cristo resta sempre “Figlio” di un Dio-padre, per cui anche lui dipende da qualcuno cui rendere conto. Ciò a riprova che l'idea di uguaglianza sociale incontra nella religione dei limiti insuperabili nel suo cammino verso l'emancipazione umana.

Detto questo, appare evidente che nel momento dell'ultima cena, quando ancora tutto era in gioco, Gesù avrebbe potuto al massimo chiedere ai Dodici di non compiere iniziative personali, di restare uniti a tutti i costi e, soprattutto, di non venir meno agli impegni presi, prescindendo da ciò che sarebbe potuto accadere a qualcuno di loro in particolare. A tutti infatti doveva esser chiaro che il fallimento dell'operazione politico-militare avrebbe comportato pesanti ritorsioni su di loro e su tutto il movimento; e in ogni caso non si doveva tentare l'insurrezione solo perché ormai non si poteva più tornare indietro: bisognava sempre valutare l'effettiva entità delle forze in campo.

La cosa strana, nel racconto della lavanda dei piedi, è il rapporto tra Gesù e Pietro. Nel primo vangelo Pietro viene messo abbastanza frequentemente in cattiva luce, ma si tratta di un'apposita strategia redazionale, finalizzata ad accentuare il lato teologico del messia, nei cui confronti l'uomo comune non può che palesare la propria limitatezza. Perché dunque non riportare in Marco anche questa scena del Cenacolo? Avrebbe fatto comodo al suo vangelo. Con essa infatti si poteva mostrare come la visione della realtà che caratterizzava una personalità forte come quella di Pietro, fosse solo in parte incompatibile con quella di Gesù, il quale aveva di mira piuttosto l'atteggiamento di Giuda, di cui sospettava intenzioni assai poco amichevoli.

Dobbiamo quindi dare per scontato che un racconto del genere non sia presente nel protovangelo perché del tutto inventato nel IV? Ma i redattori di quest'ultimo non hanno pensato che i lettori dei Sinottici avrebbero potuto accorgersi di tale evidente stranezza? Ciò fa pensare che il vangelo giovanneo venisse usato solo all'interno delle comunità monastiche e che non avesse molta divulgazione all'esterno, se non appunto in comunità analoghe. Probabilmente questa fu un'altra delle condizioni che gli vennero poste per poter essere canonizzato.

Qui Pietro sembra voler dire a Gesù: “Se di me non ti fidi, allora lavami tutto”. E Gesù è come se gli rispondesse: “Se non ti fai lavare i piedi, sei come Giuda”. Pietro rischia di apparire, in questo racconto, come un traditore.

Nel primo vangelo, al massimo, Pietro viene dipinto come un rinnegato; di regola infatti appare come un impulsivo che agiva prima di riflettere. Ma non viene mai raffigurato come un potenziale traditore. Sarebbe stato troppo infamante.

Nel IV vangelo invece i redattori non hanno molti scrupoli ad equipararlo, virtualmente, a Giuda. Ciò è davvero singolare. Si ha l'impressione che in questo vangelo, pur essendo ben netta la dipendenza dalla teologia petro-paolina, si avverta la figura di Pietro piuttosto negativamente. Non è da escludere che la suddetta teologia, essendo indirizzata a popolazioni urbanizzate e avendo come modalità operativa la predicazione itinerante, venisse considerata, dagli autori di questo vangelo, di livello inferiore a quella che si poteva vivere in un'esperienza di tipo monastico, lontana dalle tentazioni, dagli agi, dalle distrazioni delle grandi città.

II

L'etica evangelica può apparire di basso livello rispetto all'etica stoica, per la quale il bene va fatto in sé e per sé, per il valore intrinseco che ha e non in funzione di un premio ultraterreno.

Tuttavia l'etica evangelica è nata in seguito a una débâcle politica, in cui era in gioco la liberazione nazionale dallo straniero oppressore e la realizzazione della giustizia sociale. È stata un'etica elaborata per delle classi sociali popolari, uscite sconfitte dallo scontro coi poteri dominanti e che, per questa ragione, speravano di rifarsi in un'altra vita. I cristiani più esigenti credono così tanto nella realtà ultraterrena e nel premio che li attende che sono disposti, su questa Terra, a compiere qualunque sacrificio, anche a morire, se fosse necessario, poiché non ritengono la vita più importante della morte; anzi, generalmente pensano il contrario, almeno quelli che fanno della loro fede un vincolo solenne.

Una coerenza del genere difficilmente si potrebbe trovare in uno stoico greco o romano, proprio perché l'etica stoica è stata elaborata per i ceti aristocratici e intellettuali, che non credevano più nella democrazia della polis o in quella repubblicana: è anch'essa un'etica della rassegnazione, ma più scettica, poiché non conserva neppure il desiderio di un miglioramento ultraterreno. È un'etica appartenente a ceti benestanti, che pensano di non aver nulla da guadagnare nell'aldilà, come nulla hanno da perdere, se invece d'essere gaudenti, scelgono l'atarassia, cioè l'indifferenza ai piaceri della vita. In casi estremi, di fronte a costrizioni insopportabili, lo stoico tende a preferire il suicidio.

Perché queste considerazioni? Perché il racconto dell'ultima cena si conclude con le seguenti parole redazionali (molto stoiche, ma fino a un certo punto): “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (13,34 s.).

Qual è la differenza tra questa morale stoico-cristiana e quella pagana? Gli stoici erano forse più individualisti? Se anche fosse, non sarebbe questa la differenza fondamentale. In questi versetti l'amore fraterno viene considerato come una forma di consolazione, proprio a seguito di una sconfitta politica. E quest'ultima va considerata come definitiva, senza possibilità di recupero: l'istanza di liberazione terrena è destinata a rimanere insoddisfatta. Cristo, per gli evangelisti, che in questo riflettono la teologia petro-paolina, non è mai stato un liberatore politico, ma soltanto un redentore spirituale.

Il suo messaggio, in sostanza, si riduce a queste poche parole: “Se volete sopravvivere dignitosamente in queste società schiavistiche e oppressive, amatevi reciprocamente”. Il consiglio, quindi, è di tipo stoico, ma con una certa differenza dallo stoicismo pagano. La quale sta proprio nelle parole: “Come io vi ho amati”. Per lo stoicismo evangelico Gesù costituisce un modello da imitare, un punto di riferimento imprescindibile per l'appartenenza a una comunità di credenti.

In che senso quindi va inteso tale “modello” secondo i vangeli? Gesù non era solo un uomo, ma anche un Dio, che, pur potendo imporsi con tutta la propria straordinaria autorevolezza, non lo fece; era un Dio che volle far capire agli uomini che, senza di lui, non sono in grado di compiere nulla di buono, o comunque nulla la cui bontà possa durare per più di un certo tempo; era un Dio che, col proprio sacrificio, ha saputo riconciliare un genere umano votato al male, a causa del cosiddetto “peccato originale”, col Dio creatore, che così l'ha perdonato e ha rinunciato a distruggerlo, come fece ai tempi di Noè, allorché si pentì d'averlo creato.

Per i cristiani Gesù è forse un modello irraggiungibile? No, perché per imitarlo è sufficiente praticare l'amore fraterno e il sacrificio di sé, fino al martirio, se necessario. Il cristiano non ha paura di nulla. Non è così stoico da esserlo anche nei confronti del proprio stoicismo. Non si adegua, supino, alla volontà dei poteri dominanti, se questi poteri impediscono al suo modello di diffondersi, di farsi valere come modello universale. Ecco perché il cristianesimo primitivo, prima di trasformarsi in una religione di stato sotto l'imperatore Teodosio, è diventato, pur nel proprio delirio mistico, una religione universale, mentre lo stoicismo è rimasto una filosofia aristocratica che non avrebbe potuto reggere il confronto col cristianesimo.

III

Diversamente da come credono tanti esegeti confessionali dei vangeli, non vi era una grande differenza tra mondo pagano e mondo ebraico-cristiano, ai tempi di Gesù Cristo, relativamente al cosiddetto “comandamento nuovo” di cui parlano gli autori del vangelo manipolato di Giovanni, e cioè “l'amore”.

Sono tanti i testi dei filosofi greci e anche romani in cui si parla di questo concetto o, se si vuole, di questo sentimento. I cristiani inventarono persino un carteggio tra Seneca e Paolo di Tarso, al fine di dimostrare che tra stoicismo e cristianesimo non vi erano differenze sostanziali sul piano etico. Si potrebbe anzi dire che il Cristo del IV vangelo, che per “amore” verso i propri discepoli è disposto a dare persino la propria vita, è il più vicino a certe figure mitologiche (p.es. Alcesti) o a certi personaggi illustri, realmente esistiti, del mondo pagano (p.es. Socrate) o ai fondatori o seguaci di certe correnti filosofiche ellenistiche/orientali (stoica, epicurea, cinica, indo-buddistica, ecc.). L'amore reciproco non è neppure una peculiarità cristiana rispetto al mondo ebraico. Il comandamento di amarsi vicendevolmente è già presente nel Levitico (19,17 s.).

La vera differenza da tutto ciò - quella che nei vangeli non appare - stava piuttosto nel fatto che per il Gesù storico il concetto dell'amore non si giustificava in se stesso, ma soltanto in rapporto a un progetto di liberazione, sociale e politica, dalle sofferenze e dalle contraddizioni che determinati rapporti di oppressione e di sfruttamento avevano creato.

Il grande merito del Gesù storico, che non appare neanche lontanamente nel Cristo della fede, proprio perché questo assomiglia troppo a certi miti pagani o del profetismo ebraico, sta nell'essersi impegnato a realizzare un movimento di persone disposte a rovesciare politicamente il sistema che impediva all'amore di esprimersi adeguatamente.

Nel Gesù storico l'amore non è semplicemente un valore privato tra coniugi o tra amici o tra parenti o tra maestro e discepoli; non è neppure la modalità operativa che devono vivere comunità ristrette o monastiche, quelle che si isolano dal mondo violento e che rifiutano lussi e comodità, preferendo l'autoconsumo. È molto di più. È una specie d'impegno personale, che uno prende nei confronti di se stesso, dei propri compagni di lotta e dell'intera società in cui vive. È l'impegno di chi è consapevole che per essere coerenti col principio dell'amore non si può accettare nessuna forma di ingiustizia, di discriminazione, di illibertà, e che, per questa ragione, si è disposti a qualunque sacrificio, anche a quelli più gravosi, che toccano i sentimenti personali, pur di vederlo realizzato.

Il compimento dell'amore, nel Gesù storico, è strettamente vincolato alla realizzazione di un progetto politico, il cui fine è quello di liberare la società da tutte le forme d'ingiustizia sociale e di oppressione nazionale. Non è un valore predicato da una figura carismatica individuale, che dice delle parole impegnative, sperando che qualcuno, un giorno, le metta in pratica, quando cioè vi sarà un'adeguata consapevolezza della loro importanza. Nel progetto di liberazione del Gesù storico si deve essere persino disposti a rinunciare all'amore familiare o parentale, ai beni personali, pur di realizzare l'amore sociale, che è quello che deve cambiare il destino di un'intera società.

L'amore non deve servire per sopportare meglio le contraddizioni sociali, non deve costituire una forma d'illusione rispetto all'antagonismo dominante, non deve limitarsi a offrire il “buon esempio”, non deve accontentarsi della coerenza nelle piccole cose. Piuttosto deve inserirsi in un progetto di più ampio respiro, che preveda di conseguire obiettivi ritenuti impossibili da chi pensa che più di tanto l'amore non possa fare.

Spesso gli esegeti cristiani sostengono che il comandamento evangelico dato da Gesù, di amare i propri nemici, era sconosciuto al mondo pre-cristiano, salvo particolari eccezioni, come appunto Socrate. In realtà quel comandamento non avrebbe avuto alcun senso all'interno di un progetto politico di liberazione nazionale. Nelle intenzioni del Gesù storico “amare i propri nemici” poteva voler dire, al massimo, che è un controsenso odiarli fino al punto in cui s'impedisce a se stessi di esercitare la facoltà dell'amore. L'odio per le ingiustizie non può trasformare l'uomo negativamente, in una persona ingiusta. Soprattutto non può impedirgli di capire la differenza tra colpa e colpevole, tra atteggiamenti soggettivi e situazioni oggettive, tra intenzioni e realtà.

Al cosiddetto “nemico” va sempre data la possibilità di diventare “amico” o “alleato”. Non si può mai trascurare il fatto che quando si combattono i propri nemici, questi possono essere diventati tali non per convinzione personale, ma a causa di condizionamenti sociali o culturali o ideologici, indipendenti dalla loro volontà. Quel che si è disposti a fare, in determinate situazioni, percepite come ineludibili, non è detto che si sarebbe disposti a farlo in altre situazioni, dove è possibile esercitare la libertà di scelta.

Di sicuro Gesù non avrebbe mai potuto dire di “amare i propri nemici” con l'intenzione di rinunciare a una lotta di liberazione nazionale. Anzi, il suo obiettivo non era soltanto quello di liberarsi dell'oppressione romana, ch'era evidente a tutti, ma anche quello d'impedire la prosecuzione delle ingiustizie sociali che nella stessa società ebraica venivano causate dai comportamenti di determinati gruppi di potere.

Egli non cercò mai di far parte del Sinedrio, cioè di quella élite di 71 persone facoltose che gestivano, in maniera classista, tutte le forme di potere della società, salvo quella di competenza romana. Cercò anzi, nel breve periodo della sua attività politica, di rovesciare due volte le istituzioni giudaiche colluse col dominio romano: la prima all'inizio della sua carriera politica, quando epurò il Tempio; la seconda quando, nel corso dell'ingresso messianico, era intenzionato a occupare la città col consenso della popolazione più consapevole della necessità di porre fine a ogni forma di oppressione nazionale.

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20) Il tradimento di Giuda

I

Quasi tutto il racconto del tradimento di Giuda, annunciato da Gesù nel corso dell'ultima cena (13,18-35), è inventato. I redattori avevano assolutamente la necessità di far vedere che il tradimento era previsto da Gesù, non come una cosa ipotetica, ma proprio come una cosa inevitabile, voluta da Dio-padre. D'altra parte se di Gesù si vuol dare una rappresentazione mistica (quella di un essere divino-umano), non si può accettare l'idea ch'egli non avesse previsto chi esattamente l'avrebbe tradito.

Gesù quindi deve essere tradito “affinché sia adempiuta la Scrittura”. Il riferimento è al Salmo 41,10, il quale però riguarda casi generici, certamente non di tipo messianico, poiché ciò sarebbe apparso un controsenso rispetto a una visione ebraica della realtà politica.

Il tradimento fa parte dell'economia salvifica stabilita dal Padreterno: non può essere evitato, altrimenti si rischia di mettere in dubbio l'intesa, preliminare a tutto, tra il Padre e il Figlio, condivisa dallo Spirito. Tant'è che lo stesso Gesù dice a Giuda: “Quello che devi fare, fallo presto” (v. 27).

Gesù vuole essere tradito, anche se non può dirlo in maniera esplicita agli altri apostoli, che non l'avrebbero capito. Solo a Giovanni lo confida (v. 26), sempre che questo discepolo sia effettivamente quello che lui “amava” (v. 23), poiché anche di Lazzaro viene detta la stessa cosa.

Quindi in pratica Giovanni avrebbe saputo, prima di tutti gli altri, chi avrebbe tradito Gesù e non avrebbe detto niente a nessuno, neppure a Pietro, che pur voleva sapere il nome, probabilmente per farlo fuori. Giovanni avrebbe capito una necessità metafisica: ecco perché rimase silente. Questo era l'unico modo, per lui, di restare fedele al progetto suicida del Cristo. Terribile. Una ricostruzione dei fatti a dir poco agghiacciante. Vien fatta fare a Giovanni una parte umanamente scandalosa, politicamente vergognosa, per quanto i redattori facciano di tutto per presentarla come sublime sul piano mistico.

In quel momento Giovanni sarebbe stato l'unico ad aver capito qualcosa delle intenzioni di Gesù. A questo punto ci si può chiedere perché omettere il suo nome. Si è forse voluto conservare l'anonimato per non far vedere che l'apostolo, odiato dai partiti petrino e paolino, era superiore, quanto a lungimiranza, a tutti gli altri apostoli? Ma se la lungimiranza era a questi livelli di mostruosità, non sarebbe stato meglio citare il suo nome? La rappresentazione mistificata del tradimento non rendeva forse la posizione dell'apostolo pienamente conforme alla teologia petro-paolina?

Come saranno andate invece le cose nella realtà? Se anche Gesù avesse davvero sospettato che Giuda poteva tradirlo, quanto meno avrebbe dovuto chiedere a un altro apostolo di pedinarlo, dopo averlo mandato via dal Cenacolo. Sospettare uno di tradimento non era certamente cosa da prendere alla leggera in quel momento. D'altra parte però, se le parole “Quello che devi fare, fallo presto” hanno un senso politico, è evidente che la missione doveva compierla a titolo individuale, senza l'aiuto di nessun altro apostolo, ed è probabile ch'egli dovesse portare al Cenacolo quei leader del partito farisaico disposti ad appoggiare i nazareni.

Stando ai redattori, Gesù sapeva tutto ma non fece nulla per impedire lo svolgimento degli eventi. Egli infatti sapeva d'essere il “Figlio di Dio”, per cui il tradimento non solo era necessario per compiere l'autosacrificio (che non doveva apparire come una forma esplicita di suicidio), ma era anche del tutto irrilevante ai fini della sopravvivenza divina del Cristo, nel senso che chi è “Dio” non può morire in alcun modo. Non c'è tradimento che tenga. Al massimo può soffrire come uomo, cercando un punto d'accordo tra la sua coscienza umana e quella sovrumana.

Chiunque si rende conto che interpretare i fatti in tale maniera è piuttosto assurdo. Se in quel momento gli apostoli avessero saputo che Gesù aveva davvero previsto come le cose sarebbero potute accadere e, nonostante ciò, aveva deciso di non far nulla per impedirne lo svolgimento, sarebbero rimasti profondamente scandalizzati, avrebbero ceduto alla tentazione di rinunciare a qualunque insurrezione, avrebbero pensato di essersi completamente sbagliati a seguire un messia folle.

Dopo la sentenza capitale, infatti, non li si vede proseguire la strategia rivoluzionaria del Cristo, ad esclusione forse di Giacomo Zebedeo, assassinato nel 42, e della cui attività, non a caso, nulla si sa.

Le fonti cristiane, come sappiamo, sono tendenziose. Di sicuro il principale degli apostoli, Pietro, fu all'origine della bizzarra tesi secondo cui Gesù “doveva morire” per far capire agli uomini che, senza l'intervento di Dio, non sono in grado di compiere nulla di positivo. Jahvè doveva riconciliarsi con un popolo capace soltanto di tradire i patti stipulati, di rinnegare le promesse fatte. Una tesi, questa, che avrebbe dovuto rincuorare i discepoli, poiché Pietro si aspettava che un Cristo risorto tornasse in pompa magna per far valere, definitivamente, la propria autorità. Nessuno, nel momento in cui vedranno la tomba vuota, poteva immaginare che la mancata parusia avrebbe trasformato la strategia rivoluzionaria del Cristo in una semplice lezione etico-religiosa con cui si poteva scindere dalla fede ebraica una nuova fede, quella cristiana.

Indubbiamente un tradimento si può sempre prevedere - è cosa normale -, ma non si può dare per scontato che avvenga, poiché questo significa che si sta violando la libertà di coscienza di qualcuno, cioè la coscienza non solo del traditore, ma anche dei suoi compagni di lotta. Finché le cose non si compiono, non si può essere sicuri di nulla. Sarebbe terribile pensare che Gesù, solo perché era di natura divina, era autorizzato a fare della coscienza altrui ciò che voleva. Non si può accettare neanche in via ipotetica che esista qualcuno in grado di leggere la nostra coscienza, in grado di anticipare le nostre decisioni, in grado d'immaginare i nostri pensieri e prevedere le nostre azioni.

Questa cosa è del tutto inaccettabile sotto ogni punto di vista, e si è completamente fuori strada se si pensa che l'uomo possa accettarla solo perché, di fronte alla divinità, la gravità delle sue azioni resta sempre molto relativa. Non si rende più grande il sacrificio del Cristo circoscrivendolo all'interno di una coscienza divina capace di ridimensionare il peso di qualunque azione umana. Anzi, se così fosse, quel sacrificio verrebbe sminuito. Facendo agire Gesù come Dio, i suoi seguaci diventano delle marionette. Sembra qui di assistere a una scena teatrale in cui ognuno deve recitare la propria parte, prestabilita dal regista, cioè dal Padreterno, in accordo col primo attore, suo Figlio. Questo modo di vedere le cose è indegno di qualunque essere umano, credente o non credente che sia.

Quando Gesù ha pronunciato l'espressione “Quello che devi fare, fallo presto”, non poteva certo riferirsi alla necessità del tradimento. Quello era un ordine relativo a una missione notturna che Giuda doveva compiere entro un tempo piuttosto limitato, per permettere a Gesù di capire come doveva comportarsi. Probabilmente Giuda doveva contattare l'ala progressista del partito farisaico. Non può aver contattato gli zeloti galilaici, in quanto era un giudeo e sarebbero stati più titolati Pietro o Simone il Cananeo, né gli Esseni o i battisti, poiché non li aveva mai frequentati, e neppure i Greci visti sopra, poiché non conosceva la loro lingua come Filippo. Appare comunque piuttosto ridicolo che i redattori abbiano cercato di dire che gli apostoli interpretarono quel comando, dato a notte fonda, nel senso che Giuda dovesse comprare qualcosa per la Pasqua o dare qualcosa ai poveri (13,29).

Non restava che il partito farisaico. Giuda aveva avuto l'incarico di avvisarli che in quella stessa notte si sarebbe compiuta l'insurrezione. Gesù voleva semplicemente sapere se poteva contare sull'appoggio di almeno una parte di quel partito. Altrimenti avrebbe agito diversamente. Giuda non era costretto a tradire, né aveva lasciato il Cenacolo pensando di farlo, e tanto meno si sentiva in obbligo di rivelare dove gli apostoli si sarebbero nascosti nel caso in cui avessero subodorato una situazione di grave pericolo. Poteva rinunciare a compiere la rivoluzione, o poteva rinunciare a compiere la missione politico-diplomatica, se non credeva sino in fondo alla riuscita dell'impresa. Nulla e nessuno lo obbligava a tradire.

Di fatto Giuda è stato uno dei responsabili del fallimento dell'insurrezione. Certo, non l'unico, in quanto molto sarebbe dipeso da come gli apostoli si sarebbero comportati dopo l'arresto di Gesù. E qui purtroppo dobbiamo dire che, sulla base dell'ideologia di questi redattori-falsificatori, per i quali la vita sembra avere un senso solo in funzione della morte, che introduce a una nuova vita nell'aldilà, sicuramente gli apostoli non sono stati meno colpevoli di Giuda.

Per non parlare dei farisei, i traditori per eccellenza, che finiscono col trovarsi a fianco dei sadducei e dei Romani, i loro peggiori nemici, sul Getsemani, a catturare Gesù. Alla prova dei fatti i farisei si dimostrarono del tutto incapaci sul piano politico, troppo dominati dalla loro ideologia integralista per riuscire a prendere delle decisioni intelligenti. Soprattutto non avevano capito la modalità democratica dell'insurrezione nazionale, in quanto Gesù aveva rifiutato di compiere un colpo di stato o di occupare la città, e avevano completamente sottovalutato il fatto che i Romani, quando occupavano un territorio, non erano più disposti a cederlo, se non di fronte a una resistenza armata molto efficace. I Romani usavano il diritto per dimostrare ch'erano democratici e riconoscevano un certo valore alle usanze dei popoli sottomessi, ma sul pagamento dei tributi erano inflessibili e sarebbero diventati sempre più esosi col tempo, sfruttando, come pretesto per intervenire militarmente, proprio l'inevitabile protesta fiscale.

II

Il motivo per cui Giuda tradì non lo sapremo mai. D'altra parte le ragioni soggettive sono irrilevanti, in quanto gli effetti sono stati comunque tragici e, purtroppo, incontrovertibili. Il movimento nazareno non è stato, infatti, capace di relativizzarli, riducendone la portata, ma ha preferito, con Pietro in testa, reinterpretare il gesto di Giuda in una dimensione del tutto mistica (era previsto dalla cosiddetta “prescienza divina”), opposta alla strategia politica del Cristo. Noi possiamo soltanto supporre, se la notizia del suo suicidio è vera (Mt 27,5 e At 1,18), ch'egli non si aspettava che la sua decisione avesse le conseguenze che ha avuto.

Generalmente le ipotesi che, sul piano laico-razionale, si fanno, per spiegare il suo tradimento, sono poche, dopo aver escluso quella venale connessa ai trenta denari108, e quella surreale, relativa all'idea ch'egli era “il figlio della perdizione” (Gv 17,12), di cui lo stesso Cristo era consapevole, per cui non avrebbe fatto nulla per impedire il tradimento. Da escludere anche quella formulata, p.es., da Joel Carmichael, secondo cui la storia di quello sciagurato gesto “è solo un modo leggendario per esprimere la tradizione cristiana così come si è incarnata nel Nuovo Testamento, cioè che Gesù fu mandato a morte dagli ebrei”.109 L'esegeta di origine ebraica (anticipando, in questo, le analisi di altri studiosi della sua stessa fede) fa l'opposto di quanto hanno fatto gli evangelisti: scarica tutte le responsabilità della crocifissione sui Romani, quando invece tra i due poteri, giudaico e romano, doveva esservi stata una preliminare intesa.

Un'altra delle sue tesi paradossali e assai poco credibile è quella secondo cui Gesù era già molto popolare e non aveva bisogno d'essere tradito per essere catturato. Dice questo perché vuole scaricare la responsabilità della morte di Gesù unicamente sui Romani. Con ciò però egli dimentica che Gesù si comportava sempre con molta prudenza: era abituato a vivere nella clandestinità e a nascondersi in territori poco accessibili, anzi, ritenuti pericolosi dalle autorità giudaiche e romane. È quindi improbabile che senza il tradimento di Giuda l'avrebbero preso, almeno non così facilmente. L'apostolo infatti conosceva il luogo in cui, quando si trovavano a Gerusalemme, erano soliti rifugiarsi in casi di necessità. È vero che al momento della cattura era presente la coorte romana e che questa non poteva essere stata messa in allarme da Giuda, ma è anche vero che la sua funzione era puramente ausiliaria rispetto alle guardie del Tempio, capeggiate da Malco. Chiunque è in grado di capire che se Pietro avesse colpito anche un solo soldato romano, la reazione sarebbe stata durissima: probabilmente gli apostoli e lo stesso Gesù sarebbero morti subito. I Romani poterono fare a Gesù ciò che volevano soltanto dopo che le autorità giudaiche avevano deciso di consegnarlo. Si può addirittura sostenere che se non fosse stata presente la coorte romana, il movimento nazareno si sarebbe difeso contro le guardie giudaiche. È da sciocchi negare la complicità dei sadducei e dei farisei nell'arresto di Gesù soltanto per difendere l'identità ebraica.

III

Il rapporto di Gesù con Giuda viene descritto nel IV vangelo solo in due occasioni: alla fine della carriera politica di Gesù in Galilea e alla fine della sua carriera in Giudea, cioè proprio nei momenti culminanti in cui si sarebbe potuta compiere l'insurrezione nazionale. Veniamo infatti a sapere, da questo vangelo (6,70), che Giuda aveva intenzione di tradirlo sin da quando Gesù aveva rifiutato di marciare su Gerusalemme coi cinquemila seguaci galilei.

Senonché l'affermazione riportata al v. 70 è alquanto strana: sembra addirittura fuori contesto rispetto a quanto era appena accaduto. Infatti, dopo il rifiuto di Gesù di diventare re e di compiere l'insurrezione nazionale senza l'aiuto dei Giudei, gli apostoli si erano molto demoralizzati, al punto che lui stesso si sentì indotto a chiedere se volevano andarsene anche loro. Pietro gli fa capire che si fidavano di lui e della sua strategia, per cui decisero di restare.

Poi però, abbastanza improvvisamente, al v. 70 viene detta una frase che invece di rassicurarli, a dispetto della defezione di massa che avevano appena potuto constatare, Gesù li sconcerta ancora di più: “Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!”. E il redattore prosegue dicendo che si riferiva a Giuda Iscariota, che lo stava per tradire.

La cosa strana è che il tradimento avverrà molto tempo dopo, almeno un anno, stando al IV vangelo. Sicché vien da pensare che queste parole, chiaramente mistiche, siano state del tutto inventate, anche se è abbastanza difficile comprenderne la ragione. Gesù non può aver detto che uno dei Dodici l'avrebbe “sicuramente” tradito, né, tanto meno, può aver fatto capire che, siccome lui era in grado di anticipare con sicurezza un evento del genere, nessuno degli altri apostoli avrebbe dovuto stupirsene. Sarebbe assurdo pensare che il significato di quel versetto sia recondito, nel senso che solo dopo la resurrezione gli apostoli avrebbero potuto capire ch'egli si riferiva a una strategia salvifica di Dio-padre, da lui condivisa, secondo cui Giuda “doveva” tradirlo. Una teologia mistica di questo genere è semplicemente ripugnante.

In realtà la cosa che bisogna cercare di capire è un'altra: perché i redattori-falsificatori hanno inserito questo versetto mistificante proprio nel momento in cui Gesù aveva rifiutato di diventare re? Di primo acchito uno potrebbe pensare che Giuda fosse un estremista, per cui, in quel momento, fu proprio lui che reagì con maggior disappunto al rifiuto del suo leader di accettare la candidatura al trono per compiere l'insurrezione antiromana. Cioè a dire Giuda potrebbe apparire come uno zelota o un sicario che, alla prima occasione, avrebbe indotto il Cristo ad agire con meno scrupoli democratici o con più autoritarismo di tipo militare.

Sicché, se tale interpretazione ha senso, allora bisogna dire che, al momento del tradimento, consumato a Gerusalemme, Giuda portò le guardie del Tempio e la coorte romana110 della fortezza Antonia sul Getsemani per obbligare il movimento nazareno a uno scontro armato definitivo, anche nel caso in cui il Cristo, a motivo della propria democraticità, vi si fosse opposto. Giuda cioè non avrebbe voluto rischiare in Giudea di vedere un Cristo refrattario a compiere un colpo di stato, come già era successo in Galilea. Senonché la decisione di Gesù, di consegnarsi spontaneamente alle guardie del Tempio, per permettere ai suoi di fuggire indisturbati, avrebbe destabilizzato il piano estremistico di Giuda, inducendolo a tali sensi di colpa da arrivare al suicidio.

Ora, ha senso sostenere una tale ricostruzione dei fatti? Se essa fosse davvero credibile, come minimo ci si dovrebbe porre una domanda d'obbligo: per quale motivo Gesù avrebbe dovuto rifiutare uno scontro armato, visto ch'era entrato a Gerusalemme con l'intenzione di compiere un'insurrezione nazionale in cui il ruolo delle armi sarebbe stato decisivo? L'unica risposta che si può dare a questa domanda sta tutta nell'ordine che Gesù aveva impartito proprio a Giuda, in quella che doveva essere la notte decisiva per compiere l'insurrezione: “Quello che devi fare, fallo presto” (Gv 13,27). Un ordine che i redattori-falsificatori si sono preoccupati di mistificare dicendo che gli apostoli non erano stati in grado di capirlo nel suo esatto contenuto.

Cosa doveva fare Giuda? E perché solo lui poteva farlo? Doveva forse contattare l'ambiente politico da cui egli proveniva? E qual era questo ambiente? Si può facilmente dedurre ch'egli provenisse dagli ambienti giudaico-farisaici più progressisti (quelli, per intenderci, di Nicodemo, Giuseppe d'Arimatea, Giairo, Lazzaro e le sue sorelle, Gamaliele, ecc.).

In sostanza Giuda doveva contattare una componente di questo partito, onde permettere a Gesù di capire su quanti alleati poteva contare. È stato soltanto di fronte al rifiuto di collaborare (come già era avvenuto in occasione dell'epurazione del Tempio), che Giuda, all'ultimo minuto, ha pensato di prendere un'iniziativa personale. Ed è a questo punto che bisogna cercare di capire se ha davvero deciso di agire come un estremista e non piuttosto come un moderato.

Se si è lasciato convincere dai farisei che l'insurrezione sarebbe stata una follia, allora anche in occasione dei cinquemila seguaci galilei, doveva aver manifestato le stesse riserve; nel senso che per lui, senza il sostegno di almeno una parte significativa dei farisei, sarebbe stato impossibile avere la meglio sui Romani.

Ma perché i vangeli non hanno detto che Giuda proveniva dagli ambienti farisaici, visto che contro di loro sono sempre molto critici? Solo poche volte viene detto che Gesù aveva buoni rapporti con la loro ala progressista. Per quale motivo non dire che l'Iscariota era un discepolo di Nicodemo, che probabilmente si staccò da questi dopo la fallita epurazione del Tempio, non appoggiata appunto dai farisei? Forse perché una cosa è dire che i farisei si opponevano a Gesù (anche Paolo aveva ammesso che i suoi trascorsi in questo partito erano stati da aguzzino nei confronti dei seguaci del Nazareno); un'altra invece è che proprio uno di loro era stato la causa principale della morte del Cristo. Non pochi farisei erano diventati cristiani dopo questa morte, benché la maggioranza preferì limitarsi a sostituire i sadducei, trasferendo il culto dal Tempio alle sinagoghe. Sarebbe stato molto imbarazzante per loro far accettare una conversione autentica al cristianesimo di fronte a un gesto dalle conseguenze così tragiche. Gli stessi evangelisti avrebbero trovato difficoltà a qualificare Giuda come fariseo, visto che la loro teologia era in buona parte di derivazione farisaica. Forse gli Atti degli apostoli non avrebbero detto neppure di Paolo ch'era un fariseo, se non fosse stato lui stesso a dirlo nelle sue lettere, e comunque lui non aveva mai conosciuto Gesù: era giusto sentirsi meno colpevole dei suoi colleghi di partito. Per non parlare del fatto che la sua dottrina ebbe la meglio soltanto dopo la distruzione del Tempio.

Sia come sia, Giuda può aver maturato il tradimento solo all'ultimo momento: egli cioè si era lasciato persuadere che senza l'aiuto dei farisei, l'insurrezione del Cristo sarebbe fallita miseramente, per cui non restava che bloccarla sul nascere, rimandando la cosa a tempi più propizi.

Il che non implicava necessariamente, nelle intenzioni di Giuda, che il Cristo dovesse essere consegnato ai Romani. È vero, al momento della cattura c'era la coorte romana, ma era in funzione di supporto alle guardie del Tempio. Di fatto Gesù fu catturato da queste ultime111 e tradotto davanti ai due sommi sacerdoti, Anania e Caifa. Quest'ultimo avrebbe anche potuto trattenerlo in prigione e giudicarlo dopo le feste pasquali, senza sentirsi affatto in obbligo nei confronti di Pilato. Non avendolo però fatto (forse perché sapeva che non gli sarebbe stato facile tenerlo in carcere per troppo tempo), vien naturale pensare che tra Caifa e Pilato vi fosse una tacita intesa sul destino da riservare a Gesù, di cui Giuda era all'oscuro e forse gli stessi farisei, anche perché non fu tradotto dal carcere o dal Sinedrio a Pilato ma direttamente dalla casa di Caifa. L'uno aveva bisogno dell'altro, poiché pensavano che, separatamente, non ce l'avrebbero fatta a eliminare un soggetto che, a motivo del grande seguito popolare, era ritenuto molto pericoloso. Pilato sapeva già (dal tribuno) che Gesù era stato catturato, ma quando glielo consegneranno pubblicamente, fingerà di non sapere nulla.

Tuttavia se questa lettura dei fatti è giusta, allora il suddetto v. 70 va interpretato in tutt'altra maniera. Probabilmente doveva essere accaduto che l'unico apostolo a condividere l'idea di Gesù di non compiere l'insurrezione senza l'appoggio dei Giudei progressisti, fu proprio Giuda. Se questo è vero, allora è facilmente intuibile il motivo per cui non si poteva mettere Giuda in buona luce. Quando Pietro, negli Atti degli apostoli, inizierà invece a farlo, il gesto del tradimento verrà ricompreso nella tesi mistica secondo cui Cristo “doveva morire”.

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21) Il rinnegamento di Pietro e le astratte consolazioni

I

L'annuncio a Pietro, da parte di Gesù, del rinnegamento è completamente inventato (13,36 ss.).112 I redattori di questo vangelo l'han preso da quello marciano. Con questa differenza: mentre in Marco (14,31) la smargiassata di Pietro (“Darò la mia vita per te”) è attenuata dal fatto che anche tutti gli altri apostoli condividono le sue parole; nel vangelo di Giovanni invece solo lui appare così sicuro di sé.

Inoltre i redattori, siccome son Giudei, hanno omesso di dire che Gesù, in quel momento, profetizzò che, dopo la sua resurrezione, li avrebbe preceduti in Galilea (come invece in Mc 14,28). Gli fanno invece profetizzare un'altra cosa, che anche Pietro sarebbe morto, senza però specificare se in maniera naturale o violenta. Semplicemente s'intuisce che Gesù non ha molta fiducia nel coraggio di Pietro, anzi dà l'impressione di ritenere il suo un atteggiamento di facciata, piuttosto teatrale. In effetti, se pensiamo che di fronte alla tomba vuota egli sostituì la parola “insurrezione” con la parola “resurrezione”, possiamo facilmente arguire che la sua arditezza, oltre un certo punto, non andava.

II

La consolazione che Gesù offre ai propri apostoli, dopo il racconto dell'ultima cena, è molto artificiosa (14,1 ss.). I redattori lo fanno parlare come se fosse già morto e risorto. Non varrebbe la pena prenderla in esame se non per alcuni aspetti curiosi.

Anzitutto essi fanno notare che per entrare nel regno dei cieli non vi è un'unica modalità ma molte: “Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore” (14,2). Ciò che più importa, infatti, è credere nella figliolanza divina del Cristo, ovvero che lui è “via, verità e vita”: “nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (14,6). Il resto è lasciato alla discrezione dei credenti. I redattori monaci ci tengono a ribadire questo concetto fondamentale: non vogliono sentirsi intruppati in un'unica esperienza di fede, come quella p.es. della teologia petro-paolina.

La seconda cosa da notare è l'ateismo di Tommaso e di Filippo, i quali dichiarano di non poter credere in Dio finché non lo vedono di persona: “Non sappiamo dove vai; come possiamo sapere la via?” (v. 5); “mostraci il Padre e ci basta” (v. 8). In pratica non accettano l'identificazione che il Cristo teologico propone loro: “Se mi aveste conosciuto, avreste conosciuto anche mio Padre; e fin da ora lo conoscete, e l'avete visto” (v. 7). Duro dire cose del genere a chi ha seguito Gesù sin dalla nascita del movimento nazareno. Evidentemente i redattori si riferiscono a un atteggiamento che i due apostoli tennero dopo la sua morte, di fronte alla tesi petrina relativa alla resurrezione.

”Gli rispose Gesù: Da tanto tempo sono con voi113 e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse” (vv. 9-11).

Queste sono parole - se ci pensiamo bene - abbastanza sconcertanti, indicative del fatto che la teologia petro-paolina incontrò una certa resistenza ai suoi esordi, anche all'interno del collegio degli Undici. Questi due apostoli sembrano essere disposti a credere nella resurrezione di Gesù, ma non nella sua figliolanza divina stricto sensu. Cioè Gesù poteva anche essere scomparso in maniera misteriosa dal sepolcro, ma questo non autorizzava a credere in un intervento straordinario di Dio nei suoi confronti, e neppure in una particolare natura divina del Cristo, del tutto sconosciuta e inaccessibile agli uomini. Si rifiutavano di accettare l'idea che Dio e Cristo potessero avere una natura condivisa. Il rapporto naturale di Padre e Figlio non implicava, per loro, una immedesimazione ontoteologica. Gesù poteva rivendicare una “figliolanza divina” per meriti personali, che chiunque avrebbe potuto acquisire, non per un particolare privilegio.

I redattori si son forse serviti di Tommaso e Filippo come figure simboliche delle molte eresie cristologiche che sorsero nell'ambito del cristianesimo primitivo? O erano davvero due apostoli avversi alle tesi petro-paoline, in cui invece credevano i redattori del IV vangelo? Non lo sappiamo, ma propendiamo per la seconda ipotesi, quanto meno per motivi cronologici. Il che non è detto che non si concili con la prima.

Per gli ebrei è sempre stato piuttosto ostico accettare una stretta identificazione di uomo e Dio. Neppure Mosè ed Elia, che pur più di tutti erano stati circonfusi da un'aureola di alto misticismo, erano mai stati considerati di natura divina (al massimo “semidivina”, in quanto si decise di far scomparire i loro corpi in maniera strana). Nella mentalità ebraica Dio doveva essere un'entità che lo rendeva “totalmente altro” dall'essere umano. Solo nel racconto del Genesi lo si vede “passeggiare” nell'Eden insieme alle sue creature.

Nel cristianesimo invece l'uomo Gesù ha una natura divina in via esclusiva, come nessun altro uomo. Solo lui quindi può avanzare la pretesa d'identificarsi col Dio-padre. E il v. 10 specifica che chi non crede nelle sue dichiarazioni, deve crederlo almeno per le sue “opere”, altrimenti non può essere considerato cristiano. La sua opera principale consiste appunto nel fatto che nessun uomo è in grado di risorgere.114

La mistificazione dei redattori sta appunto in questo, che vogliono far credere nell'esistenza della divinità prendendo a pretesto la scomparsa di Gesù dalla tomba. Quella scomparsa per loro è un motivo sufficiente per continuare a fare della “teologia”. Non si accontentano di fare una “cristologia”, secondo la quale tra Gesù e Dio non vi è alcuna differenza proprio perché Dio, come entità separata e differente dal Figlio, non esiste.115

Piuttosto preferiscono affermare che chi crede nel rapporto di figliolanza divina tra Gesù e Dio, sulla base delle sue parole o delle sue opere, potrà fare anche “opere maggiori” (v. 12) di Gesù, se chiederà di farle nel suo nome; e Gesù le concederà “affinché il Padre sia glorificato nel Figlio” (v. 13).

Chiunque qui si rende conto che se di fronte alla tomba vuota non ci si limita a parlare di “resurrezione” (che è già di per sé un'interpretazione forzata, in quanto il corpo redivivo nessuno l'ha più rivisto), ma si parla anche di “figliolanza divina secondo natura”, la religione ha definitivamente sconfitto l'istanza politica di liberazione. Cioè se si ammette l'idea che esiste un Dio che si è servito del Figlio per riconciliarsi con l'umanità, posticipando la liberazione definitiva alla fine dei tempi, si supera persino l'idea petrina di “resurrezione”, poiché Pietro, in forza di tale idea, si aspettava un ritorno immediato e trionfale del Cristo, in maniera del tutto indipendente dall'idea di Dio o dalla relazione divina tra Gesù-figlio e Dio-padre.

Ecco perché diciamo che il vero fondatore del cristianesimo è il fariseo Paolo, che ha sfruttato in maniera teologica l'interpretazione petrina della tomba vuota come “resurrezione”, portandola alle sue conseguenze più negative per l'istanza politica di liberazione nazionale.

III

Ora però cerchiamo di spiegare le stesse cose in altra maniera.

Il concetto di “Padre” nel vangelo di Giovanni apparentemente sembra essere usato in chiave teologica. Esso in realtà ha degli addentellati che potrebbero essere interpretati in chiave ateistica, seppur non in maniera convenzionale. Ciò fa pensare che nei suoi discorsi originari Cristo non abbia mai parlato di Dio, ma solo di uomo, e che poi, quando si iniziò a mistificare il “suo” vangelo, si fece in modo ch'egli si riferisse a Dio come a qualcuno dotato di “personalità”, effettivamente esistente, ancorché presente in un luogo conosciuto solo al Figlio.

Tuttavia, se la cosa viene interpretata secondo un certo criterio laico, ci si accorgerà che la lettura teologica non è così “pura”, così scontata ed evidente. Prendiamo ad es. il capitolo 14, là dove Gesù dice a Tommaso: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (v. 6b), e subito dopo: “Se mi aveste conosciuto, avreste conosciuto anche mio Padre, e fin da ora lo conoscete, e l'avete visto” (v. 7). È difficile credere che queste affermazioni non possano essere interpretate in chiave ateistica, seppur nel senso di un ateismo mistificato.

Al v. 6a aveva detto, con tutta la sicurezza possibile e immaginabile: “Io sono la via, la verità e la vita”, cioè il modello assoluto da imitare. Non ce ne sono altri. Non ha detto: “Io sono un semplice strumento”, ovvero un “profeta”, una sorta di Giovanni Battista redivivo. Poteva limitarsi a dire d'essere la “via”; invece ha voluto aggiungere d'essere anche la “verità” e la “vita”. Cosa si può essere di più? Chi segue lui non ha bisogno d'altro.

L'obiezione di Tommaso non è peregrina, anzi è politica: “Non sappiamo dove vai; come possiamo sapere la via?” (v. 5). È come se gli avesse detto: “Se sei la via, la verità e la vita, perché non hai realizzato la liberazione su questa Terra?”.

La risposta di Gesù è quella che può dare una comunità che si sente politicamente sconfitta. La liberazione su questa Terra non è possibile in quanto gli uomini non sono in grado di volerla sino in fondo, in maniera coerente, e l'hanno dimostrato eliminando appunto chi avrebbe potuto aiutarli a realizzarla. Gli esseri umani sono irrimediabilmente corrotti.

Infatti qui la comunità è come se lo costringesse a dire che deve andarsene nei cieli, a preparare un luogo, una dimora ove far vivere, quando verrà il momento, i discepoli sconfitti e tutti quelli che in lui avranno creduto. Gli apostoli quindi devono abituarsi all'idea che la libertà è possibile solo al di fuori della Terra. Ecco perché Gesù parla di “Dio-padre”. Il concetto di “Padre” indica il lato mistico e quindi mistificante di tutti i vangeli.

I discepoli devono semplicemente capire che nel Cristo vi è anche una natura divina, da lui chiamata “Padre”, con la quale egli s'identifica completamente. Se poi il discepolo vuole pensare che tra il “Dio-figlio” e il “Dio-padre” non vi sia alcuna differenza, va bene lo stesso. L'importante è che abbia chiaro che nel Cristo la natura “divina” ha una netta priorità su quella “umana”. L'incarnazione, la crocifissione e la resurrezione dovevano appunto servire per dimostrarlo. Solo successivamente in questo vangelo si porrà una certa differenza tra “Padre”, “Figlio” e “Spirito santo”, forse proprio per evitare il rischio di credere che l'unico vero Dio fosse lo stesso Cristo.

In ogni caso là dove si afferma che nel Cristo non si vede soltanto l'“umano” ma anche il “divino”, si sta in realtà sostenendo, seppur in maniera mistificata, una sorta di ateismo. Il concetto di “Dio” viene usato a titolo consolatorio (come più avanti si farà del concetto di “spirito”), al fine d'indurre gli ebreo-cristiani a rinunciare definitivamente all'idea di liberare la Palestina dai Romani. Per i primi cristiani sembra non esserci altro Dio che Cristo risorto, morto in croce per convincere l'umanità che una liberazione terrena è impossibile. Il suo rapporto col “Dio-padre”, come persona distinta da sé, sembra appartenere a un'elaborazione teologica successiva.

Il Dio-padre che qui gli apostoli devono aspettarsi di vedere nell'aldilà avrà, più o meno, le stesse fattezze del Dio-figlio, cioè - diremmo in chiave laica - dovrà essere caratterizzato da un'analoga mistificazione, in quanto li premierà per non aver ceduto alla tentazione di credere possibile una liberazione dalle sofferenze che l'umanità patisce su questa Terra.

IV

La mistificazione viene ribadita anche quando, subito dopo, i redattori fanno parlare Gesù con Filippo. L'affermazione che fa quest'ultimo è unica e perentoria: “Mostraci il Padre e ci basta” (v. 8); che è come se avesse detto: “Possiamo rinunciare alla liberazione politica se ci dimostri concretamente, qui ed ora, che la redenzione religiosa è quella decisiva per la nostra salvezza”. Se vogliamo questa è un'obiezione di tipo ateistico, nel senso che non è possibile credere in Dio, o nel valore dell'aldilà, se non si hanno delle certezze concrete.

La risposta di Gesù è però la stessa di quella data a Tommaso (e forse questo lascia capire perché nella pericope successiva si sia per così dire alzato il tiro introducendo una nuova figura teologica: lo spirito santo): “Chi ha visto me ha visto il Padre” (v. 9).

Il Cristo qui si presenta come “incarnazione del Padre”, cioè dell'idea di un Dio che non ritiene possibile che l'uomo possa salvarsi con la propria volontà e che, non per questo, merita d'essere condannato a morte. In altre parole Gesù si presenta qui come un ambasciatore che compie alla lettera la missione a cui Dio-padre l'ha incaricato.

Se in questo assunto è difficile credere - in quanto materialmente non è ancora possibile vedere il Padre -, vi si creda - sembra dire il Cristo al v. 11 - in nome delle stesse “opere” che compie suo Figlio. Incarnazione, crocifissione, resurrezione, oltre a tutte le prodigiose guarigioni compiute, dovrebbero essere considerate un motivo sufficiente per credere che il Cristo non sta mentendo. Anzi, per convincere i discepoli della bontà di queste asserzioni, Cristo assicura i discepoli che anch'essi potranno compiere opere di pari livello e persino di superiori, poiché la forza per compierle verrà loro data da lui stesso. “Chi crede in me farà anch'egli le opere che faccio io, e ne farà di maggiori, poiché io me ne vado al Padre; e quello che chiederete nel mio nome, lo farò, affinché il Padre sia glorificato nel Figlio” (vv. 12-13).

Qui l'invito è chiaramente rivolto ad accettare il martirio personale. L'importante è che qualunque cosa si faccia, non si neghi l'idea della superiorità della redenzione morale rispetto alla liberazione politica.

V

Ora riprendiamo il v. 14,2 (quello delle “molte dimore nei Cieli”), cercando di dare un'interpretazione a queste parole fatte dire a Gesù in occasione dell'ultima cena, mentre sta parlando del regno dei cieli.

Ovviamente l'espressione non può essere stata detta da lui, semplicemente perché nel vangelo di Marco (il primo a essere stato scritto) egli si autodefinisce “figlio dell'uomo” e non “Figlio di Dio”. Quest'ultimo titolo infatti è di tipo mistico e lo usò per la prima volta Paolo di Tarso, prendendolo dall'ellenismo e applicandolo a un'immagine del tutto spoliticizzata e destoricizzata del Cristo. Nessun ebreo avrebbe mai potuto accettarlo (se non in maniera puramente simbolica e solo in riferimento a re, sacerdoti e profeti), mentre i cristiani cominciarono a farlo solo dopo aver rinunciato definitivamente alla liberazione della Palestina dal giogo romano.

Questo spiega anche, in un altro senso, il motivo per cui quella frase sulle “molte dimore” (del paradiso) non può essere stata detta da Gesù: egli infatti voleva compiere una rivoluzione politica nel presente della sua Palestina oppressa dall'imperialismo romano e non demandare all'aldilà la soluzione dei problemi terreni.

Detto questo però, ch'era abbastanza scontato per un'esegesi laica, resta da capire il motivo per cui gli autori del IV vangelo abbiano avvertito la necessità di scrivere quella strana espressione relativa alle “molte dimore”. Sembra infatti che, con essa, s'intenda qualcosa di altamente democratico e pluralistico, che sicuramente non poteva far piacere ai seguaci del paolinismo, poco disposti a cercare compromessi sulla natura divina del Cristo e sul tipo di organizzazione comunitaria da costruire in nome di tale nuova concezione religiosa.

Vi è quindi da supporre che questo modo di esprimersi sia potuto venire in mente a seguaci del Cristo non esattamente in linea con la predicazione paolina. Qui sembra d'avere a che fare con una comunità di tipo monastico, dedita all'autoconsumo, non urbanizzata, simile a quella ebraica di Qûmran: una comunità i cui aderenti non praticano alcuna attività missionaria e che, non per questo, vogliono stare ai margini del movimento cristiano che s'è formato dopo la distruzione di Gerusalemme, operata nel 70 dai Romani, e conclusa nel 135.

Questi monaci hanno fatto del lavoro la loro pratica quotidiana, in cui sperimentano l'uguaglianza sociale materiale, ovvero la comunione dei beni (di tipo essenico), e hanno smesso di sentirsi legati ai precetti ebraici: stanno cercando di realizzare, esattamente come a Qûmran, una sorta di “comunismo primitivo” in nome di Gesù Cristo.

Noi non possiamo sapere se tale comunità sia stata fondata dall'apostolo Giovanni o se lui la frequentasse da anziano. Egli infatti era un apostolo molto politicizzato, esattamente come il fratello Giacomo, che morì ben presto martire. Il suo vangelo (il più manipolato di tutti) non è caratterizzato soltanto da un alto misticismo (frutto appunto di successive revisioni ideologiche a suo danno), ma anche da una profonda storicità e politicità dei fatti inerenti alla vicenda del Cristo (anch'esse profondamente manomesse da esperti intellettuali).

Si noti inoltre una cosa abbastanza particolare: il riferimento alle “molte dimore” viene messo subito dopo che Gesù ha preannunciato a Pietro che lo tradirà (13,36 ss.). Cioè è come se si volesse dare per scontato che non solo gli uomini non sono in grado di ritornare all'eden originario (meno che mai se non sono monaci “comunisti”), ma anche che nessun apostolo sarebbe stato davvero in grado di sostituire Gesù. Non a caso in questo vangelo lo chiamano “signore” e “maestro” (kyrios e didaskalos): una sorta di “priore” che insegna ai discepoli tutto quanto devono sapere, per cui la differenza tra lui e loro è piuttosto netta.

Infatti, dopo aver preannunciato a Pietro il tradimento, egli se la prende anche con Tommaso, perché ancora non ha capito il modo come realizzare il “regno dei cieli”, che non coincide con alcun regno terreno. E se la prende anche con Filippo, che non è disposto a credere in Dio se non lo vede coi propri occhi.

Detto in altre parole: Tommaso rappresenta l'esigenza di creare un regno terreno di liberazione sociale e politica; Filippo invece l'esigenza di non credere in alcun Dio per la realizzazione di tale regno. Gesù, qui, viene fatto passare per uno che sovrasta infinitamente ogni personalità o capacità umana, per cui solo lui, in definitiva, può decidere come costruire al meglio il regno dei cieli e come rappresentarsi la divinità.

Cioè da un lato si ostenta una grande democrazia, assicurando che nei cieli vi saranno “molte dimore” (molte possibilità di vivere la fede); dall'altro però si sostiene che tale democrazia sarà possibile soltanto grazie alla supervisione di un essere, unico nel suo genere, in quanto unigenito Figlio di Dio. Gli unici in grado di realizzare quanto dicono e promettono di fare sono soltanto il Dio-figlio e il Dio-padre.

Quanto agli uomini, egli, a loro beneficio, in attesa della fine dei tempi, promette una terza figura divina, una sorta di “consolatore” (14,16), affinché non si disperino a motivo della loro impotenza.

Tuttavia la cosa più sconcertante di tutta la pericope in questione è che Gesù chiede di credere in Dio proprio perché non è possibile realizzare sulla Terra alcun regno di pace, libertà e giustizia. Cioè è come se avesse detto che se non ha potuto lui, di natura divino-umana, realizzare un tale regno, tanto meno vi riusciranno i figli di Adamo ed Eva, che hanno una natura divina solo indirettamente, per “gentile concessione”, si potrebbe dire. Infatti non è possibile costruire un regno del genere contro la volontà degli uomini, almeno non sulla Terra, per cui l'umanità solo alla fine dei tempi si renderà definitivamente conto della gravità della propria impotenza. Non avendo saputo riconoscere in Gesù la possibilità effettiva del riscatto dalle conseguenze del peccato originale, tanto meno l'umanità saprà o potrà farlo con altri leader carismatici.

Dunque sulla Terra gli uomini sono condannati alla sconfitta; possono soltanto cercare di essere meno peccatori possibile, resistendo a tutte le tentazioni. Dio viene usato come pretesto per non impegnarsi attivamente nella lotta politica. Solo lui, infatti, potrà decidere quando avverrà la fine dei tempi e il giudizio universale.

Giuda (non l'Iscariota), al sentire queste cose, si scandalizza, poiché gli pare assurdo che si parli di liberazione interiore (per di più rivolta ai soli seguaci del Cristo) e non anche di liberazione sociale e politica per tutti gli uomini, qui e subito.

Ma Gesù gli fa capire che non serve a nulla mettersi a predicare (sottinteso: come fa Paolo), pensando di poter trasformare qualitativamente le cose. “Molte dimore” vuol dire anche questo, che su questa Terra si può compiere il bene anche senza essere esplicitamente cristiani. Non serve che tutti lo diventino. Quindi la predicazione, nello stile forsennato di Paolo, non è indispensabile. Serve piuttosto che gli uomini imparino ad amarsi. Se lo sapranno fare, saranno “cristiani”, anche senza saperlo. Anzi, i migliori seguaci del Cristo son soltanto quelli che praticano l'amore in suo nome, non necessariamente quelli che si dicono o, peggio, si vantano d'essere cristiani.

VI

Ora però vediamo di ribaltare il discorso, cioè vediamo se in tutto quello che dicono gli autori di questa pericope vi possono essere tracce di ateismo. Si noti anzitutto con quanta sicurezza fanno dire a Gesù una cosa che non solo per qualunque ebreo, ma anche per qualunque persona sarebbe apparsa come un'assurda pretesa. Gesù si equipara direttamente e personalmente a Dio, e la pericope non è di quelle elaborate per descrivere il Cristo risorto!

Come noto, uno che si equipara a Dio può anche essere un folle. In quante comunità religiose i leader si sono considerati equivalenti a Dio? E in quante istituzioni o comunità psichiatriche? Frasi come queste: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se mi aveste conosciuto, avreste conosciuto anche mio Padre; e fin da ora lo conoscete, e l'avete visto” (14,6-7) - non possono essere state dette da Gesù, proprio perché egli era un ateo (lo dimostra mentre viola tranquillamente il sabato, o mentre si considera superiore ad Abramo e a Mosè, oppure non partecipando mai a riti religiosi, o - se si preferisce - compiendo guarigioni in nome proprio). Nessun ebreo ortodosso avrebbe potuto ascoltare quelle parole senza reagire, perché per lui sarebbe stato come bestemmiare. Già avrebbe fatto fatica ad accettare un intellettuale ebreo orientato sul piano ateistico: figuriamoci un intellettuale che si paragonava direttamente a “Dio”!

Ma il punto non è questo. Parole del genere, a ben guardare, non avrebbero potuto scriverle neppure dei redattori cristiani “normali” (convenzionali), conformi all'impostazione generale della Chiesa voluta da Pietro e Paolo. Infatti, dal punto di vista della fede di una qualunque comunità cristiana, non si sarebbe permesso a nessuno di potersi identificare, stricto sensu, con Cristo per poter capire meglio il senso della divinità. Sarebbe stata una forma di ingiustificato individualismo. Un Cristo che parla in maniera così netta presuppone un credente che abbia ricevuto una grazia particolare, quasi indipendente dalla sua volontà.

Ma quale garanzia poteva offrire un credente che la sua identificazione col Cristo sarebbe stata quella giusta? In una comunità normale la garanzia dell'identificazione può essere offerta solo dalle autorità superiori, o comunque da una “pratica cristiana”, di carattere generale, accessibile a tutti, su cui vigilano i membri più autorevoli del clero. Cosa che in tutto il IV vangelo non si vede affatto. Nella Chiesa nessun credente può decidere la verità per conto proprio e neppure può farlo un piccolo numero di fedeli. Ecco perché non sarebbe stato possibile far parlare il Cristo in quella maniera così categorica, molto divina e poco umana, se non vi fossero state delle precondizioni formali.

In questo vangelo, scritto per ultimo tra quelli canonici, sembra d'avere a che fare con autori cristiani appartenenti a una comunità isolata, che vive ai margini del cristianesimo urbanizzato: una comunità appunto di monaci, privi di una vera e propria autorità superiore, che regolamenti la loro vita. Anzi, nei confronti degli apostoli (incluso Pietro) sono molto critici. A loro giudizio la garanzia dell'identificazione adeguata col Cristo è data soltanto dall'amore reciproco. È solo all'interno di questo presupposto che si può ipotizzare una sorta di gerarchia tra “priore” e “novizio”.

Questi redattori, il cui spessore intellettuale è notevole, non possono essere seguaci degli apostoli che citano, proprio perché questi sono messi in cattiva luce. Potrebbero essere seguaci dell'apostolo Giovanni, il quale, ad un certo punto, si staccò dalla predicazione di Pietro, non condividendone più i contenuti. Ma ciò verrebbe a contraddire il senso fortemente sviluppato della politicità presente nell'apostolo; a meno che nella sua tarda maturità egli non si fosse involuto verso un certo misticismo.

Supponiamo vera questa seconda ipotesi. Cioè supponiamo che la comunità di Giovanni o da lui proveniente, abbia voluto smettere di sentirsi emarginata dalla Chiesa primitiva e abbia cercato una reintegrazione. Diamo per scontato che Giovanni fosse un ateo come Gesù. I suoi discepoli però sembra che abbiano voluto cercare un compromesso con la Chiesa paolina, risultata vincente dal confronto con le altre correnti (o siano comunque state costrette a farlo). Ed ecco quindi il problema da risolvere: come fare senza tradire troppo i propri presupposti ateistici?

Per continuare a dire che Dio non esiste, questi monaci han fatto in modo di equiparare completamente il Figlio al Padre, sulla base della formula tautologica: “Io sono nel Padre e il Padre è in me” (14,11). Qui non vi sono mediazioni di sorta: infatti non solo Padre e Figlio coincidono a partire dal Figlio, cioè in suo nome, in quanto è impossibile sentire la “voce” del Padre, ma coincidono anche il Figlio e i suoi seguaci. Tra Gesù e i monaci cristiani vi è un solo intermediario metafisico: lo Spirito (il Paraclito).

La comunità cristiana, così com'era stata delineata da Paolo, qui perde tutti i suoi connotati fondamentali: non vi sono né sacramenti né gerarchia sacerdotale; e neppure è assicurata la continuità nelle figure sacerdotali che li amministrano. Nella pericope si è parlato sì di Dio, ma solo come una proiezione di Gesù. Di fatto Dio sembra che continui a non esistere: non è cioè un elemento che giustifichi la presenza di una “istituzione ecclesiastica”; la via o la vita che Gesù chiede di seguire o di vivere non è nient'altro che il modo di amarsi che hanno questi monaci.

È dunque bastato loro far credere che Gesù era l'unigenito Figlio di Dio per poter essere accettati nella Chiesa primitiva, da cui non volevano più sentirsi emarginati. In questa maniera, indubbiamente ambigua, potevano continuare a vivere indisturbati la vita di prima, in cui, praticando autoconsumo e baratto, non erano abituati a prendere ordini da nessuno.

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22) La femminilizzazione del cristianesimo

I

In Gv 14,15-31 la descrizione della promessa che Gesù fa di concedere lo Spirito Santo (detto anche Paraclito o Consolatore) agli apostoli politicamente sconfitti116, ha qualcosa di femminile.

Vi è qui una certa somiglianza con quello “Spirito” che già gli ebrei, nell'Antico Testamento, chiamavano “Sapienza divina”, che “aleggiava” sulle acque al momento della creazione, la femminile “Ruah”. Questo per dire che il cristianesimo non dice quasi nulla che l'ebraismo non abbia già detto. Lo dice con parole nuove o in forme diverse, diciamo più spiritualizzate o, se si preferisce, più metafisiche, in quanto esso risente dell'influenza della coeva filosofia greca ed ellenistica.

Il cristianesimo parla di “Dio incarnato fattosi uomo”; in realtà esso non ha fatto altro che disincarnarlo, privandolo di tutti quegli aspetti politico-nazionalistici, peculiari all'ebraismo, e accentuando di quest'ultimo soltanto quelli etico-religiosi, previa integrazione con le filosofie e religioni del mondo pagano.

Che l'operazione sia stata di questa natura è documentato molto bene dal racconto della trasfigurazione, in cui Gesù appare in mezzo a Mosè ed Elia. Ma lo si vede anche, con minore misticismo, quando, nel vangelo di Matteo, Gesù viene fatto parlare come il continuatore di un passato che andava riveduto e corretto: “Vi è stato detto [in riferimento alla legge mosaica e alle interpretazioni che ne furono date]..., ma io vi dico...”. Quello che di nuovo, di originale, dice il Gesù dei vangeli può essere tranquillamente agganciato alla grande tradizione profetica del giudaismo, che presenta i maggiori addentellati etico-religiosi, suscettibili d'essere svolti in maniera spiritualistica grazie all'apporto delle correnti ellenistiche.

Persino il concetto di “resurrezione” si trova già nella impressionante e fantasiosa scena teatrale descritta nel cap. 37 dal profeta Ezechiele, quando mostra gli scheletri dei soldati sconfitti in battaglia che si ricompongono e prendono vita. Peraltro proprio questo testo è una delle principali fonti ispirative dell'Apocalisse giovannea.

Dunque, che il cristianesimo sia la religione dell'amore, ci può stare; ma che non lo sia anche l'ebraismo, è una forzatura. La differenza tra le due religioni sta appunto in questo, che per gli ebrei l'amore, senza la giustizia sociale, vale assai poco, mentre per i cristiani l'amore serve proprio per sopportare meglio l'ingiustizia sociale. Ecco perché l'amore cristiano deve necessariamente essere più spiritualizzato, più interiorizzato di quello ebraico: deve far sognare a occhi aperti, a costo di apparire patetico, commovente. L'amore cristiano si può vivere addirittura in un rapporto di coppia, anche perché è impostato quotidianamente sul sacrificio di sé, sull'autocritica, sul perdono reciproco, mentre quello ebraico non può prescindere da valutazioni che vanno ben oltre il semplice rapporto di coppia e che riguardano il clan familiare, il parentado, la tribù, la società nel suo complesso, lo Stato, là dove esiste come espressione del giudaismo. Per i cristiani i rapporti di coppia o comunitari servono per sopportare meglio le contraddizioni del sistema; gli ebrei preferiscono chiedere al sistema d'essere riconosciuti nella loro specificità, oppure creano un sistema conforme alla loro fede. Quando i cristiani associano la loro fede alla politica hanno già assunto un atteggiamento tipicamente ebraico.

Viceversa, i redattori di questo vangelo (o almeno di questa sua parte) hanno più un atteggiamento ellenistico, orientaleggiante. Ecco perché danno così gran peso alla figura mistica del Paraclito. In questo loro racconto Gesù promette l'invio dello Spirito a una comunità maschile, che ha rinunciato al matrimonio e alla vita pubblica e che teme di sentirsi emarginata all'interno della stessa Chiesa cristiana.

Che sia una comunità monastica a scrivere testi del genere lo si comprende anche dalle parole fatte dire all'apostolo Giuda (non ovviamente l'Iscariota, anche se il redattore, precisandolo, vuol dare l'impressione che si trattassero di parole autentiche): “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?” (14,22). In questo vangelo il “mondo” è una categoria assolutamente negativa, da evitarsi come la peste. Il “Principe di questo mondo” (v. 30), che dominerà sino alla fine dei tempi, ovvero sino alla parusia trionfale del Cristo, è qualcosa di abominevole, di orribile, nei cui confronti solo Dio può fare qualcosa: neppure la Chiesa, da sola, è in grado di opporvisi.

Ma c'è un altro aspetto da considerare. Per questi monaci l'amore è più importante di qualunque comandamento, proprio perché nei luoghi ristretti, in cui gli spazi privati sono ridotti all'essenziale, non basta la disciplina, non basta la punizione nei confronti delle mancanze, delle trasgressioni: occorre anche l'amore fraterno e reciproco. Ecco perché fanno ripetere a Gesù più volte: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (v. 15); “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui” (v. 21); “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole...” (vv. 23-24).

Sembra un mantra buddistico. Ad un certo punto non si capisce più se viene prima l'amore fraterno o l'amore per Gesù o il rispetto dei suoi comandamenti, di cui il principale è appunto quello dell'amore vicendevole, fino al sacrificio di sé. Si può partire da quello che si vuole; l'importante è capire che senza l'amore non si arriva da nessuna parte. E, in tal senso, lo Spirito consolatore, la parte femminile della Trinità, non è che l'aiuto più importante alla realizzazione dell'amore. Il Paraclito è ciò di cui questi uomini, fattisi eunuchi per il regno dei cieli, hanno bisogno come il pane quotidiano, proprio per non sentirsi frustrati nei loro sentimenti, per non dover provare un senso d'invidia nei confronti dei cristiani che vivono nelle città.

Chi ha rinunciato a tutto non può non sperare di riottenere tutto con gli interessi. “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (v. 27).

II

“Chi vede me vede il Padre” (Gv 12,45), è un'affermazione ateistica o religiosa?

I credenti, ovviamente, l'hanno interpretata in chiave religiosa, in un senso favorevole alla figliolanza divina in via esclusiva di Gesù. Solo lui era autorizzato (in virtù della resurrezione) a fare un'affermazione del genere. Pertanto bisogna credergli sulla parola.

Cioè il credente ha fede in un'affermazione teologica perché ha già fede in un'interpretazione mistica della tomba vuota, quella petrina, la quale non si è limitata a costatare la scomparsa di un cadavere, ma ha preteso di dire, senza averlo rivisto vivo, che il corpo era risorto. A questa interpretazione Paolo aggiungerà una spiegazione ulteriore del fatto: Gesù è risorto perché Figlio di Dio in via esclusiva, come solo lui poteva esserlo, in quanto ha potuto vincere la morte.

Ma immaginiamo se davvero Gesù può aver detto quella frase mentre era ancora in vita. Come l'avrebbero interpretata i discepoli? Se erano credenti, avrebbero pensato che Gesù stesse bestemmiando, in quanto nessuno nel mondo ebraico si sarebbe mai potuto permettere di identificarsi in maniera così stretta e unilaterale con la divinità.

Sarebbe apparso, oltre che empio, un esaltato, un folle, sicuramente uno da emarginare, da espellere da qualunque luogo di culto, anzi meritevole di morte, senza neanche imbastire un processo. Un qualunque ebreo l'avrebbe considerato un ateo presuntuoso.

Supponiamo invece che quella frase l'avesse detta davanti a un pubblico di atei. Cosa avrebbero pensato? Se Gesù si fosse equiparato a Dio in via esclusiva, negando ai discepoli di poter fare altrettanto, l'avrebbero molto probabilmente giudicato un imbonitore, uno di quei santoni che vuole ingannare la gente semplice. Chi invece gli avesse creduto sulla parola, sarebbe stato affetto da culto della personalità, come se fosse plagiato dalle sue parole e dalle sue azioni. Dio non esiste, ma un uomo particolare, speciale agli occhi del popolo, può sostituirlo in tutto e per tutto. I grandi dittatori della storia, ma anche i papi (infallibili, vicari di Cristo ecc.) rientrano in questa categoria di esaltati (atei o credenti che siano non fa molta differenza).

Supponiamo invece che Gesù volesse dire che non esiste alcun dio ma solo l'uomo, e che ogni uomo, volendo, è una sorta di dio di se stesso. In tal caso avrebbe fatto un'affermazione ateistica sensata, umanamente accettabile, razionalmente condivisibile, o sarebbe comunque apparso un presuntuoso, un arrogante insopportabile? La risposta per un ateo è facile.

Ecco quindi perché i vangeli sono una mistificazione: un'affermazione verosimile è stata inserita in un contesto fuorviante, che l'ha resa del tutto falsa.

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23) La vite e i tralci

I

La pericope della vite e i tralci (15,1-25)117 poteva venire in mente soltanto a dei coltivatori diretti e quindi a dei monaci redattori che praticavano l'autoconsumo e che non disdegnavano l'uso del vino.

Questi però non sono semplici monaci che si limitano a vivere dei frutti del loro lavoro, in segno di protesta contro un mondo che a loro pare troppo socialmente ingiusto. Questi son monaci intellettuali, che conoscono il greco, che han studiato non solo i testi dell'ebraismo, ma anche vari testi dell'ellenismo (si pensi solo all'uso che fanno, nel Prologo, della parola logos). Son monaci teologi e di livello raffinato (sofisticati, p.es., nel porre una differenza semantica tra “segno” e “miracolo”).

Sono anche redattori che hanno sotto mano il vangelo originario di Giovanni, le cui tracce sono andate perdute,118 e che si pongono l'obiettivo di manometterlo, in maniera tale che il vero diventi falso e il falso diventi vero, senza che nessuno possa accorgersi della mistificazione.

Questo per dire che quando si prende in esame un vangelo del genere, il sospetto dev'essere la prima regola dell'esegeta. Egli deve partire dal presupposto che questi redattori vogliono ridurre al minimo l'identità politica del Cristo, celandola dietro una marcata identità teologica. Che questo obiettivo sia nato spontaneamente nella loro comunità o sia stato imposto dall'esterno, come condizione per poter inserire il vangelo giovanneo nell'elenco di quelli canonici, non lo sappiamo.119 Sappiamo soltanto che la falsificazione doveva prevedere la rimozione completa del nome dell'autore in qualunque versetto del vangelo, nonché quello di suo fratello e della loro madre Salome. Questo testo, quindi, può essere stato scritto, in maniera definitiva, soltanto molto tempo dopo la morte dell'apostolo, quando nessuno, neppure i suoi discepoli, avrebbero potuto smentire il suo contenuto.

II

Ora, alla luce di queste considerazioni, ci si rende conto che anche una semplice similitudine come la vite e i tralci può nascondere qualcosa di sfavorevole all'identità politica del Cristo; ed è su questo che l'esegeta deve concentrarsi. Qui, infatti, più che commentare sul piano etico racconti del genere, è interessante scoprire in che modo è stata usata l'etica (nella fattispecie l'etica religiosa) per mistificare una realtà che di religioso non aveva nulla. Un esegeta teologo non è in grado, oggettivamente (a prescindere dalle sue qualità personali), di comprendere sino in fondo la natura di tali falsificazioni, che pervadono non singole parti del vangelo, ma il suo insieme.

Relativamente al racconto in oggetto bisogna anzitutto fare una precisazione. L'abbiamo voluto far concludere al v. 25, poiché, secondo noi, a partire dal versetto successivo gli autori iniziano a delineare una teologia pneumatica che è piuttosto diversa da quella cristologica fin qui vista: ciò a testimonianza che più redattori, in momenti diversi, han messo mano al testo. La teologia pneumatica viene addirittura considerata dagli esegeti come specifica di questo vangelo, essendo appena abbozzata nella teologia paolina.

Il racconto della vite e i tralci contiene la formulazione di una disciplina gerarchica che è tipica delle realtà monastiche; ed è stato scritto tardivamente, poiché non prevede che si possa credere in Gesù sulla base delle sole opere compiute, come viene detto in 10,37 s.: “Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre” (concetto ribadito in 14,11). Nella pericope della vite e i tralci si deve credere in lui espressamente sulla base di ciò ch'egli dice di sé. Non si prevede neppure che, nel suo nome, si possano fare opere anche più grandi delle sue, come invece viene detto in 14,12: “chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre”.

Tale pericope lascia poche speranze ai dissidenti o ai titubanti: “Ogni tralcio che in me non porta frutto, [Dio] lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto” (v. 2); “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano” (v. 6). Gesù è alquanto tassativo nell'affermare: “senza di me non potete far nulla” (v. 5). Praticare l'amore fraterno e osservare i comandamenti di Gesù non sono più cose intercambiabili; ora la garanzia dell'amore reciproco è data dal rispetto dei comandamenti (v. 10), sulla base del suo stesso esempio: “Voi siete miei amici se fate le cose che io vi comando” (v. 14).

I discepoli devono forse sentirsi “servi” di Gesù? come i novizi nei confronti dei loro superiori? In un certo senso sì. D'altra parte il Gesù mistificato può pretenderlo, in quanto si è sacrificato in maniera estrema, per il bene del genere umano. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (v. 13). Se si è pronti all'autoimmolazione, si può pretendere l'obbedienza dei discepoli, i quali devono amarsi tra loro, come se fosse un obbligo.

A titolo di ricompensa, a motivo di questa onerosa richiesta di obbedienza assoluta, vi è la promessa che qualunque cosa essi chiederanno al Padre, nel nome di Gesù, la otterranno (vv. 7 e 16). Per poter stare in comunità è obbligatorio amarsi vicendevolmente e rispettare le regole. In questo vangelo non sono presenti le richieste radicali da parte di Gesù, di abbandonare la casa, la famiglia, il lavoro, i beni..., semplicemente perché ciò viene dato per scontato: i redattori monaci l'han già fatto, per cui per loro diventa più importante puntare su qualcosa di iniziatico, concernente i cosiddetti “misteri” (uno dei gesti tipici, in tal senso, è la lavanda dei piedi nel Cenacolo).

Gesù qui parla chiaro, come il priore di una comunità monacale che ha di fronte a sé dei nuovi adepti: “Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi” (v. 16). I discepoli son come dei burattini, dei soldatini inquadrati in un sistema che non si può mettere in discussione in alcun modo. Non è più il tempo del Battista, quando alcuni discepoli di costui, vedendo che Gesù appariva loro politicamente migliore, gli chiesero: “Maestro, dove abiti?”, ricevendo come semplice risposta: “Venite e vedrete” (Gv 1,38 s.).

Ora le cose son cambiate: se Gesù non era umano che all'apparenza, come una sorta di ologramma, è evidente che nessun essere umano può mettersi a discutere con quanto egli dice. Non è possibile tollerare, all'interno della comunità monastica, alcuna idea stravagante, alcun dubbio esistenziale o filosofico. D'altra parte il discepolo non può pensare, neanche lontanamente, di diventare più grande del suo maestro. Non viviamo - sembrano dire questi redattori - in un ambiente pagano.

“Il servo non è più grande del suo signore” (v. 20). Se i discepoli pensano di avere ancora dei dubbi su questo - in quanto, si potrebbe qui aggiungere, Gesù non ha liberato la Palestina dai Romani -, è sufficiente aver chiaro che lui è stato perseguitato per le sue idee e che l'odio nei suoi confronti ha raggiunto vette inusitate: “Mi hanno odiato senza motivo” (v. 25). Un motivo preciso, in realtà, l'avevano, solo che i redattori non possono dirlo.

Dunque, si faccia bene attenzione a questo ragionamento. Gesù sta dicendo agli apostoli (e qui dobbiamo sempre pensare a un abate che parla ai suoi novizi) che nessuno può permettersi il lusso di contestare anche la più piccola parola di ciò ch'egli ha detto, poiché tutto ciò ch'egli ha detto l'ha ascoltato dal Padre. Quel che ha fatto Gesù era vero perché conforme all'idea dominante, quella del Padre. Il cristianesimo è, in fondo, una forma di astratto idealismo, con l'aggiunta di una certa concretezza ebraica. Qui ovviamente non si fa filosofia, bensì teologia: le idee astratte non sono teoretiche, ma rappresentate da figure umane o divine, come in una scena teatrale. Le figure divino-umane non sono che simboli di idee astratte. Il che non rende affatto la teologia inferiore alla filosofia; anzi, è vero il contrario, poiché la teologia si preoccupa di “incarnare” in una struttura ecclesiale le idee che professa.

Ora, l'autoritarismo del cristianesimo sta proprio in questo, che nessuno può mettere in discussione le idee dominanti. Il cristianesimo è dogmatico per definizione. Rispetto al maestro, il discepolo resta sottoposto a vita o fino a quando il maestro non muore o non perde la propria autorevolezza per questioni etiche. Là dove esiste il dogma, esiste per forza anche una gerarchia da rispettare. E il vincolo morale di tale gerarchia è proprio determinato dal fatto che il superiore ha già subìto e superato tutte le prove, prima ancora di quelle che subirà il subordinato.

Il cristianesimo produce una società bloccata, che può evolvere soltanto se il discepolo si ribella al maestro, cioè se rifiuta il ricatto morale secondo cui uno deve sempre essere riconoscente al proprio superiore, che è tale proprio perché è “maestro”. “Se il mondo vi odia, sapete bene che prima di voi ha odiato me” (v. 18); “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (v. 20); “Chi odia me, odia anche il Padre mio” (v. 23).

Non è stato certo un caso che la ribellione del cattolicesimo latino nei confronti di quello greco, ha fatto dell'Europa occidentale un qualcosa di molto diverso da quella orientale; un qualcosa di molto più violento, materialistico e autoritario; un qualcosa che con la ribellione del protestantesimo nei confronti del cattolicesimo e con la nascita del capitalismo è andato sempre più peggiorando, facendo dell'Europa occidentale, storicamente, la fonte ultima delle peggiori disgrazie dell'umanità.

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24) Cristologia e Pneumatologia

I

Nel vangelo di Giovanni la pneumatologia è stata elaborata per ultima ed è un prodotto derivato dalla cristologia mistica o mistificata. Essa è parte organica di tale cristologia, come risulta, in maniera molto evidente, a partire dalla parabola sulla vite e i tralci. Cristologia vuol dire gerarchia e quindi obbedienza, pur nella legge dell'amore; pneumatologia vuol dire invece libertà interiore, spiritualizzazione del messaggio cristico e sua universalizzazione.

La Chiesa romana ha usato la cristologia contro la pneumatologia; la Chiesa protestante ha preteso di fare il contrario. Entrambe hanno prodotto mostri sociali, culturali e anche politici. L'unica che ha salvaguardato le due teologie in maniera organica, cercando di restare fedele il più possibile al cristianesimo primitivo, è stata la Chiesa ortodossa. È dunque nei confronti di quest'ultima Chiesa mistificata che occorre trovare un'alternativa convincente, sul piano umano e politico.

II

Nel IV vangelo Gesù inizia a parlare di “Consolatore” a partire da 14,16, ove viene chiamato “Spirito di verità”, che Dio-padre “manderà” nel nome di Gesù, con la funzione di “insegnare ogni cosa” e di far “ricordare” tutto quello che lui aveva detto (14,26).

Ora, al cap. 15, vengono approfonditi questi aspetti e, a partire dal v. 26, viene detto, in maniera molto esplicita, che il Consolatore, ovvero lo Spirito di verità, “procede dal Padre”, anche se Gesù potrà inviarlo ai cristiani, attraverso la mediazione del Padre: “io vi manderò da parte del Padre...; egli [lo Spirito] testimonierà di me” (15,26).120

In sostanza il Gesù mistificato, per consolare i discepoli della sconfitta politica e del suo mancato ritorno trionfale nell'immediato, dopo la scoperta della tomba vuota, fa una promessa solenne: non li abbandonerà, non li lascerà orfani, si farà sostituire da un'altra entità divina analoga a lui, di cui lui non è mandatario in via esclusiva, in quanto il vero proprietario è solo Dio-padre, che però può inviarlo a chi vuole, se il Figlio glielo chiede.

Questo Spirito (in greco Pneuma, in ebraico Ruah) verrà dato a titolo di consolazione, ma anche come arma intellettuale per difendersi dai nemici, in quanto è “Spirito di verità”; verrà dato all'interno di una cristologia che prevede obbedienza, disciplina, relazioni di amore fraterno. Esso “convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il Principe di questo mondo è stato giudicato” (16,8-11).121

Detta teologia, inventata da redattori cristiani di origine giudaica, influenzati dall'ellenismo, strutturalmente legati a un'esperienza di vita di tipo monastico, è - per come viene formulata - vagamente implicita nella teologia paolina, e risulta, in questo vangelo, particolarmente elaborata, sofisticata, di grande spessore intellettuale. In essa si prospetta la sicurezza di una vittoria già in atto contro “il Principe di questo mondo”, cioè contro Satana, il demonio, l'avversario di Dio-padre.

Lo scontro armato contro Roma viene completamente trasferito nei cieli, sul piano metafisico, anzi ontoteologico; ed è uno scontro in cui i discepoli del Cristo, sino alla fine dei tempi, svolgeranno un ruolo, tutto sommato, abbastanza modesto, in quanto dovranno limitarsi a resistere, ad aver fede nella divinità di Gesù, fino a quando non verrà il giorno in cui tutto verrà ricapitolato, cioè ricomposto come quando era in origine. Una teologia di questo tipo può essere stata elaborata soltanto dopo che si era definitivamente rinunciato non solo a credere in una imminente parusia trionfale del Cristo, ma anche a credere che la politica missionaria inaugurata dal paolinismo fosse una condizione indispensabile per la salvezza personale.

La comunità cui questi redattori appartengono presume di rappresentare un'evoluzione di quelle di derivazione paolina, tipicamente urbane, più orizzontali nell'organizzazione interna e concentrate sulla predicazione itinerante. In questo vangelo sia la predicazione pubblica di Gesù che i suoi miracoli non sono affatto descritti come eventi di successo, proprio perché la comunità che ha originato questo vangelo manipolato si era isolata dal contesto urbano e vedeva il “mondo” in una maniera molto negativa, ai limiti del manicheismo. Tutta la vicenda di Gesù, accettata da pochissime persone, compresa praticamente da nessuno, rientra in una prospettiva alquanto drammatica, con risvolti non poco irrazionalistici.

D'altra parte lo stesso vangelo di Luca, che riflette l'essenza della teologia paolina (depurata degli elementi più giudaici), ha già consapevolezza che la morte del Cristo è irreversibile e non c'è alcuna possibilità di attendere nell'immediato il suo ritorno; per questo viene descritta, alla fine del suo vangelo, l'ascensione di Gesù al cielo, che, non a caso, viene ripresa all'inizio degli Atti degli apostoli, ove viene detto: “Non sta a voi sapere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua propria autorità [o scelta]” (1,7). Poi, a titolo di consolazione, ma anche come impegno a usarlo sul piano missionario, viene fatto discendere sugli apostoli lo Spirito Santo (è la scena della Pentecoste, carismatica per eccellenza, in quanto si parla di “glossolalia”: un aspetto che nel vangelo così altamente teologico come quello di Giovanni non viene neppure preso in considerazione). I cinquanta giorni, a partire dal momento dell'ascensione, sono stati messi in maniera del tutto artificiosa. Diciamo che gli apostoli han dovuto aspettare la teologia paolina prima di elaborare l'idea di dover rinunciare definitivamente alla liberazione nazionale d'Israele. La catastrofe del 70 ha dato poi il colpo di grazia.

Questo per dire che nell'ambito di tale teologia era già presente la figura dello “Spirito di verità” (quello, p.es., che viene dato nel sacramento del battesimo e che non possono dare i discepoli del Battista), ma non era così chiara la natura di questa entità divina. Solo nel IV vangelo, infatti, risulta evidente che lo Spirito non viene inviato dal Figlio, bensì dal Padre, in quanto “procede solo da lui”.122 E non è semplicemente uno Spirito “carismatico”, che elargisce doni a destra e a manca, a sua discrezione, come appare nella teologia paolina: questa è una funzione di livello minore. È piuttosto uno Spirito di portata “universale”, che avrà la funzione di ricapitolare la storia, di assemblarne i pezzi come se fosse un puzzle, in quanto dovrà convincere il mondo intero circa il peccato, la giustizia e il giudizio.

È uno spirito universale e apocalittico, che sarà presente sino all'ultimo giorno. Riuscirà addirittura a trasmettere verità superiori a quelle comunicate dal Cristo. Infatti i redattori fanno dire a Gesù: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (16,12-13).

Quindi si tratta di una entità onnisciente, in grado di far conoscere la verità a 360 gradi, su qualunque aspetto dello scibile umano, e sarà anche in grado di far prevedere agli uomini il futuro che li attende. “In quel giorno non mi domanderete più nulla” (16,23). Il cammino verso la verità assoluta sarà lento, graduale, pedagogico, ma sostanzialmente irreversibile, proprio perché è garantito dallo Spirito. “Verrà l'ora in cui non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi parlerò del Padre” (v. 25). L'idea di “Padre” non è altro che un modo traslato di parlare di “comunismo primitivo”, distrutto dallo schiavismo, che rappresenta il “peccato originale” dell'umanità.

Per dare un saggio della sua potenza profetica, Gesù predice agli apostoli che verranno “espulsi dalle sinagoghe” e che chi li “ucciderà, crederà di rendere un culto a Dio” (16,2). Ciò fa pensare che già alla fine del I secolo questi redattori erano stati testimoni di vari discepoli cristiani martirizzati.123 Strano però che qui dicano ch'essi sarebbero stati “espulsi dalle sinagoghe”. Che profezia è questa, quando già lo era stato il Cristo? Sembra che qui i redattori vogliano dire che gli apostoli, dopo la sua mancata parusia, erano tornati a frequentare gli ambienti religiosi dell'ebraismo: cosa peraltro confermata dall'evangelista Luca, sia nel vangelo (24,53) che negli Atti (2,46); e dobbiamo supporre fosse vera, anche se forse non per tutti.

Un'altra profezia riguarda il fatto che i discepoli si disperderanno, ciascuno per conto proprio... (16,32). Ma anche di questo Gesù non si preoccupa affatto, in quanto può dichiarare tranquillamente di aver “vinto il mondo” (v. 33): infatti il IV vangelo lo farà salire sulla croce come vincente, non come perdente.

III

Forse è venuto il momento di far notare che in questo vangelo, quando si parla di gloria, resurrezione, giudizio, l'ora che viene, ecc., sembra che non si abbia a che fare con realtà escatologiche, simili a quelle delineate dai Sinottici, ma con realtà già attualizzate. L'oggi sembra concentrare in sé tutto il passato e tutto il futuro, in una dimensione prolettica.

Si ha cioè l'impressione che i redattori non rimandino al futuro la dimostrazione definitiva delle verità di ciò che dicono, ma la diano per scontata nel presente. Sono così convinti d'essere nel giusto che non sanno che farsene della memoria e del desiderio. La storia è tutta racchiusa in un punto del presente, in cui la comunità vive certezze incrollabili, assolutamente inconfutabili.

In un certo senso non si ha neppure bisogno d'aspettare la “parusia del Cristo” (che invece nei Sinottici e soprattutto nelle lettere paoline risulta essere fondamentale), proprio perché egli viene presentato come se avesse “già vinto” il mondo. Si arriva addirittura a far dire a Gesù, mentre si rivolge agli apostoli, che non l'avrebbero più rivisto in relazione all'esigenza di giustizia del mondo (16,10); dice questo proprio perché egli non avrebbe avuto bisogno di ritornare per dimostrare chi era. La sua missione era stata eseguita alla lettera: “il principe di questo mondo è [già] stato giudicato” (16,11). D'ora in poi il compito degli uomini sarà soltanto quello di credere passivamente in questa verità.

Ciò significa che nel IV vangelo l'atteggiamento di fede che deve avere il credente, non ha bisogno di ulteriori conferme. Oggi diremmo che siamo in presenza di una sorta di autoconvincimento cieco e irrazionale. Questi redattori ritengono del tutto inutile un dialogo con chi la pensa diversamente. La fede assicura una “vita eterna” non nel futuro, bensì nel “secolo che viene”, tant'è che spesse volte vien fatta dire a Gesù l'espressione “l'ora viene, anzi è già venuta” (4,23; 5,25; 16,32). Quando si parla di “ora non ancora venuta” (2,4; 7,30; 8,20) ci si riferisce al fatto che i nemici di Gesù (o comunque chi non è in grado di capirlo), vorrebbero eliminarlo o costringerlo a fare delle cose anzitempo. È lui infatti che deve decidere la coincidenza temporale delle azioni con la fantomatica volontà del “Padre”. Questa cosa è molto evidente nel racconto inventato della resurrezione di Lazzaro, allorquando Gesù fa capire a Marta che suo fratello non sarebbe risorto nell'ultimo giorno ma immediatamente (11,25), proprio in virtù dell'unità d'intenti che lega il “Figlio” al “Padre”.

Quindi la cosiddetta “gloria del Cristo” il credente deve poterla constatare già nel presente, essendo tutta racchiusa nelle straordinarie opere ch'egli ha compiuto, di cui la principale è la morte in croce, poiché la scelta di questo strumento soteriologico per l'umanità, da parte di una persona divino-umana, che avrebbe potuto imporsi come voleva sulla realtà del male, va oltre ogni possibile immaginazione, oltre ogni possibile aspettativa. Per una comunità sconfitta politicamente nulla è più grande, come forma di riscatto personale e collettivo, di una sofferenza patita ingiustamente, che si sarebbe tranquillamente potuta evitare.

IV

Una volta sviluppata la figura mistica dello Spirito Santo, i redattori possono procedere a una progressiva femminilizzazione del loro cristianesimo monastico. Di qui la pericope che gli esegeti hanno intitolato “La preghiera sacerdotale” (cap. 17).

È molto evidente la successione dei discorsi falsamente attribuiti a Gesù e inseriti tardivamente nel vangelo originario di Giovanni. Praticamente i capitoli 14-17 esprimono l'evoluzione di una comunità monastica cristiana di origine giudaica, intellettualmente colta, che precisa sempre meglio, strada facendo, i propri strumenti interpretativi, coi quali vuol dare una rappresentazione teologica del proprio stile di vita e un'indicazione di massima di quali siano state le motivazioni di fondo che hanno reso necessaria la manipolazione del vangelo giovanneo.

Questi capitoli sono un blocco a parte, che potrebbe essere separato dal vangelo, in quanto costituisce un manifesto programmatico, una sorta di “regola” per un ordine religioso, che ha l'ambizione di porsi come un modello universale di vivibilità della fede. Essi possiedono una forte carica emotiva, a tratti poetica, a volte teatrale, ma sempre con la finalità di mistificare l'identità politica del messia. Questa infatti non è una semplice comunità monastica che deve darsi un regolamento per affrontare la vita quotidiana, ma è una comunità composta da soggetti che si sentono politicamente frustrati e che devono darsi delle ragioni per continuare a vivere da sconfitti.

La femminilizzazione sta nel fatto che la glorificazione del Padre sulla Terra viene fatta da un Figlio politicamente perdente, non vincente, anche se lo si fa salire sulla croce come se avesse vinto il cosiddetto “Principe di questo mondo”. Il cristianesimo fa della sconfitta politica un successo teologico, in quanto la vittoria messianica è vista come un errore di prospettiva che appartiene, tipicamente, alla mentalità ebraica, un abbaglio fuorviante, che impedisce di valorizzare gli aspetti etico-religiosi, che pur questa stessa cultura, anzi civiltà possiede. L'ebraismo è troppo maschilista, troppo politicizzato per poter essere cristianizzato.

Poiché in un regime schiavistico il vero uomo è rappresentato dallo schiavista, la vera alternativa a quest'ultimo non è l'uomo libero (come vorrebbe l'ebraismo), bensì l'uomo che sceglie di restare schiavo (o di farsi umile, pur essendo libero), nella convinzione che la libertà non è di questo mondo, ma solo dell'altro, fruibile da chi, avendo vissuto sulla Terra una vita da servo, è stato in grado d'imitare il Figlio di Dio, suo modello di riferimento, che aveva accettato il martirio con convinzione, pur potendolo tranquillamente evitare.

In tale ambito pre-politico, in cui vanno salvaguardati valori anti-politici, è netta la differenza tra “discepoli” e “mondo”. “Io prego per loro - vien fatto dire a Gesù -; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi” (17,9). Gesù appare come una madre gelosa dei propri figli, la cui integrità e sicurezza viene anteposta a qualunque cosa. “Quand'ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura” (v. 12).

Se avesse tentato un'insurrezione nazionale, Gesù avrebbe forse potuto perdere qualche discepolo o anche tutti; così invece la tutela della vita viene ad essere considerata superiore alla stessa libertà. La libertà, infatti, è solo interiore (stoicamente sentita) e coincide con la coscienza della verità: una coscienza che va vissuta nell'unità dell'amore fraterno, “affinché [i discepoli] siano una cosa sola, come noi [Padre e Figlio]” (v. 11). E al v. 17: “Consacrali nella verità. La tua parola è verità”.

Perché dunque non compiere un suicidio di massa, come a Masada?124 Che senso ha vivere su questa Terra, dal momento che si è capito che nessuna liberazione sarà mai possibile? Davvero ci si può sentire liberi dentro quando fuori domina la schiavitù?

“Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (v. 15). Ma perché “preservarli” e non “toglierli”, visto che tutte queste cose le han già capite? Il motivo è molto semplice: poiché solo Dio-padre sa quando avverrà la fine del mondo, in attesa che ciò avvenga vi è una missione da compiere: essere di testimonianza per gli altri. “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa” (vv. 20-21), “affinché il mondo creda che tu mi hai mandato” (v. 21).

Il suicidio di massa non ha senso, poiché esiste una missione da compiere, e in questa missione il fatto di dover subire odio e disprezzo non solo va considerato inevitabile, ma anche auspicabile, poiché questo sarà un indizio sicuro che si è sulla buona strada; e se quella persecuzione dovrà portare al martirio, ciò andrà considerato non come una disgrazia, ma come un guadagno. Qui è evidente il peso della teologia paolina.

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25) Il patetismo nei discorsi di addio

I capitoli 14-17 del vangelo di Giovanni sono il manifesto politico-religioso di una comunità monastica che, dopo la distruzione di Gerusalemme, si era definitivamente “ritirata dal mondo”, cioè si era isolata in un luogo poco frequentato in cui vivere valori come l'autoconsumo, l'uguaglianza sociale, la comunione dei beni, il senso della fratellanza e la democrazia diretta, nel rispetto integrale della natura. È una comunità di uomini politicamente sconfitti, in quanto la rivoluzione del Cristo era fallita. Essi, per poter sopravvivere dignitosamente, senza cadere nella disperazione, si erano dati degli ideali socioreligiosi in cui credere, in opposizione al “mondo”, qui considerato in un'accezione sempre negativa. Noi non sappiamo se gli adepti di tale comunità siano stati davvero dei discepoli diretti dell'apostolo Giovanni; possiamo soltanto affermare che qui si è in presenza di un'opera di falsificazione del suo messaggio originario.

“Il vostro cuore non sia turbato” (14,1), “nella casa del Padre mio vi sono molte dimore” (v. 2). Queste parole, introduttive a tutto il lungo discorso di un Cristo completamente immaginato, sono eloquenti. La comunità cristiana si sente irrimediabilmente sconfitta sul piano politico, ma vuol dare per scontato che, nel giorno del giudizio (quello in cui il Cristo risorto tornerà) si salverà ugualmente.

Esistono infatti vari modi per essere “salvati”, secondo i criteri mistici e mistificanti di tale comunità: uno è quello di continuare ad aver fede in Dio e in Gesù Cristo, previa trasformazione di quest'ultimo da “Gesù della storia” a “Cristo della fede”. Questa infatti è una comunità che spera di poter essere accolta nella “Gerusalemme celeste”, pur essendo consapevole di non aver saputo realizzare il progetto di liberazione nazionale voluto dal proprio maestro. Ecco perché spera d'essere perdonata della propria pochezza, della propria pusillanimità.

Il Cristo che qui viene tratteggiato è quello di un leader buonista, che sa perdonare gli incapaci, gli inetti, coloro che non hanno abbastanza fede politica e coraggio rivoluzionario. Siccome però è una comunità che vuole autogiustificarsi, ha bisogno di presentare le cose in maniera mistificata, come d'altra parte si addice a quelle esperienze che vogliono mescolare le sconfitte politiche con motivazioni di tipo mistico.

La prima mistificazione è tipica di tutte le esperienze religiose, in particolare di quella cristiana: Cristo è stato tradito perché non si era capita subito la sua natura divina, la sua identità di “Figlio” rispetto a un Dio-padre. Cioè non si era capito che il suo vero messaggio di liberazione non era politico, bensì religioso. Egli voleva dare di Dio una nuova immagine o rappresentazione teologica. Alla divinità, d'ora in poi, si sarebbe arrivati solo passando attraverso la persona del Cristo, che di lui si considerava “Figlio unigenito”, in maniera esclusiva, avendo medesima natura.

Tra Padre e Figlio non c'è più alcuna differenza se, guardando il Figlio, si vede il Padre, ovvero se ci si convince che per credere nel Padre è sufficiente credere nel Figlio. Questo il senso del rimprovero di Gesù a Tommaso, che qui viene fatto passare per una sorta di ateo. Filippo invece è più agnostico: si accontenterebbe di vedere Dio per potervi credere. Ma Gesù gli muove lo stesso rimprovero: Padre e Figlio coincidono; poiché il Figlio è stato fisicamente visto, gli uomini dovrebbero, di conseguenza, credere anche nel Padre. È, questa, una pretesa di non poco conto: un uomo, fatto passare per una divinità, presume d'identificarsi col Dio supremo, ch'egli chiama “Padre”. E dice questo come se fosse una prova inconfutabile, cioè come se gli apostoli avessero già avuto ampie testimonianze per credervi. Siamo nella mistificazione più completa.

Qualche redattore deve essersi reso conto che il ragionamento del Cristo poteva essere fatto anche da un esaltato, affetto da delirio di onnipotenza; e ha allora smorzato la pretesa facendo le seguenti precisazioni: 1) chi non crede nell'identità Padre-Figlio sulla base delle autodichiarazioni del Figlio, vi creda almeno in rapporto a ciò che egli ha compiuto nel mondo; 2) se crede in tale identificazione, potrà arrivare a compiere delle opere anche più grandi di quelle del Cristo, poiché all'uomo di fede nulla è impossibile (sempre che la fede, ovviamente, sia autentica e sincera).

La genuinità di questa fede non potrà più essere garantita dal Cristo, che tornerà sulla Terra solo alla fine dei tempi, ma verrà garantita da un'entità metafisica, qui introdotta dal cristianesimo per la prima volta come terza figura divina: lo Spirito di verità, il Consolatore o Paraclito. Non si tratta di una persona fisica, ma di una sostanza eterea, che il Padre manda su richiesta del Figlio, affinché gli apostoli non si sentano orfani, abbandonati, sapendo bene che la fragilità umana impedisce di avere delle certezze.

È una sostanza che il mondo non può conoscere, poiché non è in grado di comprendere la divinità del Cristo. Il mondo non l'ha riconosciuto proprio perché resta incapace di “amore”. L'obiettivo degli apostoli, infatti, il comandamento che devono rispettare è uno solo: amarsi. Là dove esiste amore, ogni comandamento si può facilmente rispettare. Il mondo quindi è destinato a vivere nell'odio? - chiede Giuda (non l'Iscariota) al Cristo. La risposta è tassativa: non c'è vero amore là dove manca l'amore per il Cristo.

Questa comunità si ritiene autosufficiente: non ha bisogno del mondo per poter sussistere. Ciò di cui ha bisogno è soltanto amore e spirito di verità (cioè convinzione d'essere nel giusto facendo della fratellanza comune un criterio di vita). Il mondo è gestito da un “principe” che non riconosce né Dio-padre, né Dio-figlio né lo Spirito Santo. E su questa Terra il suo destino è quello di vincere, ma solo perché venga messa alla prova la fede dei cristiani. Non ci si può disperare di questo, poiché fa parte di un “disegno divino”. Le parole del Cristo, infatti, non sono sue ma provengono direttamente “dal Padre” che l'ha mandato (14,24).

La mistificazione qui è sofisticata. Il Cristo avrebbe perso la partita politica perché nel disegno di Dio vi era una prova da superare. Egli doveva dimostrare di amare Dio fino al punto da lasciarsi crocifiggere dagli uomini, cioè da coloro che avrebbero potuto essere facilmente vinti. Nella contesa contro il mondo (a quel tempo i Romani e gli ebrei collaborazionisti) il Figlio non poteva dimostrare le sue caratteristiche divine (se non ai discepoli più stretti), proprio perché il Padre voleva far vedere agli uomini, incapaci d'essere se stessi, fin dove è possibile amare.

L'idea originaria non era quella di vincere “il principe di questo mondo”, poiché, se così fosse avvenuto, gli uomini avrebbero facilmente creduto nella divinità. L'idea era invece quella di indurli a credere nel valore soteriologico della sconfitta politica, la quale, davanti a Dio, si trasforma in una vittoria religiosa. Il Cristo di Giovanni sulla croce vince proprio in quanto ha adempiuto sino in fondo il compito che gli era stato assegnato.

Da soli gli uomini non riescono a realizzare alcuna liberazione (il peccato originale li ha resi, col tempo, sempre più impotenti); ma non possono neppure sperare che un Dio faccia ciò che loro non riescono più a fare. L'unica speranza che hanno, quindi, è che accettino l'idea che su questa Terra nessuna liberazione politica è possibile. Su questa Terra si può soltanto resistere alla tentazione di compierla. L'unica vera liberazione è oltremondana, ultraterrena, in attesa della quale è sufficiente conservare un atteggiamento di fede, vivendo nella pratica dell'amore reciproco.

Alla fine dei tempi, quando il mondo sarà completamente devastato e gli uomini di fede saranno diventati uno sparuto gruppo in un luogo remoto del pianeta, tornerà il Cristo ad annunciare la liberazione finale, a disposizione di chiunque abbia fede, ma sarà qualcosa che troverà il suo compimento definitivo nei Cieli, non sulla Terra. Tale strategia salvifica è stata decisa da Dio-padre e il Figlio non ha fatto altro che condividerla, pur potendo agire diversamente. In fondo il Figlio voleva soltanto insegnare il valore dell'obbedienza, che nasce dall'amore, quel valore che il primo uomo e la prima donna non avevano saputo rispettare.

Il concetto di obbedienza è ben visibile nella lunga allegoria della vite e dei tralci del cap. 15. Se Cristo è la vite, il Padre è il vignaiolo e i credenti sono i tralci. Senza la vite, i tralci non possono far nulla (v. 5), ma restando nella vite essi portano molto frutto, e il frutto più importante è l'amore reciproco. Chi pensa che l'amore sia lo scopo della vita, non si sente mai servo di nessuno, neppure quando deve obbedire.

Qui la mistificazione raggiunge un altro picco. Infatti al v. 13 viene detto che l'amore più grande è quello di chi dona la vita per i propri amici. Si badi: non che questo non sia meritevole e degno d'onore. Il problema è che qui il sacrificio di sé viene messo in alternativa al tentativo di liberare gli uomini dai mali sociali. Ci si autoimmola per non compiere alcuna rivoluzione politica, alcuna trasformazione sociale del sistema. Cristiani del genere non vengono più chiamati “servi” (v. 15) - questo è vero -, ma solo sul piano morale. Su quello fisico, sociale e materiale possono tranquillamente continuare ad esserlo.

Il cristianesimo è la religione degli sconfitti e di chi s'illude di poter praticare l'amore in una società piena di odio, semplicemente limitandosi a resistere alle tentazioni del mondo, ai condizionamenti negativi, quando addirittura non si pensa di poter dimostrare la propria diversità o superiorità accettando il martirio, cioè volendo far credere che se si viene giustiziati è perché la ragione sta dalla propria parte.

Qui il concetto di “mondo” è assunto in una valenza metafisica che di positivo non ha nulla. Il mondo è irrimediabilmente malvagio: lo ha dimostrato eliminando l'unica persona che avrebbe potuto salvarlo. Sotto questo aspetto il mondo non può più compiere un delitto superiore a quello che ha già fatto. Gli uomini si sono messi esplicitamente al servizio del demonio, uccidendo chi li ha creati e amati fin dall'inizio. Non può quindi esserci salvezza per il mondo, ma solo per una sua piccolissima parte, quella che ha creduto nella figliolanza divina del Cristo, esclusiva a lui per natura.

Perché il mondo si sia comportato così e perché continui a farlo non è dato sapere: fa parte della libertà umana. Questo vangelo, che non fa analisi sugli effetti della proprietà privata, si limita a dire: “Mi hanno odiato senza motivo” (v. 25). E siccome è un vangelo religioso, che vuole rinnegare il valore della politica, non gli resta che concludere dicendo: il motivo per cui odiano il Cristo è perché non vogliono riconoscerlo nella sua divinità (vv. 26-27). Una tesi bizzarra, questa, poiché proprio il riconoscimento cristiano della divinità del Figlio si pone, nel cristianesimo primitivo, come una conseguenza della poca fiducia nel valore della giustizia sociale e della democrazia politica. La politica degli Stati autoritari, schiavistici e imperiali non praticherebbe l'amore proprio perché nel Cristo non vedrebbe alcun lato divino e quindi si sentirebbe autorizzata a non credere nei valori umani. Chi non ha fede in Cristo è votato al male, morale e intellettuale.

Il cap. 16 insiste su questa problematica, drammatizzandola ulteriormente. La sorte dei cristiani è segnata, esattamente come quella del Cristo. Anzi, saranno proprio le persecuzioni a dimostrare la giustezza della loro fede. “Vi espelleranno dalle sinagoghe; anzi, l'ora viene che chiunque vi ucciderà, crederà di rendere un culto a Dio” (16,2). Qui il riferimento antisemitico alla cosiddetta “perfidia dei Giudei” è evidente. I Romani non uccidevano in nome di Dio.

Tuttavia resta interessante il fatto che questa comunità cristiana abbia previsto che il martirio dei credenti può anche avvenire in nome di un Dio diverso dal proprio, o addirittura in nome di una diversa interpretazione dello stesso Dio125. Di nuovo qui c'è il particolare ruolo attribuito allo Spirito di verità. Nei capitoli precedenti appariva nella veste di un mero “Consolatore morale”. Ora invece sembra avere una pretesa politica, seppur gestita in chiave teologica. Sembra essere addirittura più importante dello stesso Cristo, quasi a indicare una progressione (o meglio una involuzione) spiritualistica della comunità monastica, ormai ai limiti dell'irrazionalismo: “è utile per voi che io me ne vada; perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore” (v. 7).

Questa volta il compito che il Paraclito ha è del tutto rivolto al mondo: “Quando sarà venuto, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” (v. 8). È detto “convincerà”, come se fosse una cosa certa. L'autore lascia credere che il mondo non potrà agire impunemente contro i cristiani; anzi forse riuscirà persino a convertirsi, vedendo la loro risolutezza.

“Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato” (vv. 9-11). Detto questo, per il mondo c'è poca speranza: se non si converte, la sua sorte è segnata, esattamente come quella dei cristiani, ma per motivi opposti.

Sono parole difficili da comprendere, anche perché il momento in cui il mondo si “convincerà” di questo non è chiaro. Possiamo soltanto presumere che per i cristiani avverrà alla fine dei tempi. Il Paraclito infatti si assumerà l'onere di dimostrare che chi non crede nella divinità del Figlio, è destinato alla perdizione (è una critica quindi all'ateismo e alle false teologie).

La giustizia sembra essere citata in due maniere: una è riferita al Cristo, la cui morte non può voler dire la fine della speranza; ovvero giustizia vuole ch'egli ritorni presso chi l'ha inviato sulla Terra, al fine di rendere conto del proprio operato. Ma può anche voler dire che, poiché il Cristo, tradito e giustiziato, non lo si vedrà più sulla Terra (sino alla fine dei giorni), è escluso che gli uomini possano realizzare il loro senso della giustizia.

Il significato della parola “giudizio” appare invece più chiaro: anche se il Cristo è uscito sconfitto nello scontro politico col mondo, il fatto stesso ch'egli sia risorto (in quanto essere divino) dimostra che, in ultima istanza, sarà il mondo a perdere la partita. In altre parole, il mondo ha vinto una battaglia ma è destinato a perdere la guerra.

Quindi lo Spirito non ha il compito di “convincere” nell'immediato, ma solo di aiutare i cristiani ad avere sempre maggiore consapevolezza dei limiti del mondo, che gli sono strutturali, cioè insuperabili con gli strumenti meramente umani. Più che “convincere” il mondo, lo Spirito dovrà “convincere” i cristiani della giustezza della loro fede. Essi infatti sono destinati a soffrire, come la partoriente, che però alla vista del neonato dimenticherà presto tutto il proprio dolore. Devono quindi guardare il futuro con ottimismo, poiché nessuno potrà togliere loro ciò in cui credono, ben sapendo che Cristo “ha vinto il mondo” (v. 33).

L'ultimo capitolo, di questa serie di commiato da parte di Gesù, è forse il più struggente, il più mistico, a testimonianza che questo vangelo è stato scritto in tempi diversi e da più redattori. Qui i riferimenti alla politica riguardano soltanto il tipo di organizzazione interna che la comunità deve realizzare, sulla base di semplici princìpi etico-religiosi, facilmente condivisibili. Non a caso la Chiesa ha voluto denominarlo “La preghiera sacerdotale”. In effetti sembra essere la preghiera che un sacerdote, autoidentificatosi col Cristo, fa in una funzione liturgica. In realtà è la preghiera di un morto, la cui anima, al cospetto di Dio, rende conto di quanto aveva fatto sulla Terra, come facevano i faraoni nel mondo egizio.

In essa rimane ferma la distinzione categorica tra “mondo” e “discepoli”: Gesù prega per loro, non per il mondo (v. 9). Ribadisce d'aver insegnato ai discepoli la comunione dei beni, materiali e spirituali: “tutte le cose mie sono tue [in riferimento al Padre], e le cose tue sono mie” (v. 10). Afferma l'esigenza dell'amore reciproco, “affinché siano uno, come noi” (v. 11). Non chiede che i discepoli vengano “tolti dal mondo”, ma soltanto “preservati dal maligno” (v. 15).

La comunità cristiana non può isolarsi completamente, né ricercare il suicidio (come gli ebrei nella fortezza di Masada): deve solo resistere alle tentazioni, cercando possibilmente di ampliare la cerchia dei credenti, affinché “siano tutti uno” (v. 20). L'unità deve prevalere sulla divisione e l'amore sull'odio. Questo messaggio va, in qualche maniera, lanciato al mondo. La premessa di questi addii, quella di autoisolarsi, viene quindi contraddetta, almeno in parte, ma proprio perché si è rinunciato definitivamente a qualunque progetto politico di liberazione.

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26) La cattura di Gesù (fonti)

I

La cattura di Gesù (18,1-14), il rinnegamento di Pietro e la presentazione di Gesù al sommo sacerdote Anania (18,15-27) fanno parte di un unico racconto, ampiamente manomesso con tagli e interpolazioni. Nonostante ciò qui si può vedere meglio la mano originaria di Giovanni, che è asciutta, essenziale, attenta ai particolari: lascia parlare i fatti e lascia che sia il lettore a interpretarli. È un verismo ante litteram. Forse un giorno ritroveremo il vero vangelo di Giovanni ed esulteremo, perché non solo avremo scoperto la verità delle cose ma anche un grande scrittore. Giovanni infatti aveva il dono di dire cose profonde usando parole semplici.

Ora però facciamo un passo indietro e andiamo al v. 14,31. Le ultime parole sono piuttosto strane: “Alzatevi, andiamo via di qui”. Via da dove? Sembrerebbe dal Cenacolo, anche se, in riferimento a tutti i discorsi mistici di Gesù, questa cosa non è affatto chiara. Se, quando li proferiva, erano ancora dentro il Cenacolo, dovevano esserci stati molto tempo; il che però è contraddittorio con quanto aveva chiesto a Giuda: “Quello che devi fare, fallo presto” (13,27).

Qui è evidente che i redattori hanno rimosso tutto ciò che di politico Gesù e gli apostoli si erano detti durante l'ultima cena e l'hanno sostituito con dei lunghi discorsi teologici del tutto inventati. Quello doveva essere stato un incontro decisivo, segretissimo, in cui si dovevano mettere in chiaro gli ultimi dettagli dell'insurrezione.

Se, ad un certo punto, Gesù dice: “Alzatevi, andiamo via da qui”, significa che stavano sospettando, vedendo il ritardo di Giuda, che qualcosa era andato storto. Tutti si fidavano che Giuda avrebbe eseguito l'ordine alla lettera, senza prendere decisioni personali, e l'avrebbe dovuto fare con una certa solerzia, altrimenti si rischiava di perdere l'effetto sorpresa, quello che, di notte, spiazza il nemico e lo costringe alla resa. Dunque quando escono dal Cenacolo in tutta fretta e si rifugiano nell'Orto degli Ulivi126, devono averlo fatto con un certo timore, una certa apprensione, poiché sapevano bene che anche Giuda conosceva quel nascondiglio.

“Gesù uscì coi suoi discepoli [dal Cenacolo] e andò di là dal torrente Cedron, dov'era un orto, nel quale entrò coi suoi discepoli. Giuda, che lo tradiva, conosceva anch'egli quel luogo, perché Gesù si era molte volte ritrovato là coi suoi discepoli” (18,1-2). Quanti fossero questi “discepoli” la notte decisiva dell'insurrezione non possiamo saperlo: non pochi, considerando la turba armata che tra un po' verrà a catturarli. Piuttosto qui appare strano che venga detto “molte volte si erano nascosti”, poiché in tale vangelo manipolato questa è la seconda (la prima è in 8,1 che inizia una pericope del tutto inventata, quella dell'adultera).

“Giuda dunque, presa la coorte e le guardie mandate dai capi dei sacerdoti e dai farisei, andò là con lanterne, torce e armi” (v. 3). Prima che andassero nel Getsemani, sicuramente questi militari erano andati nel luogo del Cenacolo: Giuda non poteva sapere che si erano spostati, anche se poteva immaginarlo. Quindi l'intenzione di tradirli voleva eseguirla sino in fondo, o comunque, a quel punto, non poteva più tirarsi indietro.

Giuda non può essere classificato come un “rinnegato”, cioè come uno che rinuncia a determinate idee in cui aveva creduto e passa dalla parte del nemico, senza però tradire materialmente nessuno in particolare. Egli fa proprio la parte del “traditore”, cioè di colui che vuole ostacolare concretamente, anche con mezzi militari, la realizzazione di un obiettivo politico che lui stesso aveva precedentemente condiviso (e forse fino al momento stesso di eseguire l'ordine). Giuda non era un infiltrato al soldo delle autorità giudaiche o politicamente colluso con loro, ma era un apostolo come gli altri, altrimenti non si sarebbe suicidato (sempre che non sia stato fatto fuori dagli stessi cristiani). Probabilmente era un esponente dell'ala progressista del fariseismo, quella da cui verrà fuori Paolo di Tarso e che al tempo di Gesù era rappresentata nei vangeli da Nicodemo, Giuseppe di Arimatea, Gamaliele (forse anche Giairo).

La cosa che ha suscitato grande perplessità tra gli esegeti di questo vangelo è la presenza della “coorte romana”, guidata dal “tribuno” (v. 12). Una cohors era composta da 500-600 uomini (un decimo della legione): un numero spropositato per dodici persone. Se ad essi poi si aggiungono le guardie del Tempio, a quanto ammontavano? Tutti quanti erano pronti a uno scontro armato e notturno contro dodici persone? Ciò appare inverosimile. Si deve quindi dare per scontato che nel Getsemani non ci fossero solo Gesù e gli apostoli. Oppure la coorte non c'era. Ma allora perché metterla, visto che i vangeli tendono a scaricare tutte le responsabilità della morte di Gesù sul Sinedrio o comunque sulle autorità giudaiche? O forse non erano presenti tutti i soldati, ma solo una parte.127

Qui piuttosto bisogna dare per scontato che se in quel momento i nemici dei nazareni erano davvero così tanti, dovevano per forza essere consapevoli che si stava per compiere un'insurrezione contro di loro e che se vi fosse stato uno scontro armato, non pochi di loro ci avrebbero rimesso la vita. Quindi Gesù e gli apostoli erano in grado, in quel momento, di mobilitare centinaia di persone con cui occupare la fortezza Antonia, il Tempio dei sacerdoti e il palazzo di Erode Antipa. La coorte romana era tutto quel che vi era nella fortezza Antonia: vinta quella, il resto sarebbe stato relativamente facile da occupare.

Appare comunque molto strano che i redattori abbiano lasciato un termine tecnico così preciso come “coorte” (nel Nuovo Testamento viene usato solo sette volte), quando i Sinottici escludono categoricamente la partecipazione diretta dei Romani alla cattura di Gesù. Infatti per loro (ma anche per il IV vangelo) non avrebbe avuto alcun senso che i Romani arrestassero un pacifista, un riformatore religioso, uno che pretendeva autodefinirsi “Figlio di Dio”. Vien quindi da pensare che tale “coorte” doveva esserci veramente, insieme alle guardie del Tempio, eventualmente in una funzione suppletiva, da supporto nel caso in cui le guardie non avessero raggiunto il loro scopo. Non è però pensabile che Giuda sia andato direttamente dal tribuno o da Pilato per tradire Gesù; semmai saranno stati i farisei, suoi compagni di un tempo, ad avvisare i sacerdoti e questi avranno chiesto a Pilato un supporto.

Ma perché Giuda ha tradito? Se la pensava come Caifa, perché ha continuato a restare nel movimento nazareno? Se non riteneva maturi i tempi per compiere un'insurrezione nazionale, anzi, se temeva che qualunque tentativo in questa direzione non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione d'Israele, almeno finché non ci fosse stato l'avallo del partito più popolare, quello farisaico (che però in quel momento non era disposto, nella sua maggioranza, a un'alleanza decisiva col movimento nazareno), per quale motivo ha accettato di compiere la missione decisiva che Cristo e gli altri apostoli gli avevano chiesto?

Quando è uscito dal Cenacolo era forse partito con le migliori intenzioni a favore dell'insurrezione, e poi, quando si è incontrato coi farisei progressisti, ci ha ripensato? Ha fatto prevalere nella sua coscienza le considerazioni dei compagni di un tempo? Si è lasciato ingenuamente ingannare? Davvero l'idea di Giuda non era soltanto quella di bloccare l'intervento di Gesù, al fine di evitare quella che per lui sarebbe stata una inutile strage, ma anche di consegnarlo alle autorità romane, che vengono guidate proprio da lui verso il Getsemani? Oppure si può pensare, visto che la coorte romana appare in funzione subordinata rispetto alle guardie del Tempio128, ch'egli abbia ceduto alle rassicurazioni dei membri del partito farisaico, i quali gli avranno fatto la promessa di non consegnare Gesù ai Romani, intenzionati com'erano, quest'ultimi, a eliminarlo? È difficile ricostruire le motivazioni del tradimento quando le fonti sono così ampiamente manipolate. Possiamo soltanto ipotizzare che l'idea di “tradire” venne in mente a Giuda all'ultimo momento e non perché era “il figlio della perdizione”.

A partire da 18,4 inizia una sorta di teatralizzazione della cattura di Gesù, il quale, “ben sapendo tutto quello che stava per accadergli, uscì e chiese loro: Chi cercate?”. Cioè uscì allo scoperto, protetto dal buio, dopo essersi reso conto che le forze in campo erano troppo sproporzionate per avere la meglio.

La sua voce dovettero per forza sentirla al buio, poiché le lanterne e le torce che avevano portato non erano certamente in grado d'illuminare tutto il Getsemani. Gli apostoli e altri discepoli erano nascosti, pronti a difendersi con le loro spade, ma Gesù prese l'iniziativa di farsi notare.

Ora, è evidente che se gli risposero: “Cerchiamo Gesù il Nazareno!” (v. 5), ancora non erano riusciti a vederlo di persona. Avevano solo ascoltato una voce nel buio fitto o nella penombra: ecco perché i redattori han gioco facile nel manipolare il vangelo, aggiungendo il v. 6: “Appena Gesù ebbe detto loro: Sono io, indietreggiarono e caddero a terra”. È probabile che nel vangelo originario fosse scritto che la turba armata, appena entrata nel Getsemani, non si aspettava di sentire parlare Gesù in persona. Ecco perché lui dovette ripetere la domanda due volte, assicurandoli che si sarebbe consegnato spontaneamente.

I redattori invece han voluto far vedere che un superman non può lasciarsi catturare tanto facilmente; anzi, un “Figlio di Dio” deve dare ai suoi avversari il tempo necessario per pensare alla mostruosità che stanno per compiere.

È dunque molto probabile che, mentre di fronte alla prima domanda di Gesù la turba armata, non sapendo quanta gente fosse nascosta, sia rimasta per un momento incerta sul da farsi; di fronte alla seconda invece, sentendo che Gesù proponeva, come patto, di lasciare andare i suoi discepoli in cambio della sua cattura, essa si sia sentita sicura e abbia capito che non era il caso di usare le armi.

Il vangelo dice che “Giuda era con loro” (v. 5), ma non dice - come i Sinottici - che lo baciò per farlo riconoscere. In quel momento fu lo stesso Gesù a intavolare una breve trattativa, restando nascosto tra gli alberi, al buio. E la proposta fu quella di un leader avveduto: se lui si consegnava ai militari, mentre ai suoi discepoli veniva permesso di fuggire, nessuno sarebbe uscito ferito o ucciso dal nascondiglio segreto, e la possibilità di poter fare un'insurrezione anche senza di lui restava salva.

D'altra parte i militari avevano pronunciato soltanto il suo nome: una volta raggiunto lo scopo della cattura, non avevano intenzione di rischiare la loro pelle, potendolo tranquillamente evitare grazie alla sua proposta. In pratica Gesù aveva approfittato del buio e dell'intrico degli alberi per far credere a quella turba armata che potevano essere anche più di quello che effettivamente erano e che comunque avrebbero potuto difendersi, anche se sapeva benissimo che le speranze di successo sarebbero state nulle.

Di tutti gli apostoli però, l'unico a non aver capito la sensatezza di questo patteggiamento fu Pietro, che con la sua spada cercò di spaccare la testa a un servo (forse il capo dei servi) del sommo sacerdote Anania, di cui Giovanni riporta persino il nome, Malco, il quale, per sua fortuna, si scansò, ottenendo soltanto un orecchio reciso (v. 10). Naturalmente fu un gesto impulsivo, col quale però avrebbe potuto mettere a rischio la vita di tutti i suoi compagni, soprattutto se, invece di colpire un servitore di Anania, avesse colpito un militare romano. Forse si può anche ipotizzare che se non fosse stata presente la coorte romana, i nazareni si sarebbero difesi, ma è anche molto probabile che, senza quella coorte, le guardie del Tempio non avrebbero rischiato di entrare di notte nel Getsemani.

Gesù comunque impartisce a Pietro un ordine categorico, di tipo militare: “Rimetti la spada nel fodero” (v. 11). La resa, da parte di Gesù, andava accettata senza discutere, una volta che la turba aveva condiviso la sua proposta. Anche qui però i redattori, lontanissimi dall'idea di far vedere che Gesù non aveva alcuna intenzione di morire, non hanno resistito alla tentazione di fargli dire: “Non berrò io il calice che il Padre mi ha dato?” (v. 11).129

II

A volte ci si chiede come sia stato possibile che uno stratega come Gesù non avesse previsto una sorta di “piano B” nel caso in cui ci fosse stato un tradimento da parte di qualche discepolo di rilievo. Al momento della cattura, infatti, lui decide soltanto lì per lì l'alternativa all'insurrezione: la sua spontanea consegna in cambio della fuga assicurata da parte dei discepoli. Tuttavia è normale pensare, da parte del lettore, che un leader, quando organizza una insurrezione armata - che è certamente cosa alquanto pericolosa -, non può non mettere in cantiere l'eventualità di un tradimento o comunque di un grave imprevisto che potrebbe mandare all'aria il piano originario.

È dunque probabile che il tradimento di Giuda colse tutti alla sprovvista e soprattutto dovette lasciare sbigottiti alla vista della coorte romana. Una cosa, infatti, era il tradimento a favore dei partiti conservatori od opportunisti o moderati, nell'ambito del giudaismo; un'altra è il tradimento a favore di chi, in quel momento, si presentava come il nemico di tutti: gli imperialisti provenienti da Roma. Sembra davvero inverosimile che Giuda abbia potuto fare un tradimento del genere. È più probabile pensare che la coorte romana fosse stata avvisata solo a titolo precauzionale, come eventuale supporto in caso di conflitto armato, ma che il governatore Pilato - almeno secondo le intenzioni di Giuda - non dovesse essere il destinatario della carcerazione di Gesù. È cioè più verosimile pensare che Giuda avesse patteggiato un arresto di Gesù da gestirsi nell'ambito del Sinedrio o da parte delle autorità giudaiche più vicine ai farisei che non ai sadducei, e che la sua consegna a Pilato abbia colto anche lui alla sprovvista. Questo a riprova che quando si compie un tradimento, spesso le conseguenze risultano imprevedibili persino al suo autore.

Forse quindi è stata per questa ragione che Gesù non aveva pensato a un “piano B”. Consegnarlo direttamente ai Romani era una enormità troppo grande da prevedere. Qui il tradimento di Giuda va considerato come una piccola componente di un tradimento di ben altra ampiezza e gravità. L'intenzione era proprio quella di volerlo assolutamente eliminare per motivi politici e insieme religiosi.

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27) L'udienza informale di Gesù e il ruolo di Pietro

“La coorte, il tribuno e le guardie dei Giudei presero Gesù e lo legarono” (18,12). È abbastanza impressionante che nel IV vangelo venga detta una cosa del tutto in contrasto con le versioni dei Sinottici, per i quali i Romani sono stati autori della crocifissione di Gesù solo perché raggirati dalle autorità giudaiche, tant'è che Pilato, se fosse dipeso da lui, l'avrebbe liberato, poiché non trovava in lui alcuna colpa.

Viceversa nel vangelo giovanneo i Romani sanno sin dall'inizio che Gesù è un soggetto politicamente pericoloso, che va assolutamente fermato; peraltro il nome della coorte, riportato due volte, viene sempre messo davanti a quello delle guardie giudaiche, a riprova della sua importanza, anche se in questa occasione il tribuno sta bene attento a non creare un incidente diplomatico, lasciando che Gesù venga sottoposto a due diverse udienze preliminari e informali davanti ai sommi sacerdoti Anania e Caifa130, di cui il secondo, genero del primo, era ufficialmente in carica (e lo resterà per tutto il tempo di Pilato, col quale non ebbe mai alcuno screzio).

La cosa strana di questo racconto è la volontà, da parte dei redattori, di non censurare un aspetto (la presenza della coorte romana nel Getsemani) chiaramente contraddittorio all'impostazione del vangelo marciano, cui Matteo e Luca fanno costante riferimento. Difficile capire con che coraggio la Chiesa primitiva, dopo aver commissionato la revisione mistificata di questo vangelo, abbia potuto soprassedere a un particolare così sconveniente, così politicamente scorretto. L'ha forse fatto perché alla fine del I secolo i rapporti tra impero romano e cristianesimo erano nettamente peggiorati? Oppure perché l'iniziativa dell'arresto fu presa soltanto dal tribuno, senza che Pilato ne sapesse nulla? Possibile una cosa del genere? O forse perché la funzione della coorte appare come qualcosa di “burocratico”, come una sorta di “atto dovuto”? Se così fosse, verrebbe ridotta di molto la responsabilità politica o istituzionale da parte del prefetto Pilato. Sia come sia, Giovanni mostra di sapere meglio dei Sinottici come siano andate effettivamente le cose. È da questi piccoli particolari che si comprende la sua superiorità, e chissà quanti dovevano essercene nel vangelo originario.

Un'altra difformità rispetto ai Sinottici la vediamo subito dopo l'arresto: “Condussero Gesù prima da Anania, perché era suocero di Caifa, ch'era sommo sacerdote di quell'anno” (v. 13). I Sinottici non sanno neppure dell'esistenza di questo Anania (o Anna o Ananus I o Anano ben Seth)131; eppure egli era stato un personaggio di rilievo, in quanto sommo sacerdote dal 6 al 15 d.C., anno in cui fu deposto dai Romani.132

Ai vv. 15-16 viene spiegato il motivo per cui l'evangelista Giovanni fosse al corrente di una cosa che nei Sinottici non è riportata. “Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote e perciò entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote; Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare anche Pietro”.

Nel vangelo di Marco viene detto che soltanto Pietro ebbe il coraggio di seguire Gesù di nascosto; e lo fece sin dentro il cortile della casa di Caifa, potendo tranquillamente assistere al processo “religioso”. Grazie a ciò Pietro, come fonte unica e incontrovertibile, poté riferire a Marco un'interpretazione completamente inventata degli eventi.

Nel IV vangelo invece solo Giovanni poté vedere qualcosa di persona, e unicamente presso l'abitazione di Anania, poiché negli ambienti di quest'ultimo era conosciuto. La duplice sottolineatura ch'era “noto” non sembra casuale. Che senso ha? Giovanni frequentava gli ambienti di uno dei peggiori nemici di Gesù? Era forse un infiltrato di Anania nel movimento nazareno? Cioè un complice del traditore Giuda? Come mai nell'ultima cena i redattori gli fanno fare la parte di quello che aveva bisogno di sapere da Gesù il nome di chi aveva intenzione di tradirlo? E come mai - ammesso che fosse una spia - egli non ha potuto assistere all'interrogatorio di Gesù davanti a Caifa?

Che fosse conosciuto negli ambienti di Anania è pacifico, altrimenti non sarebbe potuto entrare (né in maniera palese né di nascosto, essendo quegli ambienti protetti da guardie del corpo), e neppure avrebbe potuto chiedere alla portinaia di far entrare Pietro nel cortile. Questo particolare sembra mettere in cattiva luce l'apostolo. Perché dunque non sottolineare la cosa nel vangelo di Marco, ove Giovanni viene spesso preso di mira? Qui dunque non avremmo solo il traditore Giuda e il rinnegato Pietro, ma anche l'infiltrato Giovanni. È così? Noi sappiamo che tra Pietro e Giovanni non correva buon sangue: se Giovanni era davvero un delatore o un agente segreto dello spionaggio o dei servizi segreti del nemico, perché non dirlo espressamente nel protovangelo? Forse perché la versione del processo religioso a carico di Gesù, così come riportata nel protovangelo, è completamente inventata?133

La scena della portinaia che parla con Pietro, mentre lo fa entrare, presenta aspetti sconcertanti. “Forse anche tu sei dei discepoli di quest'uomo?” - gli chiese (v. 17). Quindi la donna doveva per forza sapere che Giovanni era uno dei nazareni; nonostante questo però lo fa entrare ugualmente nel cortile. E dopo che l'ha fatto entrare, si convince a far entrare anche Pietro e non lo denuncia proprio perché lei conosceva Giovanni. Dunque la domanda che aveva rivolto a Pietro era del tutto informale o retorica, senza secondi fini. Lei, in pratica, aveva già saputo da Giovanni che anche Pietro era un seguace di Gesù e sapeva bene di non doverlo denunciare. Pietro però non si fida né di lei né di Giovanni e nega di essere un suo discepolo.

La spiegazione degli eventi è sicuramente piuttosto complessa, anche perché il fatto che Giovanni fosse conosciuto dagli ambienti di Anania viene ripetuto due volte. Non bastava una? Vien quasi da pensare che Giovanni abbia voluto rimarcare che, siccome lui aveva conoscenze altolocate, nessuno, meglio di lui, poteva raccontare come fossero andate effettivamente le cose a partire dall'arresto di Gesù. Tuttavia, se questo è vero, il resoconto giovanneo denuncia come inattendibile quello ch'era stato detto, prima di lui, dai Sinottici. Quindi nelle intenzioni del suo autore originario il vangelo si poneva come una sorta di contro-informazione di tesi ufficiali, date per scontate. Ecco perché il destino di questo vangelo, se voleva in qualche modo sopravvivere e non essere completamente distrutto, era quello di sottostare a una profonda e sapiente revisione.

Per non infangare il nome di Giovanni, l'unica cosa che possiamo pensare è ch'egli fosse conosciuto da qualcuno appartenente agli ambienti di Anania, non necessariamente dal pontefice in persona. A meno che i due non si conoscessero da molto tempo prima, quando ancora Giovanni era un adolescente, un giovane alla ricerca della propria identità, quella identità (di tipo religioso-contestativo) che pensava d'aver trovato come discepolo del Battista. Forse Giovanni era potuto entrare nel cortile di Anania proprio perché, quand'era giovane, aveva effettivamente frequentato quegli ambienti (forse era stato uno che aspirava a una carica sacerdotale): ecco perché si ricordava il nome di uno dei servitori di Anania, Malco, che Pietro aveva cercato di uccidere.

Una conoscenza così prestigiosa, da parte di Giovanni, avrebbe potuto essere sfruttata da Pietro nel primo vangelo per metterlo in ombra, oppure per ricattarlo nel caso avesse smentito la versione dei fatti circa la cattura di Gesù e il suo processo davanti a Caifa, ch'era stata data nel vangelo marciano, dove il protagonista assoluto e indiscusso è soltanto Pietro.

Fatto sta che Pietro non si fida di Giovanni nel momento in cui entra nel cortile della casa di Anania, per cui alla domanda della portinaia nega d'essere un affiliato del Nazareno. Teme che la donna lo voglia denunciare. Poi si mette a scaldarsi attorno a un fuoco, insieme alle guardie del Tempio che poco prima avevano arrestato Gesù. Ovviamente Pietro stava correndo un bel rischio, ma è probabile ch'egli avesse messo in conto il fatto che al momento della cattura di Gesù era molto buio e che quindi nessuno avrebbe potuto riconoscerlo, se non appunto Malco o un suo amico o parente che, come lui, fosse stato presente sul Getsemani. E non è da escludere che in mezzo a quella turba armata vi fossero dei popolani forniti soltanto di torce e bastoni provvisori, per cui Pietro poteva passare per uno di loro.

Intanto Giovanni, in qualche modo, poté assistere all'udienza informale davanti ad Anania. L'ex sommo sacerdote pone a Gesù delle domande come se di lui non sapesse nulla: vuol sapere chi e quanti sono i suoi discepoli e qual è la sua dottrina. Davvero inverosimile. Non si capisce se queste domande siano semplicemente di rito, cioè interlocutorie, poste da uno che finge di non sapere le cose, per vedere come l'imputato reagisce; o se siano domande che servono per far sentire l'accusato una persona poco importante, che sta compiendo una cosa del tutto insensata.

Senonché Gesù non vuol passare per un terrorista, per uno che agisce solo nella clandestinità, per cui risponde facendo mostra di una certa meraviglia: “Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto” (vv. 20-21).

Da questa risposta si comprende bene che Gesù non era disposto a collaborare col nemico; ma, nel contempo, egli rifiuta d'essere considerato un pericolo per Israele o d'essere paragonato agli zeloti o ai sicari134, o di aver agito con le armi in pugno, o di aver minacciato qualcuno, o di aver usato altri strumenti, oltre alle parole, per convincere le folle a seguirlo, o di aver detto in pubblico cose diverse da quelle dette in privato. Gesù vuole presentarsi come un libro aperto e rifiuta le insinuazioni di Anania.

“Aveva appena detto questo che una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: Così rispondi al sommo sacerdote?” (v. 22). I militari - si sa - non vanno tanto per il sottile. Pretendono rispetto, obbedienza, sottomissione. Un atteggiamento come quello di Gesù pare troppo difforme da quelli cui la guardia è abituata quando vede Anania interloquire con qualcuno. Le autorità vanno rispettate per quello che sono, a prescindere da ciò che dicono o fanno, altrimenti l'anarchia è inevitabile. Questa sembra essere la posizione servile dell'ufficiale giudaico che, colpendo Gesù, voleva evidentemente mettersi in mostra, fare lo zelante.

Ma Gesù gli fa notare la superficialità del suo gesto: “Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti? (v. 23). In pratica gli chiedeva di ragionare con la sua testa e non di assumere un ruolo precostituito, per convenzione. I militari hanno una coscienza come tutti gli altri: non devono sentirsi dei burattini nelle mani di chi li comanda.

In ogni caso Anania è convinto di non poter ottenere altro da Gesù, per cui “lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote” (v. 24), che in quel momento era in carica.135 Di questa seconda udienza non sappiamo nulla, per cui quella descritta nei Sinottici va considerata inventata.136 Il fatto che Giovanni non l'abbia riportata va forse addebitato alla mancanza di fonti dirette, ma va anche detto ch'egli aveva già diluito per tutto il vangelo i motivi dell'odio dei capi-giudei nei confronti di Gesù. In ogni caso il Sinedrio poteva essere convocato nella casa del sommo sacerdote solo in presenza di gravissimi motivi: di regola non si emettevano sentenze di notte, né nei giorni di una qualsivoglia festività, né al di fuori della sede adibita presso il Tempio. È quindi da escludere che alla presenza di Caifa sia avvenuto un vero e proprio “processo”, anche perché qualcuno avrebbe potuto contestare l'immediata consegna del prigioniero alle autorità romane.137

“Intanto Simon Pietro stava là a scaldarsi. Gli dissero: Non sei anche tu dei suoi discepoli? Egli lo negò e disse: Non lo sono. Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l'orecchio, disse: Non ti ho forse visto con lui nel giardino? Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò” (vv. 25-27).

Giovanni racconta l'episodio in maniera molto naturale, essendone stato testimone. Il preannuncio del rinnegamento di Pietro, fatto da Gesù nei vv. 13,36-38, è completamente inventato: è stato messo dai redattori proprio per far vedere che Gesù era un Dio. Pietro semplicemente temeva d'essere denunciato e pensava che l'appoggio di Giovanni non sarebbe stato sufficiente se l'avessero scoperto; non era affatto sicuro che le autorità giudaiche si sarebbero accontentate di arrestare Gesù. Anzi, era convinto che se avessero arrestato anche lui, il movimento nazareno si sarebbe sfaldato, dissolto.

Pietro aveva sopravvalutato la propria importanza e riteneva che Giovanni o qualche altro discepolo non avrebbe potuto sostituire né lui né Gesù. Non si rendeva conto che se egli era potuto entrare nel cortile, una qualche garanzia, da parte di Giovanni, doveva averla. Non era stato spiccato alcun mandato di cattura contro di lui, poiché le autorità, giudaiche e romane, erano convinte che, una volta tagliata la testa al leader dei nazareni, il movimento sarebbe stato facilmente represso. D'altra parte solo il parente di Malco sembra riconoscerlo, e neppure con molta convinzione, poiché alla fine tutti accettano gli spergiuri di Pietro e nessuno lo arresta o lo denuncia.

Giovanni fa semplicemente notare che dopo il terzo rinnegamento un gallo cantò. Lo dice per indicare una scansione cronologica degli eventi: Gesù era stato catturato a notte fonda; era stato condotto al cospetto di Anania per una breve udienza; s'era fatta quasi mattina; lo portarono davanti a Caifa per un'altra breve udienza. “Poi condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua” (v. 28). Il motivo per cui Caifa abbia deciso di consegnare subito il prigioniero a Pilato e non abbia invece deciso di trattenerlo in carcere per giudicarlo finita la Pasqua (così come si farà con Pietro e Giovanni negli Atti), dipese dal fatto che sia Caifa che Pilato temevano la popolarità di Gesù, per cui dovevano trovare il modo di eliminarlo quando l'intera guarnigione era presente nella capitale. Senza la presenza della coorte romana, Caifa non sarebbe stato in grado di fare alcunché.138

Significativo che Giovanni faccia notare che proprio nel momento in cui stanno consegnando al peggior nemico della Giudea, Pilato, colui che avrebbe potuto liberarli, la loro preoccupazione principale era quella di non perdere la purità legale prevista per la Pasqua. Ma forse ancora più significativo è che Giovanni dica che Pilato li stava aspettando, essendo stato ovviamente informato di tutto dal tribuno. A questo punto però la scena si sposta: occorre parlare del processo, piuttosto tortuoso, di Gesù davanti al procuratore romano.

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28) Il processo di Gesù davanti a Pilato

I

Il processo di Gesù davanti a Pilato inizia al v. 18,29 ed è tutta una tragica farsa: tragica perché effettivamente avvenne, ma fu anche una farsa per come l'orchestrò Pilato e per come viene descritto dai redattori tendenziosi del IV vangelo, che vogliono salvar la faccia al procuratore romano.

Di regola Pilato, durante le principali feste ebraiche, stava nel pretorio, in attesa di ricevere chi aveva da fare delle denunce o delle rimostranze, politiche o giuridiche, ma anche per motivi di sicurezza, cioè per evitare disordini di qualsivoglia natura. Questa volta però, sapendo che durante le festività pasquali gli ebrei non potevano avere contatti coi pagani o coi loro ambienti (per loro era come toccare un cadavere!), è lui che esce dal pretorio, per andare incontro agli accusatori, ponendo la domanda di rito: “Quale accusa portate contro quest'uomo?” (v. 29).

Il contenuto dell'accusa non è molto chiaro. Infatti, sebbene dicano: “Se costui non fosse un malfattore, non te l'avremmo dato nelle mani” (v. 30), Pilato risponde: “Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge” (v. 31). Se la condanna fosse stata eseguita dai Giudei, Gesù avrebbe dovuto essere lapidato, anche se erano previste altre forme di esecuzione.

La parola “malfattore” era generica o specifica? Indicava un reato politico, giuridico o religioso? Pilato finge di non capire la tipologia dell'accusa. Infatti se essa fosse stata di tipo politico, cioè se “malfattore” volesse dire “sovversivo” o “sedizioso”, egli non avrebbe dovuto esitare sul da farsi, né proporre ai Giudei che lo processassero per conto loro; anzi non avrebbe neppure avuto bisogno che fossero le autorità giudaiche a consegnargli Gesù. L'avrebbe ricercato per conto proprio. Al momento della cattura nel Getsemani la coorte se lo sarebbe tenuto. Quando Pilato aveva permesso, a titolo di cortesia, che Gesù venisse preliminarmente interrogato dai due sommi sacerdoti, non l'aveva certamente fatto perché fossero loro due a decidere della sua sorte. L'ingresso messianico trionfale aveva spaventato i Romani non meno delle autorità giudaiche, e nessuno voleva rischiare che quel pericoloso leader messianico, avente un notevole consenso popolare, potesse di nuovo sottrarsi alla cattura.

Quindi Pilato vuol far vedere che la parola “malfattore” potrebbe essere interpretata anche in maniera religiosa, ovviamente in connessione ad aspetti politici o giuridici; e fa questo semplicemente perché teme, di fronte alla folla enorme di Gerusalemme, di apparire come l'artefice principale dell'arresto di Gesù; anzi, vuol far vedere che lui, con quell'arresto politico non c'entra proprio nulla. Solo così potrà far la parte del giudice imparziale. Ecco perché fa capire (lui o gli autori che parlano di lui) che l'epiteto di “malfattore” poteva essere interpretato non in maniera tale da doverlo indurre a intervenire motu proprio e a emettere una qualche sentenza. Questo perché quando ci si appellava a un governatore, in genere era sempre per motivi piuttosto gravi; e di regola gli accusatori si recavano da lui a Cesarea Marittima, presso il suo quartier generale.

Tuttavia, per le autorità giudaiche la parola “malfattore” doveva per forza avere un contenuto politico, che non necessariamente implicava questioni di tipo religioso, altrimenti non avrebbe avuto senso consegnarlo a Pilato, anche perché sapevano bene che i Romani, ovunque andassero a conquistare territori altrui, evitavano con cura di creare tensioni politiche per motivi religiosi. In questo erano abbastanza furbi, anche se non rinunciavano all'idea di affiancare i loro dèi a quelli locali o nazionali che incontravano. Solo quando erano intenzionati a provocare incidenti per avere un pretesto con cui compiere una guerra, potevano servirsi di questioni religiose, come quando p.es. Caligola vorrà far erigere una propria statua colossale all'interno del Tempio, senza però riuscirvi, o quando lo stesso Pilato aveva voluto compiere cose antireligiose.139

Dunque qui i sacerdoti presentano Gesù come un “malfattore” politico che danneggia, contemporaneamente, gli interessi politico-militari di Roma e quelli politico-religiosi d'Israele, poiché se il danno l'avesse subìto solo Roma (per lesa maestà), le autorità giudaiche si sarebbero squalificate da sole davanti al popolo d'Israele. Nella strategia di Caifa gli interessi di Roma e di Gerusalemme, che in teoria avrebbero dovuto essere opposti, erano coincidenti, almeno in quel momento, o almeno finché non si fosse trovato un messia in grado di renderli divergenti, senza minacciare i poteri costituiti dell'establishment ebraico, come invece faceva l'ateo e sovversivo Gesù.

Caifa sta facendo capire a Pilato che Gesù, per gli ebrei, è un messia impostore, intenzionato a imporsi contro la volontà del Sinedrio, la cui maggioranza vuole collaborare con Roma affinché Israele abbia un trattamento di riguardo. I nemici di un'istituzione collaborazionista sono i nemici di chi la comanda dall'esterno. Se dipendesse da loro, l'avrebbero già giustiziato; ma i Giudei devono ricordare a Pilato che a loro “non è consentito mettere a morte nessuno” (v. 31).

Strano che dicano questo, perché con Giacomo, fratello di Gesù e con Stefano, il protomartire cristiano, agiranno diversamente. Si riferivano forse al divieto di emettere sentenze capitali durante il periodo pasquale o al fatto che Pilato non poteva permettere alle autorità giudaiche di eliminare un qualunque accusato che per i Romani avrebbe anche potuto essere considerato un alleato? Non lo sappiamo. Alcuni esegeti sostengono che lo ius gladii (diritto di spada) spettasse solo a lui, soprattutto per i reati che minacciavano l'ordine pubblico. Tuttavia in questo stesso vangelo l'episodio dell'adultera (benché la sua autenticità sia quasi nulla) dimostra che gli ebrei avevano un qualche potere di vita e di morte.

Lo stesso Gesù si era sottratto più volte ai tentativi di linciaggio, e la sentenza che aveva emesso il Sinedrio, per bocca di Caifa, prevedeva l'arresto ai fini di una sua eliminazione fisica. Quindi qui si può soltanto pensare che l'imperatore o il governatore romano poteva aver revocato il diritto di emettere sentenze capitali soltanto perché non si poteva permettere che i Giudei giustiziassero dei soggetti chiaramente favorevoli a Roma. Non a caso Paolo di Tarso, che fruiva della cittadinanza romana, si appellava ai tribunali romani quando si rendeva conto che avrebbe rischiato di morire in un processo ebraico.

Qui tuttavia bisogna fare attenzione, poiché il processo è una farsa dall'inizio alla fine. Caifa e Pilato sono complici, ma non possono farlo vedere, per cui ognuno deve recitare la propria parte: quella dell'occupante romano che non vuole continuamente imporsi con la forza militare, ma che anzi vuole mostrare la propria superiorità in termini giuridici140, e quella dell'autorità giudaica, che collabora sì col nemico ma facendo di necessità virtù, cioè senza farlo vedere in maniera plateale. Entrambi vogliono la morte di Gesù, poiché entrambi lo considerano, per ragioni diverse, molto pericoloso.

Le autorità giudaiche riconoscono di non avere poteri sufficienti per giudicare un leader così popolare. Sanno benissimo, essendo profondamente corrotte, che se eliminano un soggetto del genere, buona parte della popolazione lì presente, numericamente molto consistente141, potrebbe compiere una sollevazione contro di loro. Per questo hanno bisogno dell'appoggio dei Romani.

“Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il re dei Giudei?” (v. 33). Come abbia potuto Pilato equiparare il termine “malfattore” a quello di “monarca” non è dato sapere, ma è evidente che, nel caso di Gesù, egli sapeva bene con chi aveva a che fare (lo stesso Erode Antipa voleva eliminarlo quando predicava in Galilea).

Un “malfattore” poteva anche essere uno che si rifiutava di pagare i tributi a Cesare o di farsi censire, e che non per questo rivendicava un titolo così importante come quello messianico. È quindi molto probabile che Pilato sapesse già in anticipo la motivazione per cui i Giudei accusavano Gesù, cioè sapeva ch'era la stessa per la quale anche Roma avrebbe dovuto giustiziarlo, benché le prospettive dei due schieramenti fossero diverse. Infatti, per i capi Giudei Gesù non era un messia secondo le loro aspettative; per i Romani invece lo era anche troppo. È quindi da escludere tassativamente che Gesù fosse stato consegnato a Pilato senza che lui nulla sapesse.142

Il dialogo tra i due (ammesso e non concesso che vi sia stato) è comunque completamente inventato, poiché nessun apostolo in quel momento era in grado di ascoltarlo. Lo si capisce, peraltro, dalle stesse parole che dice Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei” (v 36). Si noti, en passant, come i redattori vogliano far vedere che il nemico principale di Gesù fossero i Giudei, con le loro motivazioni teologico-politiche, e non i Romani, con le loro motivazioni politico-militari.

Le parole di Gesù sono strane anche per altre ragioni: anzitutto Pilato non avrebbe potuto capirle, essendo troppo mistiche; in secondo luogo perché, se anche le avesse capite, non avrebbe potuto aver paura di lui, né avrebbe capito il motivo per cui le autorità giudaiche avevano paura di un soggetto del genere, che di politico sembrava non avere nulla; in terzo luogo non ha alcun senso che Pilato aspetti da Gesù la conferma d'essere “il re dei Giudei”, quando, di fronte a una tale pretesa, da tempo egli stesso avrebbe dovuto spiccare un mandato di cattura contro di lui.

Ma è il quarto aspetto che più sconcerta. I redattori fanno dire a Gesù che se il suo regno fosse stato “terreno”, i suoi discepoli avrebbero combattuto contro i suoi nemici. I redattori stanno dando un'interpretazione capovolta dei fatti. Stanno dicendo che i discepoli non erano intervenuti in difesa del loro maestro proprio perché sapevano che il suo regno non era di questo mondo!

È incredibile che dicano una cosa del genere, quando per tutto il vangelo è Gesù che deve ripetutamente convincere i discepoli che il suo obiettivo è mistico, cioè ultraterreno. Qui essi vengono scusati della loro ignavia, della loro pusillanimità dietro la falsa motivazione secondo cui sapevano che l'obiettivo di Gesù era quello di autoimmolarsi.

Cionondimeno, se il regno che Gesù voleva realizzare era di “questo mondo”, e se anche il desiderio dei suoi discepoli era identico al suo, perché non si è reagito per nulla alla sua cattura? Perché si è rimasti silenti al suo processo? Perché non si è proseguito il suo messaggio di liberazione dopo la sua morte in croce? Perché non si è insorti ugualmente contro Pilato e contro Caifa? Qui la storia del Nuovo Testamento presenta dei buchi neri. Non è infatti possibile pensare a una defezione di massa; oppure, se c'è stata, ciò deve farci riflettere seriamente sul concetto di “democrazia”.

Com'è possibile far dire a Gesù “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (v. 37)? Di fronte a versioni dei fatti così tendenziose verrebbe quasi voglia di mettersi dalla parte di Pilato e chiedersi: “Che cos'è la verità” (v. 38)? Qui infatti di verità ve n'è assai poca. Soprattutto quel che manca è l'autocritica. E pensare che sarebbe stato sufficiente dire che Gesù non fu giustiziato soltanto dai Romani e dalle autorità giudaiche, ma indirettamente anche dai suoi stessi discepoli, che non ebbero il coraggio di reagire con sufficiente determinazione.143

I redattori han preferito far vedere un Pilato teologicamente analfabeta rispetto a Gesù e ai suoi discepoli, in quanto non sa nulla di cosa sia la “verità”, e quando lo manderà a morte, non avrà alcuna consapevolezza dell'enorme ingiustizia compiuta. Egli viene presentato come uno strumento di cui Dio si serve per “condannare a morte” i “perfidi” Giudei, i quali, essendo il popolo “eletto”, avevano tutte le possibilità per conoscere o accogliere la suddetta “verità”: il non averlo fatto li obbligherà a stare per secoli senza alcuna patria, abbandonati da Dio e odiati da tutti gli uomini.

II

Ora però dobbiamo vedere quali sono le iniziative intraprese dal procuratore per giustiziare un personaggio politico così scomodo e pericoloso.

La prima, astuta, mossa che fa Pilato è quella di dichiarare Gesù non colpevole di fronte allo Stato romano. Naturalmente egli sa bene come stanno le cose, ma sa pure che se dichiara esplicitamente la sua innocenza (sul piano giuridico) e poi lo condanna a morte (come se il processo fosse politico), rischia una insurrezione, poiché la popolarità di Gesù è troppo grande, come hanno dimostrato l'ingresso messianico e, indirettamente, il contingente armato inviato nel Getsemani per catturarlo.

I redattori fanno parlare Pilato con queste intenzioni, che in sé non sono affatto sbagliate. Solo che presentano un governatore come se volesse far credere d'essere intimamente convinto che l'operato di Gesù non costituiva un pericolo per gli interessi di Roma. Pilato cioè sarebbe stato così intelligente da capire una cosa che gli imperatori romani arriveranno a capire soltanto con Costantino, quando il cristianesimo già da tre secoli aveva mostrato di non aver nulla di politicamente eversivo.

Cerchiamo di spiegare questa cosa, molto importante, in altro modo. Se quanto dicono i redattori fosse vero, le parole e gli atteggiamenti di Pilato dovrebbero essere interpretati, più o meno, nella maniera seguente. Pilato deve ridurre la pericolosità di Gesù, deve screditarlo nella sua pretesa al trono d'Israele. Se il Nazareno - sembra egli dire alle folle lì presenti - vuol diventare re d'Israele, può farlo tranquillamente, poiché Roma non lo teme. Cioè se lui ha una colpa, l'ha soltanto nei confronti delle autorità giudaiche, quindi ha una colpa di tipo etico-religioso, che non può impensierire alcun romano al potere; anche perché, se davvero vuol diventare “re d'Israele”, potrebbe farlo solo in senso simbolico, quello appunto di tipo religioso, conformemente alla volontà politica di Roma, il cui vero rappresentante istituzionale, in Giudea, è lo stesso governatore. In pratica Gesù, agli occhi di Roma, potrebbe anche diventare il nuovo sommo sacerdote; anzi potrebbe essere anche migliore di Caifa, in quanto sarebbe in grado - stando ai vangeli - di ridurre al minimo le pretese ebraiche di differenziarsi dalla cultura pagana.

Dunque cosa vogliono far capire i redattori del IV vangelo? Pur non avendo potuto spostare l'epurazione del Tempio al momento dell'ingresso messianico, come han fatto i Sinottici, la loro idea è quella di presentare un Cristo nettamente ostile alla sola casta sacerdotale, in quanto la giudicava sommamente corrotta. Il giudizio di corruzione doveva riguardare esclusivamente i traffici commerciali connessi alla gestione del Tempio, e non anche il rapporto di collusione col potere romano, che lo stesso cristianesimo primitivo, costatata l'assenza della parusia trionfale del Cristo, s'era risolto ad accettare.144

Delle due quindi l'una: o Gesù era soltanto un mistico pacifista, intenzionato a proporre se stesso come “nuovo pontefice”, in sostituzione di Caifa; oppure Pilato stava recitando la parte del giudice imparziale, per non mostrare che il processo aveva una natura esclusivamente politica, in cui andavano difesi gli interessi di Roma e dei suoi alleati.

III

La seconda mossa che fa Pilato - dopo averlo dichiarato non colpevole - è quella di proporre addirittura un'amnistia, all'ovvia condizione che sia la folla a richiederlo: “Voi avete l'usanza che io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il re dei Giudei?” (v. 39). Una domanda formalmente insensata per un procuratore romano che doveva giudicare dell'innocenza o della colpevolezza di un imputato. Anche da questo si capisce che il processo non aveva di giuridico che l'apparenza e ch'era nella sostanza di tipo politico.

Pilato sta mettendo sul ridicolo la pretesa messianicità nazionale rivendicata da Gesù. Per far vedere che non lo teme, è disposto persino a liberarlo, sapendo bene di fare un torto alle autorità religiose. È che per poterlo giustiziare ha bisogno di un ampio consenso, più di quello che i sacerdoti sono in grado di dargli. Vuole assolutamente farlo fuori, ma in maniera democratica, senza doversi imporre con la forza, poiché sa bene che se usa tutta l'autorità di cui è capace, farà vedere che di Gesù ha molta paura, e la folla potrebbe approfittarne per insorgere. Vuol giocare la parte del giusto giudice, in grado di giudicare le pretese politiche di un ebreo.

Sulla concessione della libertà a un detenuto politico durante la Pasqua non si sa nulla, ma in occasione di questo processo, così difficile da gestire, può anche apparire verosimile la proposta di un baratto, fingendo di sostenere le richieste dei sostenitori del Nazareno.

Gli avversari di Gesù chiesero di liberare uno su cui loro facevano più affidamento: un certo Barabba (il cui nome sta per “figlio del padre”, quindi si può presumere che il vero nome sia stato volutamente censurato).145 Cosa aveva fatto quest'uomo da meritare la prigione o addirittura la pena capitale? Era un “bandito” (v. 40): la parola greca (lêistês) veniva usata per indicare non solo un “ladro” (come amano dire le versioni confessionali di questo vangelo), ma anche un “brigante”146, cioè facilmente uno zelota, e quindi, in questo caso, un prigioniero politico, che poteva anche essersi reso responsabile dell'omicidio di un soldato romano o di un collaborazionista ebreo. In sostanza chiedono di liberare chi, secondo loro, è considerato, senza ombra di dubbio, un nemico dei Romani, un nemico molto più affidabile di quanto potesse sembrare Gesù ai loro occhi.

Cerchiamo di capire bene questa stranezza. Gesù viene consegnato a Pilato per motivi politici, cioè per dei motivi che lo stesso Pilato avrebbe dovuto prendere in particolare considerazione, in quanto Gesù ha la pretesa di diventare “re d'Israele”. Invece Pilato finge di non dare molta importanza alla pericolosità di Gesù, tant'è che sarebbe disposto a rimetterlo in libertà, e qui bisogna dire che la sua intelligenza era pari alla sua fama, tant'è che nessun altro procuratore riuscì a resistere in Giudea, dopo di lui, per più di pochi anni. Propone la cosa ai Giudei, i quali però, dimentichi del trionfo attribuito a Gesù durante l'ingresso messianico, chiedono che venga scarcerato il terrorista o il patriota Barabba, che evidentemente veniva considerato più affidabile.

È attendibile una tale ricostruzione dei fatti? Possibile che i Giudei fossero così schizofrenici o bipolari? Anche ammettendo che il nome di Barabba sia stato fatto dagli stessi sacerdoti, i quali, pur di veder morto Gesù, erano disposti a liberare un altro loro nemico, resta il fatto che qui la voce dei sostenitori di Gesù non si sente. I redattori considerano i Giudei, nel loro insieme, un popolo “maledetto”, che, all'unisono, voleva la morte di Gesù e la liberazione di un bandito.147

Comunque la richiesta di liberare Barabba è, per Pilato, un motivo sufficiente per flagellare Gesù: questo lo si capisce molto di più da Gv 19,1 che non da Mc 15,15 o da Lc 27,26. Quel che non convince, nella descrizione dei fatti delineata dai redattori, è il motivo per cui Pilato tentenni così tanto a condannarlo, quando l'intero popolo lo voleva morto. È evidente che i redattori mentono su due fronti: uno è quello di rappresentare il procuratore come un uomo virtualmente giusto, il quale, se fosse dipeso interamente da lui, avrebbe risparmiato Gesù e condannato Barabba; l'altro è quello di rappresentare i Giudei come una popolazione tutta contraria al Cristo. Cioè Pilato viene presentato come uno che avrebbe combattuto, inizialmente, come giusto giudice contro una folla “perversa”, ideologicamente fanatica, e che alla fine avrebbe ceduto, in maniera opportunistica, come politico.

Praticamente egli sarebbe stato indotto a far frustare Gesù non per sferrare l'ultimo colpo demolitore con cui mandarlo al patibolo, ma, al contrario, per poterlo liberare, sperando, in sostanza, di soddisfare le richieste di un popolo “canaglia”, impossibile da gestire in maniera civile. Il IV vangelo vuol essere conforme alla lezione dei Sinottici: il principale responsabile della morte di Gesù non è l'opportunista Pilato ma l'intero popolo ebraico, strumentalizzato dalle proprie autorità religiose. Qui è l'antisemitismo che deve trionfare. (Sulla figura di Barabba vedi anche questo testo)

IV

Generalmente la fustigazione romana non veniva data ai destinati alla crocifissione (se non durante il tragitto verso il patibolo), ma come pena alternativa, di minore gravità, in quanto non mortale, anche se non poco invalidante, almeno per un certo periodo di tempo (non viene detto che i due zeloti crocifissi con Gesù la subirono). Ed era riservata esclusivamente ai provinciali non cittadini, o per punire degli schiavi ribelli.

Qui è pesantissima, poiché viene frustato l'intero nudo corpo da due militari posti ai suoi fianchi. I colpi quindi sono simmetrici e, considerando il loro numero (circa 120)148, assolutamente spropositati per una qualunque punizione. Ogni frustino, infatti, terminava con quattro o cinque cordicelle aventi in cima dei piccoli ossicini o piombini che praticavano ferite lacero-contuse, per le quali ci sarebbero voluti mesi e mesi prima di riprendersi. A volte si moriva.

Ciò che i militari han fatto a Gesù, su richiesta di Pilato e per conto proprio (varie percosse, torture e forme di scherno), è documentato dalla Sindone, la quale dice molto di più dei vangeli e che, per questa ragione, pone una seria ipoteca su tutti quei tentativi di cercare in tale lenzuolo una conferma di ciò che dicono quei testi. Si dovrebbe infatti procedere in maniera inversa, usando cioè la Sindone per rettificare o precisare o addirittura smentire i vangeli. L'ordine che i soldati avevano ricevuto era semplicemente quello di non farlo morire: non a caso fu risparmiata la sola regione cardiaca.

Pilato, praticamente, doveva aver fatto questo ragionamento: “Se la folla mi obbliga a liberarlo, sarà comunque ridotto in condizioni così pietose che per un bel pezzo non potrà far nulla”. Qui però i redattori non si sono accorti che se davvero, per Pilato, Gesù era politicamente innocente, non avrebbe dovuto permettere ai militari di schernirlo in maniera così truce e offensiva. Una cosa, infatti, è la fustigazione come pena prevista per un reato piuttosto grave; un'altra è l'arbitrio dei soldati che si divertono a torturare l'accusato.149 Quanto meno Pilato avrebbe dovuto punirli, se davvero fosse stato un giudice imparziale. Ma imparziale aveva già dimostrato di non volerlo essere, in quanto la decisione di flagellarlo entrava in contraddizione con le sue stesse dichiarazioni, espresse in maniera palese, circa l'innocenza politica dell'accusato o, se vogliamo, la sua modesta pericolosità.

Una volta decisa la fustigazione, i militari capirono che a Gesù potevano fare ciò che volevano, e nella realtà andò proprio così. Cercare di salvare la faccia a Pilato - come han fatto i redattori -, dopo aver impartito un ordine del genere, è fatica sprecata. Con questo, naturalmente, non vogliamo dire che Pilato si sia comportato in maniera indegna e che un altro procuratore, al suo posto, avrebbe agito diversamente. Egli aveva semplicemente svolto il suo ruolo di aguzzino: era il cane da guardia dell'imperialismo romano in Giudea e Samaria. E in quel difficile momento, a causa del grande afflusso di pellegrini dovuto alla festività pasquale, egli aveva adottato la strategia che gli sembrava più opportuna; e, considerato l'obiettivo finale, dobbiamo dire che fu indovinata. Esattamente come quella di Caifa.

Pilato infatti verrà rimosso non per essere stato ingiusto nei confronti di Gesù, non per averlo giudicato male sul piano giuridico, ma per aver usato dei provvedimenti troppo duri, spropositati, rispetto all'effettivo pericolo eversivo, nei confronti di molti Samaritani.150 Anche Caifa, molto amico di Pilato, verrà deposto nello stesso anno di quello del governatore: entrambi da parte di Lucio Vitellio il Vecchio151, legato in Siria (35-39) per volere dell'imperatore Tiberio. Dunque qui bisogna dire che per la loro carriera personale l'esecuzione capitale di Gesù non servirà proprio a nulla. Peraltro, al posto di Caifa non subentrerà uno dei suoi figli, ma un figlio di Anania.152

Stando alla Sindone si può facilmente notare come le vessazioni dei soldati siano tutte inerenti all'intenzione di Gesù di voler compiere l'insurrezione nazionale (da notare che nessun condannato, a quell'epoca, fu mai incoronato di spine). Per trattarlo in quella maniera, con la trivialità tipica dei soldati di basso rango, dovevano aver preso seriamente l'ingresso trionfale a Gerusalemme, cioè Gesù doveva apparire ai loro occhi come uno che effettivamente avrebbe potuto far qualcosa di alquanto pericoloso per la loro esistenza. Se la ricostruzione dei fatti, operata da tutti gli evangelisti, potesse essere considerata anche solo un minimo attendibile, non avrebbe avuto alcun senso accanirsi in una maniera così brutale e parodistica su una persona pacifica, avvezza a fare il santone o il predicatore itinerante di belle parole, le più importanti delle quali erano quelle d'indurre il popolo a desiderare un regno di giustizia nell'aldilà. L'immagine di Gesù che danno i vangeli non solo è fuorviante, ma è addirittura ridicola, pur nella sua tragicità, e vien quasi da pensare che se anche i Romani avessero bruciato i quattro vangeli canonici, non avremmo perduto nulla di veramente significativo.

V

Il finto processo durò un'intera mattinata: un tempo lunghissimo, a dimostrazione che l'imputato non era come quei due zeloti che verranno giustiziati insieme a lui, per i quali non vi fu alcun “processo” e la decisione presa dal procuratore fu sicuramente immediata.

Finita la fustigazione, Gesù venne presentato alla folla nella maniera sarcastica in cui i militari l'avevano trasformato: con la corona di spine sulla testa e il mantello regale sulle spalle (e forse con una canna in mano). Ciò al fine di screditarlo il più possibile e rendere più facile il verdetto definitivo, favorevole al patibolo.

Pilato non si comportò così per commuovere la folla, per indurla alla pietà nei confronti di un uomo che non aveva più motivo d'essere odiato, essendo ridotto ai minimi termini. Ma, al contrario, sperava che i sostenitori di lui si demoralizzassero al punto da ritenere inevitabile la condanna a morte che, di lì a poco, gli avversari avrebbero chiesto a viva voce.

Pilato era ormai ben sicuro che se di questa esecuzione avesse dovuto rendere conto ai propri superiori, avrebbe potuto avvalersi di ampie e fondate argomentazioni per giustificarsi. Non avrebbe certo rischiato la propria carriera per uno che, ai suoi occhi, appariva soltanto come uno dei tanti sediziosi giudei o galilei.

La Palestina era notoriamente considerata una terra molto difficile da gestire: non a caso i generali che la ridussero all'obbedienza, diventarono imperatori. Anzi, si può in un certo senso dire che furono proprio gli scontri durissimi in questa regione che portarono Roma a far diventare imperatori i propri generali. Dopo Cartagine l'ostacolo più grande da superare fu proprio la Palestina. Il che, peraltro, non vuole affatto dire che questa regione non avesse tutte le possibilità di liberarsi dal dominio romano. Si pensi solo al fatto che neanche un secolo prima l'intera penisola italica era stata devastata dalle guerre civili di Mario e Silla, di Cesare e Pompeo e di tutte le altre comprese negli anni 40-30 a.C., mentre a livello coloniale vi erano state le guerre mitridatiche, quelle contro i Parti in Mesopotamia, sino alla grande vittoria germanica nella foresta di Teutoburgo; poi vi fu la rivolta di Lepido e la guerra di Sertorio, per non parlare della grande rivolta di Spartaco. Per abbattere i congiurati di Cesare (Bruto e Cassio), nella battaglia di Filippi, si scontrarono 200 mila militari, e altrettanti quando Ottaviano volle far fuori Antonio nella battaglia di Azio (31 a.C.). Antonio e Ottaviano, in momenti diversi, avevano eliminato un terzo dei senatori, riducendoli a 600. Praticamente a partire dal 9 d.C. Roma non era più in grado di allargare i propri confini in maniera significativa. L'impero serviva soltanto per conservare quel che si era conquistato nel periodo repubblicano.

L'idea che Gesù aveva d'insorgere negli anni 30, quando ancora i Romani si stavano leccando le ferite delle grandi tragedie subite per tutto il I sec. a.C., non era affatto peregrina, ma assolutamente alla portata di un agguerrito territorio, seppur piccolo, come quello palestinese.153

Naturalmente la grande maggioranza degli esegeti, inclusi quelli non-confessionali, ritiene che Israele non avrebbe avuto alcuna possibilità di farcela. Dicendo questo però si finisce col legittimare le tesi fondamentali degli stessi vangeli, i quali hanno optato per il misticismo proprio per spiegare il fallimento politico degli ebrei. E, col misticismo, sono inevitabilmente caduti nella trappola dell'antisemitismo. Infatti se si sostiene la tesi che Gesù era “Figlio di Dio” e che, proprio per questo motivo, gli ebrei non l'hanno riconosciuto, pur avendo avuto, coi miracoli, ampia dimostrazione a riguardo, è impossibile non essere antisemiti. E che i vangeli lo siano in profondità è dimostrato eloquentemente proprio dalla decisione di far contrapporre Pilato, nella sua isolata individualità, a un'intera folla come quella giudaica, tutta pervicacemente intenzionata a eliminare Gesù.

In un certo senso i redattori hanno anticipato l'atteggiamento che terranno i futuri imperatori romani nei confronti delle popolazioni pagane che chiedevano di mandare i cristiani ai leoni; pur sapendo che si stava violando la legge, permettevano linciaggi e vessazioni di ogni genere, al fine di poter avere un capro espiatorio su cui scaricare il peso delle contraddizioni del sistema schiavistico. In tal senso i cristiani, ma anche gli ebrei, potevano essere utilizzati abbastanza impunemente, almeno finché non cominceranno a convertirsi le classe superiori; peraltro, per tutto il I secolo i due gruppi religiosi non venivano neppure distinti in maniera significativa. È vero che nei loro vangeli Pilato appariva come una vittima dei raggiri di una casta sacerdotale “invidiosa” (Mc 15,10) dell'autorevolezza di Gesù, ma chiunque poteva pensare che se a Gesù era stata riservata una punizione così estrema e infamante, una qualche ragione doveva esserci.

Tuttavia il male peggiore dei vangeli non è l'antisemitismo, bensì l'antidemocraticità, che è la vera causa dell'altro male, anche se un esegeta ebreo, limitato dalle sue idee religiose, direbbe il contrario. Perché diciamo questo? Per il semplice motivo che la tesi petrina della resurrezione induce a pensare che la mancata insurrezione nazionale sarebbe stata risolta da un intervento autorevole del Cristo risorto. La teologia petro-paolina è profondamente antidemocratica proprio perché non crede nella volontà di riscatto che gli uomini possono dimostrare autonomamente. Sostituisce la parola “autonomia” con la parola “eteronomia”. Ecco perché veniva piuttosto spontaneo ai cristiani, una volta riconosciuta il loro credo come “religione di stato” al tempo di Teodosio, sterminare ebrei, pagani o cristiani giudicati eretici o apostati.

VI

Quando Pilato riconsegna Gesù flagellato alla folla, e ha il coraggio di sostenere che in lui non trova “alcuna colpa” (19,4), appare quasi comico, almeno per come viene descritto. Ed è addirittura assurdo quando si rivolge alla folla dicendo: “Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui nessuna colpa” (19,6). Che senso ha dire una cosa del genere da parte della suprema autorità romana in Giudea? Se Gesù era colpevole di ciò che lo accusavano le autorità giudaiche, era responsabilità di Pilato provvedervi; anzi, lui stesso avrebbe dovuto agire autonomamente, in quanto sarebbe stato impossibile, se davvero Gesù avesse voluto compiere un'insurrezione, che i Romani non si fossero accorti di nulla. Ma se le accuse politiche erano solo un pretesto con cui si celavano questioni di tipo religioso, Pilato non avrebbe potuto lavarsene le mani, almeno per una serie di ragioni: 1) i Giudei potevano emettere sentenze capitali senza l'autorizzazione del prefetto? 2) potevano mandare a morte un individuo che avrebbe potuto parteggiare per i Romani? 3) potevano farlo usando come mezzo la croce?

Peraltro, tra le esecuzioni ebraiche non era prevista la crocifissione. Questa era una forma di esecuzione molto grave, applicata dai Romani soprattutto nei confronti dei rivoltosi politici privi di cittadinanza: come avrebbe potuto Pilato autorizzarla senza fondati motivi? Se l'avesse concessa, qualcuno, tra gli ebrei, avrebbe sempre potuto denunciarlo ai suoi superiori per aver gestito iniquamente il proprio ruolo di giudice. È vero, Gesù era accusato di “bestemmiare” (10,36 e 19,7), poiché si faceva uguale a Dio, e per un reato del genere il Levitico (24,16) prevedeva la morte, ma per Pilato tale reato poteva forse implicare una morte in croce? Avrebbe forse potuto far scrivere sulla croce, come motivazione della condanna, “Gesù Nazareno, figlio di Dio”?

Cosa avrebbe pensato un suo superiore se avesse potuto assistere a un comportamento del genere o se ne fosse stato informato? Quale esempio di “superiore civiltà” stava dando il prefetto Pilato, di cultura latina, rappresentante del famoso diritto romano? Sarebbe potuta bastare la giustificazione secondo cui, se non si fosse comportato così, la folla si sarebbe inferocita e avrebbe anche potuto insorgere? Peraltro, quale folla avrebbe potuto farlo? Quella che sosteneva Gesù o quella che gli era avversa? Nei vangeli si vede solo quest'ultima, che non pare proprio intenzionata a ribellarsi a Roma. Anzi, dalle dichiarazioni che fanno i sacerdoti, appare il contrario: “Se liberi costui, non sei amico di Cesare. Chiunque si fa re, si oppone a Cesare” (19,12). Incredibile che dei capi religiosi facessero proclamazioni del genere davanti a tutta la folla, la quale, pur dichiarandosi a favore di Barabba, non l'aveva fatto certamente con l'intenzione di avere un messia che desse meno speranze contro Roma.

Com'è noto, il difetto delle folle è lo spontaneismo, l'istintività, che quando è di massa può produrre anche effetti deleteri (che Gesù, p.es., scongiurò quando in Galilea rifiutò di marciare su Gerusalemme senza l'apporto dei Giudei). Nel momento in cui buona parte della folla optò per Barabba, lo fece perché condizionata dai capi religiosi, ingannata da chi voleva far credere che contro Roma il terrorista zelota avrebbe potuto offrire maggiori garanzie. È quindi impossibile che i capi giudaici si siano abbassati, di fronte a Pilato, a un servilismo così vergognoso come appare in tale dichiarazione: “Noi non abbiamo altro re che Cesare” (v. 15). Dovevano dimostrare d'aver ragione, ma non a costo di mettersi dalla parte del nemico. Quindi si può pensare che qui abbia prevalso la tendenza antisemitica dei redattori.

VII

Che la descrizione della parte finale del processo-farsa sia piuttosto inverosimile, è attestato anche dall'atteggiamento che i redattori fanno assumere a Pilato quando viene a sapere dai Giudei che “Gesù deve morire perché si è fatto Figlio di Dio” (19,7). “Quando Pilato udì questa parola, ebbe ancora più paura” (v. 8). Molti esegeti han visto in questo atteggiamento degli influssi da parte della tradizione moralistica lucana.

Dunque Pilato aveva paura della folla, che in quel momento era troppo numerosa - questo l'abbia capito sin dall'inizio. Ora però avrebbe un timore supplementare, in quanto starebbe per mandare al patibolo una “divinità”. Noi sappiamo che anche gli imperatori iniziavano a considerarsi di natura divina154: ebbene, Pilato aveva forse improvvisamente capito la differenza tra una natura divina metaforica e una di natura sostanziale? Quale lungimiranza per un prefetto pagano! O forse aveva paura perché era di umore superstizioso e, al sentire che uno si dichiarava “Figlio di Dio”, temeva che qualcosa di vero potesse anche esserci? Eppure poche ore prima aveva fatto la parte del filosofo cinico, ponendo quella domanda rimasta senza risposta: “Che cos'è la verità?” (18,38). Pilato aveva forse avuto un'illuminazione interiore, grazie alla quale aveva capito che la verità stava per mandarla sul Golgota?

Qui la mano dei redattori è pesantissima. Fanno di tutto per scagionare il prefetto dalle sue responsabilità. L'idea è stata quella di rappresentarlo come un burattino nelle mani dei Giudei, globalmente intesi. Pur di realizzare un compromesso col potere, il cristianesimo è disposto a mentire e a dichiararsi antisemita, cioè a scaricare su terzi il peso delle proprie responsabilità. Paradossalmente, infatti, la dichiarazione che i redattori mettono in bocca ai Giudei, relativa al fatto che non avevano altro re che Cesare, è la stessa dichiarazione che faranno i cristiani a partire da Costantino. Sarà sufficiente avere un sovrano cristiano per dichiarare guerra a chi non riconoscerà il potere della Chiesa.

È evidente che qui i redattori hanno obbedito, senza discutere, a un diktat proveniente dalla teologia petro-paolina, secondo cui Gesù doveva morire perché per i Giudei aveva bestemmiato, proclamandosi di natura divina. Cioè la motivazione della condanna era più teologica che politica, o comunque era di natura teologico-politica.155 Ufficialmente i Giudei non l'avevano potuto giustiziare proprio perché i Romani avevano loro tolto il diritto di emettere sentenze capitali (18,31). Ma che la motivazione della condanna sia stata teologica i redattori la fanno dire allo stesso Gesù, quando risponde a Pilato, che si meravigliava del suo silenzio e che, per scuoterlo, gli aveva detto: “Non mi parli? Non sai che ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti?” (19,10).156 Gesù infatti si sente indotto a rispondergli: “Tu non avresti alcun potere su di me se ciò non ti fosse stato dato dall'alto; per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande” (v. 11).

Il carattere sibillino di queste parole è servito ai redattori per mettere del fumo negli occhi dei lettori. Essi infatti non avevano solo il compito di ridurre al minimo la responsabilità di Pilato, ma anche quello di individuare chi avrebbe potuto porsi, in maniera mistificata, come principale attore della morte di Gesù. Dunque chi si trova più “in alto” di Pilato, che è un prefetto dotato di pieni poteri sia in Giudea che in Samaria? Forse quel Vitellio che lo deporrà dalla carica nel 36? Qui però Vitellio non c'entra nulla. Dunque Caifa? Quello che aveva detto che per il bene d'Israele Gesù doveva morire? Caifa superiore a Pilato? Il vero traditore quindi non è stato Giuda ma Caifa? È stato lui il responsabile della sconfitta del movimento nazareno e della successiva distruzione d'Israele? Perché quindi non dirlo esplicitamente? Perché non dire che se Gesù non fosse stato consegnato da Caifa a Pilato, quest'ultimo sarebbe sicuramente uscito sconfitto dalla guerra di liberazione nazionale? Potevano i redattori-falsificatori dire una cosa di questo genere? No, non potevano, proprio perché essa avrebbe avuto un contenuto troppo politico. Era meglio restare sul generico. Dentro quelle due parole, “dall'alto”, si potevano mettere Caifa e tutti i Giudei, ma solo a condizione di considerarli uno strumento del “demonio”, del “principe di questo mondo”. La morte del Cristo è stata voluta dai Giudei “figli del diavolo”. “Satana è stato omicida fin dal principio e non si è attenuto alla verità, perché non c'è verità in lui. Quando dice il falso, parla di quel che è suo, perché è bugiardo e padre della menzogna” (8,44).

L'artefice della morte di Gesù è dunque Satana, Lucifero, Belzebù, il demonio in persona, che si è servito dei Giudei, i quali si sono serviti del governatore Pilato. Il tutto col permesso di Dio-padre, che voleva il sacrificio del Figlio per potersi riconciliare con una umanità malvagia, più disposta a seguire le leggi del demonio che non quelle divine. Ecco che cos'è il cristianesimo: una delle maggiori imposture dell'umanità. Persino se esistesse Dio, dovremmo tutti dichiararci atei: sicuramente gli faremmo un torto minore.

VIII

Quando i redattori scrivono che Pilato, dopo aver sentito da Gesù quelle parole strane relative a “un potere dall'alto” (19,11), si impressionò al punto che aveva seriamente intenzione di liberarlo, vien quasi da pensare che questa seconda parte del processo-farsa non sia stata scritta dagli stessi redattori della precedente. Infatti sin dall'inizio Pilato sostiene che non vedeva in lui alcuna colpa. Per quale motivo, al sentire le parole: “Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall'alto” (v. 11), Pilato era davvero intenzionato a liberarlo? Quale messaggio mistificante han voluto trasmettere i cronisti?

In realtà esso è molto semplice. All'inizio del processo è il giudice Pilato che vorrebbe liberare Gesù. Ora invece è l'uomo Pilato che vorrebbe farlo. Là era il romano di religione pagana; qui è il romano in procinto di cristianizzarsi. Laddove vi era scetticismo, ora fa capolino un briciolo di fede. Pilato rappresenta il potere romano che, alla vista del Gesù mistico, finisce per convertirsi alla sua verità religiosa e si pente di ciò che ha fatto. Egli è sensibile ai richiami della religione, benché detesti quella ebraica.

D'altra parte - sembrano dire i redattori - fa bene a detestarla, poiché nei confronti di Gesù i Giudei non vogliono sentire ragioni in suo favore. Anzi, appaiono più realisti del re: son loro infatti a ricordare al governatore che “chiunque si fa re, si oppone a Cesare” (19,12). È incredibile che un'intera popolazione dica questo, quando, pochi giorni prima, al momento dell'ingresso messianico, aveva accolto Gesù come il nuovo re d'Israele.

L'antisemitismo ideologico, conseguenza di una profonda antidemocraticità politica, porta a dire cose senza senso. Stando alla lezione di questi redattori, Pilato avrebbe ceduto all'idea di giustiziare Gesù non perché contento di una dichiarazione di piena sudditanza alla volontà dell'imperatore, da parte della folla giudaica, quanto perché temeva di essere denunciato quale oppositore di Cesare se l'avesse lasciato libero. Cioè, mentre come prefetto avrebbe dovuto esultare di fronte a quella incredibile piaggeria; come uomo invece se ne dispiacque molto e cedette malvolentieri a una richiesta che, in altra situazione, l'avrebbe rifiutata con decisione.

Pilato quindi, esattamente come Gesù, passa per una vittima della “perfidia giudaica”. Infatti i redattori, volendo sostenere l'uso antisemitico della parola “Giudei” (un plurale maiestatis assolutamente antistorico), sono stati poi costretti non solo a censurare il consenso di massa di cui fruiva Gesù, in virtù del quale si era reso necessario un processo piuttosto arduo e faticoso per un'intera mattinata; ma anche a presentare i suoi sostenitori come delle eccezioni che agivano perlopiù in forma segreta o clandestina, temendo la reazione dei farisei (vedi Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea). Si sono scaricate tutte le responsabilità sui Giudei per evitare di ammettere le proprie. Alla fine non si capisce chi sia stato più “perfido”.157

IX

Analizziamo ora in dettaglio vv. 19,10-12.

- Allora Pilato gli disse: Non mi parli? Non sai che ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti?

- Gesù gli rispose: Tu non avresti alcun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto; per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha più colpa di te.

- Da quel momento Pilato cercava di liberarlo, ma i Giudei gridavano: Se liberi costui, non sei amico di Cesare; chiunque si fa re, si oppone a Cesare.

Di questo dialogo due parole sicuramente non sono chiare: a cosa o a chi si riferiva Cristo dicendo a Pilato che il potere gli veniva “dall'alto”? Di frasi o anche solo di parole sibilline come queste i vangeli sono pieni. E ogni volta che ci si imbatte, gli atteggiamenti, da esegeta laico, che si possono assumere sono sempre due: o qualcuno ha assistito al dialogo e, pur avendolo riportato correttamente, ha dovuto subire una manipolazione interpretativa, in senso mistico, da parte dei redattori del vangelo; oppure tutto il dialogo è stato completamente inventato per sostenere tesi di tipo religioso.

Ora, che tra Cristo e Pilato non possa esserci stato alcun dialogo religioso è pacifico. Non vi sarebbe stato neppure se Cristo si fosse autodefinito “Figlio di Dio” o persona “divinoumana”. In tal caso, infatti, Pilato l'avrebbe considerato un folle. È vero che da qualche tempo i Romani si stavano abituando all'idea che i loro imperatori (alla stregua di quelli orientali o ellenistici) potessero attribuirsi degli appellativi di carattere “divino”, ma si dava per scontato che non potevano essere presi alla lettera. Erano più che altro delle metafore da usarsi sul piano politico, onde rafforzare dei poteri dittatoriali, i quali, a loro volta, volevano apparire più equi di quelli, sommamente corrotti, dei senatori.

Vediamo quindi quale delle due suddette interpretazioni laiche calza maggiormente nel dialogo in oggetto. Supponiamo che il dialogo sia davvero avvenuto e che i redattori l'abbiano modificato in maniera strumentale. Che Pilato abbia potuto dire di avere il potere di emettere sentenze capitali, non ci piove. L'aveva già fatto prima di quella attuale e lo farà anche dopo. Disponeva di pieni poteri da parte dell'imperatore Tiberio, e in effetti avrebbe anche potuto liberarlo contro la volontà dei sommi sacerdoti, che accusavano il Cristo di ateismo e che temevano, in caso di rivoluzione politica anti-romana, di perdere il loro potere, in quanto Cristo aveva già tentato di detronizzarli in occasione della epurazione del Tempio.

Da come Pilato viene presentato in questo vangelo, non si può certo dire che fosse un gran credente o di una spiccata moralità: la sua stessa domanda scettica su che cosa sia la verità (18,38) lo lascia supporre. Al massimo si può pensare che Pilato usasse il paganesimo contro l'ebraismo per motivi politici. Se avesse visto in Cristo unicamente un avversario ideologico del giudaismo, sarebbe stato nel suo interesse liberarlo, anche se, così facendo, avrebbe scontentato i sommi sacerdoti e i sadducei, suoi alleati. Avrebbe cioè dovuto fare, preventivamente, un calcolo politico delle forze in campo e chiedersi se gli sarebbe convenuto cercare di avere Gesù dalla sua parte, visto il grande seguito popolare cui fruiva, ridimensionando di conseguenza il potere giudaico, il quale se da un lato era favorevole a collaborare, dall'altro s'impegnava poco nel reprimere la resistenza contro Roma; oppure se non sarebbe stato meglio far vedere che Roma confermava l'alleanza col potere giudaico così com'era, con tutte le sue tradizioni e culture lontanissime dalla sensibilità romana, le quali, volendo, avrebbero anche potuto essere utilizzate contro gli interessi imperiali.

Solo di una cosa siamo sicuri: Pilato temeva la popolarità di Gesù, sapeva benissimo ch'essa non era indirizzata solo contro il potere colluso e corrotto dei sommi sacerdoti e della casta sadducea, ma anche contro le legioni romane, viste come un occupante imperialista. Dunque per lui il vero problema da affrontare non aveva tanto degli addentellati di tipo religioso, ma consisteva soprattutto in questo: come eliminare un leader politico con ampio seguito, servendosi, senza dubbio, della complicità del potere giudaico, ma anche facendo molta attenzione a non scatenare una reazione popolare dalle conseguenze imprevedibili. Pilato doveva prendere una decisione sul filo del rasoio.

Ma se la situazione stava così, a che cosa o a chi si riferiva Cristo quando disse a Pilato che il potere di tenerlo prigioniero gli veniva “dall'alto”? E perché gli dice che chi l'aveva consegnato a lui, aveva una maggiore responsabilità?

Chi sta più in alto di Pilato non può certo essere Dio, poiché si tratta di qualcuno che viene considerato “colpevole” per definizione. Quindi non resta che riferirsi a Satana, il “principe di questo mondo” (Gv 14,30; 16,11), il quale - secondo l'ideologia cristiana teorizzata da Paolo di Tarso - vede il Cristo, sulla Terra, come proprio irriducibile nemico. Secondo i cristiani, infatti, il demonio sa che, dopo il peccato originale, gli uomini non hanno più la possibilità di recuperare l'eden perduto, a meno che appunto non vengano aiutati da Dio-padre (che però appare troppo lontano o troppo inflessibile) o dal Dio-figlio, il quale, avendo una natura anche umana, può fare da paciere, anzi da mediatore, accettando il supremo sacrificio di sé (che è riparatore di ogni colpa) tra l'onnipotenza di un Dio perfetto e l'impotenza degli uomini sempre peccatori. In tal caso la consegna di Gesù a Pilato sarebbe avvenuta col permesso di Dio, il quale, sapendo che gli uomini non sono in grado “liberarsi” da soli delle proprie colpe, avrebbe sperato d'indurli meglio al pentimento chiedendo al Figlio di sacrificarsi. Satana quindi avrebbe compiuto qualcosa di mostruoso, ma senza rendersi conto che dietro di lui vi era una regia occulta, che avrebbe saputo trasformare la tragedia in un fatto positivo, provvidenziale.

In tal senso la frase “tu non avresti nessun potere su di me se non ti fosse stato dato dall'alto”, implicherebbe un riferimento a qualcosa di “metafisico”, di extraterreno. Cioè vi sarebbero almeno due entità superiori a Pilato: Dio e il Demonio. E il fatto che i redattori scrivano che “a partire da quel momento cercava di liberarlo”, induce a pensare ch'egli avesse interpretato le parole del Cristo in chiave religiosa, mostrandosi molto preoccupato. In tal caso Gesù avrebbe trasformato il dialogo con Pilato sul tema filosofico della “verità” in un dialogo teologico sul tema dell'“aldilà”. Alcuni esegeti hanno pensato che Gesù abbia approfittato di quella tendenza alla superstizione che caratterizza la sensibilità romana, per far capire che il potere politico di cui Pilato beneficiava aveva radici religiose di cui lui ignorava.

Ora però usciamo da questo campo mistico, del tutto irreale, e proviamo a identificare quel personaggio autorevole che avrebbe dato al giudice Pilato la facoltà di decidere quale fine far fare al Cristo in stato di arresto.

Supponiamo che il diretto superiore di Pilato fosse lo stesso imperatore Tiberio. Per quale motivo viene considerato da Gesù “più colpevole” del prefetto in carica, dotato di ampia autonomia? Qui è come se Cristo avesse detto a Pilato che non poteva esser lui a decidere se liberarlo o crocifiggerlo, in quanto a decidere era lo stesso sistema imperialistico ch'egli in Giudea rappresentava. E siccome era il sistema a decidere, Pilato, anche se sul piano personale pensava di avere un certo margine di scelta, di fatto, sul piano politico, non ne aveva alcuno.

Tale interpretazione la diamo ovviamente in chiave laica, per quanto tendiamo a escludere a priori che Pilato si fosse convinto, anche solo per un momento, che Cristo non andasse giustiziato o non meritasse di esserlo o non fosse colpevole delle accuse che gli venivano mosse. Qui si vuole semplicemente dire che se il dialogo in oggetto è davvero avvenuto, Cristo può aver fatto capire a Pilato che egli non aveva alcuna possibilità di decidere se liberarlo o crocifiggerlo, in quanto la sua posizione politica, in quel momento, così altamente caratterizzata dall'oppressione romana contro il popolo della Palestina, necessariamente lo obbligava a prendere una decisione favorevole alla sentenza capitale.

Questo ovviamente i redattori non potevano dirlo, proprio perché tutti i vangeli sono stati scritti per accusare soprattutto i Giudei, facendo passare Pilato per un uomo debole di carattere, per un opportunista che, per quieto vivere o per un calcolo politico, aveva emesso una sentenza contro la propria volontà. I vangeli sono testi che cercano col mondo romano un compromesso che permetta ai cristiani di poter essere accettati senza che nessuno li confonda coi Giudei.

Sotto questo aspetto l'interpretazione del dialogo non cambia molto se consideriamo che il potere che “dall'alto” ha consegnato Gesù a Pilato sia quello stesso giudaico dei sommi sacerdoti. In tal caso però bisognerebbe fare una precisazione. Il potere giudaico verrebbe considerato più forte di quello di Pilato proprio perché, invece di cercare lo scontro armato, aveva preferito l'accordo vergognoso. Gesù cioè avrebbe fatto capire a Pilato che se Israele fosse stata tutta unita, per i Romani non ci sarebbe stato scampo. Ecco perché chi l'ha consegnato a lui merita d'essere considerato più colpevole.

Forse però l'aspetto più sconvolgente del dialogo in oggetto è il finale. Da un lato gli evangelisti scagionano Pilato sul piano soggettivo, in quanto affermano che dal dialogo col Cristo egli aveva avuto l'impressione che non meritasse di morire (e in ciò ovviamente essi mentono sapendo di mentire); dall'altro accusano l'intero popolo ebraico, presente in quel momento a Gerusalemme, di volere la sua morte (e in ciò non si fa alcuna distinzione tra popolo e istituzioni o tra i vari partiti politici); e, di nuovo, così dicendo mentono sapendo di mentire, come sempre succede quando si usa l'arma dell'antisemitismo per giustificare le proprie scelte politiche sbagliate o quando non si hanno argomenti sufficienti per sostenerle.

I redattori fanno passare gli ebrei più “realisti” del prefetto romano. Infatti i capi-giudei vogliono far credere a Pilato che Gesù fosse per il popolo ebraico un sovversivo politico, quando per la cristianità petro-paolina era soltanto un sovversivo religioso, lontano dalle tradizioni giudaiche. La cosa incredibile di questa messa in scena è che davvero Gesù, agli occhi di Pilato, appariva come un sovversivo politico. Solo che qui, inserita in un contesto mistico, l'accusa di cui i redattori si fanno carico appare come una provocazione, una sfida che il popolo giudaico lanciava a quello romano. Per i Giudei Cristo va ucciso in quanto ateo, ma siccome, se fosse stato soltanto per questo motivo Pilato non l'avrebbe condannato a morte, ecco che allora subentra l'altra accusa: Cristo vuol diventare re contro Tiberio. Pilato non può assolutamente difenderlo. Quindi lui lo giustizierà come sovversivo politico pur sapendo che non lo è: questa la tesi redazionale, altamente mistificante, la quale è tutta rovesciata rispetto a quella interpretazione laica che in effetti vede nel Cristo un uomo ateo sul piano religioso e sovversivo su quello politico.

Ecco dunque scoperto chi ha davvero più potere di Pilato, chi dall'alto gli ha consegnato Gesù per volerlo morto sia per motivi religiosi (in quanto ateo) che per motivi politici (in quanto sovversivo non solo contro Roma ma anche contro il potere giudaico collaborazionista). È lo stesso giudaismo, che in questo vangelo viene condannato senza appello. La comunità cristiana si può così vendicare del torto subìto, della grande occasione sprecata di creare una Palestina libera.

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29) La crocifissione

I

La descrizione della crocifissione (19,17-37) è piuttosto asciutta e fa vedere meglio la mano di Giovanni, che ama lasciar parlare i fatti, in maniera oggettiva. Tuttavia i fatti sono stati inseriti dai redattori in una cornice così viziata di misticismo da rendere quel suo pregevole realismo non così significativo come avrebbe potuto essere.

Questo per dire che continuano a esserci interpolazioni di varia natura, soprattutto là dove si tenta di giustificare questo o quel fatto avvalendosi di riferimenti antico-testamentari: p.es. la spartizione della tunica di Gesù, senza cuciture, tramite il gioco dei dadi (Sal 22,19); la richiesta di bere da parte di Gesù (Sal 69,22); il fatto che non gli spezzarono le gambe come agli altri due crocifissi (Sal 34,21); e l'ultimo versetto, il più ideologico di tutti: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (v. 37), preso da Zac 12,10, qui usato per far credere che i Romani si convertiranno al cristianesimo, anticipati dal soldato che, per pietà, inzuppa una spugna nel vino acetato per dissetare Gesù.158 D'altra parte, avendo fatto dire a Gesù quel che volevano, era impossibile che a Giovanni riservassero un trattamento differente.

Non è neppure del tutto chiara l'iscrizione trilingue (latino, greco, aramaico) che Pilato fece apporre sulla croce, per motivare la sentenza capitale, e che in lingua italiana è stata tradotta, malamente, così: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei” (Gv 19,19). Infatti la parola “Nazareno” non è presente né in Marco (che dice solo “Il re dei Giudei”), né in Matteo (che dice “Questi è Gesù, il re dei Giudei”), né in Luca (che dice “Questi è il re dei Giudei”). Quella usata da Giovanni, con l'articolo davanti, è Ναζωραῖος (Nazôraios), che non vuole necessariamente dire “proveniente da Nazareth”, una località di cui nulla si sa nelle fonti storiche dell'epoca. Quello sembra essere un titolo più politico che geografico: un titolo d'onore o comunque indicante uno stile di vita. Probabilmente i Sinottici non si sono arrischiati a usarlo in senso geografico perché tutti l'avevano visto quel titolo, per cui si è preferito ometterlo completamente.

Da un pezzo gli esegeti sanno che se il titolo “nazareno” viene dalla parola “nazireato”, allora qui siamo in presenza di un Cristo che aveva fatto “un voto particolare” (di dominio pubblico).159 Stando a Nm 6,1 ss. chi faceva un voto del genere, dal carattere solenne, doveva astenersi dal bere vino e bevande inebrianti (incluso l'aceto), non doveva mai radersi la barba né tagliarsi i capelli (e infatti dalla Sindone risulta che Gesù li portasse entrambi piuttosto lunghi, come in genere facevano i profeti160), né avvicinarsi a un cadavere o frequentare cimiteri e neppure avere rapporti sessuali. Praticamente per tutto il tempo del voto si doveva rimanere “puri”, “integri”, almeno fino a quando non si dichiarava pubblicamente di volerlo sciogliere, e ciò in genere accadeva al raggiungimento dell'obiettivo che ci si era prefissati.

Anche Sansone, Paolo di Tarso e il Battista avevano fatto il medesimo voto, che in genere non era a tempo indeterminato, sia perché non era molto decoroso per l'uomo comune tenere, come la donna, i capelli lunghi (come viene detto in 1Cor 11,14), sia perché il matrimonio era considerato un dovere sociale. Il voto era, in un certo senso, una forma di penitenza a carattere individuale o un particolare impegno preso con se stessi, e doveva essere pubblico, affinché tutti potessero rispettare la volontà di chi vi si sottoponeva, senza rischiare d'incorrere in atteggiamenti sconvenienti. Il nazireo era considerato una persona sacra, per cui risultava particolarmente grave forzarlo a violare il proprio obbligo morale.

Chiunque è in grado di rendersi conto che se Gesù era un “nazireo”161, molte pericopi evangeliche non hanno ragion d'essere: p.es. le nozze di Cana, dove il vino ha un ruolo fondamentale; la resurrezione della figlia di Giairo e quella di Lazzaro; il presunto rapporto di Gesù con la Maddalena; la frase di Mt 11,19 e di Lc 7,34, secondo cui Gesù veniva accusato d'essere un mangione e un beone; la stessa istituzione dell'eucaristia, dove addirittura il vino viene equiparato al sangue.162

Nel titolo della croce non sempre si metteva il luogo di origine del condannato; poteva anche esserci il nome del padre o il soprannome con cui era da tutti conosciuto. Qui piuttosto bisogna sottolineare che il titulus crucis, in tre lingue, indicava che il condannato era, per così dire, “speciale”, non era un uomo comune. Tutti, infatti, dovevano capire che se il pretendente al trono d'Israele era stato crocifisso, il potere di Roma andava considerato indiscutibile. Quell'iscrizione non era un semplice strumento identificativo della persona e della sua colpa, ma anche un monito per chi non avesse intenzione di sottomettersi.

Chi davvero pensa che Pilato abbia nutrito dei dubbi sulla grande pericolosità del soggetto in questione e quindi sulla legittimità del proprio operato, farebbe meglio a ricredersi; tant'è che quando i capi dei sacerdoti gli chiedono di modificare la scritta: “Il re dei Giudei” con “Io sono il re dei Giudei” (v. 21), lui si rifiuta di farlo. I redattori non si sono accorti che poteva bastare questo versetto a smentire il senso di tutto il racconto precedente sul processo-farsa.

Pilato aveva messo in croce non un esaltato, affetto da deliri di onnipotenza, ma - secondo lui - un candidato effettivo, alquanto temibile, al trono d'Israele. E i sacerdoti dovevano prendere atto di questa decisione irrevocabile. Il fatto che abbiano protestato lascia capire che nel racconto precedente tutto il loro ossequio mostrato nei confronti di Cesare, era stata una trovata redazionale. Essi, in realtà, cercavano un messia liberatore a loro uso e consumo. Non davano affatto per scontata la subordinazione d'Israele a Roma. O comunque, di fronte ai Giudei che, leggendo quell'iscrizione, avevano protestato, i sacerdoti erano stati indotti ad ammettere che quella protesta era fondata: il Sinedrio aveva deciso di mandare a morte un messia impostore, che avrebbe distrutto le tradizioni ebraiche e portato la nazione alla sconfitta sicura contro Roma; non aveva deciso di mandare a morte l'idea di un “messia liberatore”, secondo il modello davidico.

In questo racconto della morte di Gesù, per certi versi così distaccato, privo di quella drammaticità presente nei Sinottici, vi sono alcuni aspetti che, se veri, vanno considerati particolarmente significativi. Anzitutto il fatto che non vi è lo scherno nei confronti del condannato da parte dei carnefici. Tutto sembra svolgersi in un silenzio irreale. Gesù non parla neppure con gli altri due zeloti che gli stanno a fianco: sembra che a tutti loro manchi addirittura il respiro.

Eppure alcuni testimoni, noti a Gesù, ci sono: sua madre, la sorella di quest'ultima (Maria di Cleofa) e Maria Maddalena (19,25). Se fosse accaduto qualcosa di particolare, in quel frangente, avrebbero potuto raccontarlo. Gesù dice pochissime parole: la fustigazione, le torture subite, il trasporto del patibulum (per il quale non viene neppure detto che fu aiutato da un certo Simone di Cirene) e infine i chiodi l'avevano spossato al punto che sentiva imminente la fine. Non è da escludere che sia riuscito a resistere solo un paio d'ore, e che, a causa della mancanza di respiro, abbia potuto pronunciare solo pochissime parole: “Ho sete” (v. 28), “È finita” (v. 30)163. Non vi è alcun grido disperato di dolore o di angoscia esistenziale per lo stato di abbandono ch'egli stava patendo.164 Anzi, appare piuttosto strano che in un vangelo così pesantemente manipolato come questo i redattori non abbiano fatto dire a Gesù alcuna frase di tipo mistico, come invece nei Sinottici: un lettore credente l'avrebbe sicuramente apprezzata, dato il momento così altamente tragico.

II

Sul titolo della croce bisogna spendere ulteriori parole.

Si noti anzitutto come la motivazione per cui Cristo fu giustiziato, che Pilato fece apporre sullo stipes della croce (“Gesù il Nazareo, re dei Giudei”), non era certamente in linea con le vere intenzioni di Gesù, che non volle mai diventare “re”, e non perché era un “profeta mistico”.

Quando nel vangelo di Marco lo si fa esordire con il proclama messianico, analogo a quello del Precursore: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino”, i redattori non potevano non sapere che, mentre per il Battista gli aspetti religiosi e politici non andavano scissi, per Gesù invece sì, come appare nettamente nel dialogo con la samaritana, in cui le fa capire che, per liberarsi dei Romani e della casta sacerdotale corrotta e collusa, era del tutto irrilevante l'atteggiamento nei confronti della religione, nel senso che non sarebbe servito a nulla opporre una fede a un'altra (e poteva dimostrarlo facendo vedere che né i battisti né i farisei, che pur si sentivano rivali dei sadducei, avevano accettato di partecipare all'epurazione del Tempio).

Gesù voleva soltanto la liberazione della Palestina, dai nemici interni ed esterni, e, per fare ciò, non aveva in mente l'edificazione di una monarchia o una riedizione del regno davidico, tant'è che aveva sempre rifiutato il titolo di “figlio di Davide”, preferendo quello, più generico, di “figlio dell'uomo”. Molto eloquente, in tal senso, è la pericope marciana del cieco Bartimeo, in cui quest'ultimo ottiene la guarigione non perché lo chiamava “figlio di Davide”, ma dopo averlo chiamato “Rabbunì” (“Mio maestro”). Persino quando lo definivano “messia”, chiedeva di non avvalorare ciò in maniera decisa (il cosiddetto “segreto messianico” presente nel protovangelo), in quanto nell'immaginario popolare della tradizione ebraica il messia avrebbe dovuto unire in sé aspetti regali e sacerdotali.165

Il messia era un “Unto del Signore”, ma Gesù mostrava di avere idee ateistiche, in quanto non voleva avere alcun rapporto religioso col Tempio di Gerusalemme, tant'è che quando lo frequentava - così come faceva con le sinagoghe della Galilea -, era solo per fare discorsi politici o, se si preferisce, pre-politici, cioè culturali o sociali, di sicuro non “teologici”. L'assenza di discorsi propriamente teologici, attribuibili al Gesù storico, cioè non inventati da redattori in vena di misticismo, ha fatto pensare, a non pochi esegeti, che la sua formazione culturale fosse di livello modesto, assolutamente non accademica. Tuttavia il fatto che non facesse disquisizioni di tipo teologico di per sé non sta a significare ch'egli non avesse una cultura approfondita, un'istruzione qualificata, né significa che gli apostoli da lui scelti fossero dei popolani analfabeti. Quando nei vangeli viene detto ch'egli mostrava d'avere “autorevolezza”, non si deve intendere ciò in rapporto a guarigioni ed esorcismi, come fanno gli evangelisti, ma in rapporto al fatto che sapeva parlar chiaro, senza sofismi e giri di parole, in quanto sulle esigenze di liberazione della popolazione non temeva di dialogare con le autorità costituite, le quali, spesso, per evitare il confronto, lo qualificavano come un “indemoniato”.

Che non volesse diventare un monarca è ben visibile sia quando rifiuta la proposta dei 5000 Galilei di marciare su Gerusalemme per compiere l'insurrezione nazionale, senza chiedere un previo consenso ai Giudei; sia quando, una volta deciso il momento dell'insurrezione, in cui Giudei e Galilei avrebbero collaborato insieme, rifiuta di entrare nella capitale seduto su un cavallo, con un esercito armato di tutto punto, intenzionato a occuparla. La sua rivoluzione doveva essere popolare, democratica, altrimenti per lui sarebbe stata fallimentare l'insurrezione contro Roma, come in effetti sarà quando il partito zelota, ideologicamente estremista, farà scoppiare la guerra nel 66.

Questo per dire che la motivazione con cui Pilato condannò Gesù era sostanzialmente sbagliata. E qui forse si può dare un credito alle parole che gli rivolge Gesù, quando il procuratore gli chiede di confermare l'accusa d'essere il re dei Giudei: “Dici questo da te o altri te l'han detto di me?” (Gv 18,34). Poi però tutto quel che segue a tale controdomanda vien trasformato dai redattori in chiave mistica; nel senso che Gesù nega di essere re in senso politico, ma non in senso teologico, in quanto egli si pone come “re extraterrestre”, sovrano di un regno ultraterreno, essendo egli giunto sul pianeta Terra allo scopo di testimoniare la verità ultima delle cose.

In qualità di aguzzino di Roma, Pilato, certamente, non poteva fare distinzione tra un'insurrezione democratico-popolare e una estremistica, tra una rivoluzione e un colpo di stato. Chiunque mettesse in discussione il dominio romano, andava, in qualche maniera, perseguito penalmente, e generalmente - stando a varie fonti - i metodi di Pilato erano piuttosto sbrigativi (come d'altra parte quelli dei suoi successori), benché non senza alcuni ripensamenti.

Se per questo, però, anche la proposta dei capi-giudei di modificare il titolo della croce nella seguente dicitura: “Io sono il re dei Giudei”, era completamente sbagliata. Gesù non aveva mai pronunciato un'espressione del genere; anzi, la rifiutava decisamente per le stesse ragioni. Nell'udienza davanti all'ex sommo sacerdote Anania non viene accusato di questa pretesa, né lui rivendica un titolo del genere (anche perché nessuno avrebbe potuto darselo da sé, prima ancora d'essere riconosciuto dal popolo o dalle istituzioni); e nel racconto, inventato da Marco, relativo all'udienza davanti a Caifa, gli viene fatto dire d'essere addirittura “l'unigenito Figlio dell'Altissimo”, cioè molto di più di un sovrano nazionale, sicché il pontefice, al sentire una bestemmia del genere, si straccia le vesti, affermando che Gesù si condannava da solo, per cui non c'era bisogno di altre testimonianze a suo carico.

Semmai qui si può far notare - sempre che abbia un senso avvalersi di testi così falsificati come i vangeli - che le autorità religiose avevano deciso di mandarlo a morte non perché si era dichiarato “re dei Giudei”, quanto perché l'aveva fatto senza il loro consenso, anzi contro il loro stesso potere. In via di principio esse non erano ostili all'idea d'avere un messia-re che lottasse efficacemente contro Roma; ne volevano però uno che non si opponesse anche a loro stesse, ai loro privilegi di casta.

Gesù Cristo voleva forse eliminare le autorità religiose qua talis? Ciò non avrebbe avuto senso. Quel che voleva abbattere, all'interno del giudaismo, era la corruzione del partito sadduceo, sostenuto da molti membri del Sinedrio; un partito che usava il Tempio per arricchirsi a dismisura e che, per mantenere i propri privilegi, era disposto a compromettersi con gli imperatori romani; un partito che collegava strettamente la teologia alla politica e che discriminava nettamente le etnie o le popolazioni non strettamente giudaiche. Una volta eliminato questo partito, il potere gestito dai leviti, dagli anziani e dagli scribi si sarebbe ridimensionato.

III

In questo breve racconto Gesù, a differenza delle versioni sinottiche, pronuncia altre parole che hanno suscitato, tra gli esegeti, non poche perplessità. “Vedendo sua madre e presso di lei il discepolo ch'egli amava, disse a sua madre: Donna, ecco tuo figlio! Poi disse al discepolo: Ecco tua madre! E da quel momento il discepolo la prese in casa sua” (vv. 26-27).

Dunque, a guardarlo in quelle sue ultime ore vi era anche Giovanni, la cui identità continua a restare in ombra. Noi sappiamo che anche Pietro era in città: come mai qui è presente solo Giovanni? Il fatto d'essere conosciuto negli ambienti del sommo sacerdote Anania gli permetteva questa libertà? Oppure in quel momento Giovanni era stato più coraggioso di Pietro? O forse Giovanni aveva capito che con la morte di Gesù le autorità sacerdotali e farisaiche avevano già raggiunto il loro massimo obiettivo e, considerando che ormai era Pasqua, non avrebbero avuto intenzione di procedere ad altri atti persecutori nei confronti di qualche discepolo di Gesù? Oppure Giovanni si è qui voluto inserire per trovare un aggancio al destino di Maria, dopo la morte del figlio? È difficile trovare una risposta a queste domande. Se togliamo quei due versetti, la coerenza del testo rimane inalterata. Resterebbe però inspiegabile il motivo per cui i redattori li avrebbero aggiunti, visto che non hanno alcunché di mistico.

Noi qui possiamo soltanto far notare che Gesù, prima di dire che aveva sete e poi morire, riuscì a dare un'ultima direttiva: quella secondo cui l'apostolo Giovanni e la propria madre Maria, già anziana, sarebbero dovuti restare insieme. Diede a Giovanni un incarico molto strano, poiché Gesù - secondo quanto riportato da Marco -, aveva vari fratelli e sorelle, di cui il più noto diventerà Giacomo il Minore o il Giusto. Evidentemente considerava Giovanni superiore agli altri apostoli e agli altri parenti, l'unico titolato a sostituirsi a lui e a diventare il nuovo “figlio di Maria”, colui che, meglio di altri, avrebbe dovuto rimpiazzarlo nella guida del movimento nazareno, al fine di compiere l'insurrezione nazionale, che però non si riuscì a fare perché prevalsero le tesi di Pietro, secondo cui Gesù era risorto e si doveva attendere la sua parusia imminente e trionfale.

In effetti, anche se i cosiddetti “fratelli e sorelle” fossero stati soltanto dei “cugini” (in quanto figli della sorella di Maria, Maria di Cleofa o Cleopa o Alfeo), sarebbe comunque stato naturale che qualcuno di loro si prendesse a carico la madre di Gesù, rimasta vedova o comunque sola. Invece qui le ultime volontà di Gesù sembrano contraddire una prassi consueta (in relazione a una donna del genere). Alcuni esegeti sostengono che Gesù avesse scelto Giovanni solo perché era celibe, oppure perché la madre dei fratelli Zebedeo era imparentata con la madre di Gesù. Tuttavia, se così fosse, l'affidamento della madre sarebbe stato politicamente irrilevante, non meritevole d'essere riportato in un vangelo così impegnativo.

Noi però possiamo ipotizzare che Gesù, se davvero avesse ritenuto irrilevante proseguire il suo messaggio di liberazione nazionale, avrebbe potuto dire ai suoi due discepoli preferiti, che in quel momento lo guardavano, Giovanni e Maria Maddalena, di andarsene da quella terra ingrata.

IV

Qui dobbiamo dare per scontato che l'apostolo Giovanni fosse davvero presente ai piedi della croce, in quanto sta per descrivere una scena sconosciuta ai Sinottici e che invece trova conferma nella Sindone (a meno che la cosa non gli sia stata raccontata dalle stesse donne, il che però non spiegherebbe com'egli, saputo dalla Maddalena della tomba vuota, corse veloce con Pietro come se sapesse benissimo dov'essa era situata). Gesù non fu solo “inchiodato” alla croce, ma anche trafitto in un costato da una lancia che lo colpì al cuore, facendo uscire “sangue ed acqua” (v. 34), cioè sangue separato in parte corpuscolare o cellulare e in parte seriosa.

Motivo di questo gesto? I sacerdoti volevano che i corpi fossero tolti dalle croci in quanto si stava avvicinando la Pasqua, festa solenne per eccellenza del 14 Nisan (che in quell'anno cadeva di sabato), e siccome erano vigili alle loro usanze di purità religiosa, avevano chiesto a Pilato di affrettare la loro morte e di seppellirli in fretta in una fossa comune. Non si poteva rovinare la gioia di una ricorrenza come quella, tenendo dei corpi appesi alla croce, agonizzanti, poco distanti dalla città. Ecco perché Pilato diede ordine di rompere loro le ginocchia, impedendo che potessero reggersi sulla predella o sul chiodo dei piedi: così avrebbero potuto morire subito per soffocamento. Quando però vennero da Gesù, s'accorsero ch'era già morto, sicché un soldato si limitò a verificarlo trapassandogli il costato con una lancia.

Interessante però non è tanto questo gesto su un uomo già cadavere, ma quanto scrive Giovanni subito dopo: “Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate” (v. 35). Che significato hanno queste parole dal sapore così semitico? Che bisogno c'era di scriverle davanti a un gesto così rituale, quale quello compiuto dal soldato? I redattori ci hanno speculato sopra, dicendo che quella trafittura dava compimento a un passo specifico dell'Antico Testamento, là dove si afferma: “Nessun osso di lui sarà spezzato” (v. 36).

Tuttavia sarebbe riduttivo pensare che Giovanni, in quel momento, volesse fare un riferimento simbolico all'agnello pasquale della tradizione ebraica (Es 12,46; Nm 9,12), o un riferimento mistico alla profezia di Zaccaria (12,10): “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (v. 37). Qui piuttosto si deve pensare ch'egli volesse dire che Gesù era morto per davvero: lo era prima ancora che venisse colpito dalla lancia. Pertanto chiunque pensi che la tomba fu trovata vuota perché la morte era solo apparente, s'inganna. Di Gesù si può pensare quel che si vuole, ma non che non sia morto in croce. Il v. 35 è la firma di Giovanni, anche se sotto censura. Sta facendo capire che ciò che ha raccontato di lui è più vero di quello riportato dai Sinottici. E noi dobbiamo per forza aggiungere che non si possono attribuire a lui tutte le mistificazioni presenti in tale vangelo.

V

Vi è un altro aspetto da sottolineare riguardo alla crocifissione: la richiesta di bere vino acetato da parte di Gesù.

Nel vangelo di Giovanni viene detto due volte che Gesù aveva sete. La prima al pozzo di Giacobbe, quando incontra la samaritana; la seconda sulla croce, poco prima di morire.

In Gv 4,7, dopo aver chiesto da bere, meravigliando assai la donna, che, avendolo riconosciuto come giudeo dalla parlata, sapeva bene ch'egli non avrebbe dovuto avere alcun rapporto coi Samaritani, ritenuti eretici dai Giudei, Gesù, appena uscito da un'insurrezione fallita, quella contro il Tempio, si mette a imbastire un discorso che per tutti i compaesani della donna dovette risultare incredibile, soprattutto in bocca a un giudeo.

In pratica aveva affermato che, quando sono in gioco questioni meramente religiose, deve valere il principio della libertà di coscienza, nel senso che ognuno va lasciato libero di pregare il suo Dio dove e come vuole. La seconda cosa che disse ai Samaritani fu di natura politica: al fine di liberarsi dall'oppressione romana e di quella sacerdotale le questioni religiose andavano considerate assolutamente private. Lui veniva da un'esperienza giudaica in cui la religione era strettamente legata alla politica, ma non per questo era riuscito a “epurare” il Tempio dagli elementi la cui corruzione e compromissione col potere romano erano sotto gli occhi di tutti. A Gerusalemme aveva dimostrato che ai fini della liberazione nazionale e della realizzazione della giustizia sociale, la religione non serviva a nulla, per cui fare una differenza ideologica o etnografica tra Giudei, Galilei e Samaritani non poteva avere più alcun senso. La credibilità di una popolazione poteva giocarsi soltanto sul grado di resistenza nei confronti del nemico esterno e dei collaborazionisti interni (e tra quest'ultimi vi erano anche molti Samaritani che svolgevano una funzione di supporto alle legioni romane).

In Samaria quindi aveva impostato una strategia politica rivoluzionaria, per la quale nessuna liberazione nazionale sarebbe stata possibile senza il contributo di tutte le popolazioni oppresse. Proprio qui egli aveva posto fine, in via di principio, al primato della Giudea, pur senza rinunciare all'idea di compiere l'insurrezione nazionale partendo dall'occupazione di Gerusalemme. Dunque, di fronte alla prima affermazione: “Ho sete”, il vangelo di Giovanni, una volta ripulito di tutte le sue incrostazioni mistiche, lascia capire una quantità di cose molto interessanti, ancora oggi praticamente sconosciute all'esegesi confessionale.

La seconda volta che pronuncia la stessa frase è impalato alla croce, poco prima che esali il suo ultimo respiro (Gv 19,28).

Ora, per quale motivo l'apostolo Giovanni, ch'era lì presente, in quanto fu l'unico a parlare di un colpo di lancia inferto dal soldato nel fianco di Gesù per verificarne il decesso, ha sentito il bisogno di ricordare un particolare così apparentemente insignificante, o comunque così scontato in un condannato che, a causa della flagellazione e delle torture subite, aveva già perso molto sangue?

Chi ha manomesso il suo vangelo, ha voluto aggiungere le parole “per adempiere le Scritture”. Ma si tratta ovviamente di una forma di misticismo, utile a mostrare la natura divina del Cristo. Peraltro nel Salmo 69,22 al re Davide, cui si fa riferimento, danno da bere aceto in segno di disprezzo (gli mettono anche il veleno nel cibo), per cui lui spera che i nemici vengano severamente puniti da Jahvè. Ma questo modo che gli evangelisti hanno di reinterpretare i passi dell'Antico Testamento a proprio uso e consumo è notorio.

La spiegazione, in realtà, dev'essere un'altra e probabilmente sta nel titolo stesso della croce: “Gesù il Nazireo, il re dei Giudei”. Delle due parti di questa iscrizione, abbiamo già visto quanto la seconda fosse inesatta, in quanto il Cristo voleva sì l'insurrezione nazionale contro Roma e i sadducei, ma non per creare una “monarchia”, di cui egli fosse il “re”, come un novello Davide. L'insurrezione avrebbe dovuto comportare l'edificazione di una società democratica, in cui il popolo si autogestisse, e non solo sul piano del consumo o della distribuzione dei beni, come risulta da At 2,45.

La prima parte dell'iscrizione però era giusta: “Gesù il Nazireo (o Nazareo)”. Tra le cose che non poteva fare chi pronunciava il voto di nazireato, vi era quella di non bere bevande inebrianti.

Si noti però questa stranezza: in Mc 15,23 viene detto che, poco prima di salire sulla croce, gli offrirono del vino mescolato con mirra (Mt 27,34 dice con “fiele”), ma lui non ne prese. Perché rifiutò il vino drogato, che si dava per sopportare meglio le sofferenze? Voleva forse restare legato fino alla morte al voto solenne di nazireato? O voleva restare lucido per dare l'ultima direttiva a Giovanni?

La stranezza sta nel fatto che nel IV vangelo è proprio Gesù che chiede di bere vino acetato. Era impossibile ch'egli non sapesse che ai piedi delle croci non vi erano contenitori d'acqua, ma di “posca”, una bevanda in uso presso i legionari romani, composta di acqua e aceto, dissetante: un vinello di bassa gradazione alcolica.

Aveva chiesto di berlo semplicemente per dissetarsi? Per stordirsi un po'? Per adempiere a qualche remota profezia? Anche stando molto attenti a non rischiare interpretazioni che potrebbero sconfinare facilmente nel misticismo, si può forse azzardare che aveva chiesto il vino acetato non tanto per placare l'inevitabile arsura dovuta alla grande perdita di sangue, ma proprio per sciogliere il voto, per porre fine alla sua promessa, in quanto il giuramento nei confronti di se stesso era stato rispettato alla lettera, sino alla morte. Il suo stesso corpo crocifisso veniva a sostituirsi al sacrificio di qualche animale, che per legge veniva richiesto per sciogliere il voto.

In punto di morte era dunque preoccupato di fare una cosa del genere? Sì, perché dicendo “Ho sete”, mostrava d'aver fatto tutto quanto era in suo potere per liberare la Palestina dai Romani e dai collaborazionisti interni che gestivano il Tempio. E si liberava anche dalle responsabilità di quanto sarebbe successo in quella regione dopo la sua morte.

Dunque anche la prima parte di quel titolo era inesatta: Gesù, in vita, avrebbe sciolto il voto solo dopo aver liberato la Palestina, ma in punto di morte decise di scioglierlo ugualmente, anche senza averla liberata, per cui non lo si sarebbe più potuto chiamare con l'appellativo di “Nazireo”.

D'ora in poi gli ebrei avrebbero dovuto liberarsi da soli dei loro oppressori, senza il suo aiuto. E quanti, tra i suoi discepoli (con Pietro in testa), presero ad attendere il suo ritorno in pompa magna, dovettero presto ricredersi, non solo perché i Romani distrussero così tanto Gerusalemme che fino a Costantino impedirono agli ebrei di rimetterci piede, ma anche perché una qualunque parusia del Cristo costituirebbe un'aperta violazione dell'umana libertà di coscienza, che è quella che non sopporta di dover credere in qualcosa solo perché l'evidenza l'impone.

VI

Se guardiamo cosa dicono i Sinottici nei passi paralleli a questo di Giovanni sulla richiesta di bere da parte di Gesù, c'è da rimanere sbalorditi.

In Mc 15,36 s., dopo aver rifiutato vino mescolato con mirra (v. 23), Gesù inizia a chiamare Elia, sicché gli offrono da bere come per tenerlo in vita, in attesa appunto che arrivi Elia.

In Mt 27,48-50 la scena è molto cruda, poiché Gesù, che ha già rifiutato il vino mescolato col fiele (v. 34) per attenuare il dolore, si sente abbandonato anche da Dio, e tutti lo oltraggiano. Qualcuno ha pietà e gli offre da bere dopo che ha iniziato a chiamare Elia, ma un altro glielo impedisce proprio per vedere se Elia viene a liberarlo.

In Lc 23,36 i soldati romani gli danno l'aceto in segno di disprezzo; questo perché, mentre lo schernivano, gli dicevano: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso” (v. 37). Gesù non chiede da bere, né si sente solo e abbandonato da Dio, né quindi chiama Elia; semplicemente afferma di “consegnare lo spirito al Padre”.

Per i Sinottici quindi Gesù non poteva chiedere da bere perché aveva già deciso di non farlo. Tutto il contrario di quanto riportato nel IV vangelo.

VII

Un'ultima cosa va detta in merito all'espressione “παρέδωκεν τὸ πνεῦμα”, cioè “rese lo spirito” (Gv 19,30).

“Morire” o “spirare” o “esalare” (sottinteso l'ultimo respiro) dovrebbero essere considerati verbi intransitivi, cioè non dovrebbero voler dire “rendere lo spirito (o l'anima)”, poiché ciò suppone, in chiave del tutto mistica, che Gesù stia restituendo qualcosa (nei vangeli si parla di pneuma) a qualcuno (Dio) che gliel'aveva dato in semplice concessione, essendo il Dio proprietario, e non il Figlio gestore, all'origine di tutto.

Luca, p.es., si è approfittato di questa ambiguità scrivendo, con toni molto patetici: “Padre, nelle tue mani consegno [rimetto o affido] il mio spirito” (23,46). Marco invece è più generico, lontano da implicazioni teologiche, in quanto non parla, in quel frangente, di pneuma, tant'è che lo stesso verbo usato da lui (ἐκπνέω) viene usato da Luca per indicare la morte di Anania e Saffira negli Atti degli apostoli.

È evidente che se s'introduce la parola pneuma, è facile lasciar supporre che il principale protagonista della resurrezione non sia stato Gesù, bensì il donatore originario dello Spirito, cioè “Dio-padre”, da cui lo Spirito “procede”. Cosa che viene detta chiaramente nella lettera ai Romani (4,24 s.; 6,4-9; 7,4; 8,11.34; 10,9), nella prima ai Corinti (6,14; 15,4.12-13.15) e ripresa puntualmente da Luca negli Atti, discepolo di Paolo (2,32; 3,15; 4,10; 5,30; 10,40; 13,34.37). Cioè quando si usano nel Nuovo Testamento i verbi per indicare la resurrezione, o vengono messi al passivo (“è stato resuscitato”), dando per scontato che Gesù non l'abbia fatto da solo, oppure si cita espressamente la parola “Dio” come autore dell'evento.

A dir il vero nei vangeli la cosa è più sfumata, nel senso che quando i verbi vengono usati al passivo, non è così scontato (o non lo è sempre) che vi sia stato un intervento dall'esterno. P.es. Marco usa l'espressione ἠγέρθη, che viene tradotta come “è risorto” e non “è stato risorto”. Forse si potrebbe addirittura dire che nell'Ur-Markus il termine “Dio” non fosse neppure presente, in quanto la grandezza di Gesù appariva tale (soprattutto nelle sue guarigioni) da rendere inutile un'altra entità sovrannaturale cui chiedere assistenza.

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30) La sepoltura (fonti)

Come sulla crocifissione, così sulla sepoltura di Gesù ci sarebbe parecchio da scrivere (19,38-42). Non c'è pericope che i redattori non abbiano manipolato. Deve essere stato un lavoro collettivo, fatto a più riprese, con intellettuali che conoscevano molto bene sia il greco che l'aramaico. Hanno censurato e interpolato, falsificato e mistificato: nessun altro vangelo ha subìto più manomissioni di questo, anche perché il nome stesso dell'autore andava bandito.

Tutte queste cose però si sanno da tempo. Quello che ancora non s'è chiarito è l'identità di tali manipolatori: provenivano da ambienti giovannici, che poi hanno tradito? O erano suoi avversari sin dall'inizio? Hanno riscritto il vangelo per poter continuare a far parte della Chiesa cristiana o sono stati commissionati da qualcuno? Per esempio: perché hanno aggiunto la figura di Nicodemo quando l'unico protagonista della sepoltura di Gesù fu Giuseppe d'Arimatea? Chi li ha costretti a farlo? Nicodemo era forse diventato cristiano? Ciò non risulta negli Atti degli apostoli o nelle Lettere del Nuovo Testamento, anche se gli si attribuisce un vangelo apocrifo. Che bisogno c'era di mentire, peraltro in una maniera così poco intelligente?

I corpi sono stati tolti dalle croci perché ormai si stava avvicinando il giorno speciale della Pasqua. Gli ebrei contavano le ore in maniera diversa dai Romani: il calar del sole indicava già il giorno dopo. Poiché si pensa sia morto verso le tre del pomeriggio, avevano poche ore per inumarlo. L'intervento di Giuseppe d'Arimatea impedì che Gesù venisse sepolto in una fossa comune. Infatti fu lui che andò da Pilato a chiedere il corpo per seppellirlo in una tomba privata. Vi andò perché era un discepolo di Gesù, benché “in segreto per timore dei Giudei” (v. 38). Non ebbe bisogno di esibire del coraggio per andare da Pilato, poiché non aveva mai fatto nulla di tendenzialmente eversivo. Il suo nome appare solo adesso. Era un discepolo occulto come Nicodemo: è stato forse questo il motivo per cui un redattore ha voluto associarli in questa pericope? Non lo sappiamo.166

Di sicuro sappiamo che la presenza di uno contraddice quella dell'altro. Infatti Giuseppe aveva in mente di fare una sepoltura affrettata, poiché rischiava di violare il precetto del sabato santo. Viceversa, Nicodemo, con la sua enorme mistura di mirra e aloe (“circa cento libbre”, cioè oltre 45 chili!) voleva procedere a una sepoltura regolare, “in uso presso i Giudei” (v. 40), proprio nel giorno più proibito! da parte di uno ch'era solo un discepolo occulto! disposto a toccare il corpo di un ebreo condannato alla pena capitale, e quindi maledetto da Dio e, per tale ragione, immeritevole di una purificazione cerimoniale attraverso il lavaggio del cadavere!

Scelsero un sepolcro non molto lontano dal luogo del patibolo: probabilmente quello che apparteneva allo stesso Giuseppe. I redattori ci tengono a precisare ch'era “nuovo, dove nessuno era ancora stato deposto” (v. 41). Questo particolare è importante: forse l'ha scritto proprio Giovanni. Infatti esso servirà per contestare chi sosteneva che Gesù era stato sepolto da un'altra parte e che la sua scomparsa era stata inventata a bella posta per far credere ch'era risorto.

Gesù comunque non fu sepolto in maniera regolare, ma in tutta fretta: anche i Sinottici concordano su questo. Praticamente presero il nudo corpo, tutto sporco di sangue, lo avvolsero nel lenzuolo che Giuseppe aveva comprato (la Sindone), legarono il lenzuolo con alcuni lacci e deposero la salma su una lastra di marmo, dopodiché se ne andarono da quel luogo, chiudendo l'uscio con un masso rotolante che finiva in una buca, senza lasciare alcuna guardia. Infatti nessuno dei presenti ebbe il minimo dubbio sulla morte di Gesù e a nessuno venne in mente che il cadavere sarebbe anche potuto scomparire.

Se ci furono delle sostanze profumate (aloe o mirra), erano già nella Sindone, com'era normale che fosse per un telo funerario, oppure all'interno del sepolcro, per attenuare l'odore della putrefazione: di sicuro non erano state messe sul corpo di Gesù, perché non avrebbe avuto senso farlo prima di lavarlo. Semmai le avrebbero usate il giorno dopo, completando l'inumazione, tant'è che nei Sinottici i redattori mandano le donne a provvedere, cariche di profumi, le quali però si chiedono, strada facendo, chi avrebbe rimosso la grossa pietra che ostruiva l'ingresso.

Nel IV vangelo gli autori evitano di far fare alle donne una figura così ridicola e preferiscono citarne una sola: Maria Maddalena, che si recò al sepolcro di mattina molto presto, “mentre era ancora buio” (20,1), cioè in un lasso di tempo che poteva andare dalle 3 alle 6, insieme a un'altra donna (forse Maria di Cleofa o Salome167), la cui presenza s'intuisce quando andrà a dire agli apostoli la frase: “Non sappiamo dove l'abbiano messo” (20,2). Che cosa siano andate a fare però non è chiaro. Non si parla infatti di profumi o di unguenti, forse perché i redattori pensano d'averlo già detto parlando di Nicodemo, senza però considerare che in quella giornata egli non avrebbe potuto toccare alcun cadavere. Quindi si esclude l'intenzione che la Maddalena e l'altra donna volessero aprire l'uscio: non vi sarebbero mai riuscite.168 Neppure è pensabile che fossero lì perché credevano nella “resurrezione”; infatti quando vanno ad avvisare gli apostoli, la Maddalena è convinta che il corpo sia stato trafugato da qualcuno.

Le donne non potevano far nulla davanti a quella tomba, se non piangere sconsolate (oggi avremmo pensato all'intenzione di renderla più bella esteticamente). Essa peraltro apparteneva a Giuseppe d'Arimatea: solo lui avrebbe potuto aprirla e non l'avrebbe certo fatto il giorno di Pasqua, giorno proibitissimo per il contatto coi cadaveri. Essendo legate affettivamente e idealmente a Gesù, erano probabilmente andate lì a titolo di curiosità, convinte che, se anche fossero state scoperte, nessuno avrebbe fatto loro del male solo perché sue seguaci. In fondo erano già state ai piedi della croce e avevano seguito Gesù durante il tragitto che portava al calvario. Si erano già esposte pubblicamente. E quella certamente non era una Pasqua che avrebbero celebrato con allegria.

Una cosa però poco chiara è il seguente versetto di Giovanni: “Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand'era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro.” (20,1). L'indicazione temporale è troppo conforme alla tesi marciana (16,2), ripresa da Matteo e Luca, relativa ai tre giorni successivi alla morte, che sono stati usati per rendere conforme, in senso mistico, la resurrezione a dei riferimenti anticotestamentari (p.es. Giona nella balena).

In realtà sarebbe del tutto naturale pensare che Gesù, morto di venerdì pomeriggio, sia stato sepolto in tutta fretta la sera stessa, poiché, secondo il computo ebraico di contare i giorni e le ore, stava arrivando il sabato pasquale e Giuseppe d'Arimatea non voleva trasgredire il precetto della purità legale; poi il corpo può essere scomparso dalla tomba la stessa notte in cui fu sepolto e il mattino dopo, quindi di sabato, mentre era ancora buio, le due donne hanno fatto visita al sepolcro, frequentando un ambiente proibito per la celebrazione della pasqua e quindi dimostrando maggiore coraggio di quanti l'avevano seppellito. La Maddalena, si potrebbe qui aggiungere, più che essere preoccupata di rispettare il sabato ebraico, era preoccupata di rispettare i propri sentimenti di donna, essendo probabilmente innamorata del Cristo.

In ogni caso, le due donne sapevano bene non solo dove era stato sepolto Gesù, ma anche dove alloggiavano Pietro e Giovanni e li andarono ad avvisare immediatamente. Non si sa se esse siano entrate nel sepolcro; è probabile che l'abbiano fatto, poiché non sarebbe stato sufficiente dire che il corpo era stato trafugato limitandosi a vedere l'uscio aperto. Ci voleva una prova schiacciante per una enormità del genere.

Quando Pietro e Giovanni arrivano al sepolcro, Giovanni è in grado di dire, essendo arrivato per primo e stando sull'uscio, che le bende con cui si era voluto tener fermo il lenzuolo che avvolgeva Gesù erano per terra. Per galanteria verso il compagno, che correva meno veloce di lui (anche perché non poteva sapere dov'era il sepolcro, non essendo stato presente al momento della sepoltura, mentre Giovanni invece lo era stato), lo attese sull'uscio,169 finché poi entrarono vedendo insieme le stesse cose: i legacci erano per terra e il sudario, cioè la Sindone, “piegato in un luogo a parte” (20,7)170 e, poiché dalle fotografie non si vedono i fianchi di Gesù, si deve presumere che il lenzuolo non fosse arrotolato al corpo ma semplicemente steso, sopra e sotto (stando ad alcuni ricercatori scientifici, nella Sindone si possono intravedere anche una mentoniera, una specie di perizoma e due monetine poste sugli occhi).171

Era impossibile non chiedersi che senso avesse rubare un cadavere tutto sporco di sangue dopo averlo tolto dal lenzuolo che lo avvolgeva e nel giorno più vietato dell'anno per il contatto coi cadaveri. Per farne poi cosa? Per impedire un culto post-mortem? Ma quale ebreo avrebbe fatto una cosa del genere il giorno di Pasqua se persino i suoi seguaci non avevano avuto il coraggio di trasgredirlo pulendo la salma? Peraltro che senso aveva che dei ladri avessero ripiegato la Sindone su se stessa, ponendola in un luogo a parte? Messa così, sembrava dare l'impressione che la si dovesse conservare gelosamente. Ma a che scopo? I due apostoli dovettero rimanere piuttosto sconcertati. Il corpo non era stato rubato, ma era stranamente scomparso. Anche la sua intera sagoma fronte/retro, impressa sul lenzuolo, era poco spiegabile.

Qui ovviamente i redattori non hanno resistito alla tentazione di manipolare il testo, e hanno voluto aggiungere il v. 9: “Non avevano ancora capito la Scrittura, secondo la quale egli doveva resuscitare dai morti”. Da quale passo dell'Antico Testamento prendano una cosa del genere, riferita al messia, non è dato sapere. Come possano parlare di “resurrezione”, quando un termine del genere presume il ritrovamento di un corpo vivo e vegeto, è inspiegabile. Solo una mente fantasiosa poteva pensarlo. Se davvero si voleva parlare di “resurrezione”, si doveva far riferimento alla Sindone, non alle Scritture e tanto meno ai tre preavvisi (redazionali) che Gesù fece, da vivo, circa il fatto che dopo tre giorni sarebbe risorto. Quei preavvisi andrebbero considerati completamente inventati anche solo per il riferimento ai “tre giorni”. Infatti se la versione di Giovanni è vera, dal momento della sepoltura al ritrovamento della tomba vuota erano passate al massimo 12-13 ore.

Nei Sinottici i suddetti preavvisi erano stati messi proprio per dimostrare che per credere nella resurrezione ci voleva un atto di fede e che la Sindone - unico elemento in mano agli apostoli - non sarebbe servita a nulla, tant'è che nel vangelo marciano Pietro non la prende neppure in considerazione, ben sapendo ch'essa non era in grado di dimostrare alcunché. La Sindone infatti può soltanto “mostrare” qualcosa di poco spiegabile. Non è possibile costruirci sopra una nuova religione, come quella che s'inventò Pietro, parlando di “ridestamento del corpo”.172 Addirittura nel protovangelo non sono le donne che, vedendo il sepolcro vuoto, pensano che Gesù sia risorto, ma è il lettore che deve pensare che il sepolcro era vuoto proprio perché Gesù doveva risorgere.

La fede nella resurrezione è stata inventata da Pietro, non da Giovanni, ed è stata usata per rinunciare all'insurrezione nazionale. Questa cioè sarebbe potuta avvenire solo attendendo il ritorno trionfale e immediato del Cristo. Infatti, secondo Pietro non avrebbe avuto alcun senso che il Cristo, una volta risorto, non ritornasse immediatamente per far giustizia dei suoi nemici. Solo quando ci si rese conto che tale parusia trionfale non si sarebbe verificata in tempi brevi, si cominciò a costruire la religione cristiana vera e propria. Cioè si cominciò a parlare di “morte necessaria”, voluta da Dio per riconciliarsi col genere umano; si cominciò a pretendere un'ammissione di colpa da parte delle autorità giudaiche sulla base dell'idea che Cristo voleva dare a tutti il tempo di salvarsi; si cominciò a dire che Gesù era “apparso” a vari apostoli, e ch'egli non era un semplice uomo, ma un essere dotato di natura divina; e, a partire da Paolo, ch'egli andava addirittura considerato “l'unigenito Figlio di Dio”, mandato sulla Terra per risolvere l'enorme problema del “peccato originale”, quello che impediva agli uomini di compiere il bene; e che sarebbe tornato a giudicare i vivi e i morti il giorno del “giudizio universale”, quando ogni cosa terrena sarebbe finita. Queste, in sostanza, le invenzioni della nuova religione ebraica chiamata ad Antiochia col nome di “cristiana”.

Ancora oggi i cristiani non si rendono conto che il concetto di “parusia” non ha alcun senso (d'altra parte anche gli ebrei sono in perenne attesa di un “messia” che risolva definitivamente tutti i loro problemi). Pietro sbagliava a intenderla come imminente, poiché in questa maniera aveva eliminato l'esigenza di compiere in autonomia l'insurrezione nazionale contro Roma e le autorità giudaiche colluse; ma ha sbagliato anche Paolo a intenderla in relazione alla fine dei tempi, come se gli uomini non dovessero fare altro che attenderla passivamente. In entrambi i casi la parusia veniva intesa come una forma di rassegnazione. La differenza tra i due stava soltanto in questo, che Pietro, quando si rese conto che non ci sarebbe stata alcuna imminente parusia, cominciò ad attribuire l'intera responsabilità della morte di Gesù alle sole autorità giudaiche, facendo di Pilato la vittima di un raggiro ben orchestrato, mentre Paolo, dal canto suo, ha trasformato il Cristo politico in un Cristo teologico, al quale concedere, in via esclusiva, una natura divina analoga a quella di Dio, e demandando alla fine dei tempi il trionfo della verità.

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31) L'invenzione delle apparizioni (fonti)

I) Maria Maddalena

La pericope dell'apparizione di Gesù a Maria Maddalena (20,1-18) è sicuramente molto poetica, ma è quasi tutta inventata. Chiunque è in grado di capirlo. Lo è almeno per una semplice ragione: se anche il Cristo si fosse ripresentato dopo morto, nessuno avrebbe potuto avere la certezza ch'era proprio lui, non essendo neppure ipotizzabile che la condizione di un corpo “vivo” (terreno) e “redivivo” (ultraterreno) possa essere la stessa. In altre parole, se anche avessero avuto, nella loro esistenza terrena, una qualche certezza che il corpo fosse lo stesso, ciò avrebbe immediatamente comportato la perdita della libertà di coscienza, che è quella che permette di credere o di non credere in ciò che si vede o si percepisce o si ascolta, poste determinate condizioni spazio-temporali, da cui non si può prescindere senza mettere in discussione tutto il resto.

In ogni caso la parte difficile, per l'esegeta, viene dopo, quando deve spiegare il motivo per cui i manipolatori del IV vangelo hanno inserito un racconto del genere. E qui molte domande resteranno senza risposta.

Che poi questi racconti pseudo-giovannei di riapparizione siano falsi è evidente anche per un altro motivo, intrinseco alla loro elaborazione. I redattori scrivono che Gesù poté entrare due volte nella casa ove gli apostoli s'erano rifugiati passando attraverso delle porte chiuse. Strano che non abbiano considerato che il sepolcro non fu trovato soltanto vuoto ma anche aperto. Nel suo ridestarsi il corpo di Gesù aveva conservato le esigenze della materialità o della fisicità. Se l'uscio della tomba fosse stato trovato chiuso, si sarebbe potuto pensare ch'egli s'era trasformato in “puro spirito”. Invece proprio quella pietra rotolata stava a indicare che il “puro spirito”, altrimenti detto “Dio”, non esiste.

Gesù Cristo, con la sua Sindone e la tomba vuota e aperta, è la testimonianza che tra materia ed energia vi è una perfetta corrispondenza, che in lui è anche senza alterazione, senza degradazione o dissipazione, senza confusione. Un Cristo che ha bisogno di aprire la porta della tomba indica che la materia è strutturale all'energia: non c'è l'una senza l'altra. Il corpo non si è dissolto, evaporato, volatilizzato, ma si è trasformato ed è rimasto tale, nella sua essenza originaria. Un processo analogo avviene nelle stelle, dove materia ed energia s'influenzano reciprocamente, in un processo che dura - rispetto ai nostri criteri cronologici - un tempo lunghissimo, relativo a miliardi e miliardi di anni.173

La morte è soltanto un processo di metamorfosi, di cui ogni persona, individualmente, può dire qualcosa di certo soltanto al momento della propria morte, senza però poterlo dire a nessuno. Anche per questo motivo tutti i racconti di riapparizione del Cristo sono inventati. La Terra non è che un'esperienza “solare” dotata di un corpo soggetto a corruzione, decadimento, entropia, anche se il suo nucleo è identico a quello solare. Solo l'aspetto superficiale è diverso. La Terra presenta un aspetto di materialità della vita che non corrisponde esattamente al suo aspetto energetico. Tra i due elementi ve n'è un terzo, lo scorrere del tempo, che rende la materia soggetta a corruzione. Abbiamo un tempo limitato da vivere proprio perché il rapporto tra materia ed energia non è esattamente adeguato alla nostra percezione di infinità e di illimitatezza che abbiamo di noi stessi e dell'universo che ci contiene. Sappiamo di essere eterni, ma non riusciamo a dimostrarlo a noi stessi, almeno finché siamo vivi su questo pianeta. E quando vi riusciremo, non potremo più vivere un'esperienza terrena, ma solamente solare.

Ecco perché qualunque riapparizione del Cristo non ha alcun senso realistico, anche se può averne uno di tipo poetico o metaforico. Non è in una dimensione terrena che tale realismo può accadere. Nessun essere umano sarebbe in grado di resistere al suo impatto. Sarebbe come guardare in faccia il Sole senza uno schermo protettivo. La Terra deve scomparire prima che noi si possa capire che siamo figli dell'Universo; fino a quel giorno però dobbiamo imparare a essere noi stessi, autenticamente umani, nella dimensione terrena.

Al momento sappiamo soltanto che un giorno avremo un corpo relativo alla percezione d'infinità della vita che inevitabilmente ci caratterizzerà. Non potrà quindi essere un corpo soggetto a corruzione, a decadimento. Dovrà essere un corpo perennemente giovane, che non subirà, su di sé, gli effetti dello scorrere del tempo. Ciò che potrà svilupparsi sarà soltanto il desiderio di migliorare se stessi.

Ma tutti questi ragionamenti sono soltanto delle farneticazioni. Di fronte alla tomba vuota avrebbe dovuto imporsi l'atteggiamento che l'ebreo Wittgenstein prevedeva in casi del genere: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.

*

Vediamo ora l'esperienza mistica attribuita alla Maddalena. Anzitutto bisogna convenire su un fatto indiscutibile: di tutte le donne al seguito di Gesù, Maria Maddalena (o di Magdala) è la principale. Di fronte alla tomba vuota la sua tesi, di primo acchito, sembra essere quella del trafugamento del corpo (20,2), non quella della resurrezione. La cosa viene ribadita al v. 13: “Hanno tolto il mio Signore e non so dove l'abbiano messo”. E anche al v. 15, quando viene fatta parlare con uno che a lei sembra un “ortolano”.

Tuttavia questo racconto, come quello successivo riguardante Tommaso (vv. 19-29), mira a far credere che tutti i discepoli si erano convertiti alla tesi mistica di Pietro. La “conversione” sembra essere espressa da alcuni fondamentali verbi, uno dei quali ripetuto due volte: “piangeva vicino al sepolcro” (la disperazione), “si chinò verso il sepolcro” (il ripensamento), “vide due angeli” (la speranza mistica), “si voltò indietro” (l'inizio della conversione), “si voltò verso di lui” (l'approfondimento della conversione),174 “gli disse: Rabbunì” (la certezza interiore), “andò ad annunciare ai discepoli: Ho visto il Signore” (la fede matura).

Mentre nel vangelo di Marco le donne non capiscono nulla, qui invece la Maddalena capisce tutto e anzi, in un certo senso, “inventa” il cristianesimo, poiché la prima a sostenere, in questo vangelo, che Gesù è risorto è proprio lei. Essa si mostra, dal punto di vista della fede cristiana, superiore agli stessi Pietro e Giovanni, che se n'erano “tornati a casa” (20,10), molto perplessi, avendo affrontato la tomba vuota in maniera meno emotiva, meno esistenziale, da uomini politicizzati e razionalisti.

E ora passiamo alle domande che naturalmente resteranno senza risposte: è stato Pietro a inventare la tesi della resurrezione o è stata la Maddalena? Se è stata quest'ultima, perché non dirlo nel protovangelo? Per quale motivo Pietro si è voluto riservare il privilegio d'aver escogitato per primo una tesi così politicamente regressiva? Forse non voleva far vedere ch'essa era stata partorita da una mente femminile? Nel vangelo di Marco, che riflette le posizioni di Pietro, vi sono forse anche delle discriminazioni di genere? Cioè a dire Pietro avrebbe accettato l'idea di resurrezione solo se avesse visto un'immediata parusia trionfale del Cristo? La Maddalena era forse più propensa a credere che Gesù non sarebbe affatto tornato ma salito al Padre, come viene detto al v. 17? Oppure in questo racconto i redattori han voluto far vedere che anche la principale protagonista femminile della sequela a Gesù dovette arrendersi alla tesi di Pietro sulla resurrezione, ulteriormente precisata da Paolo con la tesi sulla figliolanza divina esclusiva del Cristo? In tale pericope infatti si dà per scontato che non ci sarebbe stata alcuna parusia imminente. Gesù dichiara di voler salire in cielo, ove lo attende un Dio che non è solo suo, ma anche dei suoi discepoli, per cui devono rinunciare definitivamente all'idea di una imminente parusia trionfale.

In altre parole: una donna innamorata che non ha potuto amare l'uomo che desiderava, avendo egli fatto un voto per il quale non avrebbe sposato alcuna donna finché non fosse stata compiuta la liberazione nazionale dallo straniero e dai collaborazionisti interni (per la quale lei stessa combatteva); una donna affranta per aver perduto, perché tradito, l'uomo che amava, proprio nel momento in cui avrebbe dovuto compiere l'insurrezione; una donna sgomenta per aver perduto anche il corpo morto dell'uomo che amava – poteva una donna del genere vivere il resto dei suoi giorni nella disperazione? Fu dunque lei a inventarsi l'idea di “resurrezione”? “Ho visto il Signore” – è forse questo il senso della conversione della Maddalena al misticismo? Dunque il cristianesimo è una religione che trova nella debolezza femminile la sua fonte consolatoria originaria, di contro all'insensato antagonismo maschile?

Il v. 20,17 (“Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”) sta forse a indicare che nell'ultima revisione di questo vangelo i cristiani avevano definitivamente smesso di credere nell'imminente e trionfale parusia del Cristo, rimandando qualunque liberazione all'aldilà? Idea, quella della parusia, che invece resta ancora presente nel finale originario del vangelo marciano (scritto o almeno pensato prima del 70), là dove il redattore mette in bocca a un giovane seduto sul sepolcro, che si rivolge alle donne spaventate: “I discepoli rivedranno Gesù in Galilea”. Come se in Marco, discepolo di Pietro, resurrezione e parusia fossero due concetti in grado di giustificarsi a vicenda.

Tuttavia questa pericope contiene un'altra stranezza che ha indotto gli esegeti a fare mille supposizioni. Che senso ha lo scambio di battute tra Gesù e Maria? A lei, che lo riconosce come “suo maestro”, Gesù risponde: “Non mi toccare, perché non sono ancora salito al Padre” (v. 17). A Tommaso, pochi versetti dopo, dirà il contrario: “Porgi qua il dito e vedi le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato...” (v. 27). Dunque, poteva o non poteva essere toccato? E poi, che senso ha vietare che lo si tocchi affinché possa salire al Padre? La logica smentirebbe una giustificazione del genere: “Voglio toccarti proprio perché sei ancora tra di noi”. Peraltro nel testo greco l'imperativo non indica il divieto di un'azione ancora da compiere, ma proprio il divieto di continuarla, come se volesse dire: “non mi toccare più” o “smettila di toccarmi”. La traduzione italiana cela evidentemente un certo imbarazzo.

Cosa stanno insinuando i redattori? Che tra Gesù e Maria c'era qualcosa di tenero? O che Maria era innamorata di lui? E che non era riuscita a sposarlo a causa degli impegni connessi alla sua politica rivoluzionaria? Voleva forse “toccarlo” come quando lui era in vita? Maria ha forse inventato la resurrezione perché non riusciva a rassegnarsi all'idea di non averlo potuto avere da vivo e di averlo perduto da morto? Maria Maddalena è dunque la stessa Maria sorella di Lazzaro? Quella che, unica nel vangelo, riuscì a farlo piangere davanti alla salma del proprio fratello? Quella che gli profumò i piedi e glieli asciugò coi suoi capelli, convinta che a Gerusalemme sarebbe diventato il messia? Il cristianesimo è dunque una religione che deve a lei la sua nascita? Quel figlio che non poteva avere da lui, lo partorì da sola con la propria fantasia? e le proprie lacrime?

II) Tommaso

Il ruolo di Tommaso è quello di chi non può credere alla tesi della resurrezione, in quanto la ritiene troppo inverosimile. Qui egli fa una rimostranza, mentre tutti gli altri apostoli si sono convinti di ciò che ha detto la Maddalena. Vien quasi da pensare che i redattori di questo vangelo abbiano voluto rendere lei la protagonista della tesi della resurrezione, proprio perché era della Giudea, in polemica col galileo Pietro. Non è infatti possibile che la prima idea di resurrezione (quella appunto di Pietro) contenesse già la rinuncia alla parusia trionfale del Cristo. Dalle parole della Maddalena si comprende benissimo come questo vangelo sia piuttosto tardivo rispetto agli altri e molto più influenzato dalla teologia politicamente rinunciataria di Paolo.

Il fatto che i redattori abbiano bisogno di dire che, al momento della stesura del vangelo, vi erano ancora dei dubbi sulla necessità di credere nella resurrezione di Gesù resta significativo, proprio perché il Cristo risorto che qui viene tratteggiato è la rappresentazione di una comunità totalmente rassegnata sul piano politico, cioè disposta a credere soltanto in un'entità molto astratta: lo Spirito Santo.

I redattori accennano soltanto di sfuggita al fatto che gli apostoli, passata la Pasqua, temevano una pesante ritorsione, da parte dei Giudei, nei loro confronti. Per questa ragione se ne stavano chiusi in un luogo relativamente sicuro. Naturalmente Gesù non ha problemi ad attraversare porte o muri. Per non spaventarli mostra loro le mani e il costato, e li invita a stare tranquilli: “Pace a voi!” (20,19). Sul piano politico non devono fare più nulla; la missione che hanno da compiere è solo religiosa; così, dopo aver soffiato loro lo Spirito Santo, li invita a decidere quando e come perdonare o meno i peccati altrui.

Ciò detto risulta evidente che il dubbioso Tommaso doveva rappresentare quanti avrebbero voluto continuare il messaggio politico del Cristo, con tutti i rischi e i pericoli connessi. Nel testo viene fatto passare per un incredulo, per uno che crede soltanto in ciò che vede. Egli infatti avrebbe dovuto capire che i veri cristiani son quelli che credono in ciò che non vedono, cioè son quelli che vedono fantasmi in grado di attraversare i muri o le porte chiuse e che, invece di spaventarsi, come quando lo vedevano camminare sulle acque, devono sentirsi rassicurati sulla necessità di vivere un destino da sconfitti.175

Dopodiché sono stati aggiunti i vv. 30-31, che paiono conclusivi del vangelo, sicché si deve pensare che tutto il capitolo 21 sia stato aggiunto in un secondo momento. Il v. 30 sembra essere stato messo per giustificare il fatto che in questo vangelo Gesù, pur avendo agito per circa tre anni, invece che per uno, come nei Sinottici, ha compiuto molti meno miracoli (sic!), e che, ciononostante, il lettore deve ritenere sufficienti le cose riportate per credere nella sua natura divina. È un invito, insomma, a non considerare questo vangelo in alternativa ai Sinottici, ma semplicemente come complementare o addirittura supplementare. Un buon credente dovrà andarsi a leggere anche gli altri. Non sia mai che una comunità si leghi a un unico vangelo.

Sono parole molto strane, queste, indicative di una certa tensione o rivalità tra le varie tradizioni cristiane. Anzi, fa specie che in un vangelo così altamente teologico come questo si debba fare un'ammissione di colpa circa la poca presenza di eventi miracolosi! Forse per questo si è deciso di aggiungere, a titolo compensativo, un ulteriore capitolo.

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32) Il secondo finale

I

Il capitolo 21, che rappresenta il secondo finale del vangelo, con molte differenze stilistiche rispetto al resto del vangelo, a riprova che la sua stesura fu alquanto macchinosa, è il più strano di tutto il vangelo attribuito a Giovanni, il più enigmatico. In esso è palese la rivalità tra Pietro e Giovanni, quella rivalità che invece i redattori, per tutto il vangelo, han cercato di negare o di ridurre al minimo. Perché dunque evidenziarla solo alla fine del vangelo?

Si noti anzitutto l'ambientazione: è quella del “mare di Tiberiade” (il lago di Galilea). Sembra di assistere alla prosecuzione del vangelo di Marco, là dove il giovane all'interno del sepolcro dice alle donne: “Andate a dire ai suoi discepoli e a Pietro ch'egli vi precede in Galilea” (16,7). Il vangelo di Marco finisce nel punto ove era iniziato: in Galilea, la terra di Pietro e di suo fratello Andrea, e naturalmente di altri apostoli (in Gv 21,2 è detto esplicitamente che Natanaele era galileo, ma lo si era già capito da Gv 1,44 s.),.

Viceversa il IV vangelo inizia in Giudea, negli ambienti del Battista, frequentati da Gesù, suo cugino, da Giovanni Zebedeo, da Andrea, fratello di Pietro, e da altri discepoli di Gesù usciti appunto dal movimento del Precursore. E finisce sempre in Giudea. In questo capitolo 21 sembra però di assistere a una sorta di parziale riconciliazione tra Giudei e Galilei. Vi sono sette apostoli che si trovano in Galilea; il primo ad essere citato è Simon Pietro, ma chi riconosce subito Gesù sarà Giovanni, “il discepolo che Gesù amava” (sottinteso: anonimo).

Questa strana espressione per indicare l'apostolo è ripetuta due volte in questo capitolo e, a partire dal v. 20, si parla solo di lui. Eppure quando è stato fatto l'elenco dei sette apostoli, lui è nascosto nell'espressione “i figli di Zebedeo” (v. 2). A Pietro si riconosce una sorta di “primato d'onore”, e però, all'interno del capitolo, gli viene fatta fare una figura piuttosto meschina. Infatti non è in grado di riconoscere il Cristo risorto: deve aspettare che sia Giovanni a suggerirglielo, benché anche Giovanni, come tutti gli altri, non fosse riuscito a “pescare” nulla, cioè a produrre nulla di significativo. Dopo la morte di Gesù tutti gli apostoli sono come paralizzati, impotenti, anche se uno resta più sveglio degli altri.

Si faccia ora attenzione a questo strano versetto: “Simon Pietro, udito ch'era il Signore, si cinse la veste, perché era nudo, e si gettò in mare” (v. 7). Dunque pescava insieme agli altri apostoli, ma per quale motivo lui solo era nudo? A che scopo? E perché si butta in acqua dopo essersi messo una veste? Poi di nuovo “salì sulla barca e tirò a terra la rete piena di 153 grossi pesci; e benché ce ne fossero tanti, la rete non si strappò” (v. 11).

Sembra il racconto di un sogno, dove le cose che accadono, singolarmente prese, hanno poco senso e, per poterle capire, bisogna trovare il bandolo della matassa. Qui il numero dei pesci, come la distanza di 200 cubiti (poco più di 90 metri) dalla riva, sono stati messi per dare un tocco di realismo a un racconto del tutto fantastico.

In effetti, se dovessimo prendere il testo alla lettera, cioè come un tentativo di dimostrare l'effettiva resurrezione del Cristo, si farebbe fatica a capire perché si sia scelta la strada più difficile e non quella di un riconoscimento immediato e diretto, anche perché - considerato che gli Atti degli apostoli parlano di ascensione dopo quaranta giorni dalla morte - qui non è neanche il caso di ipotizzare che il mancato riconoscimento sia avvenuto perché dopo venti o trent'anni le fattezze fisiche di Gesù erano notevolmente cambiate (come accadde p. es. all'eroe Ulisse, che non fu riconosciuto neppure dalla moglie).

L'ideologia religiosa sottesa ai vangeli colloca le (presunte) apparizioni nell'imminenza della resurrezione. Quindi qui si deve dare per scontato che il non riconoscimento da parte dei discepoli sia dovuto a una mancanza di fede. Ma di quale “fede” si sta parlando? È sull'interpretazione di questa parola che si gioca il significato della pericope.

Il redattore non poteva non sapere che, per dare una maggiore attendibilità all'episodio, sarebbe stato meglio dire che i discepoli più stretti, avendo vissuto con Gesù per molto tempo, riuscirono immediatamente a riconoscerlo (come appunto già avevano fatto in 20,19 ss.). Qui invece sembra che non riescano a riconoscerlo proprio perché non si aspettavano di vederlo come una persona normale, quella di un tempo, alle prese con bisogni elementari, come p. es. la fame. I loro occhi si aprono improvvisamente soltanto dopo aver fatto, seguendo il suo suggerimento, una pesca miracolosa. Acquistano la fede attraverso un miracolo! Che senso ha tutto ciò?

A ben guardare infatti l'incapacità degli apostoli sembra essere dovuta a due motivazioni opposte, sulle quali si basa - come detto sopra - una diversa interpretazione della “fede”: una è quella che i manipolatori di questo racconto vogliono far credere (non l'avevano riconosciuto perché avevano pensato, quando lui era in vita, che il progetto rivoluzionario sarebbe andato a buon fine, e non avevano capito che lui era venuto a dire che la liberazione l'avrebbero ottenuta soltanto nel regno dei cieli); un'altra dovrebbe essere quella originaria di Giovanni e che ovviamente non si poteva dire, in quanto la sua comunità (o corrente politica) era stata messa in minoranza (non lo riconoscono perché Pietro e Paolo avevano elaborato la tesi della resurrezione e del ritorno glorioso del messia divino-umano e ora gli apostoli si sentivano frustrati per il fatto che la parusia non s'era verificata e le tesi petro-paoline erano state solo una presa in giro).

Da un lato quindi i manipolatori vogliono far credere che la morte di Cristo era appena avvenuta e ancora non se ne comprendeva il significato; dall'altro Giovanni avrebbe voluto far credere ch'essa era avvenuta da molto tempo e, a causa dell'atteggiamento attendistico di Pietro e Paolo, la situazione in Israele era diventata catastrofica. Dunque qui Gesù non viene riconosciuto perché secondo gli uni gli apostoli sono ancora religiosamente immaturi; secondo Giovanni invece perché si sentivano politicamente sconfitti, convinti d'essere stati degli illusi a seguire la teologia petro-paolina (benché nel testo si parli solo di sette di loro).

Questo racconto in effetti deve essere stato inserito molto tempo dopo rispetto agli altri. La crisi dei discepoli, decisamente più forte che nel capitolo precedente, sembra quasi configurarsi come una generale defezione, se non addirittura come un tradimento degli ideali originari. I discepoli non si riconoscono più in quegli ideali. Li vedono, perché non li hanno dimenticati, ma non li vivono, non sanno riviverli, e questo li porta a non riconoscere più il loro maestro. Non sanno cosa rispondere alla sua esigenza di verificare il loro operato, simbolizzato dai “pesci” (sul cui simbolico numero sono state scritte molte pagine esegetiche).

Nel vangelo di Marco (scritto prevalentemente sotto dettatura di Pietro e con ampia influenza della teologia paolina) era stato detto che Gesù li avrebbe fatti diventare “pescatori di uomini”. Qui però non hanno nulla da mostrargli: politicamente sembrano nudi. Solo dopo aver pescato una gran quantità di pesci, seguendo le sue indicazioni, uno di loro, il più acuto, il più capace, lo riconosce immediatamente: è il discepolo prediletto, che la maggioranza degli esegeti ha identificato in Giovanni Zebedeo.

Tale racconto deve essere stato scritto in una comunità giudaica composta di seguaci di Giovanni e oppositori di Pietro. Questi, infatti, si comporta subito, nel racconto, in una maniera infantile. Stava pescando nudo, cioè con spavalderia, in quanto era l'unico a farlo in quel modo, e solo quando Giovanni afferma di aver riconosciuto in quello strano individuo sulla riva la persona di Gesù, Pietro si riveste tutto preoccupato e si butta in acqua. È un comportamento a dir poco curioso.

II

Pietro, quindi, tutto nudo, si vergogna di Gesù e, per di più, di un Gesù risorto, modello dell'intera umanità. Non è in grado di riconoscerlo da solo e si sente in colpa. Cosa voleva dire l'autore di questo testo così sibillino? La risposta è al v. 18: “Quand'eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi - gli dice Gesù; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”.

Quindi Pietro si vergognava d'averlo tradito. Gli apostoli lì presenti erano nudi solo dentro, non avevano il coraggio d'esserlo anche fuori. Invece Pietro rappresenta il leader che voleva esibirsi, mostrandosi più ardito degli altri, più coraggioso.

Cerchiamo di capire. Pietro non ha riconosciuto subito Gesù; poi, quando l'ha fatto, si è accorto ch'era nudo, per cui ha indossato una tunica e si è buttato in acqua. La nudità era un segno della sua ingenuità, della sua limitatezza, ma anche della sua spavalderia; il cingersi la veste e il buttarsi in acqua un segno della sua impulsività, della sua irrequietezza. Pietro era una persona idealista, generosa, ma non sufficientemente astuta. Un altro, infatti, si servirà di lui e lo indurrà a fare o dire delle cose che egli non avrebbe voluto. Sembra di assistere a una riedizione del racconto del peccato originale.

Qui i veri protagonisti dell'episodio sono solo tre: Gesù, Pietro e Giovanni. Gli altri fanno da cornice: sono tutti discepoli di Pietro. Infatti, quando lui dice all'inizio: “Vado a pescare” (v. 3), gli altri lo seguono e nessuno prese nulla. Come leader politico rivoluzionario, Pietro s'era rivelato un fallimento. Eppure era riuscito a imporsi su tutti gli altri. Qui sembra che anche i figli di Zebedeo avessero accettato di seguirlo, ma sappiamo che non fu così, sia perché Giacomo venne ucciso pochi anni dopo la morte di Gesù, sia perché Giovanni scompare ben presto dalla narrazione degli Atti degli apostoli.

In questo racconto non è Pietro - come sarebbe stato più naturale - a riconoscere per primo Gesù, bensì Giovanni: segno che la leadership petrina non aveva dato i risultati politici sperati; segno anche che tra i due discepoli vi era stato un aperto contenzioso.

Infatti quando Gesù chiede se avevano del “pesce”, intendeva proprio riferirsi ai risultati dell'impegno politico dopo la sua morte. E nessuno aveva niente da mostrare. Si sentivano tutti in colpa, e Pietro avrebbe dovuto esserlo più degli altri. Quando finalmente lo riconoscono, cioè riconoscono d'averlo tradito, si pentono, si rendono conto d'essere stati dei deboli, dei pavidi. “Nessuno dei discepoli osava chiedergli: Chi sei?” (v. 12). Lo sanno bene, ma si vergognano di far vedere che si erano dimenticati il messaggio originario di liberazione.

Il responsabile di questo grave misconoscimento viene identificato, in questo racconto, nella figura di Pietro, al quale Gesù, per ben tre volte, è costretto a chiedergli se ha ancora intenzione di tradirlo. A proposito di questa triplice reiterazione della domanda, si può notare che fino al v. 14 Pietro viene chiamato “Simon Pietro”, suo appellativo ufficiale dopo la morte di Gesù; poi da Gesù viene chiamato “Simone di Giovanni” fino al v. 19, che è un appellativo privato, senza alcun titolo politico; infine, a partire dal v. 20, viene chiamato soltanto come “Pietro (Cefa)”, che era il nome usato quando il movimento nazareno stava preparando, spesso nella clandestinità, l'insurrezione. Qui è come se si fosse in presenza di un edificio che, dopo essere stato smontato a causa della sua artificiosità, viene ricostruito sulla base del progetto originario.

In mezzo a questi versetti è stato interpolato, successivamente, il n. 19, in quanto il senso del precedente non stava affatto nell'indicare a Pietro la sua prossima morte da martire. Alcuni esegeti hanno sostenuto che quando questo racconto è stato scritto, Pietro era già morto. In realtà ciò è marginale. La sostanza sta nel fatto che il suo tradimento aveva avuto conseguenze ch'egli non aveva previsto.

La comunità di Giovanni doveva detestare profondamente Pietro, ma non poteva dirlo espressamente, in quanto la versione della tomba vuota da intendersi come “resurrezione”, ch'egli aveva elaborato, era risultata maggioritaria. L'impossibilità di parlare è ben visibile p. es. nei versetti 13 e 14, là dove si trasforma una semplice “colazione” a base di pesce in un vero e proprio “sacramento eucaristico”, con tanto di distribuzione equa di pani e pesci da parte di Gesù. Al v. 14 gli interpolatori hanno tenuto a precisare che l'intera pericope non voleva essere una metafora, ma proprio un racconto realistico, in cui per la terza volta si parlava di un fatto realmente accaduto: Gesù era risorto (che era la tesi di Pietro) e apparso ai suoi discepoli (la tesi di Paolo, che Pietro nel vangelo di Marco non aveva avuto l'ardire di sostenere, anche perché l'avrebbero facilmente smentito).

Un altro aspetto censorio lo si vede proprio nel genere letterario usato, che è del tutto indiretto, quasi favolistico. I redattori non hanno potuto essere espliciti nel sottolineare la profonda diversità che separava Giovanni da Pietro. Persino l'elenco dei sette apostoli, al v. 2, deve essere stato manipolato, in quanto i figli di Zebedeo sono stati messi quasi per ultimi, come se fossero stati poco significativi. Si può addirittura pensare che il manipolatore abbia voluto far credere che il discepolo prediletto poteva essere anche uno dei due del tutto anonimi, in fondo all'elenco.

III

Decisivo, in questo racconto, è in realtà il v. 18, poiché in esso è delineato tutto il percorso “revisionistico” o “involutivo” di Pietro, dopo la morte di Gesù. Da giovane Pietro era stato un galileo rivoluzionario (forse uno zelote), ma, ad un certo punto, aveva deciso di mettersi nelle mani di uno più capace di lui, il quale però portò il tradimento di Pietro a conseguenze estreme, quelle più tragiche per il destino di Israele nella sua lotta contro Roma: chi trasformerà definitivamente il Cristo liberatore in un Figlio di Dio redentore dell'umanità? Chi fu quell'“altro” (v. 18) che “condurrà” Pietro dove non avrebbe voluto, pur essendo stato proprio Pietro a iniziare l'opera di falsificazione (con la tesi della resurrezione e della parusia imminente del Cristo)?

Chi è dunque questa seconda persona, più scaltra di Pietro, maggiormente dotata sul piano intellettuale, che si servirà delle sue idee di resurrezione e di parusia imminente per giungere a conclusioni ch'egli stesso non avrebbe potuto immaginare? Questa persona non può essere che Paolo di Tarso, il quale non si limitò a sostenere che Pietro aveva ragione, parlando di “resurrezione” (anche i farisei, in maniera autonoma e polemizzando coi sadducei, avevano cominciato a credervi, seppure in maniera confusa), ma arrivò addirittura ad affermare che Gesù era l'unigenito Figlio di Dio, morto per riconciliare il genere umano col proprio Creatore, e destinato a ritornare, per compiere il giudizio universale, solo alla fine dei tempi.

Perché mai Pietro, quand'era giovane, non riusciva ad accettare questa interpretazione così spiritualistica della tomba vuota? Semplicemente perché, quando parlava di “resurrezione”, egli la associava a una immediata (o imminente) parusia trionfale del Cristo: non avrebbe mai fatto, attorno a questo suo tema, delle riflessioni teologiche come quelle paoline. Pietro voleva la liberazione della Palestina dai Romani e dalla casta sacerdotale corrotta. Non gli interessava il “regno dei cieli” o la guerra contro i principati e le potestà dell'aria, come diceva Paolo. Ecco perché Pietro non sa riconoscere il tipo di Cristo risorto che Paolo ha inventato.

Sembra che qui Giovanni voglia ricordarsi di un compagno di lotta che, col passare degli anni, aveva smesso di lottare, lasciandosi sopraffare dalle tesi politicamente regressive di Paolo. Ecco perché a Gesù vien attribuita la parte di chi è costretto a chiedere per ben tre volte a Pietro se lo ami davvero (il riferimento al triplice rinnegamento è ovvio). Naturalmente il testo non può arrivare a dire che Paolo riuscì a strumentalizzare le idee di Pietro; non può farlo non tanto perché i redattori non possono negare una linea di continuità tra i due personaggi, quanto perché le idee di Pietro già contenevano, in nuce, qualcosa di sbagliato. Infatti l'idea di “resurrezione” fu usata da Pietro per rinunciare a compiere autonomamente l'insurrezione antiromana, cioè per attendere, più o meno passivamente, il ritorno trionfale di Gesù. Pietro aveva usato delle considerazioni mistiche, benché non così sofisticate come quelle paoline, per mistificare la strategia politica del Cristo.

Al v. 20,19 avevamo già visto che i discepoli temevano la ritorsione dei Giudei e se ne stavano chiusi in casa. Con la sua tesi sulla resurrezione Pietro aveva voluto cercare un compromesso con l'ambiente giudaico; prevalendo sulle istanze politiche degli altri apostoli, aveva portato il movimento nazareno alla definitiva sconfitta, ch'egli cercò di trasformare in una vittoria semplicemente religiosa sul giudaismo. Un esegeta confessionale dirà che la richiesta, da parte di Gesù, di una nuova sequela era relativa al fatto che in Pietro gli addentellati di tipo ebraico erano rimasti troppo prevalenti rispetto a quelli di Paolo. Lo stesso Giovanni viene fatto passare per un apostolo che si era completamente emancipato dal proprio giudaismo. I redattori infatti scrivono che lui fu il primo a riconoscerlo come “Signore”: un titolo che nell'Antico Testamento veniva attribuito solo a Jahvè. Come se Pietro non vedesse o per un certo tempo non avesse visto in Gesù il “Signore”, ma solo un “uomo speciale”, cui Dio aveva riservato il privilegio di risorgere da morte (di risorgere anticipatamente rispetto al destino che riguarderà l'intero genere umano). Infatti sarà soltanto Paolo a parlare esplicitamente di “natura divina” del Cristo, analoga a quella del Padre.

Tuttavia il fatto che qui i redattori affermino che Giovanni lo riconobbe come “Signore” potrebbe anche essere interpretato in maniera ateistica, nel senso ch'egli, più che ritenere Gesù di natura divina, analoga a quella del Padre, semplicemente gli attribuiva una natura tale per cui non era necessario credere nell'esistenza di un Dio diverso da lui. Detto altrimenti: se Gesù aveva una natura divina, rivelatasi solo al momento della morte, allora anche gli uomini dovrebbero averla, visto che lui, quand'era in vita, si comportava esattamente come loro. Se questa interpretazione è giusta, allora è anche possibile sostenere che la richiesta che Gesù rivolge a Pietro di seguirlo una seconda volta, può essere interpretata come un invito a imparare meglio la strategia politica di tipo rivoluzionario.

IV

Il cap. 21, a partire dal v. 20, si conclude parlando del destino di Giovanni. I redattori si vantano d'aver avuto lui come fonte privilegiata per scrivere il vangelo, eppure non hanno fatto altro che mistificare le cose. Persino questo capitolo, concentrandosi sul Gesù risorto, è una manipolazione di ciò che Giovanni pensava di Pietro. Per dire le cose di questo capitolo non c'era bisogno d'inventarsi una scena così fantastica come la pesca miracolosa. Se la “testimonianza” di Giovanni “è vera” (v. 24), di sicuro non è quella riportata in questo vangelo, se non in alcune parti non manomesse.

L'ultimo versetto enigmatico da far notare è il 22, ove Gesù risponde a Pietro, il quale gli aveva chiesto che fine avrebbe fatto Giovanni: “Se voglio ch'egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi”. Molti esegeti hanno ipotizzato che in questo capitolo sia stata descritta la morte di Pietro e che Giovanni gli sia sopravvissuto. In realtà viene descritta anche la morte di Giovanni. Infatti il v. 23 recita così: “Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te?”.176

È evidente che per manomettere impunemente un vangelo del genere, il suo autore doveva essere già morto. Ma perché, visto che delle idee di Giovanni han fatto ciò che han voluto, si sono sentiti in dovere di far dire a Gesù quella strana frase? Una motivazione può essere proprio quella che abbiamo già detto: la comunità di questi redattori è di origine giudaica e, per quanto abbia accettato la teologia paolina, vuole differenziarsene, e mal sopporta uno stretto contatto coi cristiani di origine galilaica o pagana. Tale comunità ritiene che la testimonianza di Giovanni sia più vera di quella dei Sinottici, ma non può affermarlo esplicitamente, perché ormai il cristianesimo, nelle sue linee essenziali, è diventato abbastanza omogeneo e, se si vuole continuare a farne parte, bisogna, in un certo senso, autocensurarsi.

I discepoli di Giovanni Zebedeo si erano resi conto della sua superiorità rispetto a Pietro e a Paolo: ecco perché fanno dire a Gesù ch'egli sarebbe rimasto fino al suo ritorno. Tuttavia - e qui sta una nuova mistificazione - la maniera in cui fanno sembrare Giovanni superiore rispetto a Pietro è proprio quella di chi è in grado di riconoscere meglio il “Cristo risorto”. Essi quindi lasciano pensare che Giovanni aveva accettato non solo l'idea petrina relativa alla resurrezione, ma anche quella paolina relativa alla figliolanza divina del Cristo e al suo ritorno apocalittico. Sembra quindi che la differenza tra Giovanni e Paolo fosse minima, quando invece non era così, non lo era mai stato.

Insomma i versetti 20-23 indicano che spettava a Giovanni proseguire il messaggio autentico del Cristo, non a Pietro, il quale anzi deve ora di nuovo imparare la sequela. Il v. 20 è addirittura ironico, in quanto il redattore, presentando Giovanni come colui che nell'ultima cena aveva chiesto a Gesù chi lo stava tradendo, lascia intendere che l'apostolo non solo aveva intuito che il traditore sarebbe stato Giuda, ma aveva anche capito che, dopo la morte del Cristo, il tradimento di Pietro era stato ancora più grave.

Il redattore infatti ha voluto concludere il vangelo dicendo che l'istanza rivoluzionaria, rappresentata da Giovanni, non può venir meno, nonostante tutti i tradimenti di Giuda, di Pietro e di Paolo, anche perché il destino dell'umanità dipende solo da chi lotta per affermare verità, libertà e giustizia.

La censura su questo apostolo fu così forte, nonostante la sua grandezza, che neppure una volta il suo nome viene ricordato in tutto il IV vangelo. “Il discepolo che Gesù amava” viene fatto passare per un enigma. La frase detta da Gesù: “Se voglio che rimanga finché io venga, che t'importa?”, stava forse a indicare che l'istanza di liberazione che aveva mosso Giovanni era stata più forte e più coerente di quella di Pietro e meritava di durare sino alla fine dei tempi, e un tipo come Pietro (che qui rappresenta la Chiesa istituzionale) avrebbe dovuto smettere di considerarsi autorizzato a fagocitarla o a ridimensionarla o a inserirla nei propri schemi interpretativi.

Doveva essere stata una terribile sofferenza, per i discepoli di Giovanni, non poter sostenere che dietro l'espressione “discepolo prediletto” si celava proprio il loro maestro.

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Appendici

33.1) Il Cristo folle del IV vangelo

La domanda cruciale, cui si vuol cercare di rispondere, senza avere le specifiche competenze esegetiche e filologiche per farlo, è la seguente: perché nel IV vangelo i redattori fanno parlare Gesù come se fosse un pazzo, cioè come se le sue parole non avrebbero potuto essere assolutamente condivise? Per quale motivo egli si pone spesso in un modo così assurdo e presuntuoso da rendere inevitabile una reazione di forte ripulsa da parte degli interlocutori?

Gli esempi, in tal senso, si sprecano e non serve citarli tutti per dimostrare la verità di ciò che si sostiene. È sufficiente prenderne qualcuno a caso. “Vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo” (1,51), così si rivolge ad alcuni ex-discepoli del Battista, appena aggregatisi a lui; e siamo solo agli inizi del vangelo!

“Nessuno è salito in cielo se non colui che è disceso dal cielo: il Figlio dell'uomo che è nel cielo” (3,13), dice a Nicodemo, che l'ha incontrato per la prima volta e che, fino al v. 21, dovrà ascoltare cose che non potrà capire in alcuna maniera.

Più avanti, per giustificare la violazione del sabato, si rivolge ai Giudei dicendo: “Il Padre mio opera fino ad ora, e anch'io opero” (5,17). Poi, fino al v. 47, presume d'identificarsi nettamente con Dio, che chiama “suo Padre”: cosa per cui avrebbe meritato d'essere lapidato molto più che non per aver violato il sabato.

In altre parole, quando viene posto di fronte a una reazione sdegnata, da parte dei Giudei, a motivo delle giustificazioni, per loro inaccettabili, da lui addotte per motivare il rifiuto del precetto del sabato (o dell'interpretazione restrittiva che col tempo se n'era data), egli fa valere nuove giustificazioni ancor meno accettabili delle precedenti. In pratica era come se avesse detto: “Violo il sabato non solo per fare il bene quando e come mi pare, ma perché, al mio posto, mio Padre farebbe la stessa cosa; infatti ho appreso da lui come regolarmi in casi del genere, ed è lui che mi autorizza ad agire così”.

Tra Gesù e i Giudei non vi è alcuna possibilità di dialogo, anche perché lui si presenta sempre come l'unica “via, verità e vita” (14,6) per chi ricerca la salvezza, mentre tutti gli altri, se non credono in questo dato di fatto, sono destinati alla perdizione.

La parola “Giudei” è spesso usata come una categoria metapolitica, che racchiude una sorta di massa dannata con vocazione autodistruttiva. Infatti è soprattutto a loro, più che ai Romani, che viene addebitata la decisione di far morire Gesù: loro che avrebbero potuto vincere Roma, se solo avessero voluto...

Eppure gli autori di questo vangelo (ricco di semitismi e di particolari geo-storici che non si trovano nei Sinottici) sono sicuramente cristiani di origine giudaica: sanno il greco koinè alla perfezione e sicuramente conoscono la filosofia greca ed ellenistica.

Essi non vogliono più avere a che fare con nessun aspetto dell'ebraismo, anche se del giudaismo stricto sensu sembra che abbiano ereditato una specie di fanatismo alla rovescia, ben visibile laddove fanno parlare Gesù con toni marcatamente antisemitici. Egli infatti, nel rapporto con la sua popolazione, si sente un vincente in maniera aprioristica: non accetta la morte con rassegnazione, come nei Sinottici, per fare la volontà del Padre, ma con convinzione, proprio perché vuol dare per scontato che sulla Terra non è possibile tornare all'eden originario. Tutto viene rimandato all'aldilà, dove sarà lui a comandare. Accetta quindi di morire per dimostrare che l'uomo, da solo, non è in grado di salvarsi e che, non per questo, è destinato alla disperazione.

Tutto il forte misticismo di questo vangelo è usato, sino alla fine, per negare l'ateismo del Cristo e soprattutto l'esigenza di una rivoluzione politica anti-romana. È quindi inutile proseguire con gli esempi: chiunque voglia calarsi un minimo nella storicità di quei dialoghi, che sono più che altro delle auto-dichiarazioni, in cui l'interlocutore svolge soltanto la parte della persona incredula o ignorante, secondo uno stile non molto diverso da quello dei dialoghi platonici, si può rendere conto da sé di quanto essi siano completamente inventati.

Il problema infatti non sta nell'individuarli, cercando di estrapolare gli elementi storici di una certa attendibilità. Un Cristo del genere non solo non avrebbe potuto essere capito dai suoi avversari politici e ideologici, ma neppure dai suoi sostenitori. Infatti egli non si presenta come un leader che cerca coi propri interlocutori un dialogo costruttivo ai fini di una liberazione dal nemico in patria: gli oppressori Romani e i collaborazionisti di religione ebraica. Il Cristo del IV vangelo cerca solo di dimostrare che il giudaismo soffre di una “malattia mortale”, dalla quale, con le proprie forze, non può assolutamente guarire. Se qualcuno riesce a salvarsi (p. es. Lazzaro, le sue sorelle Marta e Maria, il Battista, Giuseppe d'Arimatea, ecc.), può farlo solo a titolo individuale, come eccezione alla regola.

Il vero problema esegetico quindi è un altro, e cioè: perché i redattori di questo vangelo hanno avvertito il bisogno di far parlare Gesù in maniera così assurda? Qui le spiegazioni che si possono dare non sono ovviamente facili ed è inutile andarle a cercare nei testi ermeneutici confessionali. Proviamo ad azzardarne qualcuna.

Noi ci siamo sempre immaginati un Cristo ateo, al pari di Socrate, Buddha, Confucio e vari filosofi greci della natura, esistiti almeno 500 anni prima di lui. Che senso ha farlo parlare in una maniera così radicalmente “teistica”, come neppure nel vangelo di Marco, nettamente influenzato dalla teologia paolina, viene fatto? Inoltre la cosa stupefacente è che si tende a non usare mai il titolo di “Figlio di Dio”, scelto da Paolo per indicare la natura divina del Cristo, ma sempre quello di “figlio dell'uomo”, che nel vangelo di Marco non rimanda così esplicitamente a una “natura divina” del Cristo: semmai a una “personalità divina”, di tipo assolutamente eccezionale.

Al cospetto degli ebrei egli sarebbe parso blasfemo o sommamente eretico, meritevole di morte, non solo se avesse negato l'esistenza di Dio, ma anche se si fosse identificato completamente con la divinità. In entrambi i casi sarebbe stata una manifestazione di ateismo. Questo lascia pensare che il suo modo di parlare non poteva essere così diretto ed esplicito, né in un senso né nell'altro. In un contesto geografico così fanaticamente religioso, come quello della Palestina d'allora, sarebbe stato impossibile servirsi dell'ateismo per realizzare un consenso politico con cui cacciare le legioni romane, che miravano non solo a estorcere tributi, ma anche a far valere la loro religione pagana.

Meno ancora avrebbe avuto senso, in una tradizione culturale abituata a considerare la divinità come qualcosa del tutto irrappresentabile e persino indicibile, far mostra di sé come “Figlio unigenito” di un Dio-padre. Se gli autori di questo vangelo volevano perorare la causa di un Cristo ateo, bisogna dire che l'hanno fatto nella maniera peggiore.

Tuttavia le cose non sono così semplici e una parola in più forse è bene spenderla. Infatti, mentre per gli ebrei Jahvè era qualcosa di “totalmente altro”, viceversa per il Cristo del IV vangelo la parola Dio sembra essere soltanto un ideale, non più grande dell'uomo che lo pensa. Non appare più come un'entità astratta, ma come una persona umana in quanto “Padre”. Qui sembra imporsi una considerazione del genere: se Dio è tutto ciò che non è, allora Dio non è, ma se è, è come l'uomo, è umano. “Tutti gli uomini sono dèi” (10,33), dirà ai Giudei che si scandalizzavano del suo ateismo.

Forse di fronte a un popolo integralista come quello, l'unico modo per palesare il proprio ateismo era quello d'identificarsi direttamente e personalmente con Dio, al punto che qui il fatto che Gesù parli continuamente del suo “Padre celeste” va visto in una chiave anti-ecclesiastica, sicuramente anticlericale, poiché egli non si confronta mai con esponenti del clero.

Equipararsi a Dio in maniera così univoca veniva considerato sommamente blasfemo dal clero, un reato paragonabile alla bestemmia e quindi passibile di sentenza capitale. Nel vangelo di Marco (14,63 s.) è lo stesso sommo sacerdote Caifa a dire che Gesù si condanna da solo, per cui la giuria non ha bisogno di testimoni.

Qui però chiudiamo questa parentesi interpretativa, in quanto non la riteniamo sufficientemente fondata, non solo perché sarebbe stata una scelta forzata quella d'equipararsi a Dio invece di negargli qualunque esistenza, ma anche perché ai fini della liberazione nazionale la questione religiosa sarebbe stata irrilevante, come già egli aveva fatto capire nel dialogo coi Samaritani, dopo l'epurazione del Tempio. I Sinottici hanno usato la stretta identificazione semplicemente per dimostrare che il Cristo non era stato giustiziato per motivi politici ma per motivi religiosi. “Il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: 'Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto? Gesù rispose: 'Io lo sono! E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo” (Mc 14,61 s.).

Dobbiamo quindi tornare alla domanda di partenza: per quale motivo in questo vangelo Gesù è stato fatto parlare in maniera così folle? Qui dobbiamo pensare che i redattori abbiano avuto motivazioni particolari, che esulano del tutto dai fatti raccontati e che invece vanno cercati, per così dire, tra le righe.

La cosa però si fa complessa, poiché qui si ha a che fare con autori giudeo-cristiani il cui vangelo (che sicuramente ha subìto successive modificazioni) è stato considerato meritevole di canonizzazione. In tal senso possiamo anche non escludere che questi autori fossero inizialmente convinti dell'ateismo del Cristo e del carattere rivoluzionario del suo messaggio, e che poi, dopo l'affermazione definitiva del cristianesimo paolino, abbiano operato una certa revisione ideologica, che permettesse loro d'essere reintegrati nella Chiesa primitiva, dalla quale solo un aspetto non li divideva: si riteneva che nella tomba acquistata da Giuseppe d'Arimatea il corpo di Gesù fosse scomparso in maniera inspiegabile.

Gli autori di questo vangelo appartengono probabilmente a una comunità fondata dall'apostolo Giovanni, i quali, sino alla stesura del testo, si sentivano in competizione con la teologia di Pietro e soprattutto di Paolo, che si erano serviti del concetto di “resurrezione” per negare l'esigenza di una liberazione politico-nazionale dal dominio romano e per affermare un'interpretazione mistica della natura o della personalità del Nazareno.

Dunque, che operazione culturale avrebbero fatto questi autori filo-giovanniti? Il revisionismo sarebbe consistito in questo: trasformare l'ateismo del Cristo in una maschera così radicalmente teistica da sembrare folle. L'operazione sarebbe stata accettata dalla Chiesa paolina, in quanto, nel momento in cui la si era messa per iscritto, tutti i credenti davano per scontata la natura divina di Gesù e quindi la necessità di rinunciare definitivamente alla rivoluzione contro Roma. D'altra parte la generazione che l'aveva conosciuto personalmente non esisteva più e non sarebbe stata in grado di smentire questa versione dei fatti. Gli stessi Sinottici già avevano potuto beneficiare, con le loro invenzioni e mistificazioni, di questo vantaggio.

Il primo a spoliticizzare e destoricizzare completamente Gesù era stato Paolo di Tarso. Qui, nel IV vangelo, non si faceva che confermare, portandola all'eccesso, tale scelta di campo. In questa maniera però i monaci redattori potevano sperare di conservare alcuni racconti o interpretazioni di episodi non esattamente in linea con la versione sinottica della vicenda di Gesù. Anche questi racconti, naturalmente, sono stati in seguito manipolati e riscritti; cionondimeno essi conservano tracce importanti che ci aiutano a capire le contraddizioni dei Sinottici (p.es. le versioni date all'epurazione del Tempio, alla moltiplicazione dei pani, all'ingresso trionfale a Gerusalemme, ecc., risultano alquanto diverse).

Quel che è certo è che questa identificazione perentoria che Cristo fa con un Dio chiamato Padre, senza mediazioni di alcun tipo, lascia pensare che gli autori di questo vangelo abbiano vissuto un'esistenza piuttosto autonoma dalla Chiesa petro-paolina. Ed essi, pur non potendo criticare direttamente Paolo, in quanto chiedevano d'essere reintegrati nelle comunità da lui fondate, non hanno scrupoli nel criticare Pietro.177 Anzi, al v. 21,18 lasciano intendere ch'egli, a causa delle sue decisioni sbagliate, sarà costretto a cedere il passo a uno (e qui bisogna pensare a Paolo) che si sarebbe comportato peggio di lui.

Insomma in questo vangelo si è in presenza di una sorta di compromesso, abbastanza vergognoso, tra la corrente giovannea, risultata sconfitta, e quella paolina, risultata vincente.

Le idee teologiche di questo vangelo sono più avanzate di quello di Pietro e di Paolo, ma restano ugualmente recessive, cioè illusorie, proprio in quanto mistiche, caratterizzate dalla rassegnazione sui destini del mondo. Sono avanzate perché fanno di Dio una semplice proiezione dell'uomo Gesù, ma sono recessive perché presumono un'esperienza socio-religiosa isolata dal mondo, autoreferenziale, completamente autogestita, quale appunto quella di tipo monastico. La quale però - e ciò è davvero singolare - risulta essere priva di sacramenti (non viene detto che Gesù, nell'ultima cena, istituisce l'eucarestia: semplicemente si limita alla lavanda dei piedi); non vi sono pratiche cultuali o liturgiche, non esistono gerarchie sacerdotali, né si fa alcuna differenza tra laico e chierico.

Questi redattori monaci vivono come “comunisti”, imitando gli Esseni di Qûmran. Anzi fanno dire a Gesù, durante l'ultima cena, una cosa a dir poco inconsueta: “Vi do un comandamento nuovo: amatevi l'un l'altro”. Dove stava la “novità” di questo comandamento? Anche gli ebrei dicevano la stessa cosa. Nel vangelo di Marco (12,32 s.) vi è un episodio in cui Cristo elogia un rabbino per aver detto che l'amore reciproco è il comandamento che riassume tutti gli altri della legge mosaica. Viene quindi da pensare che la “novità” qui vada intesa nel senso che non solo si doveva rinunciare alla lotta di liberazione politico-nazionale, ma anche alla costruzione teologica petro-paolina. Il cristianesimo cioè poteva essere vissuto, molto semplicemente, in una comunità monastica basata sull'autoconsumo, dove tutto fosse in comune, aiutandosi a vicenda.

In un contesto del genere la predicazione diventa inutile. Ci si può salvare anche senza essere esplicitamente cristiani. Infatti nel regno dei cieli vi sono “molte dimore” (Gv 14,2). L'universalismo è netto, ma non perché il cristiano deve avere in sé una vocazione missionaria. È intrinseco allo stesso messaggio di Cristo, il quale lo dimostrerà nel regno dei cieli. Questo significa che si può diventare cristiani, sulla Terra, a seconda di fortuite circostanze, indipendentemente dalla volontà umana. Una qualsiasi forzata conversione è contraria al principio dell'amore reciproco. Sino alla fine dei tempi ci si deve accontentare del Paraclito o Consolatore, che aiuterà gli uomini a sopportare le contraddizioni del mondo.

Il “mondo” qui appare come una categoria metafisica, che sta a indicare il “male in sé”, impossibilitato a trasformarsi in bene senza la grazia divina. Non vi possono essere rapporti con un “mondo” del genere, ove domina il “principe del male” (Gv 14,30): “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36), dirà Gesù a Pilato. Cristo viene presentato come un extraterrestre, sceso dai Cieli sulla Terra per dare agli uomini una parola di speranza: “Se anche non riuscite a raggiungere la beatitudine originaria, quella adamitica, non dovete disperare, perché potrete farlo alla fine dei tempi. L'unico modo di resistere alle tentazioni del mondo è quello dell'amore reciproco, fino al supremo sacrificio di sé, se necessario”.

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33.2) Gesù nazireo

Liberamente tratto dal vangelo di Giovanni, ove si narra la storia di un giudeo che aveva fatto il voto di nazireato, per il quale costringeva se stesso a portare barba e capelli lunghi, a non bere bevande inebrianti e a non avere rapporti sessuali finché il voto non fosse stato adempiuto. E il voto era quello di liberare tutta la Palestina dall'occupazione romana e dalla classe sacerdotale corrotta e collusa con l'invasore.

I

Presso il Giordano. Gesù e Giovanni Battista.

[Gesù] È inutile che continui a battezzare... Con tutti i discepoli che hai puoi tranquillamente cacciare i sadducei dal tempio. Anzi, possiamo farlo insieme.

[Giovanni] E dopo? Cosa facciamo dopo?

[Gesù] Dopo avremo un tempio gestito in maniera degna, senza speculazioni di sorta. I tuoi discepoli possono amministrarlo senza fare discriminazioni tra i fedeli, senza imporre tasse assurde. La popolazione è allo stremo e quelli fanno finta di nulla.

[Giovanni] E tu pensi che questo basterà per liberarsi dei romani? Qui ci vorrebbe una sollevazione di massa.

[Gesù] Certo, hai ragione, ma intanto avremo fatto il primo passo. Come facciamo a liberarci dei romani se l'istituzione più importante d'Israele è gestita da una classe corrotta e collusa con loro?

[Giovanni] Ci vogliono ben altre forze per vincere i romani. Dove le troviamo?

[Gesù] Le troviamo tra i galilei, i samaritani, gli idumei e vedrai che anche i farisei ci daranno una mano.

[Giovanni] Questo tuo ottimismo non mi convince. I samaritani se ne fregano della Giudea. Ci odiano così tanto che molti di loro si sono arruolati come ausiliari nelle legioni romane. Gli idumei non ci perdonano di averli giudaizzati con la forza. Quanto ai galilei, quelli hanno in testa solo la politica: ormai credono molto poco ai nostri valori religiosi, alle nostre tradizioni. Si sono ellenizzati troppo per i miei gusti. Non mi fido neppure dei farisei. Quelli si oppongono ai sadducei solo a parole. Al tempo di Erode il Grande erano più coerenti. Adesso sono soltanto degli opportunisti. Pensano di poter vivere di rendita politica solo perché una volta erano perseguitati.

[Gesù] Ma non ha senso che tu ti sia fatto tutti questi seguaci e non utilizzarli contro i sadducei. Ai romani penseremo dopo. Non possiamo far vedere che l'occupazione del tempio è in realtà diretta anche contro di loro. Facciamo un passo per volta. Dobbiamo allargare il consenso il più possibile.

[Giovanni] Ascoltami cugino: se i miei discepoli vogliono venire con te, non glielo impedirò. Ma non chiedere a me di fare una cosa che ritengo poco efficace ai fini della liberazione nazionale. Se anche il tempio lo gestissimo noi, i romani, prima o poi, ci costringerebbero a diventare come i sadducei. E poi io non ho pretese messianiche e neppure sacerdotali. Io sono soltanto un profeta che grida nel deserto. Al massimo posso denunciare Erode Antipa di aver violato la legge sposando la moglie di suo fratello. Ho solo lanciato un sasso, per far vedere che la misura è colma, ma altri dovranno raccoglierlo.

[Gesù] Va bene. Allora a pasqua ci provo io, e vediamo come va a finire. L'unica vera incognita sono i farisei, che dicono una cosa e ne fanno un'altra. Vediamo come reagiscono di fronte a un attacco esplicito contro il tempio.

[Giovanni] Attento che se fallisci non potrai rimanere in Giudea.

[Gesù] Stai attento anche te, perché se fallisco e tu resti in Giudea, verranno a cercare anche te. Lo sanno che siamo alleati.

[Giovanni] Gli Esseni mi proteggeranno.

II

Gesù e il fariseo Nicodemo in una casa privata, di notte.

[Gesù] Perché non avete partecipato all'occupazione del tempio? Con voi ce l'avremmo fatta. Avete visto quanti seguaci avevamo? Almeno la metà dei discepoli del Battista e non pochi zeloti galilei.

[Nicodemo] La maggioranza di noi non era convinta che l'occupazione sarebbe servita a smuovere davvero le acque.

[Gesù] E come pensavate di poterlo fare? Una qualche iniziativa bisognava pur prenderla.

[Nicodemo] L'iniziativa in sé l'abbiamo condivisa, ma ci sembrava ben poca cosa contro i romani. Se quelli fossero intervenuti, ci avrebbero ammazzati tutti.

[Gesù] Il tempio è gestito da una banda a delinquere, corrotta quanto mai e prona alla volontà di Roma. L'unico onesto in grado di gestirlo avrebbe potuto essere Giovanni, il figlio del sacerdote Zaccaria. E a me sono venuti a chiedere con quale autorità cacciavo i mercanti e i cambiavalute! Loro che hanno trasformato il tempio in una spelonca di ladri!

[Nicodemo] Queste cose le sappiamo anche noi, tant'è che abbiamo deciso di decentrare il culto in tante sinagoghe sparse un po' ovunque.

[Gesù] E voi pensate che questo possa bastare per togliere di mezzo una casta sacerdotale che pensa solo a se stessa? I sadducei sono la vergogna d'Israele. E poi come fai a dire che i romani ci avrebbero ammazzati tutti? L'intera popolazione d'Israele sa che i sadducei sono dei collaborazionisti. Da quando i romani hanno occupato la nostra nazione, sono loro che decidono chi deve fare il sommo sacerdote. La popolazione sarebbe insorta facilmente se avesse visto un partito forte come il vostro prendere una decisione con autorevolezza.

[Nicodemo] Quando tu eri appena nato noi avevamo già combattuto insieme ai galilei contro i romani e i loro burattini, come Erode il Grande, e cosa abbiamo ottenuto? Nulla di nulla. Quanti di noi sono stati condannati a morte? E i romani non hanno fatto altro che rafforzarsi. Secondo noi la soluzione migliore, al momento, è il compromesso, cercando di salvare il salvabile, in attesa di tempi migliori. Se difendiamo a spada tratta le nostre istituzioni e le nostre leggi, la popolazione sarà più propensa a seguirci. Purtroppo la gente è ancora molto passiva.

[Gesù] Sì, ma il primo passo chi lo deve fare? Il popolo va organizzato a compiere l'insurrezione. Non possiamo aspettare che insorga da solo. Siete voi che dovete porre delle iniziative forti, significative, che possano convincere che si può rischiare qualcosa di più.

[Nicodemo] Abbiamo appoggiato la rivolta di Giuda il Galileo contro Roma. Publio Quintilio Varo non solo crocifisse duemila rivoltosi, ma l'anno dopo la Giudea fu amministrata direttamente da Roma. Il governatore della Siria fece un censimento. Di nuovo Giuda si ribellò, sempre appoggiato da noi, e quella volta fu ucciso anche lui. Da allora andiamo coi piedi di piombo.

[Gesù] Non potete vivere di ricordi, con lo sguardo rivolto al passato. Se i romani vi vedono disposti al compromesso, penseranno che siete molto deboli e col tempo alzeranno la posta. E allora potrebbe essere troppo tardi. Bisognerebbe invece approfittare dei gravi problemi che hanno al loro interno, travagliati come sono dalle guerre civili. Non è vero che sono così forti come sembrano. Non sono forti loro, siamo deboli noi, e noi siamo deboli perché siamo divisi. Voi non potete monopolizzare il diritto alla resistenza.

III

Gesù, Giuda, Pietro e Tommaso, in una casa privata.

[Gesù] Adesso che i farisei hanno capito che facciamo sul serio e che abbiamo più seguaci del Battista, vogliono venire a parlamentare con noi. Non ci hanno appoggiato quando abbiamo cercato di occupare il tempio, e ora vengono a proporci una soluzione di compromesso. Andiamocene di qui. Abbiamo una dignità da difendere.

[Giuda] Secondo me quelli non vengono qui a parlamentare, ma a spiarci, perché vogliono denunciarci. E, conoscendoli, non molleranno la presa tanto facilmente.

[Pietro] Sì, ma dove andiamo? Non serve a niente costeggiare il Giordano per arrivare in Galilea: quelli ci raggiungono lo stesso e scopriranno come siamo organizzati.

[Gesù] Allora passeremo per la Samaria. Là non entreranno, visto che credono ancora che per restare ortodossi non bisogna frequentare gli eretici.

[Tommaso] E noi siamo andati a cercare un'intesa con un partito fanatico come questo?

[Gesù] Dobbiamo cercarla con chi c'è. Gli alleati si costruiscono strada facendo. Non possiamo certo fare l'insurrezione solo coi migliori.

IV

Gesù, l'apostolo Giovanni, la samaritana e un capo samaritano presso il pozzo di Giacobbe in Samaria.

[Gesù] Donna dacci da bere. Siamo profughi.

[Samaritana] Strano che un giudeo come te venga a chiedere da bere a me. Non lo sai che i samaritani non van d'accordo con voi?

[Gesù] Ti ho appena detto che siamo profughi. Abbiamo cercato di occupare il tempio per cacciare la casta sacerdotale, ma non ci siamo riusciti.

[Samaritana] Non ho capito cosa avete fatto. Vi siete convinti che siamo più seri noi dei giudei?

[Gesù] Non faccio questione di serietà. Lo vedi coi tuoi occhi: siamo un po' giudei e un po' galilei, e abbiamo capito una cosa: siccome i giudei non vogliono ripulire il tempio dalla corruzione, d'ora in poi considereremo il tempio un'istituzione come le altre.

[Samaritana] Quindi la nostra montagna sacra diventa importante come il vostro tempio? Stai scherzando? Quale giudeo direbbe mai una cosa del genere? Ti vedo con barba e capelli lunghi: cosa sei, un profeta nazireo?

[Giovanni] Vai a dire ai tuoi compaesani che per noi giudei e galilei non c'è più nessuna differenza tra il monte Garizim e il tempio di Gerusalemme. Abbiamo un obiettivo più grande da realizzare che non quello di decidere dove va pregato Jahvè.

[Samaritana] Vi faccio parlare con uno dei nostri capi.

[Capo samaritano] Abbiamo sentito quello che lei ha detto, ma vorremmo risentirlo da te, perché ci appare molto inverosimile.

[Gesù] E invece lo confermiamo. Anzi, siamo convinti che se vogliamo liberarci dai romani, l'atteggiamento nei confronti della fede religiosa è del tutto irrilevante.

[Capo samaritano] In che senso? Stai dicendo una cosa grossa.

[Gesù] Nel senso che insieme dovremmo liberarci dei romani e di chi è colluso politicamente con loro; dopodiché ognuno si pregherà il suo Dio dove e come vuole.

[Capo samaritano] Cioè vorresti porre fine ai primati storici, ai diritti di primogenitura che ogni popolazione della Palestina rivendica in materia di religione?

[Gesù] Proprio così. E se ci state iniziamo a organizzarci, perché qui non c'è più tempo da perdere. Il Battista l'hanno arrestato, e presto verrà anche il nostro turno, se non facciamo qualcosa prima.

[Capo samaritano] Se davvero avete in mente questo, non saremo certo noi a tirarci indietro.

V

Gesù e Pietro in una casa privata in Galilea.

[Gesù] Abbiamo fallito politicamente, ma non possiamo far credere ai giudei che ci siamo ritirati in buon ordine.

[Pietro] Fai attenzione, perché qui in Galilea sei abbastanza protetto, ma se vai in Giudea, siamo a rischio.

[Gesù] Andremo durante una festa, contando sull'appoggio dei giudei dell'altra volta. Voglio spiegare ai farisei che se col loro culto del sabato sperano di opporsi efficacemente ai romani, s'illudono.

[Pietro] Qui in Galilea l'abbiamo capito da un pezzo. A che serve farlo capire a quei fanatici? I farisei pensano che se i romani gli riconoscono dei privilegi del genere, saranno poi indotti a trattarli meglio, a considerarli diversi dagli altri popoli sottomessi. Quelli pensano che ottenere dei privilegi sia un segno di forza.

[Gesù] Queste cose le so anch'io, ma i farisei sono potenti e noi ancora no. Dobbiamo togliere loro un consenso immeritato.

[Pietro] E come pensi di farlo in casa loro?

[Gesù] Dobbiamo fare qualcosa di trasgressivo durante il sabato. Saliamo a Gerusalemme: là ci verrà in mente qualcosa.

VI

Gesù, l'apostolo Giovanni, due farisei e un uomo malato, a Gerusalemme, di sabato.

[Giovanni] Lo vedi quello, vicino alla piscina? Dicono che sia paralizzato da 38 anni, ma secondo me è uno che ci marcia. Vuol far la vittima del sistema, e così non ha mai lavorato, e si lamenta di tutti.

[Gesù] Lo vedo e cosa dovrei fare?

[Giovanni] Prova a convincerlo ad alzarsi dal suo lettuccio. Non c'è mai riuscito nessuno.

[Gesù, rivolto al malato] So che da molto tempo stai cercando di dimostrare che la società non funziona, lamentandoti che non ti aiuta nessuno. Non credi sia giunta l'ora di agire diversamente? Hai un po' di coraggio? Vuoi far vedere che se c'è la volontà, le cose possono anche cambiare?

[Il malato] Tu cosa mi proponi?

[Gesù] Ti propongo di violare palesemente il sabato e di vedere come i farisei reagiscono. Non ti preoccupare di quello che ti faranno, perché noi resteremo nascosti qui, e se quelli ti vorranno denunciare, glielo impediremo.

[Il malato] E cosa dovrei fare?

[Gesù] È semplice. Prendi il tuo lettuccio e cammina per quella via. Loro ti vedranno di sicuro, si fermeranno e ti faranno alcune domande. Tu rispondi con sicurezza, in tutta tranquillità. E se quelli insistono per sapere chi ti ha ordinato di portare il lettuccio di sabato, fai pure il mio nome. Mi prendo io la responsabilità.

[Primo fariseo, rivolto al malato] Che stai facendo con quel letto? Non sai che di sabato non si può lavorare?

[Il malato] Non sto lavorando. Un uomo mi ha detto che dovevo smettere di star lì a mendicare e che dovevo iniziare a cambiar vita.

[Secondo fariseo] E lo fai trasgredendo la legge?

[Il malato] Sì, perché lui mi ha dato speranza. Mi ha fatto capire che il bisogno che avevo di cambiare vita non può essere soddisfatto dalla legge e neppure dal potere delle istituzioni.

[Primo fariseo] E come si chiama quest'uomo?

[Il malato] Ha detto Gesù, ma ora non lo vedo. Era qui un momento fa.

[Secondo fariseo] Quest'uomo sta cominciando a esagerare. Prima cerca di occupare il tempio, ora manda all'aria il precetto del sabato. Si comporta in maniera blasfema, come un miscredente. Bisogna toglierlo di mezzo.

[Primo fariseo] E tu lascia lì il tuo letto e tornatene a casa.

[Gesù, rivolto al malato] Hai visto? Quelli non ti han fatto nulla. I farisei fan la voce grossa solo coi più deboli. Va' ora, racconta quello che hai visto.

VII

Gesù sul monte Tabor, in Galilea, con cinquemila seguaci, rappresentati da quattro di loro.

[Gesù] Siete tutti qui riuniti perché in questo momento il popolo più agguerrito contro Roma siete voi, o galilei, e non i giudei. E io, in quanto giudeo, me ne compiaccio. È da quando abbiamo fallito l'insurrezione contro il tempio che sono con voi, e da allora ne abbiamo fatta di strada. Non vi dovete sentire inferiori ai giudei; non dovete avvertire i samaritani come dei nemici. Se vogliamo vincere i romani dobbiamo stare uniti. Se riusciremo a occupare la fortezza Antonia, sarà facile occupare anche il tempio.

[Seguace n. 1] Hai ragione. E allora cosa aspettiamo? Siamo oltre cinquemila, possiamo armarci come vogliamo. La coorte romana ha solo seicento militari. Se marciamo su Gerusalemme, ce la possiamo fare.

[Gesù] Lo so, ce la possiamo fare. Possiamo vincere una battaglia anche senza i giudei, ma poi come vinceremo la guerra? Pensate che i romani non abbiano delle legioni da mandare per vendicare i loro morti?

[Seguace n. 2] Ascoltaci, o diventi re o noi ce ne andiamo. Se stiamo ad aspettare il consenso dei giudei, resteremo schiavi tutta la vita.

[Gesù] Non ho alcuna intenzione di diventare re. Non voglio mettere in piedi una nuova monarchia. Non voglio ripristinare il regno di Davide. L'insurrezione deve essere popolare. Possiamo vincere solo con la democrazia.

[Seguace n. 3] La democrazia verrà dopo. Ora dobbiamo imporre la monarchia, anzi la dittatura, e deve essere una dittatura galilaica. Vedrai che i giudei l'accetteranno quando avremo eliminato la coorte romana nella fortezza Antonia.

[Gesù] Vi sbagliate di grosso. I giudei non accetteranno mai di stare sottomessi a voi. Quelli non si sentono sottomessi neppure ai romani. Sono convinti di sentirsi tanto più liberi quanto più restano attaccati alle loro tradizioni. Se non facciamo un patto alla pari, quando arriveranno i rinforzi da Roma, vi lasceranno soli. È troppo rischioso. Non li conoscete come li conosco io.

[Seguace n. 4] Ci stai facendo perdere tempo. Non siamo venuti qui per non fare nulla. Ora veniamo a prenderti per farti diventare re.

[Gesù si nasconde sul monte.]

VIII

Gesù, Pietro, Giuda, Giacomo il Giusto a Cafarnao, in una casa privata.

[Pietro] Per Dio, ma cosa t'è saltato in mente di nasconderti? Sai quanto tempo ci abbiamo messo per radunare cinquemila rivoltosi? Sai quanta fatica? Abbiamo dovuto girare tutta la Galilea, abbandonare mogli e figli, rischiare d'essere arrestati da Erode Antipa. Erodiani e farisei ci odiano a morte. Pensano che stiamo aizzando i romani contro la Palestina. Sono convinti che stiamo peggiorando la situazione. E tu in quattro e quattr'otto hai mandato tutto all'aria!

[Gesù] Lo so, vi ho delusi. Se volete andarvene anche voi posso capirlo. Ma non potete chiedermi cose incompatibili con la mia strategia democratica. Senza i giudei possiamo vincere una battaglia, ma non la guerra contro Roma. La storia non vi insegna nulla? Anche nel passato vi siete ribellati senza cercare l'appoggio dei giudei, e cosa avete ottenuto? Le cose non sono forse peggiorate? I romani non hanno pietà di nessuno e sono maestri nel giocare sulle divisioni. Solo con la democrazia possiamo vincere, perché la democrazia i romani non la conoscono. Solo con l'unità dei popoli da loro soggiogati ce la faremo, perché è l'unità che gli imperatori temono di più. Se mi obbligate a diventare re, poi sarei costretto a fare cose contro la mia volontà e contro la volontà del popolo. Quindi è escluso. Dobbiamo realizzare l'unità di tutte le popolazioni ebraiche, altrimenti è meglio lasciar perdere. O noi diamo l'esempio di come si può reagire, o loro domineranno in eterno, perché dopo di loro verrà sicuramente qualcun altro.

[Giuda] Condivido quello che ha detto. Senza l'appoggio dei farisei non ce la faremo mai.

[Giacomo il Giusto] Ascolta Gesù, noi siamo tuoi parenti, giudei come te. Andiamo tutti a Gerusalemme. Facciamo capire a quelli che avevano accettato l'epurazione del tempio che sei in grado di avere un esercito di cinquemila galilei contro Roma. Vedrai che ci ascolteranno.

[Gesù] Non è così facile come sembra. Là mi cercano per farmi fuori. Per tutte le autorità sono un eretico e un sovversivo.

[Giacomo il Giusto] Va bene, tu resta qui. Ci andremo noi e prepareremo il terreno. Non è possibile che tu ti esponi solo in Galilea per timore dei giudei.

IX

Festa delle Capanne a Gerusalemme. Gesù, due popolani, un fariseo, una guardia del tempio, Nicodemo.

[Gesù, tra sé] Ho dei parenti assurdi. Mi chiedono di andare in Giudea a far proseliti, mostrando di non sapere che per me è molto rischioso. Per loro l'insurrezione è come un'avventura. Sono convinti, solo perché giudei, di avere più facilmente il favore dei loro connazionali. Sembrano non sapere che tutto è maledettamente difficile. Li ho lasciati andare da soli alla festa, ma ci andrò anch'io, di nascosto.

[Popolano n. 1] Ma insomma viene o non viene alla festa?

[Popolano n. 2] Se venisse avrebbe un bel coraggio. Sadducei e farisei vogliono arrestarlo.

[Popolano n. 1] E che male ha fatto? Se fa così tanta paura alle autorità vuol dire che ha ragione. Che i sadducei siano corrotti lo sanno tutti. Quanto al sabato, i farisei, con tutte le loro prescrizioni maniacali, ne han fatto un fardello insopportabile.

[Popolano n. 2] È un impostore. Non può sperare di liberarci dai romani contro le nostre tradizioni.

[Popolano n. 1] Ma eccolo, è là! Sta parlando al tempio. Andiamo a sentire cosa dice e se provano ad arrestarlo, lo difenderemo.

[Gesù] Ascoltatemi giudei, qui la situazione si fa seria. I galilei sono già pronti per insorgere contro Roma. Voi invece continuate a dire che per essere liberi, vi basta seguire la legge di Mosè. E non siete neppure coerenti. Ho detto a un uomo, malato da 38 anni, che doveva cambiare vita e mostrare di non aver paura di trasgredire il sabato portando con sé il suo lettuccio, e voi mi siete venuti a dire che il sabato non può essere trasgredito e che non dovevo convincere quell'uomo a diventare finalmente un uomo. Me l'avete detto proprio voi, che trasgredite il sabato quando il momento della circoncisione cade proprio in questo giorno. Io vi dico che non è rispettando il sabato o la circoncisione che ci libereremo dei romani e dei sacerdoti corrotti. Questo i galilei l'han capito. Voi riuscite a capirlo?

[Un fariseo] Guardie, arrestate quell'uomo!

[Una guardia] È impossibile, la folla lo protegge.

[Stesso fariseo] Cos'è, siete impazziti? Gli ha creduto forse qualcuno fra le autorità? qualche scriba o anziano o qualche levita?

[Nicodemo] Non capisco tutta questa acredine. Non sarebbe meglio parlamentare con lui invece che farcelo nemico? Molte delle cose che dice sono giuste.

[Stesso fariseo] Quello è andato a vivere in Galilea e si comporta come i galilei. Anche tu vuoi essere un galileo come loro? Dobbiamo farci dire da loro, che non rispettano la legge come noi, in che modo dobbiamo opporci ai romani? Se un messia deve venire a liberarci, potrà essere solo un giudeo ortodosso, non un rinnegato. Studia le Scritture!

X

Gesù e due farisei a Gerusalemme.

[Fariseo n. 1] Non puoi continuare a comportarti così. Stai scardinando tutto il sistema. Se la gente smette di credere nella legge e nelle istituzioni, per noi è finita. I romani non troveranno ostacoli di sorta.

[Gesù] Voi abituate la gente alla passività. Accettate solo quelli che la pensano come voi. Cacciate dalle sinagoghe i miei seguaci. Fate di me il vostro peggior nemico, quando invece lo sono i romani e i sadducei collaborazionisti. Perché vi comportate in maniera così assurda?

[Fariseo n. 2] Noi siamo figli di Abramo e abbiamo la legge di Mosè da rispettare. Non è vero che non lottiamo contro i romani e i sadducei, ma lo facciamo attraverso le sinagoghe, diffondendo la cultura e difendendo i valori del nostro popolo. Tu invece ti comporti come se non facessi parte della nostra nazione.

[Gesù] All'inizio discutevo anch'io nelle vostre sinagoghe, ma poi mi avete cacciato. Non c'è libertà di parola. Che democrazia avete nella testa se discutete soltanto con gente che la pensa come voi? E poi state a discutere di cose che non servono a liberarsi dai nemici della patria. I vostri precetti sui cibi, per esempio, a che servono? Pensate di cambiare le cose con le vostre regole di purità esteriore o andando a cercare nelle Scritture il tipo di messia che bisogna attendere? Pensate di poter smuovere il potere dei sadducei parlando di resurrezione dei morti? Perché continuate a fare le offerte al tempio? Indirettamente vi fate complici della loro corruzione.

[Fariseo n. 1] Tu parli come se Dio non esistesse. Non sai distinguere le istituzioni dalle persone che le gestiscono. Non ci piace questo tuo atteggiamento. Il messia, quando verrà, dovrà realizzare il regno di Dio, dove i sacerdoti avranno un ruolo importante. Il messia dovrà essere consacrato da loro, come è sempre stato nel passato. Sembra che a te non importi nulla delle nostre tradizioni.

[Gesù] Io vi dico soltanto che se aspettate la liberazione nazionale grazie ai sacerdoti, non la vedrete mai. Quella è una casta privilegiata: non potrebbe cambiare se stessa neppure se lo volesse. Gli uomini devono abituarsi ad agire autonomamente.

[Fariseo n. 2] Autonomi fino a che punto? Sembra che per te esista solo l'uomo.

[Gesù] E non vi basta? Cosa c'è di più grande dell'essere umano?

[Fariseo n. 2] Lo vedi che sei un indemoniato! Tu sei peggio dei samaritani. Vattene da qui, stai alla larga dalla Città Santa; anzi, esci dalla Giudea, se vuoi salvare la pelle.

XI

Gesù, l'apostolo Giovanni, Tommaso, Giuda, Marta, prima nel rifugio oltre il Giordano, poi a Betania di Giudea.

[Giovanni] C'è qui uno mandato dalle sorelle di Lazzaro. Dice che il tuo amico sta molto male. Ha tentato un'imboscata contro una truppa romana, ma ha avuto la peggio e ora sta morendo.

[Gesù] È venuto da solo? Potrebbe essere stato pedinato. Controllate per favore.

[Giovanni] Già fatto. È tutto a posto. Pochi sanno che siamo qui e non saremo così stupidi da rientrare in Giudea.

[Gesù] Lazzaro era un ottimo fariseo, uno dei migliori. Vuol dire che si stanno svegliando. Vogliono dimostrare di non essere inferiori a noi. Ma hanno voluto agire senza il nostro aiuto e ci hanno rimesso le penne. E ora che facciamo? Dovremmo approfittarne.

[Tommaso] Non vorrai andare a Betania? Se quelli ci vedono, ci fan fuori tutti.

[Gesù] Saremo prudenti. Staremo nei paraggi.

[Tommaso] Una parte di noi sarebbe meglio che restasse qui.

[Gesù] Va bene, andrò soltanto con Giacomo e Giovanni.

[Marta] Maria, mi hanno detto che è arrivato. E appena fuori dal villaggio e ci sta aspettando, ma è meglio che tu resti qui. Se ci muoviamo in due, la gente si insospettirà e ci seguiranno. Vado prima io.

[Gesù] Marta, era impossibile venire prima. Avremmo rischiato d'essere presi. Ma perché ha agito senza avvisarci?

[Marta] Era convinto di farcela. Gli sembrava una cosa facile. L'abbiamo sepolto quattro giorni fa.

[Gesù] Vedrai che ce la faremo. Rincuora la Maddalena. Dille di aver fiducia. Son venuti in molti a piangere il povero Lazzaro?

[Marta] Sì, in molti: la maggior parte son farisei.

[Gesù] Di' loro che si preparino. Questa volta marciamo sulla città. Vi voglio tutti armati. I farisei non hanno scelta: o con noi o contro di noi. Noi torniamo al rifugio. Ci rivediamo tra un mese. Dobbiamo avvisare i galilei di tenersi pronti. Attenzione a non fare passi falsi. State tutti molto attenti, perché tra i farisei venuti a piangere Lazzaro, ce ne saranno sicuramente alcuni che avviseranno i sadducei della nostra presenza.

[Giovanni] Sarebbe meglio mandare qualcuno a Gerusalemme, per vedere che intenzioni hanno i farisei.

[Giuda] Ci vado io. Tra qualche giorno vi faccio sapere.

XII

Preparativi per l'ingresso a Gerusalemme. Gesù, Giovanni, Giuda, Maria (sorella di Lazzaro) a Betania in Giudea.

[Giuda] Da quel che ho saputo il pontefice Caifa ha riunito il sinedrio e ha convinto una bella fetta di farisei che bisogna assolutamente farti fuori. Sono convinti che se ti lasciano fare, i romani occuperanno la città e non daranno scampo nessuno. Dobbiamo pensarci bene prima di agire. Senza la maggioranza dei farisei, secondo me non ce la faremo.

[Gesù] Hai ragione, ma per saperlo dobbiamo comunque agire. La Pasqua è vicina. I galilei stanno per arrivare. Dobbiamo predisporre con cura l'ingresso in città. Se i farisei si alleano con noi, faremo di Betania il simbolo della loro riscossa.

[Maria] Ti ringrazio d'essere tornato. Sapevo che non ci avresti abbandonato. Le idee di mio fratello devono risorgere, perché tutto il popolo giudeo le considerava giuste.

[Giuda] Cos'è questo profumo?

[Giovanni] È Maria, che ha cosparso i piedi di Gesù di nardo purissimo, come se fosse un messia vittorioso.

[Giuda] Che spreco! Se l'avessimo venduto, avremmo sfamato duecento poveri!

[Gesù] Guarda che il profumo era già destinato alla mia sepoltura, per cui non è stato tolto niente a nessuno. Io e Maria ci conosciamo da un pezzo.

[Giuda] Sì, ma ti ha profumato come un messia vittorioso, quando invece non siamo sicuri di nulla. Abbiamo bisogno dell'appoggio dei farisei.

[Gesù] Io direi che per organizzare l'ingresso possono bastare Giuda, le sorelle di Lazzaro e i figli di Zebedeo. Contattate i farisei a noi favorevoli e fate in modo che l'ingresso sia assolutamente pacifico.

[Giuda] In che senso? Non vorrai entrare in città disarmato?

[Gesù] No, voglio solo che non abbiano l'impressione che stiamo occupando la città con la forza. Niente cavalli, niente armi bene in vista. Dobbiamo sembrare dei pellegrini giunti per la Pasqua. Non siamo romani o erodiani. Voglio entrare in groppa a un asino e cercare un'intesa, per l'ultima volta, coi farisei, altrimenti ci baseremo sulle forze che abbiamo. Badate che, entrando così in massa, non potremo più tirarci indietro. Sappiatelo bene.

[Giovanni] Faremo in modo che vengano a stenderti i mantelli appena entriamo in città, così prenderemo le autorità alla sprovvista.

XIII

Gesù, Pietro, Giovanni, Giuda dentro Gerusalemme.

[Pietro] Per Dio, che ingresso trionfale! Migliaia di persone ti hanno esaltato! I romani della fortezza Antonia avranno tremato, per non parlare delle guardie del tempio.

[Giovanni] Sono venuti persino dei greci in città. Vogliono parlare con te, perché sono disposti ad appoggiarci dall'esterno, pur di cacciare i romani da tutta la regione.

[Giuda] I farisei più ottusi li vedo disperati, ma altri stanno cominciando a cambiare idea. Forse qualche speranza l'abbiamo.

[Pietro] Io dico che possiamo farcela anche senza di loro.

[Gesù] Lasciatemi fare al tempio un ultimo discorso. Devono capire che per fare un'insurrezione vittoriosa, ci vuole il consenso del popolo.

[Giovanni] Io e mio fratello penseremo al servizio d'ordine.

[Gesù] Popolo d'Israele, l'ultima volta abbiamo cercato di occupare il tempio per cacciare i sadducei corrotti e complici dell'oppressione romana, e non ce l'abbiamo fatta. Oggi siamo venuti per occupare la fortezza Antonia e per cacciare i romani dalla città e da tutta la Palestina. Vedete in quanti siamo, molti di più dell'altra volta: potremmo farcela tranquillamente. Ma siamo anche convinti che Roma manderà le sue legioni per riprendersi quanto avrà perduto. E questo, senza l'aiuto di tutti voi, non potremo impedirglielo. Se restiamo uniti, vinceremo. E se noi vinciamo, altre nazioni insorgeranno. Se gli ebrei dimostrano d'essere uniti e coraggiosi, tutti capiranno che non è il numero che conta, non è la grandezza di una nazione, ma l'unità indomita ch'essa sa esprimere. Abbiate dunque fiducia in voi stessi. Insorgete insieme a noi! Difendete il valore della libertà e dell'indipendenza nazionale!

XIV

Gesù, Pietro, Giovanni e Giuda nel Cenacolo.

[Gesù] Allora, cerchiamo di capire bene quel che dobbiamo fare. Questa notte ci giochiamo il tutto per tutto. La fortezza Antonia, il palazzo di Erode e il tempio vanno occupati contemporaneamente. Non voglio inutili spargimenti di sangue. Abbiamo la maggioranza. Se proponete la resa, l'accetteranno senza tante storie, soprattutto se gli assicurate che avranno salva la vita. Anzi, alle guardie del tempio garantite che se ci aiutano contro i romani, potranno anche tenersi le armi.

[Giovanni] I romani non sono più di seicento: se reagiscono, non hanno scampo. Si arrenderanno senza combattere. Pilato non è uno stupido: sa benissimo che nel giro di pochi mesi l'imperatore gli manderà almeno un paio di legioni.

[Giuda] Dobbiamo però capir bene su quanta parte del partito farisaico possiamo contare.

[Gesù] Su questo ti ho già detto che devi pensarci tu, che li conosci meglio di chiunque altro. Ma quello che devi fare fallo presto, perché se non sfruttiamo il favore della notte, avremo perduto l'occasione più grande della nostra vita.

[Pietro] Anche perché non possiamo sperare che, vedendoci deboli e incerti, ce la faranno passare liscia. La ritorsione sarà terribile.

[Giuda] Allora vado, speriamo bene.

XV

Gesù, Pietro, Giovanni, Malchos (luogotenente del pontefice Anania), dal Cenacolo al Getsemani, al buio.

[Giovanni] Ci sta mettendo troppo a tornare. Deve essere successo qualcosa.

[Gesù] Anche secondo me. State a vedere che s'è lasciato convincere dai suoi ex colleghi di partito che l'insurrezione è una follia. Avvisate tutti che ci rifugiamo nel Getsemani. Che nessuno accenda delle torce e che tutti stiano in silenzio.

[Pietro] Eccolo lo vedo. Ma non è solo! Ha portato con sé le guardie del tempio e i farisei!

[Gesù] Guarda meglio, ci sono anche i romani, tutta la coorte guidata dal tribuno. Ci ha traditi!

[Pietro] Maledetto, gliela farò pagare. Lo sapevo che non dovevamo fidarci di lui.

[Gesù] Chi cercate? Cosa siete venuti a fare? Avete voglia di morire?

[Malchos] Cerchiamo solo Gesù nazireo!

[Gesù] Sono qui, andatevene!

[Malchos] Vieni allo scoperto, fatti vedere!

[Gesù] Perché volete rischiare di morire?

[Malchos] Abbiamo la coorte romana con noi. Volete che faccia una strage?

[Gesù] Va bene, allora esco, ma lasciate andare i miei, altrimenti ci difenderemo e molti di voi moriranno.

[Pietro] Non farlo, ti uccideranno! Non ti fidare di quei bastardi!

[Malchos] Ah, maledetto! (Pietro cerca di spaccare la testa a Malchos, ma quello si scansa e ci rimette solo un orecchio.)

[Gesù] Che fai, pazzo! Vuoi farci ammazzare tutti? Riponi la spada nel fodero e scappate tutti. Se prendono solo me, non è detto che l'insurrezione fallisca. Sarà il popolo a decidere.

[Malchos] Presto, prendetelo e legatelo. Lo portiamo da Anania e poi da Caifa.

XVI

Gesù, Pietro, Giovanni, Anania, nella sua casa, di notte, con portinaia e guardia.

[Pietro] Fermati Giovanni, torniamo indietro. Non vorrai davvero lasciarlo solo?

[Giovanni] Han detto che lo portano dal pontefice Anania. Da giovane frequentavo i suoi ambienti. Forse riusciamo a vedere le cose da vicino.

[Pietro] Allora fammi strada. L'insurrezione è impossibile farla con la coorte allertata.

[Giovanni] Non lo so. Bisogna vedere come reagisce la gente. Ecco, quella è la casa del pontefice. Aspetta che ora chiamo la portinaia. Vediamo se fa entrare anche noi.

[Portinaia] Salve Giovanni, come va? Da tempo non ti vedo. Non dirmi nulla. Immagino tu voglia vedere l'interrogatorio.

[Giovanni] Sì, ma ho un amico fuori che non posso lasciare solo. Per favore fai entrare anche lui.

[Portinaia] Anche tu sei un seguace di Gesù?

[Pietro] Sono solo un amico di Giovanni, che mi ha chiesto di accompagnarlo.

[Portinaia] Allora mettiti là, al fuoco, con le guardie di Anania e tieni la bocca chiusa.

[Anania] Dimmi un po': davvero avevate intenzione di occupare la fortezza Antonia? E in quanti siete per poterlo fare?

[Gesù] Perché lo chiedi a me? Ieri ho parlato al tempio e quelli che erano lì potevi vederli coi tuoi occhi. Siamo pronti a liberare la Palestina dall'oppressione romana e tu mi chiedi che intenzioni ho? Mi avresti fatto la stessa domanda se fossi entrato con un esercito ben armato e avessi occupato la città con la violenza?

[Guardia] Così rispondi al sommo sacerdote? (e lo schiaffeggia)

[Gesù] Se ho detto qualcosa di sbagliato, perché mi percuoti? Ragiona con la tua testa!

[Anania] Basta così. Da questo non ricaviamo nulla. Non capisce che occupare la città con o senza esercito è comunque una follia. Portatelo da Caifa.

XVII

Pietro, un parente di Malchos, Giuda, un fariseo, nel cortile di Anania, di notte.

[Parente di Malchos] Mi sembra d'averti visto al Getsemani. Sicuro che anche tu non sia un discepolo del Nazireo?

[Pietro] Ti sbagli, non lo sono.

[Parente di Malchos] Dalla parlata che hai non sembri un giudeo.

[Pietro] Per Dio, come te lo debbo dire che non sono un suo seguace!

[Giuda] Lasciatelo andare, lui non c'entra nulla. Piuttosto, quando portate Gesù da Caifa [si rivolge a un fariseo], assicuratevi che non lo consegni ai romani. L'ho tradito solo per impedire che facesse qualcosa senza il vostro aiuto.

[Un fariseo] Caifa avrà sicuramente paura a tenerlo in prigione. La folla può sollevarsi. Potrebbero anche chiedere di avere un sommo sacerdote più onesto e fidato di lui. Vedrai che quello lo consegna a Pilato, magari anche solo per fare bella figura e chiedergli qualcosa in cambio.

[Giuda] Sì, ma così per me è finita. Passo per un traditore, non per un politico avveduto. Se gli apostoli mi vedono, mi uccidono.

[Un fariseo] E allora vattene da qui, non farti più vedere.

XVIII

Gesù, Pilato e Caifa, nel pretorio, di mattina presto.

[Pilato] Ti abbiamo preso finalmente! Era un po' che ti cercavamo. Devo ammettere che col tuo ingresso alle Palme ci hai fatto un po' paura.

[Gesù] Senza il tradimento di uno dei miei non ce l'avresti mai fatta.

[Pilato] Già, ora devo solo convincere questi fanatici a farti ammazzare.

[Gesù] Vediamo se sei così intelligente come dicono. Stai attento però che se sbagli, saranno loro a farti fuori.

[Pilato] Popolo d'Israele, ascoltate tutti: perché consegnate a me quest'uomo? Se fosse per noi pericoloso, l'avremmo preso per conto nostro. Giudicatelo voi!

[Caifa] Quest'uomo voleva occupare il tempio e pretende di diventare re d'Israele senza aver ricevuto alcun mandato. Destabilizza la nostra nazione, mina i rapporti pacifici che si sono instaurati tra noi e voi. Noi vogliamo essere garantiti nei nostri diritti e lui, col suo comportamento eversivo, li sta minacciando.

[Pilato] Non voglio prendere io una decisione in merito. Lasciamo che sia il popolo a farlo. Roma è a favore della democrazia.

[Caifa] Anche noi non faremmo mai nulla contro gli interessi del popolo.

[Pilato] Vi propongo di scegliere fra due prigionieri. In carcere ne abbiamo già tre, che proprio ieri hanno ucciso un romano. Sono destinati alla croce, però per farvi vedere che non ho nulla contro quest'uomo, che si fa chiamare il nazireo, vi propongo di scegliere se liberare lui o il più pericoloso dei tre zeloti. Dunque cosa decidete?

[Caifa] Non senti cosa chiede il popolo [che mormora, urla due nomi: Gesù e Barabba]? Libera dunque Barabba!

[Pilato] Bene, avete fatto la vostra scelta. Ora, per dimostrare che il vostro pretendente al trono non è per Cesare così pericoloso come sembra, lo punirò severamente e poi lo lascerò andare. [Chiama privatamente il tribuno] Riducetelo a brandelli, ma alla croce deve arrivare vivo. In caso contrario sarai tu a rimetterci. [Si sentono alcuni colpi di frusta.]

[Pilato] Ascolta popolo: il pretendente al trono, il vostro falso messia è qui, lo vedete. Cosa può fare un uomo ridotto in queste condizioni? Per noi è più che sufficiente: possiamo lasciarlo libero.

[Caifa] Via via governatore. Prima o poi si riprenderà e tornerà di nuovo a destabilizzare il sistema. Toglilo di mezzo! [Il popolo mormora, urla, ma meno di prima, comincia a demoralizzarsi.]

[Pilato] È tutta mattina che siamo qui. Una decisione bisogna prenderla, ma non sarò io a farlo. Voglio sentire il popolo.

[Caifa] Ma non senti cosa gridano? Crocifiggilo e finiamola qui! Piuttosto che un falso messia è meglio avere Cesare come re.

[Pilato] E allora sia fatta la vostra volontà. Non sarò certo io a oppormi.

[Caifa] Sì, ma non scrivere sulla croce “Il re d'Israele”, ma “Io sono il re d'Israele”.

[Pilato] Sulla croce scriverò il motivo per cui è stato condannato e nessuno potrà farmi cambiare idea.

XIX

Gesù, Caifa, Pilato e Giuseppe d'Arimatea, sia nel pretorio che ai piedi della croce.

[Gesù] Madre, d'ora in poi tuo figlio sarà Giovanni. Resta con lui. Se i miei discepoli vorranno fare l'insurrezione, dovranno fidarsi soprattutto di lui. Quanto a me, ho un'ultima cosa da fare: sciogliere il voto. Dammi da bere quel vino acetato che trovi lì. Ecco, ora è davvero finita: tutto quello che potevo fare, l'ho fatto.

[Caifa] Ascolta Pilato. Durante la pasqua non è possibile tenere dei crocifissi intorno alla città. Accorcia la loro agonia e seppelliscili in una fossa comune.

[Pilato] Non c'è problema. Ti ho mai negato qualcosa?

[Giuseppe] Ascolta Pilato. Ti chiedo il corpo di Gesù. Vorrei metterlo nel mio sepolcro. Mi concedi questo favore?

[Pilato] Non ho obiezioni, ma fai attenzione a non seguire le orme di quel disgraziato.

[Giuseppe] Toglietegli quella corona di spine. Guardate come l'hanno ridotto! La pagheranno cara, sia Caifa che Pilato. Ma ora si è fatto tardi. Non abbiamo più tempo per una sepoltura regolare. Se ci vedono, potremmo avere delle noie. La faremo quando sarà passato il sabato. Prendete quel lenzuolo e quei legacci. Lo avvolgiamo così com'è. Chiudete l'uscio. Non c'è bisogno che nessuno resti di guardia.

XX

Maria e sua sorella Marta, Pietro e Giovanni, al sepolcro.

[Marta] Senti Maria, ma non è rischioso farci vedere davanti al sepolcro dove l'hanno messo? Frequentando i sepolcri in un giorno proibito, ci scambieranno per sue discepole e ce la faranno pagare.

[Maria] A quest'ora non ci vedrà nessuno, stai tranquilla. L'hanno seppellito in tutta fretta per rispettare il sabato, quando lui mille volte aveva detto di smetterla con queste fissazioni. Lasciami piangere sulla sua tomba perché sono maledettamente pentita d'averlo indotto a vendicare Lazzaro. Lo sai ch'ero innamorata di lui e se non avesse fatto il voto di nazireato, avrei fatto di tutto per sposarlo.

[Marta] Mi sa che piangerai per nulla. Qui non c'è nessuno. Vieni a vedere.

[Maria] Cosa dici? Sei matta?

[Marta] Guarda coi tuoi occhi. Stanotte sono venuti a rubare la salma.

[Maria] Ma è pazzesco. Per farne cosa? Dobbiamo avvisare subito Pietro e Giovanni.

[Pietro] Ma cosa state dicendo? Non è possibile!

[Maria] Giovanni porta con te Pietro, fagli vedere se quello che diciamo è vero.

[Giovanni] Dai Pietro corriamo!

[Pietro] Aspettami!

[Giovanni] Hanno ragione.

[Pietro] Ma che senso ha rubare il corpo d'un morto? Pensavano che avremmo fatto di questa tomba un luogo di culto?

[Giovanni] Guarda per terra. Ci sono le bende che tenevano legato il lenzuolo. Guarda là, c'è anche il lenzuolo ripiegato su se stesso.

[Pietro] Che senso ha rubare un corpo nudo, tutto sporco di sangue e lasciare il lenzuolo ripiegato da una parte? Tu ci capisci qualcosa?

[Giovanni] Io capisco soltanto che qui è avvenuto qualcosa di strano, che non riesco a spiegarmi. Dai un'occhiata al lenzuolo. Che razza di macchie sono queste? Ti sembrano normali? Come diavolo si sono formate?

[Pietro] Giovanni stammi a sentire. Non siamo stati noi a rubare il corpo, e chi l'ha fatto doveva essere fuori di testa a togliere il lenzuolo. Cosa raccontiamo agli altri? Che non riusciamo a spiegarci come sia scomparso? Rischiamo noi di passare per matti. Diciamo che è risorto e vediamo i farisei come reagiscono, visto che credono a questa idea di resurrezione.

[Giovanni] Ma come fai a dire che è risorto se non l'abbiamo rivisto? Passeremo per matti lo stesso. Chi ci crederà?

[Pietro] Lascia fare a me. Se è davvero risorto per conto suo, non può non tornare. Che senso ha risorgere per non tornare? Deve per forza tornare e fare strage dei suoi nemici. Si è lasciato ammazzare solo per farci capire che non siamo capaci di far nulla. Non siamo capaci di liberarci né dei romani né dei sadducei. Se i farisei accettano questa idea, siamo a posto. L'hanno tradito da vivo, non potranno rifarlo se credono che è risorto.

[Giovanni] E se non torna? Che figura ci facciamo? Se aspettiamo che torni e poi non torna, noi abbiamo perso l'occasione di fare l'insurrezione. Non vorrai sostituire l'obiettivo dell'insurrezione con la fede nella resurrezione?

[Pietro] Perché fai tutte queste domande? Pensiamo al presente. Bisognerà pur dire qualcosa agli altri! O vuoi forse sostenere che i giudei han rubato il corpo e ci han lasciato il lenzuolo? Sarebbe ancora più ridicolo, no!?

[Giovanni] Tu stai scherzando col fuoco. Se quello non torna, dovremo vergognarci tutta la vita. Come fai a pensare che i farisei, in nome dell'idea che hanno di resurrezione, crederanno a una tomba miracolosamente vuota? E soprattutto come fai a essere sicuro che se anche ci credessero, sarebbero disposti a insorgere?

[Pietro] Noi diamo ai farisei l'ultima possibilità. Se lui è risorto, deve per forza tornare. Se i farisei non credono né che sia risorto né che torni, per loro è finita. Verranno sterminati insieme ai romani.

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Conclusione

I

Questo libro potrebbe essere concluso cercando di capire il motivo per cui dei redattori cristiani abbiano manipolato così pesantemente il vangelo di Giovanni.

Anzitutto cerchiamo di considerare che di tutti gli imperi schiavistici, quello romano era il peggiore in assoluto: il più violento (per la scarsa considerazione in cui si teneva la vita), il più subdolo (in quanto capace di servirsi, con molta disinvoltura, di tutte le armi della diplomazia e del diritto), il più organizzato nel controllo e nella repressione da parte degli organi statali, e quello meglio dotato sul piano tecnico-militare. Al suo confronto tutti gli altri imperi schiavistici della storia sono stati ben poca cosa.

Eppure gli ebrei erano convinti di potercela fare. D'altra parte anche i Germani e altre popolazioni asiatiche non riuscirono ad essere sottomesse. Roma non era invincibile, ma per abbattere il suo potere bisognava sapersi organizzare come popolo, e certamente la resistenza cartaginese o la rivolta di Spartaco non erano esempi da imitare.

Gli ebrei però dovevano superare le divisioni interne, soprattutto quelle tra Giudei, Galilei e Samaritani. Non avrebbero mai potuto farcela restando divisi. Ecco perché fu l'ideologia a sconfiggerli, l'attaccamento a idee superate, a tradizioni obsolete, a rivalità interetniche. E non solo sbagliarono in questo, ma, quando una parte di loro volle diventare cristiana, si sbagliò un'altra volta, trasformando il Cristo in un eroe per il regno dei cieli. La disperazione indusse i sopravvissuti a sognare a occhi aperti, a darsi delle giustificazioni prive di fondamenta. Invece di fare autocritica, costruirono castelli sulla sabbia, e pretesero che anche gli altri lo facessero.

Oggi però si è invertita la marcia. Pur in mezzo a tante menzogne, sta emergendo la verità delle cose, quella tradita duemila anni or sono. Diamoci tempo un altro migliaio di anni e tutto verrà chiarito. No, non è un tempo lungo, poiché davanti a “lui” un giorno vale mille anni e mille anni un giorno...

II

La Sindone è l'unica testimonianza rimastaci del corpo di Gesù: non ve ne sono altre. È l'unica fonte autentica di tutto il Nuovo Testamento. Il fatto che fosse accuratamente piegata e riposta da una parte ci fa capire che doveva essere conservata. Tutti i racconti di resurrezione e di riapparizione sono inventati. Gesù ha lasciato un semplice ricordo di sé, una sorta di simbolo di quanto grande fosse il suo amore per il genere umano, cioè fin dove questo amore potesse arrivare. Probabilmente al genere umano non è data la possibilità di compiere ulteriore male a ciò che ha già fatto. Può soltanto autodistruggersi.

La specie umana ha il compito di pensare a se stessa, di cavarsela da sola, imparando dai propri errori. È vero, ha rifiutato una grande proposta di umanità e di democrazia, ma siccome di queste cose non possiamo fare a meno, ci troviamo costantemente e affannosamente alla loro ricerca. Senza di esse, infatti, la vita diventa impossibile; e finché non avremo imparato a capire la loro importanza e a viverle concretamente, noi non avremo pace, saremo sempre tentati a distruggerci a vicenda.

Se esistesse la possibilità di tornare ad avere un rapporto con questo “extraterrestre”, potremmo considerare la Sindone un reperto del tutto irrilevante. Ma questo rapporto non è possibile, e chiunque lo vada a cercare in maniera mistica, perde il suo tempo, resterà vittima delle proprie allucinazioni. La preghiera è la cosa più insensata di questo mondo, proprio perché distoglie dalla responsabilità personale. Gli esseri umani devono diventare adulti, devono arrivare alla consapevolezza che gli unici dèi dell'universo sono loro e che Gesù Cristo rappresenta soltanto il loro prototipo, che è umano come loro.

Purtroppo gli studi sindonici, per quanto validi scientificamente, non partono, generalmente, da un presupposto fondamentale: e cioè che se la Sindone è vera, i vangeli mentono. Tutti vanno a cercare conferme in essa di quei testi, quando in realtà essa dovrebbe essere letta per cercare di smentirli, soprattutto là dove presentano un Gesù teologico e pacifista.

La Sindone va letta come una fonte eminentemente umana e politica, e nient'affatto religiosa. Nel Cristo non c'era assolutamente nulla di religioso, proprio in quanto egli era ateo. Ovviamente la Sindone non può indicare l'ateismo di Gesù, però indica il lato eversivo del suo messaggio politico. E se consideriamo che questo messaggio è stato completamente censurato in quei testi religiosi, non serve Aristotele per dedurre delle conclusioni logiche.

III

Dunque quali sono gli insegnamenti che si possono trarre dal vangelo di Giovanni, che, per quanto mistificato sia sul piano teologico, presenta una indubbia matrice politica? Andando in ordine sparso, senza dare preferenza ad alcunché, potremmo dire i seguenti:

  1. si può accettare l'appoggio di una forza straniera per fare un'insurrezione nazionale, come p.es. quella dei Samaritani (che Gesù incontrò subito dopo l'epurazione del Tempio) o quella dei Greci (ch'egli incontrò durante l'ultima settimana pasquale nella Città Santa), ma a condizione d'aver prima creato un forte movimento nazionale, con cui porre le condizioni dell'intesa multilaterale. In caso contrario è facile essere fagocitati o strumentalizzati, quando addirittura non si viene traditi o non si resta profondamente delusi per aver riposto delle aspettative sbagliate su alleati inaffidabili;

  2. mai fidarsi ciecamente dei poteri costituiti o di chi rappresenta le autorità in carica, il cui governo si vuole abbattere; ma neppure impedirsi di dialogare con loro, quando ciò è possibile e utile per l'obiettivo rivoluzionario. Gesù non fece nulla per entrare a far parte del Sinedrio, ma continuò a dialogare (lui o il suo movimento) con alcuni suoi esponenti (Nicodemo, Giuseppe di Arimatea, Giairo, Gamaliele...). La democrazia politica, l'uguaglianza sociale, ecc. non sono valori che possono essere “concessi dall'alto”: vanno rivendicati dal basso. Non possono neppure essere “imposti dall'alto”, ma vanno direttamente gestiti dal popolo;

  3. la base sociale disposta a compiere l'insurrezione nazionale va allargata al massimo, a prescindere dalle differenze culturali, etniche o religiose. Anche qui i rapporti coi Samaritani, i Galilei, i Giudei, i Greci, gli abitanti di Tiro e Sidone, della Decapoli... sono piuttosto significativi. Gesù non ha mai voluto che fosse solo un gruppo etnico-politico a guidare la rivoluzione: questa doveva essere il frutto di un'intesa multipolare;

  4. mai accettare metodi terroristici o estremistici (tipici del movimento zelota o dei sicari), in quanto la loro efficacia è puramente casuale e spesso controproducente rispetto agli obiettivi che ci si prefigge, nel senso che ci si illude che la popolazione insorga spontaneamente, senza averla debitamente preparata, e inevitabilmente si finisce col far aumentare l'autoritarismo dei poteri dominanti: una rivoluzione democratica può essere solo di popolo, altrimenti non è che un mero colpo di stato;

  5. le questioni sociali, culturali e politiche devono marciare di pari passo. La rivoluzione è indubbiamente un evento politico, ma va fatto sulla base di problemi concreti, che a quel tempo, in quei luoghi, volevano dire: assistenza ai malati, ai bisognosi, il significato del sabato, le regole dietetiche, il concetto di “purità legale”, la comunione dei beni, la corruzione delle autorità sacerdotali, l'interpretazione della legge, il ruolo della religione, ecc. Non c'è un prima e un dopo: occorre avere una visione olistica delle cose;

  6. nessun moto rivoluzionario può essere diretto dall'estero, se non in via transitoria, eccezionale, quando è in gioco la sicurezza personale o dell'intero movimento. Clandestinità e propaganda pubblica delle idee sovversive devono svolgersi contemporaneamente e confluire verso un unico obiettivo. È in tal senso significativo che Gesù dica al sommo sacerdote Anania d'aver sempre predicato in pubblico, anche se questo non gli impediva di nascondersi da chi voleva eliminarlo;

  7. quando si inizia un processo rivoluzionario, bisogna non solo saper scegliere il momento giusto, evitando ogni avventurismo, ma bisogna anche portarlo a termine, sino in fondo, assumendosene tutte le responsabilità, poiché se la rivoluzione fallisce, la ritorsione dei poteri costituiti sarà inevitabilmente feroce. È vano sperare che il sistema sia clemente quando ci si mostra deboli, dopo aver fatto vedere che si era forti. Qui basta esaminare il dialogo di Gesù coi suoi parenti o coi Galilei sul monte Tabor, ma anche il rapporto coi Giudei in occasione della morte di Lazzaro;

  8. gli aspetti militari di una insurrezione non sono affatto secondari a quelli politici. I discepoli di Gesù erano tutti armati, soprattutto nel momento in cui si prese la decisione di realizzare l'insurrezione nazionale (“vendete il mantello e comprate la spada”, Lc 22,35). Non ha senso promettere di rinunciare allo scontro armato, limitandosi quindi a svolgere la sola attività politica, nella speranza che le istituzioni governative accettino di patteggiare. Bisogna sempre tenersi pronti a qualunque evenienza;

  9. non si può pensare di collaborare col nemico nella speranza di avere un trattamento di favore (la posizione dei sadducei), poiché un atteggiamento del genere viene sempre interpretato come una forma di debolezza, nei cui confronti il nemico, prima o poi, saprà farsi valere in maniera autoritaria;

  10. non ha senso, al fine di evitare la possibilità di un tradimento, instaurare all'interno del movimento insurrezionale un regime di terrore, poiché ciò contraddice la sua finalità democratica;

  11. le rivoluzioni si possono preparare in qualunque area geografica della nazione, ma vanno concluse nella sua capitale e da lì dirette su tutto il territorio nazionale. Il che non vuol dire che una società democratica debba per forza essere centralizzata; anzi generalmente è meglio che non lo sia;

  12. bisogna anzitutto concentrare le proprie energie sul compito più difficile da realizzare, che nella fattispecie era quello di liberare la Giudea: fatto questo, gli altri territori sarebbero stati liberati più facilmente.

(torna su)

1 In tal senso forse si dovrebbe rivalutare il ruolo dei farisei, pur nel loro acceso integralismo. È vero che i vangeli tendono a equipararli alle autorità religiose di Gerusalemme, ma vi sono momenti in cui essi stanno dalla parte di Gesù: quando lo avvisano che Erode voleva arrestarlo (Lc 13,31); quando, con Nicodemo, condividono l'epurazione del Tempio (Gv 3,2); quando lo ospitano in casa loro (Lc 7,36; 11,37). Forse gli stessi Giairo (archisinagogo) e Giuseppe d'Arimatea (sinedrita) erano farisei (e anche Flavio Giuseppe, che spende parole positive su Gesù, lo era). Essendo stati duramente perseguitati sotto Erode il Grande, potevano aver maturato degli atteggiamenti di superiorità, ma non è da escludere che almeno una parte di loro volesse riscattarsi dalle sconfitte del recente passato.

2 A volte la figura del Battista mi ha fatto venire in mente quella di Feuerbach nei confronti di Marx o quella di Plechanov nei confronti di Lenin. Figure indubbiamente di spicco, dalle quali sia Marx che Lenin, rispettivamente, presero molto, ma che, in definitiva, rappresentavano soltanto una verità parziale delle cose, proprio perché erano incapaci di tradurla operativamente, con coerenza e determinazione.

3 Non dimentichiamo che la distruzione del Tempio di Gerusalemme, avvenuta nel 70 d.C., costituisce una specie di spartiacque tra la generazione che fu testimone dei fatti accaduti al Cristo e quella successiva. Tutti i vangeli, canonici e apocrifi, sono stati elaborati avvalendosi di questo gap generazionale, che permetteva appunto di raccontare le cose in maniera arbitraria.

4 In AA.VV., San Giovanni. Atti della 17a settimana biblica italiana, ed. Paideia, Brescia 1964.

5 Vangelo secondo Giovanni, ed. Rizzoli, Milano 1965.

6 Lo stesso Giovanni non si cura mai di raccontare la storia dei personaggi che incontrano Gesù. Sia a lui che ai suoi manipolatori interessa soltanto mettere a fuoco il momento saliente in cui andava presa una decisione. La diversità sta semmai nella tipologia della scelta: politica per l'uno, teologica per gli altri. Sotto questo aspetto manca anche alla cultura ebraica (diversamente dalla ellenistica) quel senso di rigido radicalismo nei confronti degli atteggiamenti individuali; i giudizi severi vengono piuttosto indirizzati, con fare obiettivo, a gruppi di persone o categorie sociali. La possibilità di salvezza non viene mai negata a nessuno, preso singolarmente, ma questo non impedisce di formulare giudizi di severa condanna sulle questioni di fondo.

7 Io stesso mi sono formato sui suoi libri: Il processo a Gesù, ed. di Comunità 1974; Gesù e gli Zeloti, Rizzoli 1982, mentre lui invece faceva riferimento ai testi di Martin Hengel sullo zelotismo. Cfr anche The fall of Jerusalem and the Christian Church, London 1951; Recent study of the sources for the life of Jesus, Manchester 1959.

8 Vedi anche AA.VV., Dibattito sulla lettura politica del Vangelo. Il “Gesù” di Fernando Belo, ed. Claudiana, Torino 1976.

9 Che il testo sia stato revisionato lo dimostra anche il fatto che il redattore voleva farsi capire da lettori che non conoscevano l'ebraico: di qui la spiegazione del significato di parole come “Messia” (1,41), “Cefa” (1,42), “Siloe” (9,7), “Gabbata” (19,13), “Golgota” (19,17), “Rabbi” (1,38), “Rabbunì” (20,16). Il testo originario non poteva contenere queste precisazioni terminologiche, perché quando un autore scrive ha sempre in mente una determinata utenza, non una ipotetica. Anche oggi sarebbe assurdo pensare che uno scrittore italiano possa sacrificare le complesse espressioni della propria lingua, che ne costituiscono la ricchezza semantica, sintattica e lessicale, a vantaggio di una prosa facilmente traducibile in inglese, solo perché questa è una lingua internazionale.

10 È noto che il più antico documento riguardante Gesù che ci sia pervenuto è proprio un frammento del IV vangelo, trovato in Egitto nel 1920. Trattasi del cosiddetto “papiro P52”, scritto in greco e datato attorno all'anno 125. Contiene 14 righe dei versetti 18,31-33 e, nella parte dietro, 18,37-38, quindi apparteneva a un codice, cioè a un manoscritto in forma di libro e non a un rotolo, che si scriveva su di una sola facciata. Si presume quindi (considerati i tempi della divulgazione) ch'esso sia stato scritto o in Siria o in Turchia intorno al 100.

11 Il cosiddetto “discepolo prediletto” viene citato espressamente dal redattori quando, insieme ad Andrea, prende a seguire Gesù; nell'ultima cena quando a tavola si trova vicino a Gesù; quando fa entrare Pietro nel cortile di Anania; sotto la croce quando Gesù gli affida la propria madre; quando la Maddalena va ad avvisare due apostoli riguardo alla tomba vuota; alcune volte nei racconti del IV vangelo sulle apparizioni di Gesù risorto.

12 Di primo piano perché la triade Pietro, Giacomo e Giovanni è testimone di alcuni particolari eventi del Cristo, veri o presunti che siano stati.

13 Salome è considerata una probabile finanziatrice del movimento nazareno.

14 Come noto, in un solo passo del Nuovo Testamento (Gal 2,9) Paolo di Tarso chiama Giovanni, insieme a Pietro e Giacomo il Giusto, con l'appellativo di “colonna” della Chiesa di Gerusalemme (in occasione del Concilio del 50), ma è dubbio ch'egli si riferisca proprio a Giovanni Zebedeo, visto che il suddetto Giacomo non era suo fratello (una delle colonne dei Dodici), ma in realtà uno dei fratelli o parenti stretti di Gesù, molto conservatore in materia di teologia ebraica. Il fratello di Giovanni fu fatto decapitare dal re Erode Agrippa I nel 44 e vi è chi sostiene che lo sia stato anche Giovanni. Di sicuro quest'ultimo si è staccato abbastanza presto dalla linea petrina secondo cui la tomba vuota andava interpretata come “resurrezione”. Negli Atti il suo ruolo è piuttosto marginale: lo si vede predicare il vangelo con Pietro in Samaria, ma è come se fosse muto, anche se nell'elenco degli apostoli aveva scavalcato il nome di suo fratello.

15 Da notare che una epurazione del Tempio venne fatta anche da Giuda il Galileo (o di Gamala), che precedette la predicazione di Gesù e che morì anche lui crocifisso. L'esegeta Daniel T. Unterbrink sostiene che il Gesù dei vangeli non sia che una rielaborazione mistica di un personaggio storicamente esistito. In questa maniera però non si comprende la differenza tra il movimento zelota e quello nazareno, cioè tra eversione settaria ed eversione popolare (cfr Judas of Nazareth, ed. Bear & C., Rochester, Vermont 2014).

16 Generalmente sono gli esegeti cattolici (I. de la Potterie, G. Ricciotti, V. Messori...) che vedono tra Marco e Giovanni non un'opposizione bensì un'integrazione.

17 Due lettere sarebbero state scritte, intorno al 100, da un certo Giovanni il Presbitero o “l'anziano”, ma anche la prima contiene una teologia troppo vicina al misticismo raffinato del IV vangelo per essere di mano giovannea. Anzi, è molto probabile che tale misticismo metafisico vada considerato come una reazione mistificante al carattere eversivo del vangelo originario.

18 L'autore dell'Apocalisse si presenta col nome di Giovanni e dice di trovarsi nell'isola di Patmos (Ap 1,1; 1,4; 1,9; 22,8). Tuttavia solo a partire dall'inizio del II secolo la tradizione ha identificato l'autore di questo testo con l'apostolo Giovanni. Gli esegeti moderni hanno notato ch'esso, ritenendo ancora possibile una imminente parusia del Cristo, permette d'essere interpretato in funzione anti-paolina. Il che però non depone di per sé a favore dell'attribuzione del testo a Giovanni, tant'è che come autore si fece anche il nome di un tale Cerinto, a lui contemporaneo, vicino a posizioni docetiste o adozioniste.

19 Luca (9,51-56) riporta un episodio in cui i fratelli Zebedeo, vedendo un villaggio samaritano ostile a concedere ospitalità a Gesù, propongono di distruggerlo.

20 Da notare che in At 5,17-42 viene descritta l'incarcerazione, voluta dal sommo sacerdote, di alcuni “apostoli”, lasciati anonimi con l'eccezione di Pietro. Tradizionalmente Giovanni viene inserito nell'episodio, anche se l'inclusione non è sicura. Secondo il testo la carcerazione si concluse nella notte stessa con una inaspettata liberazione. Seguì l'indomani un nuovo arresto e un secondo processo sinedrita, con l'intervento favorevole da parte di Gamaliele, che ne stabilì la liberazione dopo averli fatti fustigare.

21 Secondo Girolamo Giovanni morì nel 98-99. Esiste anche una secolare tradizione, a partire da Tertulliano, secondo cui Giovanni fu martirizzato a Roma durante la persecuzione di Domiziano; constatato però che l'olio bollente non riusciva a bruciare il corpo dell'apostolo, l'imperatore lo fece accecare e lo rimandò ad Efeso, dove poi morì.

22 Attualmente gli esegeti sono propensi a credere che il testo sia stato scritto o in Siria (Antiochia), o nell'Asia Minore (Efeso), o in Egitto (Alessandria), o nel territorio del re Agrippa II. J. A. T. Robinson è convinto che il testo presenti aspetti che lasciano supporre una stesura anteriore al 70 (cfr Redating the New Testament, London 1976).

23 I temi favoriti della gnosi (luce-tenebre, morte-vita) sono ben presenti nel vangelo di Giovanni, il quale però parla di una persona reale e non di un eone o di una emanazione della divinità o di intermediari astratti tra Dio e l'uomo. Gli stessi temi sono presenti anche nei manoscritti di Qûmran, anzi ve ne sono molti di più provenienti da questa comunità, distrutta dall'imperatore Tito nel 68 d.C.: spirito di verità e spirito di menzogna, fare la verità e andare alla luce, preferire le tenebre e la menzogna, figli della luce, luce di vita, camminare nelle tenebre, opere di Dio, collera di Dio, testimoni della verità, vita eterna, spirito santo, principe dei figli delle tenebre... Non è da escludere che i manipolatori di questo vangelo, essendo monaci, fossero culturalmente vicini agli Esseni, con l'ovvia differenza che per quest'ultimi Gesù non era considerato il messia. I manipolatori però non possono essere stati vicini agli Esseni filo-zeloti nell'imminenza della guerra giudaica del 66-70.

24 Neppure una delle sessanta parabole sinottiche viene ricordata, neanche quelle più famose: anzi, quando si parla del “buon pastore” o della “vite e i tralci”, che forse somigliano di più a delle parabole, essendo delle metafore o allegorie, non viene mai usato neppure il termine. Eppure non c'è esegeta che non pensi che l'uso del linguaggio figurato, in un contesto sociale oppressivo, che impedisce quello diretto, dovrebbe essere considerato del tutto normale. Probabilmente i redattori del IV vangelo hanno optato per i discorsi lunghi, solenni e ieratici, in quanto reputavano di basso livello quell'insegnamento di Gesù che nei Sinottici appare piuttosto improvvisato, vivace, fatto di frasi brevi e incisive, ad usum populi.

25 Si noti come anche l'esegesi confessionale si sia da tempo accorta che l'immagine di Cristo offerta dal IV vangelo sia troppo mistica per essere reale. Tuttavia tali studiosi pensano che se Gesù fosse soltanto un grande personaggio storico (al pari di Socrate, Buddha, Gandhi, ecc.) e non, propriamente parlando, il “Figlio di Dio”, la sua incidenza risulterebbe molto limitata per un credente, cioè - in altre parole - metterebbe a rischio tutta la realtà della Chiesa. Sicché alla fine si preferisce pensare che il misticismo del IV vangelo contenga una qualche fonte di verità, ovvero sia la testimonianza narrativa di un evento effettivamente accaduto.

26 C'è chi ha visto che la predicazione di Gesù potrebbe anche essersi svolta tra il 27 e il 33.

27 Anche da questo si evince che i redattori avevano sotto mano un testo originario, che hanno manipolato a più riprese. È palese anche il tentativo, mal riuscito, di conciliare la versione giovannea della passione di Gesù con quella marciana. La storia redazionale di questo vangelo è particolarmente complessa proprio perché esso costituiva una fonte del tutto autonoma, rispetto ai Sinottici, e in polemica con loro. Gli stessi esegeti confessionali sono stati costretti ad ammettere che tutti i discorsi di Gesù che accompagnano i vari miracoli non potevano far parte della prima stesura. In realtà anche i miracoli non ne facevano parte.

28 Sino agli inizi del Novecento era abbastanza diffusa l'idea secondo cui Giovanni citasse più o meno a caso i nomi dei luoghi dei suoi racconti. Riguardo alla piscina di Betesda (5,2) si pensava che i cinque portici indicassero il Pentateuco o le cinque sette del Giudaismo. Invece si trattava di due ampie vasche circondate da quattro portici e separate da una banchina sopra cui era costruito un quinto portico.

29 La Chiesa romana, usando soprattutto la versione matteana (16,18), in cui è previsto il famoso elogio del Cristo: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”, se ne servirà per inventarsi un assurdo “primato petrino”, privo di alcun fondamento non solo storico ma persino teologico. Sulla base di tale primato potrà giustificare il temporalismo della fede (ovvero l'istituzione dello Stato pontificio) e la propria pretesa superiorità giurisdizionale su tutto l'ecumene cristiano.

30 Il vocabolario usato da Giovanni si concentra su alcuni termini-chiave, a malapena conosciuti dai Sinottici: amare, verità, vita, mondo, giudicare, testimoniare, luce, rimanere, ecc. Persino parole come “vangelo” o “regno di Dio” non vengono quasi mai usate (solo nel dialogo con Nicodemo si parla di “regno di Dio”, a dimostrazione che anche i farisei attendevano un messia liberatore-nazionale: non a caso avevano già interpellato il Battista). Probabilmente il rifiuto redazionale di un'espressione come “regno di Dio” era dovuto al fatto che veniva ritenuta troppo caratterizzata in senso teo-politico, per cui si tendeva a preferire qualcosa di esclusivamente teologico, che rimandasse a un regno ultraterreno.

31 Se è vero quel che dice Luca negli Atti degli apostoli, secondo cui sia Pietro che Giovanni erano “senza istruzione e popolani” (4,13), la Chiesa avrebbe dovuto rinunciare sin dall'inizio ad attribuire a Giovanni un vangelo del genere.

32 Il primo a contestare l'autenticità giovannea del vangelo fu Karl G. Bretschneider, nel libro, molto inviso ai teologi, del 1820 Probabilia de evangelii et epistolarum Ioannis Apostoli indole et origine eruditorum.

33 Responsabile di questo misconoscimento secolare fu soprattutto il teologo di Tubinga Ferdinand C. Baur, che nel 1847 scrisse Kritische Untersuchungen über die kanonischen Evangelien, per il quale, pur sostenendo che tutti i vangeli canonici sono tendenziosi, i Sinottici erano gli unici che davano informazioni storiche. Di lui non esiste nulla in italiano.

34 Se le capacità umane non hanno alcun limite, possiamo pensare che le guarigioni del Cristo o altri suoi straordinari prodigi potrebbero anche contenere un qualche elemento di attendibilità, ma solo come ipotesi remota di ciò che l'essere umano, previa una certa preparazione o condizione di vita, è in grado effettivamente di fare, in un futuro che non possiamo prevedere, né sul nostro pianeta né nell'universo in generale. Ciò tuttavia non può impedire all'esegesi laica di considerare miracoli e guarigioni come frutto di una falsificazione di tipo teologico.

35 Che il vangelo aramaico di Matteo fosse usato dai giudeo-cristiani l'attesta anche la loro fuga a Pella (nella Decapoli), di cui parlano gli storici Eusebio ed Epifanio, ma si pensa che altri cristiani si siano rifugiati nella Basanitide e a Berea (Aleppo), da cui vennero fuori gli Ebioniti. È assodato che in seguito alla suddetta fuga in massa dei cristiani, si consumò dopo il 70 la rottura definitiva tra cristianesimo e giudaismo. E ciò avvenne a Jamnia (a sud di Jaffa) verso il 95, dove i farisei presero in mano le redini di quello che restava della loro nazione, per ridare fiducia ai sopravvissuti al massacro compiuto dai Romani e alle deportazioni. È invece probabile che la setta giudaico-cristiana dei Nazarei (nata in occasione di quella guerra) abbia accentuato il proprio giudaismo proprio per evitare tale rottura: usando il vangelo matteano in aramaico, negava tutta la teologia paolina

36 Questo è forse il racconto più importante di tutto il vangelo marciano, poiché, in virtù di esso viene addebitata l'intera colpa della morte di Gesù alle autorità sacerdotali, e viene anche spiegata la posizione giuspolitica di Pilato, fatto passare per una vittima delle circostanze.

37 Da notare che non solo questo ma tutti i vangeli sembrano offrire una polemica continua contro i farisei, più che contro gli aristocratici sadducei, pur essendo quest'ultimi, collusi coi Romani, nemici comuni sia dei farisei che del movimento nazareno. Ciò probabilmente è dovuto al fatto che i farisei non riuscirono mai a trovare un'intesa politica con Gesù, né nella prima insurrezione contro il Tempio, né nella seconda contro la fortezza Antonia. Questo a motivo della loro ideologia integralistica, troppo legata a tradizioni superate. Il problema è che nei vangeli non possono apparire politicamente progressisti, in quanto quei testi hanno spoliticizzato al massimo Gesù. Quindi sono costretti ad apparire soltanto come ideologicamente conservatori, nonostante che i sadducei lo fossero molto di più, a motivo della corruzione dovuta ai privilegi esclusivi di cui fruivano. In pratica ciò che divide i farisei dai sadducei è unicamente l'idea di resurrezione dei morti, che, guarda caso, sarà la stessa che Paolo di Tarso, ex-fariseo, farà valere, sulla scia di Pietro, nella sua concezione di cristianesimo. Quindi il fariseismo è stato un traditore del cristianesimo due volte, prima sul piano politico, quando si rifiutò di accettare l'insurrezione nazionale voluta dal Cristo, poi sul piano teologico, quando con l'idea di resurrezione rinunciò definitivamente a qualunque insurrezione voluta dai discepoli del Cristo.

38 I Galilei erano disprezzati dai Giudei non solo per la parlata e per lo scarso attaccamento alle tradizioni, ma anche perché versavano le tasse al Tempio con molta trascuratezza. Non poche loro città erano profondamente ellenizzate, avendo come modello la Decapoli.

39 Qui la differenza mistica tra i Sinottici e il IV vangelo è molto netta: là dove quelli rappresentano un Gesù che “doveva” morire per obbedire a un disegno soteriologico del Dio-padre; qui invece è lui stesso che “vuole” morire, come se nei confronti della sua idea suicida-redentiva Dio-padre non potesse fare altro che condividerla. Infatti in Giovanni l'identificazione del Cristo con Dio è così forte che è impossibile distinguere la volontà dell'uno da quella dell'altro. Ecco perché questo vangelo favorisce, col proprio assoluto misticismo, un'idea di tipo ateistico, all'interno - beninteso - di una cornice del tutto irrazionalistica, in cui il Cristo appare come un'entità a se stante, incomprensibile a chiunque, inclusi i propri discepoli.

40 Si noti però che in quella lettera vengono smentite tutte le riapparizioni del Gesù redivivo. Infatti al v. 2,28 si scrive: “rimanete in lui affinché, quand'egli apparirà, possiamo aver fiducia e alla sua venuta non siamo costretti a ritirarci da lui, coperti di vergogna”. E al v. 3,2: “Sappiamo che quand'egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com'egli è”. E questa lettera è stata scritta dopo il IV vangelo.

41 Gli elementi semitici si notano nel testo là dove sono presenti le antitesi, le connessioni per associazione di termini, le ripetizioni degli stessi concetti o parole, i parallelismi tra i concetti, le variazioni sul tema.

42 Non c'è solo l'uso del termine logos nel Prologo che autorizza a pensare a un certo collegamento tra il IV vangelo e l'ellenismo palestinese (di derivazione stoica e platonica), ma vi è anche per tutto il vangelo il gusto per un certo dualismo (alto e basso; spirito e carne; vita eterna ed esistenza naturale; pane celeste e pane comune; acqua di vita eterna e acqua semplice...), che ha fatto pensare a un'influenza essenica. Non dimentichiamo che l'alessandrino Filone era contemporaneo di Gesù e rappresentava la sintesi più significativa tra pensiero giudaico e pensiero greco. In Egitto era forte anche la tradizione “ermetica” che si ricollegava alla figura, più o meno leggendaria, di Ermete Trismegisto, le cui opere contengono alcune parole-chiave che si ritrovano nel IV vangelo. D'altra parte i grandi discorsi di Gesù sembrano essere fatti apposta per un pubblico colto di origine pagana.

43 Non è da escludere ch'esso sia stato scritto anche in polemica con lo stoicismo del mondo pagano, per il quale il logos era solo una ragione astratta, filosofica, condivisa da ambienti aristocratici e individualistici, mentre per i cristiani coincide con una persona reale, il Cristo, la cui astrazione però, essendo di natura teologica, non è meno forte, anche se realizzata da una comunità popolare. In fondo lo stoicismo è un cristianesimo senza la speranza di una vita migliore nell'aldilà, ch'era un desiderio tipico delle classi marginali. O, se si preferisce, il cristianesimo è una forma di stoicismo ad usum populi, che prevede appunto una retribuzione ultraterrena. Cfr C. H. Dodd, La tradizione storica nel quarto vangelo, ed. Paideia, Brescia 1983.

44 La teologia paolina fonde il cristianesimo petrino, di derivazione galilaica (quindi un ebraismo già laicizzato rispetto al giudaismo vero e proprio), con l'ellenismo sviluppatosi dopo la morte di Aristotele e dopo la fine dell'impero macedone, le cui caratteristiche erano le seguenti: a) rassegnazione di fronte alle contraddizioni sociali e quindi ricerca di una via di salvezza connessa a esperienze di piccole comunità, ove la discussione è minima, in quanto vi è il culto del capo-scuola; b) tendenza della filosofia o della teologia a unirsi alla psicologia, in quanto si afferma una sorta di terapia esistenziale per l'anima; c) tendenza al cosmopolitismo, in quanto non si vuol fare differenza tra libero e schiavo, tra greco e non greco, ecc.

45 Si noti che per alcuni esegeti proprio questa comunità fu un centro di riferimento politico per il movimento zelota, soprattutto dopo la sconfitta della rivolta di Giuda il Galileo nel 6 d.C.

46 Stranamente si parla di sacerdoti e leviti in 1,19, ma di farisei in 1,24.

47 È difficile quindi pensare che Gesù sia stato battezzato da Giovanni. D'altra parte il vangelo non lo dice chiaramente. Molti esegeti sostengono che non viene detto neppure nel vangelo primitivo di Marco, in quanto i primi tredici versetti, quelli in cui si parla del Battista e del battesimo di Gesù, possono essere stati inseriti successivamente.

48 Si noti che al v. 31 il Battista dice di non conoscere Gesù, e la cosa la ripete al v. 33, ma secondo Luca i due erano addirittura parenti! È evidente che i redattori lo fanno parlare col senno del poi, come se Giovanni fosse già morto e risorto, cioè come se si fosse pentito di non essere diventato un seguace del Nazareno quand'era il momento. Tuttavia, se lo fanno parlare in maniera così mistica (si pensi solo alla differenza tra battezzare con acqua e con Spirito santo), doveva per forza esserci stata un'intesa post-pasquale tra cristiani e battisti, come d'altra parte confermano gli Atti degli apostoli (18,24 ss.; 19,1 ss.).

49 Da notare che la traduzione italiana del v. 38: “Rabbì (che significa maestro), dove abiti?”, non rende molto bene l'espressione greca, come spesso succede purtroppo. Infatti, si sarebbe dovuto scrivere “Dove rimani?”. Il verbo μένειν indica, più che un luogo fisico, un ambiente esistenziale e personale, come se gli avessero chiesto: “Qual è il tuo stile di vita?”, oppure “Che proposta hai da farci?”. Tant'è che il v. 39 si sarebbe dovuto tradurre così: “Vennero e videro dove rimane e rimasero presso di lui tutto quel giorno”. Nel senso che il “restare” presso di lui (messo al tempo presente) comportava un coinvolgimento personale, non era soltanto la costatazione di un'abitazione privata di cui si aveva, al momento della scrittura del vangelo, un lontano ricordo. Comunque anche questo conferma l'origine giudaica e non galilaica del Cristo.

50 Non dimentichiamo che la parola “nazareno” o “nazireo” voleva anche dire “chi ha fatto un voto”: generalmente indicava un individuo che non aveva bisogno dell'intermediazione sacerdotale per interpretare le Scritture. Nel libro dei Giudici (13,5) è scritto, parlando di Sansone: “Poiché ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, sulla cui testa non passerà rasoio, perché il fanciullo sarà un nazireo consacrato a Dio fin dal seno materno; egli comincerà a liberare Israele dalle mani dei Filistei”. Stando a Giuseppe Flavio, i “nazirei” (etimologicamente “i separati”) erano una setta di Giudei nazionalisti, avversari della dominazione pagana sulla terra d'Israele e, come tali, perseguitati sia dall'aristocrazia sacerdotale che dai governatori romani e dai regnanti erodiani.

51 Nessun testo antico, pagano o ebraico, ricorda una borgata chiamata Nazareth. Il primo a farlo è Giulio Africano all'inizio del III sec. Peraltro, per indicare la patria di Gesù, sarebbe stato sufficiente chiamarlo “Gesù il Galileo”, come p.es. “Giuda il Galileo”, primo capo degli zeloti. Del tutto normale invece era il nome di “Simone di Cirene”, in quanto questa località era conosciuta da tutti. Quando, dopo la morte di Gesù, gli ebrei chiamano “nazareni” i suoi seguaci (At 24,5), non lo fanno certamente perché lui era nato o vissuto a Nazareth. Né si può pensare che Paolo, totalmente indifferente a una biografia del Cristo, lo chiamasse così (in At 26,9) per rispettare la sua origine geografica. Persino quando nel Getsemani chiedono di arrestare “Gesù il Nazireo” (Gv 18,5), le guardie del Tempio usano questo appellativo come un titolo pubblico o ufficiale, inscindibile nelle sue parti. Avrebbero potuto dire “Gesù il Galileo”.

52 Il Tempio trasformato in una spelonca di ladri è un tema già presente nel libro del profeta Geremia (7,11).

53 Fu abolita l'ereditarietà della carica quando Erode il Grande e il procuratore romano di Siria, Gaio Sosio, conquistarono Gerusalemme nel 37 a.C. Fu appunto Sosio che piazzò Erode sul trono di Giudea.

54 I farisei, proprio in risposta alla corruzione della casta sacerdotale, avevano creato l'istituzione delle sinagoghe, diffuse su tutto il territorio giudaico e galilaico, e sarà con queste strutture che riedificheranno la religione ebraica dopo la perdita della nazione.

55 Si potrebbe anche aggiungere che, molto probabilmente, l'epurazione del Tempio costituiva il culmine di una serie di contestazioni che Gesù aveva già rivolto alla casta sacerdotale, probabilmente insieme al Battista, e di cui sembra essere consapevole lo stesso Nicodemo, quando, senza alcuna forma di piaggeria ma come se parlasse a un collega, si rivolge a lui con parole che lasciano pensare a un'attività pregressa e continuativa: “Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui” (3,2).

56 La cosiddetta “Terza ricerca” insiste nell'affermare che tra Gesù e i farisei il dialogo non doveva essere per nulla così polemico e inconcludente come appare nei vangeli. Avendo avuto gli evangelisti la preoccupazione di mostrare un Cristo anti-giudaico, inevitabilmente i farisei han finito con l'essere dipinti in maniera quasi caricaturale, come appunto sinonimo di ipocrisia. Tuttavia è difficile pensare che un movimento come quello nazareno, volto a compiere un'insurrezione di tipo nazionale, in cui le varie etnie e popolazioni della Palestina dovevano per forza essere considerate paritetiche, avrebbe potuto accettare supinamente tutte quelle usanze farisaiche che rendevano il loro partito troppo giudaicamente caratterizzato.

57 L'Idumea, regione desertica posta a sud della Giudea, era pagana, ma nel 128 a.C. l'asmoneo Giovanni Ircano (134-104 a.C.), dopo averla sottomessa, la giudaizzò forzatamente, imponendo alla popolazione la circoncisione e il culto ebraico. Pur considerati legalmente ebrei, gli Idumei di fatto furono mal visti dai Giudei. Da loro uscì la dinastia erodiana che governò a lungo (47 a.C.- 66 d.C.) in Palestina.

58 Qui si può ricordare che i documenti più antichi della teologia paolina, precedenti alla stesura dei vangeli, sono le due lettere ai Tessalonicesi, nonché quelle ai Romani, ai Galati e le due ai Corinti. L'interesse di Paolo per il Gesù storico è praticamente nullo, in quanto tutto assorbito da quello per un Cristo teologico.

59 Di incongruenze del genere il vangelo è pieno, essendo stato enormemente manipolato: qui p.es. si può notare che da un lato il Battista considera Gesù a lui superiore, dall'altro però i suoi discepoli si lamentano che la gente preferisce farsi battezzare dai discepoli di Gesù (3,26). D'altronde, mentre Giovanni aveva scelto i luoghi impervi della Perea per battezzare, Gesù invece aveva preferito farlo dentro la Giudea.

60 Che i redattori di questo vangelo amino identificarsi con Gesù è ben visibile ai vv. 3,31-36, in cui non si capisce più se quelle parole debbano essere attribuite al redattore o allo stesso Gesù o siano la continuazione della testimonianza del Battista.

61 I Samaritani discendono da quei pochi ebrei rimasti in Palestina al tempo dell'esilio in Babilonia. Essi si fusero con gli stranieri pagani deportati in Israele nel 721 a.C. per sostituire le popolazioni ebraiche totalmente deportate. Interpretavano le tradizioni d'Israele con molta libertà, anche perché si limitavano al Pentateuco, rifiutando i libri profetici e sapienziali. Simbolo della loro autonomia era stato il Tempio costruito nel IV sec. a.C. sul monte Garizim, in opposizione a quello di Gerusalemme, visto come una minaccia alla loro identità culturale. Al tempo di Gesù restava solo quel monte, poiché il Tempio era già stato raso al suolo dai Giudei sotto Giovanni Ircano, nel 128 a.C. La stessa Samaria era stata devastata dai Giudei nel 107 a.C. Da allora i rapporti tra Giudei e Samaritani si erano guastati in maniera irreparabile, al punto che i Samaritani venivano equiparati ai pagani.

62 Il fatto che nel testo la donna dica che Gesù è un profeta perché le ha fatto capire, grazie alla propria onniscienza, che è una dai facili costumi, pur non avendola mai vista di persona, è semplicemente ridicolo. Neppure ha senso che la donna dica ai suoi compaesani d'aver individuato in lui il messia solo perché lui aveva indovinato la sua scarsa moralità. Qui i termini “profeta” e “messia” sembrano essere assurdamente intercambiabili, senza poi considerare che associare “onniscienza” a “profetismo” era del tutto arbitrario per un qualunque ebreo. Si deve quindi per forza pensare che i redattori avevano bisogno di mostrare un'ideologia anti-samaritana.

63 Da notare che nei Sinottici (Mc 6,4; Mt 13,57; Lc 4,24) il detto di Gesù riguardante il profeta cacciato dalla sua patria si riferisce a Nazareth e, in particolare, ai suoi parenti, amici e conoscenti! Pur di negare la provenienza giudaica del Cristo, hanno sminuito di molto il motivo dell'esilio, spostando altresì l'epurazione del Tempio all'ultima settimana della sua vita.

64 Molti esegeti, per sostenere la tesi dell'origine galilaica del Cristo, han cercato di spiegare queste parole, apparentemente ambigue, dicendo che i Galilei l'avevano accolto bene soltanto perché aveva compiuto a Gerusalemme gesti coraggiosi e prodigi, ma, nonostante questo, non avevano in lui una “vera fede”. In realtà la sua patria non era affatto la Galilea, bensì la Giudea, e Gesù semplicemente si meraviglia che l'epurazione del Tempio sia stata accettata con più entusiasmo dai Galilei, che appena lo conoscevano, e non dai Giudei, che lo conoscevano da trent'anni e l'avevano già visto tuonare contro il Tempio e la casta sacerdotale.

65 Si noti, in tal senso, che Gesù non solo non rispettava il sabato, né i precetti alimentari né le regole di purità rituale, ma non lo si vede mai pregare nel Tempio, né compiere specifici riti religiosi, né invocare l'aiuto divino al momento delle guarigioni (ammesso che le abbia mai fatte), e quando parla di “ebraismo” (Abramo, Mosè...) ha sempre un atteggiamento critico. In poche parole non credeva in alcun modo, diversamente dai farisei o dagli zeloti, che una rigorosa fedeltà alle tradizioni giudaiche fosse sufficiente per superare la colonizzazione romana.

66 Ci piace qui far notare che la differenza tra un esegeta confessionale e uno laico non sta in qualcosa di aprioristico, poiché è evidente che la fondatezza delle proprie tesi è sempre cosa che va dimostrata con valide argomentazioni; sta piuttosto nel fatto che l'esegesi confessionale parte sempre dal presupposto che, di fronte alla possibilità che l'evangelista menta, preferisce pensare che, in ultima istanza, non lo faccia oppure che abbia buone motivazioni per farlo o che, in ogni caso, la menzogna non sia particolarmente grave. In questo caso s'interpreta l'evangelista come lui, più o meno, avrebbe voluto essere interpretato, anche a distanza di secoli e secoli. Spesso però il rovescio di questa medaglia sta in quelle interpretazioni laicistiche che danno per scontato che gli evangelisti mentono sempre. In questo caso si finisce col sovrapporre una propria ideologia alla realtà dei fatti.

67 Si badi: quando nel vangelo i redattori fanno dire a Gesù che non è venuto per “condannare” ma per “salvare”, si deve intendere che gli uomini inevitabilmente si autocondannano se non riconoscono tale salvezza. Il giudizio di Cristo si pone come una semplice constatazione di fatto, cioè non ha bisogno di entrare nel merito dei casi specifici, proprio perché, a causa del peccato originale, gli uomini non sono in grado di autoliberarsi delle loro contraddizioni sociali.

68 Si noti come tra gli esegeti italiani sia soprattutto lo psichiatra Fernando Liggio che insiste in particolare sul carattere psicopatico del Gesù teologico rappresentato dai vangeli: cfr La storia clinica di Yeschuah Bar-Yosef il «Galileo» (Gesù il «Cristo»), Editore Bastogi, Foggia 2009. In questo è stato preceduto dallo psicologo Charles Binet-Sanglé, che commentò la teomania del Cristo in ben quattro volumi: La folie de Jésus (Paris 1908-15), che destarono grande scandalo nel mondo cattolico.

69 Si pensa che fino a quando a capo della Chiesa di Gerusalemme rimase Giacomo il Giusto, fratello di Gesù, il compromesso tra ebraismo e cristianesimo fu in parte possibile, in quanto gli ebreo-cristiani avevano fatto capire di non voler rompere con la legge mosaica e tutte le altre tradizioni giudaiche; nondimeno Giacomo fu fatto uccidere proprio dal sommo sacerdote Ananus II nel 62, dopodiché lo stesso Ananus venne fatto fuori dagli zeloti.

70 Si noti come Lc 23,14 s. ci tenga molto a sottolineare che Gesù non aveva nulla di politicamente sovversivo, sia nei confronti dei Giudei che nei confronti dei Romani. Fa dire a Pilato: “Mi avete portato quest'uomo come sobillatore del popolo; ecco, l'ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate; e neanche Erode, infatti ce l'ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte”. Il contrasto quindi tra Gesù e i Giudei, per quanto irriducibile, era esclusivamente sul piano religioso. E tale contrasto, tra il cristianesimo e l'impero, si sarebbe risolto facilmente qualora lo Stato avesse accettato il regime di separazione previsto nella formula paolina: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, che equivale alla formula del moderno liberalismo: “Libera Chiesa in libero Stato”. Una formula teo-politica, quella paolina, che però il cristianesimo stesso rifiuterà quando, a partire dall'imperatore Teodosio pretenderà di porsi come “Chiesa di stato” e, nell'area occidentale, a partire da Carlo Magno, come “Stato della chiesa”.

71 Si pensa che a quel tempo la Galilea avesse almeno 200 mila abitanti.

72 A dir il vero bisognerebbe usare il titolo di “prefetto”, come risulta dall'iscrizione trovata nel 1961 a Cesarea Marittima, poiché quello di “procuratore” entrò in vigore solo dopo il regno di Erode Agrippa I (39-44 d.C.).

73 Si può qui ricordare che se Pilato poteva contare, autonomamente, su circa 3000 uomini (cinque coorti), nonché di un'ala di cavalieri reclutati tra Samaritani, Siri e Greci, aveva invece il pieno appoggio delle truppe del legato di Siria per operazioni su larga scala.

74 A proposito di “avventurismo” si noti che in questo vangelo i redattori attribuiscono a Gesù un'espressione che si presta molto a interpretazioni mistiche: “Viene l'ora”, “È giunta l'ora”, ecc. La usano come se dovesse esistere “un'ora fatale”, decisa dal Padre eterno, cui nessuno può farci niente e che nessuno può anticipare o posticipare. In realtà quell'espressione poteva soltanto dire che non ha senso aspettare che i tempi maturino da soli, quando è sufficiente una responsabilità personale e collettiva per portarli a compimento, facendo in modo di rendere la transizione meno dolorosa possibile, pur tendendo conto dell'entità effettiva delle forze in campo.

75 Prima di questo versetto gli esegeti han fatto notare che quanto scritto in 6,51: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”, è un'assurda ripetizione di quanto già detto ai vv. 6,35-50. Ma la cosa può essere spiegata se si pensa a un inserimento ecclesiastico volto a formulare qualcosa di istituzionale.

76 Si noti comunque che gli zeloti possono anche essere considerati in Galilea come il braccio armato dei farisei progressisti, alla cui dottrina erano particolarmente legati. Entrambe le correnti infatti avevano un ideale teocratico-politico ed erano convinte che non si dovesse aspettare passivamente l'avvento del regno di Dio.

77 Qui si può anticipare che, a detta di tutti gli esegeti, i capitoli 7 e 8 sono opera di un redattore molto meno abile di quello che ha composto i capitoli 9, 18 e 19.

78 Da notare che i parenti di Gesù sembrano essere tutti Galilei e che, tra loro, non si vede mai Giuseppe, il padre di Gesù. Secondo Matteo, Giuseppe era un uomo “giusto” (1,19), che “non voleva esporre Maria a infamia”, essendo rimasta incinta prima che si sposassero, ma è anche vero che voleva “lasciarla segretamente”, e questo non sarebbe stato possibile se non cambiando città. Giuseppe quindi se la portò con sé in Galilea, dove nessuno avrebbe fatto domande, essendo lui da quelle parti un illustre sconosciuto, e qui forse si fece una nuova famiglia. Gesù però continuò a frequentare costantemente la Giudea, almeno sino all'epurazione del Tempio, altrimenti Giovanni non avrebbe potuto scrivere che Lazzaro e le sue sorelle erano i suoi migliori amici. Si badi, inoltre, che qui non si vuole sostenere la tesi dell'ingravidamento mistico di Maria, ma semplicemente che se la cosa era davvero avvenuta, nessuno era in grado di spiegarsela, e che non per questo dobbiamo credere in una particolare natura divina del Cristo.

79 Si noti che i suoi parenti gli dicono di farsi vedere in Giudea (7,3-5) quando nei capitoli precedenti la sua attività pubblica la svolge proprio a Gerusalemme (2,23; 5,1). Sembra che Gesù non abbia fatto nulla in Giudea o che i suoi più stretti parenti non sappiano nulla di ciò che ha fatto.

80 Alcuni esegeti han fatto notare che le riflessioni sulla festa delle Capanne e sull'acqua viva dipendono dall'ultima parte del libro di Zaccaria, a testimonianza che le radici di questo vangelo sono alquanto semitiche.

81 Vorremmo però qui ricordare che il IV vangelo oggi viene considerato da vari esegeti come il più “ebraico” di tutti, soprattutto per i continui riferimenti all'Antico Testamento: dai grandi personaggi della storia d'Israele (Mosè, Isacco, Elia, Giacobbe, Giuseppe, Abramo) ai temi dell'Esodo (deserto, manna, acqua, roccia, serpente di bronzo, tabernacolo...).

82 Non pochi esegeti han notato che Gesù parla di tale guarigione come se l'avesse fatta da poco tempo, quando invece nel contesto non è affatto vero.

83 Tra gli esegeti antichi Origene non aveva dubbi che Gesù fosse un giudeo e non un galileo.

84 Peraltro il v. 8,14: “Anche se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado.”, è in contraddizione col v. 5,31: “Se fossi io a render testimonianza a me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera; ma c'è un altro che mi rende testimonianza, e so che la testimonianza ch'egli mi rende è verace.”. La legge ebraica diceva che ci volevano almeno due-tre testimoni per appurare qualcosa con sufficiente certezza (Nm 35,30; Dt 17,6; 19,15). Qui invece siamo in pieno egocentrismo, in piena autoreferenzialità, in quanto il Cristo da politico è stato trasformato in teologico: non ha più bisogno delle masse popolari per dimostrare che quanto dice e fa è cosa giusta; gli basta l'idea di Dio. Addirittura il redattore fa coincidere la funzione di “autotestimone” con quella di chi “giudica” il comportamento degli altri (8,16), e il giudizio è sempre giusto perché compiuto in nome di Dio, cioè per fare la sua volontà. Già in 5,22 era stato detto che Dio ha delegato al Figlio il compito del giudizio.

85 Dal punto di vista ateistico, mentre l'ebraismo nega una qualunque rappresentazione della divinità, per cui considera blasfema una qualunque religione pagana, ivi incluso il cristianesimo; quest'ultimo invece afferma un'unica rappresentazione di Dio, quella del Cristo, il quale, essendo risorto da morte, ha dimostrato d'esserne il Figlio. Dunque come si superano le due religioni? Semplicemente dicendo che non esiste nessun Dio che non sia umano e l'umanità va dimostrata anzitutto in un orizzonte terreno. Se anche si volesse accettare l'idea che il Cristo sia misteriosamente scomparso dalla tomba, si deve comunque ammettere che, fino a quando è rimasto vivo, egli non aveva mai fatto nulla che lasciasse pensare che fosse più di un semplice essere umano.

86 Anche da questo si può qui presumere che i redattori di tale vangelo vivessero in comunità di tipo monastico.

87 Tutte le speculazioni docetiche, secondo cui il Cristo, avendo una natura divina, era una specie di fantasma, in quanto il suo corpo non poteva essere esattamente “umano”, e che quindi egli soffrì in croce solo in apparenza, sono coerenti con la rappresentazione mistica che di Gesù danno i vangeli, ma nella realtà non hanno alcun fondamento. Lo stesso si può dire delle riflessioni di tipo gnostico.

88 Molti esegeti han notato che la parabola sembra proseguire il racconto precedente della guarigione del cieco-nato, ma con argomenti tra loro molto diversi. Inoltre le indicazioni spazio-temporali sono molto fumose: il discorso sembra iniziare con la festa dei Tabernacoli e finire tre mesi dopo con la festa della Dedicazione.

89 Si noti come in questa pseudo-parabola, i redattori, pur avendo rimarcato l'esclusiva forma orale della predicazione del Cristo, non si sono accorti che la trasposizione in forma scritta di quella predicazione, operata dai vangeli, costituiva già, a prescindere dai loro specifici contenuti, un passo indietro rispetto al suo messaggio politico eversivo. La scrittura, infatti, fossilizza le possibilità di scelta, concedendo troppo spazio alla categoria della necessità. Sotto questo aspetto tutti i vangeli scritti negano di per sé al Cristo la sua identità, in quanto, inevitabilmente, schematizzano o semplificano arbitrariamente la sua attività. Paradossalmente i vangeli risultano regressivi persino rispetto alle lettere paoline, scritte sulla base di esigenze contingenti, ma così pregnanti sul piano teologico da costituire il principale punto di riferimento culturale per gli stessi evangelisti.

90 Da notare però che usavano anche il titolo politico-militare di “Signore degli eserciti”.

91 Si noti questa strana espressione: “vostra Legge”, come se non fosse la stessa Legge cui Gesù, in quanto ebreo, doveva per forza fare riferimento.

92 C'è chi ha visto, dietro questo nome, il famoso Eleazar Ben Yair (figlio di Giairo), condottiero zelota, capo della setta dei sicari, che guidò per oltre due anni la resistenza antiromana nella fortezza di Masada, a partire dal 70. Altri esegeti han pensato che fosse proprio il discepolo che Gesù amava (Gv 11,3). Altri ancora lo fanno discendere da Giuda di Gamala, ovvero, per parte di madre, dagli Asmonei. Infine non va dimenticato che uno dei figli del sommo sacerdote Anna o Anania si chiamava proprio Eleazar, anch'egli pontefice nell'anno 16 o 17, e destituito subito da Valerio Grato. Probabilmente è quest'ultimo il Lazzaro del IV vangelo, che Giovanni conosceva bene. L'agiografia l'ha fatto diventare vescovo di Cipro e di Marsiglia. Il nome Lazzaro appare anche nella parabola lucana del ricco epulone (16,19-31), con evidente riferimento al tema della resurrezione, ma con un finale che nega qualunque rapporto tra morti e viventi: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”.

93 Difficile comunque pensare che se Lazzaro fosse stato semplicemente malato, le sorelle avrebbero mandato qualcuno a chiamare Gesù nel suo rifugio segreto in Perea, col rischio che venisse ucciso anche lui. Lazzaro doveva essere un leader piuttosto popolare e, molto probabilmente, aveva agito in maniera autonoma, senza coordinare con le forze di Gesù il proprio scontro armato anti-romano. Quel che qui è da escludere è che le sue sorelle abbiano mandato a chiamare Gesù per ottenere da lui un intervento di tipo terapeutico.

94 Non è da escludere che nella decisione di compiere l'insurrezione possano aver influito anche delle motivazioni personali. Doveva infatti esserci un legame piuttosto forte, di vecchia data, tra Gesù e Maria, sorella di Lazzaro, che probabilmente coincide con quella Maria Maddalena che mostra d'avere con lui un rapporto molto stretto, come risulta da 20,11 ss. Al momento della morte di Lazzaro forse Gesù si trovò alle strette sul piano sentimentale o emotivo: aveva fatto il voto di nazireato e quindi non poteva sposarsi, ma se la motivazione per cui l'aveva fatto (l'insurrezione nazionale) tardava a realizzarsi, aveva ancora senso sentirsi vincolato a quel voto? Maria forse lo pressava (è la prima, insieme a un'altra donna, forse la sorella, a recarsi presso la tomba del Cristo). Ora che il fratello era morto, che senso aveva per lei restare nubile (in un Paese peraltro dove le donne si sposavano molto presto)? Lei e Gesù dovevano prendere una decisione comune e lui la prese sul piano politico, approfittando della situazione oggettivamente favorevole all'insurrezione armata a fianco dei farisei progressisti, cui lo stesso Lazzaro apparteneva (visto che la sorella Marta fa mostra di credere nell'idea di resurrezione). A nome del fratello morto, Maria lo ringraziò della decisione, profumandolo come se fosse un messa vittorioso. Si era resa conto che, per quanto riguardava le sue questioni personali, avrebbe dovuto ancora aspettare.

95 Da notare che in Gv 12,10 s. i sommi sacerdoti deliberarono di far morire anche Lazzaro, per il fatto che s'era alleato col Cristo. Ma non è da escludere che ciò venga detto per avvalorare la versione romanzata di quanto Gesù aveva fatto nei giorni precedenti a Betania.

96 Parlare di “sommi sacerdoti” al plurale fa pensare, visto che in quel momento ve n'erano solo due, che tra Anania e suo genero Caifa vi fosse, almeno nei riguardi di Gesù, una certa unanimità d'intenti.

97 Attenzione che questa indicazione di tempo ha dato luogo a una ridda di interpretazioni sulla cronologia della passione, che qui non staremo certo a esaminare. Poiché tendiamo a dar ragione al IV vangelo, rispetto al protovangelo, si può in sostanza sostenere che l'ultima cena avvenne di giovedì, senza alcun riferimento religioso alla cena pasquale, mentre il giorno dopo si verificò il processo davanti a Pilato, durato tutta la mattinata, e la morte di Gesù, che avvenne poco prima che subentrasse il sabato, secondo il modo ebraico di contare le ore. Giovanni lo indica morto il 14 nisan, di venerdì, cioè il 7 aprile del 30 o, al massimo, il 3 aprile del 33. I Sinottici invece usano la data del 15 nisan, pur sempre di venerdì, quindi la data della morte verrebbe spostata al 27 aprile del 31. Sia l'anno 30 che il 31 verrebbero a corrispondere ai 46 anni di costruzione del Tempio, di cui parla Gv 2,20 (cosa che fa presumere che Gesù abbia iniziato a predicare intorno al 28). Considerando inoltre che la sua data di nascita viene collocata tra il 7 e il 4 a.C., e che secondo Giovanni egli si recò a Gerusalemme almeno tre volte, per la pasqua, può essere morto tra i 32 anni (come limite minimo) e i 37 (come limite massimo). La tradizione lo fa morire a 33, ma questo è un numero magico che ha vari significati simbolici (lo stesso Davide, p.es., viene fatto regnare a Gerusalemme per 33 anni). Infine, secondo gli esperti sindonologi, pare che sugli occhi di Gesù siano state trovate tracce di due monetine risalenti agli anni 29-31.

98 Si noti che nella Vulgata il termine greco “Iscariota” (ἰσκαριώτης o ἰσκαριὼθ) viene reso con “Scariotis”, a testimonianza che sull'origine di questa parola non si sa nulla di preciso. Alcuni esegeti sostengono che “Iscariota” sia una variante di “sicario” o comunque di “bandito” (il che porterebbe a credere che Giuda fosse uno zelota estremista); altri pensano che sia una specie di nomignolo spregiativo il cui significato è “traditore”. Se è un soprannome e non un nome geografico (Kérioth?) o un'indicazione di parentela (figlio di Simone Iscariota), è facile che indichi qualcosa di politico, in un senso però che non si poteva tradurre.

99 Ciò viene spiegato nel vangelo di Marco col racconto della guarigione miracolosa del cieco Bartimeo. Spesso questo evangelista, per spiegare cose umane e politiche, ricorre a espedienti prodigiosi di varia natura: in genere le guarigioni, quando in gioco sono questioni umane, o azioni strabilianti, quando in gioco sono eventi politici, come p.es. la moltiplicazione dei pani e dei pesci e la camminata sul lago di Tiberiade. Il suo è un modo di venire incontro alle caratteristiche di un'utenza proveniente dal paganesimo.

100 Alla corrente farisaica appartenevano circa 6.000 membri attivi, ma il numero dei simpatizzanti doveva essere molto più alto.

101 Da notare che mentre nei Sinottici quando si parla di “missione” è in riferimento a quella degli apostoli incaricati da Gesù al fine di realizzare il regno di Dio; qui invece è sempre quella di lui stesso “inviato” dal Padre, al fine di salvare il mondo dall'angoscia di sentirsi maledetto a causa del peccato d'origine.

102 In tal modo i tre preavvisi che nel proprio vangelo Marco, con la sua fantasia deviante, attribuisce a Gesù, circa il tragico destino che l'attendeva nella Città Santa, gli apostoli non avrebbero potuto interpretarli che come una sorta di generico ammonimento, non come una certezza o un fatto incontrovertibile, altrimenti sarebbe stato impossibile per loro seguirlo sino in fondo.

103 “Odiare la propria vita” è un'espressione terribile, che poteva venire in mente solo a una comunità cristiana sconfitta politicamente. L'insurrezione infatti doveva servire per migliorarla non per odiarla ancora di più. Ecco perché diciamo che i redattori di questo vangelo dovevano appartenere a una comunità monastica che viveva in luoghi desolati, sperduti, ove era facile maturare, al proprio interno, idee apocalittiche o comunque molto categoriche, le uniche in grado di giustificare una scelta di vita così radicale.

104 “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (12,31): qui il termine “giudizio” (krisis) ha chiaramente il senso di una condanna senza appello. Altrove invece a Gesù vien fatto dire, più diplomaticamente, ch'egli non esprime alcun “giudizio”, in quanto ognuno verrà giudicato sulla base delle proprie opere alla fine della storia.

105 Da notare che alcuni esegeti han pensato che l'Apocalisse sia stata scritta contro Paolo.

106 Molti esegeti han notato che i vv. 12,24-26 in cui Gesù si paragona al chicco di grano che deve morire per dare frutto, sono di derivazione sinottica, e con ciò si accontentano di aver individuato degli inserimenti redazionali tardivi in un testo originario. In realtà qualunque riferimento abbia fatto Gesù circa la necessità di “dover morire”, per scelta autonoma o per adempiere a una misteriosa volontà divina, va considerato assolutamente fuori luogo. È alquanto limitativo considerare “redazionali” dei versetti che risultano già presenti altrove e non considerare alla stessa maniera quelle parti del vangelo in cui domina un impianto teologico.

107 Come noto, la tradizione religiosa si è sempre immaginata questa cena attorno a un tavolo, ma la parola usata da Gv 13,23 (ἀνακείμενος) potrebbe anche essere tradotta come “mensa”, il che non esclude un pasto consumato per terra, sdraiati su dei tappeti. Lo stesso Mc 14,15 parla di “grande sala coi tappeti”.

108 Trenta denari sarebbe stata una cifra ridicola per un gesto di così enorme portata. Matteo prende la somma da Zaccaria 11,12. Il protovangelo non ne parla, e neppure il quarto, anche se quest'ultimo sostiene che Giuda fosse un ladro. Se fosse stato davvero un ladro, gli sarebbe bastato fuggire con le risorse finanziarie che gestiva, sicuramente di molto superiori ai trenta denari. Giuda, in realtà, era un politico come tutti gli altri apostoli, e quando lo si qualifica come avido di denaro, gli si fa solo un torto, non senza una certa coloritura antisemitica. Per non parlare del fatto che, per ovvi motivi, si fa un torto anche ai Dodici e a Gesù: tenere, tra l'élite del movimento, un soggetto così abietto e meschino, sarebbe stato un controsenso.

109 Cfr La morte di Gesù, ed. Ubaldini, Roma 1971, p. 27.

110 In greco viene usato il termine speira, che indica una schiera, un manipolo, una coorte di soldati che poteva andare dai 200 ai 1000 uomini. Giovanni usa anche il termine chiliarcos per indicare il tribuno. Quindi è impossibile non pensare che non vi fossero dei Romani a supporto dei servitori armati dei sadducei e dei farisei. Naturalmente vi sono stati esegeti che, pur di scagionare i Romani, hanno sostenuto che Pilato sembra essere all'oscuro del caso Gesù, e i due suddetti termini potevano riferirsi anche a un corpo militare giudaico (come p.es. le truppe di Archelao contro i rivoltosi della Giudea, di cui parla Giuseppe Flavio nelle sue Antichità). Dicendo ciò però non ci si rende conto di sottovalutare la precisione terminologica di Giovanni, testimone oculare di quel tragico momento; senza considerare che se fossero state presenti soltanto delle guardie giudaiche, il movimento nazareno in quel momento si sarebbe difeso.

111 Si noti che il capo delle guardie giudaiche (probabilmente lo stesso Malco che Pietro avrebbe voluto uccidere), alla domanda di Gesù su chi cercavano, non usa l'espressione “Gesù nazarenos”, bensì “Gesù nazoraios”, che si ritrova anche nel titolo posto sulla croce. Il che non voleva essere, come alcuni esegeti confessionali sostengono, un modo spregiativo di chiamare un galileo da parte di un giudeo, ma, al contrario, il riconoscimento di un titolo pubblico, in quanto si voleva avere la sicurezza di catturare proprio lui, senza possibilità di errore in quella notte buia. D'altra parte l'appellativo “nazoraios” ricorre dodici volte nel Nuovo Testamento, con chiaro riferimento alla messianicità del Cristo (Matteo, p.es., lo usa in 2,23 e 26,71), mentre “nazareno” viene usato quattro volte nel vangelo di Marco, che molto probabilmente l'ha inventato per sostenere la tesi dell'origine galilaica del Cristo.

112 Si noti che durante l'ultima cena due volte i discepoli chiedono a Gesù dove stia andando (13,36; 14,5), eppure in 16,5 egli si lamenta che nessuno gli chieda “dove vai?”.

113 Alcuni esegeti han fatto notare che le parole “da tanto tempo” lasciano pensare che la predicazione del Cristo sia stata molto più lunga persino del triennio di cui parla Giovanni. C'è chi ha suggerito che se ha iniziato la sua attività pubblica nel 27 ed è morto nel 33, poteva avere anche una quarantina d'anni (Ireneo gli attribuisce addirittura un'età tra i 40 e i 50 anni!).

114 Si noti comunque che né la Chiesa romana né quella bizantina sono mai riuscite a vedere nella stretta identificazione di Cristo con Dio una sorta di ateismo. Se alla domanda: “Mostraci il Padre”, uno risponde: “Vedendo me, vedete lui” (14,8 s.), è evidente che un'affermazione del genere può essere interpretata anche nel senso dell'inesistenza di qualunque Dio diverso dall'uomo. Certo nel linguaggio di Giovanni tale identificazione viene posta dai mistici manipolatori del IV vangelo allo scopo d'intenderla come “esclusiva” del Cristo e non come pertinente ad ogni uomo; ma se il Cristo l'ha davvero pronunciata, non può averla pensata in maniera diversa da un'altra affermazione, detta ai Giudei poco prima che tentassero di lapidarlo: “Tutti voi siete dèi” (10,34). Il che voleva appunto dire che non esiste alcun Dio diverso dall'uomo.

115 A questa conclusione si può arrivare in altri due modi: uno è quello della teologia catafatica, l'altro quello della teologia apofatica. In virtù della prima Dio non è più grande dell'uomo che lo pensa: di qui il bisogno di dimostrare con delle prove razionali la sua esistenza (col Filioque addirittura il Figlio ha le stesse identiche funzioni del Padre). In virtù della seconda Dio è talmente più grande dell'uomo che è del tutto irrappresentabile (Dio è tutto ciò che non è), per cui potrebbe anche non esistere.

116 Qui in verità sarebbe meglio dire che il Paraclito viene promesso ai cristiani che si sono ritirati dal “mondo”, come hanno fatto i redattori di questo vangelo, vivendo un'esperienza di tipo monastico.

117 Si noti che questa pericope viene scritta subito dopo il v. 14,31, in cui Gesù, uscendo dal Cenacolo, conclude il suo discorso dicendo, con tono preoccupato, in quanto Giuda non è ritornato dalla missione nei tempi previsti: “Alzatevi, andiamo via di qui”. Ma poi i discorsi continuano per altri tre capitoli e solamente in 18,1 si ha la vera partenza verso il Getsemani. Questo a riprova che il vangelo è stato manipolato a più riprese e da mani diverse. Peraltro la parabola della vite e i tralci non ha alcuna vera connessione col tema della partenza di Gesù dal Cenacolo.

118 Se gli aspetti bio-geografici relativi a Giovanni sono veri, forse un giorno sarà possibile ritrovare il suo vangelo o nell'odierna Turchia o nell'isola di Patmos.

119 I quattro vangeli, gli Atti e le principali lettere di Paolo erano considerati fondamentali probabilmente già all'inizio del II sec., in risposta al canone proposto da Marcione, anche se l'accenno più antico ai quattro vangeli canonici si ha con Giustino nel 150.

120 È una sottigliezza teologica di non poco conto sostenere che, quando si parla di Spirito Santo, occorre fare differenza tra “procedere dal Padre” (cosa che indica una relazione ontologica tra le due entità divine) e “essere inviato dal Figlio” (cosa che esclude la medesima relazione d'origine, in quanto quella del Figlio non è di “processione” ma solo di “figliolanza”). Tale differenza terminologica i teologi latini, molti secoli dopo, non vorranno capirla, e arriveranno a porre abusivamente il Filioque all'interno del Credo, facendo così del Figlio un nuovo “Padre” dello Spirito, rivale del Padre originario. Neanche i protestanti son stati in grado di capirla. In realtà, anche prescindendo da qualunque considerazione mistica, in quella differenza tra Figlio e Spirito si può intravedere la necessità di far originare il cosmo da un principio duale (maschile e femminile?), in cui gli opposti si attraggono per completarsi e si respingono a motivo della loro diversa identità. Una teoria, questa, che va oltre quella del Logos enunciata nel Prologo.

121 Alcuni esegeti han fatto notare che il discorso d'addio riferito al cap. 16 non è che una ripetizione, in forma non molto diversa, di quanto già detto al cap. 14. Qui invece vorremmo far notare che l'espressione “non mi vedrete più” è sufficiente per negare credibilità a tutti i racconti di riapparizione del Cristo; non solo, ma mette anche in discussione le immagini tradizionali di parusia trionfale che aveva la comunità post-pasquale (immediata, come voleva Pietro, differita, come voleva Paolo). Ciò in quanto il Cristo ha già vinto il mondo, il suo “Principe”, e non ha bisogno di ripetersi. Piuttosto è il genere umano che deve prenderne atto.

122 In un certo senso si potrebbe dire che nella teologia cristiana anche il Figlio “procede” dal Padre (cfr Gv 16,27-28: “… io sono venuto da Dio. Sono uscito dal Padre...”), ma in maniera diversa, secondo la relazione “Padre-Figlio”. Si può qui facilmente notare come tutta questa artificiosa costruzione dei rapporti infratrinitari non sia altro che una proiezione mistica dei rapporti naturali che si vivono in ambito familiare, resi qui metafisici a motivo del fatto che i redattori sono teologi monaci. Sono rapporti patriarcali, dove la funzione del Padre è nettamente superiore a quella del Figlio e dello Spirito. Quest'ultimo, che rappresenta indubbiamente il lato femminile della Trinità, a volte sembra essere una sorta di “sorella” del Figlio, altre volte una sorta di “moglie” del Padre. Figlio e Spirito sono comunque visti come propaggini del Padre, indipendenti tra loro, ma provenienti entrambi da una fonte comune.

123 Storicamente non vi sono fonti certe su che fine abbiano fatto gli apostoli, a parte il fratello di Giovanni, Giacomo, fatto uccidere dal re Agrippa nel 44. Stando a Flavio Giuseppe l'altro Giacomo, detto il Minore, sarebbe stato condannato a morte dal sommo sacerdote Anano nel 62. Secondo le leggende, Andrea (che probabilmente rimase sempre con Giovanni) fu crocifisso a Patrasso nel 60 in una croce messa a X; Pietro crocifisso a testa in giù a Roma ai tempi di Nerone; Filippo inchiodato a un albero a testa in giù a Hierapolis nell'80; Bartolomeo scuoiato o scorticato in Siria verso il 68; Tommaso fu trafitto da una lancia a Mylapore, in India, nel 72; Matteo ucciso con una spada in Etiopia nel 70; Giuda Taddeo e Simone zelota uccisi da sassate, lance e colpi di mazza in Persia nel 70, ma del secondo si dice anche che fu segato in due. L'unico a morire di vecchiaia sarebbe stato Giovanni, a Patmos.

124 A Masada Erode il Grande aveva fatto costruire la propria fortezza. Nel 66 d.C. era stata conquistata da un migliaio di Sicari. Quando fu espugnata dai Romani nel 73, trovarono che tutti i rivoltosi si erano suicidati.

125 Si provi ora a sostituire la parola “Dio” con la parola “democrazia”, e ci si accorgerà facilmente di quanto siano ancora moderne queste parole.

126 L'Orto o Monte degli Ulivi o Getsemani si trovava a circa mezzo chilometro dalle mura di Gerusalemme, dall'altro lato del torrente Cedron. La sua parte orientale era collegata con le vie provenienti dal Giordano e dal deserto, luogo di rifugio consueto per banditi e ribelli.

127 Alcuni esegeti confessionali sostengono, pur di negare la presenza romana nel contesto (che necessariamente doveva supporre una autorizzazione da parte di Pilato), che Giovanni abbia parlato di “coorte” proprio per indicare che le autorità giudaiche avevano impiegato un gran numero di persone.

128 Lo si capisce anche dal fatto che Pietro cerca di colpire un servo del sommo sacerdote Anania (la coorte era in retroguardia) e Gesù viene anzitutto tradotto, stranamente, davanti a questa autorità, deposta dai Romani, e poi davanti a Caifa.

129 Tutto il IV vangelo vuol presentare un Cristo che si offre spontaneamente alla morte per adempiere fedelmente alla volontà del Padre. In tal senso la passione ha qualcosa di glorioso, se non addirittura di trionfalistico. Marco e Matteo invece ci danno un'interpretazione piuttosto drammatica della sua passione e morte, poiché egli è solo e abbandonato da tutti ed è come “costretto” a fare la volontà del Padre (cosa che Luca cerca di attenuare con una descrizione dai toni smorzati e moralistici).

130 Si noti come nel vangelo di Marco l'udienza sia solo davanti a Caifa, di cui l'unico testimone, tra gli apostoli, è Pietro, e risulterà decisiva per deliberare la consegna di Gesù a Pilato per la sentenza di morte. Nei Sinottici Gesù viene condannato, in un certo senso, per “ateismo”, in quanto pretende di proclamarsi “Figlio di Dio”, e per farlo condannare da Pilato gli accusatori inventano pretesti di tipo politico.

131 A dir il vero Luca cita Anania in 3,2 ma come se lui e Caifa avessero detenuto contemporaneamente la carica di sommo sacerdote! E ripete l'errore in At 4,5-6, sostenendo addirittura che Giovanni e Alessandro fossero sommi sacerdoti. Gli esegeti sono arrivati a pensare che sia stata una mano redazionale a inserire in questi testi il nome di Anania, in riferimento alla testimonianza di Giovanni. Risulta inoltre strano che Giuseppe Flavio dica che Anania restò in carica “per molto tempo”, a meno che non si riferisca al fatto ch'egli detenne il potere religioso dietro le quinte, servendosi appunto di cinque figli, un nipote e un genero, tutti insediati in quella carica prestigiosa, benché solo Caifa capace di conservarla, a motivo del suo opportunismo, per diciotto anni (18-36): lui e Pilato furono deposti, per motivi diversi, quasi contemporaneamente. Non è da escludere che Caifa, per far fronte all'accusa di servilismo nei confronti dei Romani, avesse assunto, alla fine della sua carriera, un atteggiamento più radicale.

132 Dei cinque figli di Anania, quello che fece giustiziare Giacomo il Giusto, fratello di Gesù, e cioè Anano II, fu assassinato dagli Idumei nel 62, poco prima che scoppiasse la rivolta zelotica del 66.

133 Il fatto che al momento dell'udienza presso Anania non sia presente Giacomo Zebedeo (assente anche al momento della crocifissione di Gesù) può far pensare che i due fratelli avessero vissuto esperienze d'impegno politico piuttosto diverse. Probabilmente Giacomo era più vicino agli ambienti zelotici.

134 Da notare che per Flavio Giuseppe i partiti zeloti e sicari coincidono: i secondi sono semplicemente quelli che uccidono con pugnali corti i collaborazionisti ebrei.

135 Caifa era stato scelto nel 18 da Valerius Gratus (15-26), governatore della Giudea prima di Pilato, e restò in carica fino al 36-37. Prima di Caifa, Grato aveva già deposto e nominato altri quattro sommi sacerdoti.

136 Attenzione che qui non si vuole sostenere che se talune cose descritte nel IV vangelo non vengono riportate nel vangelo marciano, allora quest'ultimo presenta sicuramente delle falsità. Si vuol semplicemente dire che, siccome il IV vangelo, a differenza dell'altro, è stato oggetto di pesanti manipolazioni, si può presumere che in quegli aspetti che appaiono più verosimili di altri, esso possa accampare molte più ragioni di quelle riscontrabili nel protovangelo. Avendolo scritto per ultimo, l'autore non aveva certamente bisogno di ripetere cose già dette.

137 Si noti inoltre che nei Sinottici non si sa bene per quale motivo Gesù venga arrestato, né perché venga imbastito in tutta fretta un processo per il quale non si sono preparati dei testimoni di fiducia, ai quali nemmeno gli accusatori credono, ed è solo in seguito alla denuncia di Caifa, immediatamente successiva all'autodichiarazione di Gesù circa la propria natura divina, che viene emessa la sentenza di condanna capitale per il reato di blasfemia.

138 Si noti però che in Atti 12,4 Erode Agrippa I, che aveva appena fatto decapitare Giacomo Zebedeo, voleva eliminare Pietro non durante la Pasqua, bensì subito dopo, al fine di non provocare tumulti popolari. Questo non perché Pietro fosse più pericoloso di Gesù, ma perché erano aumentate notevolmente le tensioni contro le autorità colluse coi Romani.

139 All'inizio del suo mandato - così scrive Flavio Giuseppe - Pilato tentò d'introdurre a Gerusalemme le immagini dell'imperatore Augusto affisse agli stendardi militari. Poiché Augusto veniva considerato dai Romani una divinità, ciò costituiva una violazione della legge ebraica. La cosa si ripeté quand'egli fece esporre nel palazzo di Erode, sempre a Gerusalemme, alcuni scudi dorati che recavano il nome dell'imperatore: anche quella volta dovette rimuoverli (è probabile che questo fatto spieghi l'inimicizia tra Erode e Pilato di cui parla Lc 23,12). Vi fu poi l'episodio dell'acquedotto che avrebbe dovuto portare l'acqua nella Città Santa, quand'egli cercò di usare una parte del sacro tesoro del Tempio per costruirlo (si pensa con la collaborazione delle stesse autorità): la protesta fu immediatamente repressa, anche se coi randelli, non con le spade (il che comunque comportò vari morti), e l'impresa fu portata a termine. Pare che Lc 13,1 si riferisca proprio a quell'episodio.

140 Naturalmente era compito dei Romani mostrare la loro superiorità anche in campo tecnico-materiale, edificando città, strade, ponti, acquedotti, fognature, ecc.: il che permetteva di far sostenere più facilmente il peso dell'occupazione militare.

141 Nessuno sa quanti abitanti avesse Gerusalemme al tempo di Gesù: si va da un minimo di 120 mila a un massimo di 600 mila (esclusi ovviamente i momenti delle feste). Gli ebrei di Giudea e Galilea potevano arrivare anche a 1,5 milioni; quelli della Diaspora si aggiravano sui 5-7 milioni. Quindi in tutto la Palestina poteva avere circa due milioni di abitanti.

142 Se anche fosse vera la controdomanda che Gesù rivolge a Pilato, quando questi gli chiede s'egli era davvero il re dei Giudei: “Dici questo da te o altri te l'han detto di me?” (18,34), resta comunque impossibile che Pilato non sapesse nulla delle intenzioni dei nazareni di compiere un'insurrezione anti-romana. Dunque o è falsa la meraviglia del governatore o lo è l'idea redazionale di farlo sembrare ignaro di tutto: “Son io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti han consegnato a me [cioè a mia insaputa]; che cosa hai fatto [che io non so]?” (v. 35). In entrambi i casi si è cercato di far ricadere tutta la responsabilità della morte di Gesù sui Giudei. Il cristianesimo primitivo, in queste poche battute, mostra d'essersi alleato coi Romani contro i Giudei, e gli esegeti che accettano una tesi del genere sono inevitabilmente antisemiti, oltre che antidemocratici.

143 Si può tuttavia pensare che la stessa lunghezza del racconto del processo dimostri che una certa resistenza alla sentenza finale dovette esserci stata, benché i vangeli non ci dicano nulla sull'atteggiamento che ebbero i discepoli di Gesù in quel frangente, pur avendo essi avuto la possibilità di fuggire dal Getsemani. Pilato lo mandò al patibolo soltanto verso mezzogiorno e verso le tre Gesù muore (stranamente però secondo Mc 15,25.33 è crocifisso verso le nove e muore a mezzogiorno, come se la sua fonte, cioè Pietro, non fosse stata neppure presente a quel tragico evento!).

144 Da notare che il rapporto di complicità con Roma che Israele viveva soltanto nei suoi livelli istituzionali, il cristianesimo riuscirà invece a farlo accettare a tutti i propri adepti, salvo il rifiuto di considerare l'imperatore una divinità, cosa per la quale passerà alla storia come una religione ideologicamente irriducibile e, agli occhi pagani dei Romani, come politicamente eversiva.

145 Alcuni esegeti hanno sostenuto che Gesù non sia stato condannato al posto di Barabba, ma in qualità di “barabba” (il karabas - scrive Filone nella lettera Ad Flaccum - era una specie di idolo che gli Alessandrini portavano in giro come figura simbolica di un re ridicolo. In ciò vi sarebbero somiglianze con lo Zoganes babilonese, che nelle feste Sacee veniva impersonato da un prigioniero prossimo all'esecuzione capitale, preventivamente flagellato). Si noti, peraltro, che in alcuni manoscritti del vangelo matteano (27,16 s.) il nome intero di Barabba era Gesù Barabba: forse successivamente il nome Gesù è stato tolto per evitare che un terrorista portasse lo stesso nome del Cristo (così dice Origene), oppure si è trattato di un semplice errore del copista.

146 La stessa parola greca viene usata in Mc 14,48, Mt 26,55 e Lc 22,52, allorché Gesù, nel Getsemani, dice ch'erano venuti a catturarlo come se fosse stato un terrorista o un pericoloso criminale. Peraltro Gv 10,1 e 12,6 usa un'altra parola per indicare il ladro: kleptês. E in ogni caso non avrebbero potuto essere “crocifissi” con Gesù due semplici kleptês.

147 Stranamente viene scritto che “gridarono di nuovo” (18,40) il nome di Barabba, senza però specificare quando sia stato fatto la prima volta.

148 Se i flagellatori fossero stati ebrei, non avrebbero potuto dare più di 40 colpi.

149 L'odio dei soldati romani contro Gesù si spiega anche col fatto che la Galilea era considerata il principale centro della sovversione palestinese. Le ultime grandi rivolte, prima di Cristo, erano avvenute intorno al 6-7 d.C., capeggiate da Giuda il Galileo (o di Gamala), con l'appoggio di seimila farisei guidati da Zadok. La rivolta venne duramente repressa (almeno duemila zeloti furono crocifissi). Fu a motivo di ciò che la Giudea fu trasformata da regno tributario a territorio direttamente amministrato da Roma.

150 Secondo alcuni storici le periodiche provocazioni di Pilato contro i Giudei sarebbero state compiute per compiacere l'antisemita Seiano, al quale era debitore per la sua nomina.

151 Svetonio racconta che proprio Vitellio, che pur cercò di riconciliare Roma con Gerusalemme, introdusse l'usanza di venerare l'imperatore come una divinità: “ritornato dalla Siria fece mostra di non potersi avvicinare all'imperatore se non con il capo coperto da un velo e poi prosternandosi”. Interessante altresì notare che la comunità ebraica di Alessandria inviò come ambasciatore Filone, il suo filosofo e teologo più prestigioso, nel 39 d.C. proprio per protestare contro le violenze, da parte di alcuni pagani protetti dal prefetto d'Egitto Flacco, ch'essa subiva a motivo del fatto che rifiutava di omaggiare l'imperatore con un culto religioso. Caligola manderà a morte il prefetto.

152 Stranamente Giuseppe Flavio non dice mai che tra Anania e Caifa ci fosse un rapporto di parentela (genero-suocero), lasciando piuttosto pensare che tra i due vi fosse una certa rivalità politica, probabilmente dovuta al fatto che Caifa era molto remissivo nei confronti dei Romani.

153 Gesù nasce nel momento in cui la Giudea era stata incorporata entro l'impero romano come una semplice colonia da sfruttare. Il censimento, che in quell'occasione venne fatto per la ripartizione dei tributi, fu la causa della nascita del partito zelota (capeggiato da Giuda di Galilea e appoggiato dal fariseo Zadok), destinato a svolgere, 60 anni dopo, un ruolo decisivo nella guerra giudaica contro Roma. Era da quando i Maccabei (129 a.C.) li avevano liberati dal dominio seleucide, che gli ebrei fruivano dell'indipendenza nazionale. Infatti con Erode il Grande, pur essendo egli un principe cliente di Roma, essi non pagavano il tributo a un sovrano straniero. Indubbiamente Erode era odiato per la sua origine idumea, la sua crudeltà e i suoi gusti paganeggianti, ma professava pur sempre la religione ebraica e aveva ricostruito il Tempio splendidamente. Non a caso il primo scontro armato coi Romani avvenne soltanto alla sua morte (4 a.C.), quando il procuratore della Siria Sabino, approfittando dell'assenza di un figlio di Erode, Archelao, aveva di fatto assunto il potere provocando una ribellione popolare, sedata dalle legioni del governatore della Siria Publio Quintilio Varo, che crocifisse duemila Giudei (lo stesso Varo si ucciderà nel 9 d.C., dopo aver perso tre legioni nella foresta di Teutoburgo ad opera dei Germani. Da notare che Roma continuerà a combattere contro i Germani per altri sette anni, dopodiché deciderà di porre il Reno come confine nord-orientale dell'impero, e la cosa resterà inalterata per i successivi 400 anni).

154 Già nel I sec. a.C. Silla, Pompeo e Cesare cercarono di diffondere il culto della loro persona. Alla sua morte Cesare venne proclamato divus, equiparato quindi a un Dio, e venne istituito il suo culto. Quando Ottaviano venne proclamato Augusto, numerose città orientali chiesero di poterlo onorare, poi il culto dell'imperatore vivente si diffuse anche nell'area occidentale, spesso connesso a quello della Dea Roma. La teocrazia vera e propria si realizzerà, nel mondo pagano, solo a partire da Diocleziano, dopodiché riguarderà gli imperatori cristianizzati.

155 Paradossalmente si è qui costretti a sostenere che Gesù Cristo fu condannato sulla base di due motivazioni che in un certo senso convergevano: una espressa dal mondo ebraico (era ateo), l'altra espressa dal mondo pagano (era sovversivo). Il che non significa ch'egli non fosse politicamente sovversivo anche per gli ebrei, visto che per loro teologia e politica erano strettamente connesse, e che il suo ateismo non potesse essere malvisto anche dai Romani, per i quali la religiosità di un cittadino era considerata un criterio di affidabilità, sotto l'aspetto sia etico che politico.

156 Curiose queste parole, poiché sin dall'inizio del processo tutti gli evangelisti han sempre presentato Pilato come un inetto, un pusillanime, del tutto incapace di prendere una decisione autonoma, quando, in realtà, rispetto a tutti gli altri procuratori romani che gestirono la Giudea prima della guerra definitiva, fu quello che durò più a lungo.

157 Ci piace qui far notare che l'esegeta gesuita Ignace de la Potterie, sfruttando una leggerissima ambiguità sintattica del versetto 19,13 di Giovanni: “Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette nel tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto...”, arrivò persino a sostenere, nel proprio delirio mistico, che su quel seggio, usato da Pilato per sentenziare, fosse stato messo a sedere lo stesso Gesù, a testimonianza ch'egli era diventato il nuovo giudice del mondo e di tutta la storia (cfr Biblica, 41/1960)! Parole analoghe vengono dette dagli esegeti confessionali nei confronti della croce, vista come “trono regale”.

158 Da notare però che, mentre nel Salmo 69,22 l'aceto vien dato da bere in senso negativo a chi ha sete, durante la crocifissione, invece, è dato in senso positivo. Parimenti, nel libro di Zaccaria il “trafitto” verso cui le nazioni ostili guarderanno è la città di Gerusalemme, non una persona in particolare, o comunque è il simbolo di qualcosa di positivo, che andava salvaguardato, non contaminato da usanze pagane. Cioè il pentimento doveva servire per conservare in maniera integra qualcosa che si era perduto o dimenticato o tradito. Nel vangelo invece il pentimento serve per abbracciare una nuova religione, influenzata dall'ellenismo, molto diversa dalla precedente. Si noti comunque la precisione con cui Giovanni indica il tipo di canna con cui il militare diede da bere a Gesù, infilandole nella punta la spugna imbevuta d'aceto: era un “ramo d'issopo” (19,29).

159 Mt 2,23 sostiene che Gesù veniva chiamato “nazareno” non perché fosse galileo, ma perché i suoi genitori, ch'erano Giudei, si erano trasferiti nella città di Nazareth, avendo timore del re Archelao, figlio di Erode. Nel vangelo di Giovanni invece il trasferimento di Gesù in Galilea fu una conseguenza del fallimento dell'epurazione del Tempio.

160 Volendo, anche da questo particolare dei capelli e della barba, si potrebbe ipotizzare un periodo di attività politica a partire dal momento del voto del nazireato. I medici comunque sostengono che l'uomo della Sindone avesse un'età compresa tra i 30 e i 40 anni.

161 Si noti che lo stesso Paolo di Tarso viene definito “capo della setta dei Nazorei” (At 24,5), a testimonianza che il termine “cristiano” è stato usato per rompere con la realtà del movimento nazareno, di cui Paolo voleva prendere la guida, trovando però una certa opposizione da parte di Giacomo il Giusto, fratello di Gesù, anch'egli “nazireo” e più legato alle tradizioni giudaiche.

162 Piuttosto che bere sangue (simbolo, per definizione d'impurità) un qualunque ebreo si sarebbe fatto uccidere. Le regole per mangiare animali, resi totalmente privati della più piccola goccia di sangue, erano e sono ancora oggi piuttosto rigorose.

163 Il v. 30 è stato tradotto dalla Bibbia di Gerusalemme in maniera molto mistica: “Tutto è compiuto”.

164 C'è chi ha visto nel grido di dolore, riportato in Mc 15,37, un modo per anticipare la morte, riducendo il peso della sofferenza.

165 Ovviamente Marco introduce il tema del “segreto messianico” in maniera mistificata, facendo credere che nel Cristo non esistevano aspetti politici di qualsivoglia natura.

166 Non sappiamo neppure perché non sia stato Giovanni, visto che aveva avuto il coraggio di stare nei pressi della croce ed era conosciuto dal pontefice Anania, a chiedere a Pilato il corpo di Gesù. Probabilmente non lo fece perché non possedeva un sepolcro nei pressi del Golghota. Non è da escludere però che sia stato proprio lui a intercedere presso Giuseppe d'Arimatea, poiché, da come descrive la sepoltura, sembra essere a conoscenza di molte cose, incluso appunto il fatto che Giuseppe aveva un proprio sepolcro scavato nella roccia, mai usato, nei pressi della croce.

167 Di sicuro non era Giovanna, poiché ciò sarebbe parso troppo rischioso per la moglie di Cuza, funzionario di Erode Antipa. Semmai poteva essere Marta, se la Maddalena coincide con la Maria sorella di Lazzaro. Ma allora perché non dirlo? Sembra che anche su questa Maria di Betania sia piombata la censura.

168 Peraltro il redattore racconta della pietra rimossa come se il lettore sapesse qualcosa, ma in 19,42 dice solo che deposero Gesù nel sepolcro. È in Mc 15,46 e Mt 27,60 che ci viene detto che Giuseppe fece rotolare una grossa pietra sulla porta del sepolcro. Che davanti al sepolcro ci fosse una pietra viene detto, nel IV vangelo, solo parlando della morte di Lazzaro, dove la pietra viene fatta togliere su ordine di Gesù (Gv 11,38-41).

169 Alcuni esegeti han fatto notare che il fatto che Pietro “seguisse” Giovanni sta probabilmente a indicare, visto che nella terminologia giovannea “seguire” significa “essere discepolo”, una certa subordinazione di Pietro al discepolo prediletto.

170 Soudarion è un vocabolo di origine latina sudarion, che è un panno usato per detergere il sudore (sudor). In Lc 19,20, la parabola dei talenti, il terzo servo lo usa per conservare la moneta; mentre in At 19,12 i soudaria vengono posati sui malati dopo che sono stati a contatto con Paolo. Questo panno di lino non è specificamente menzionato da Giovanni nella descrizione della preparazione del cadavere per il seppellimento (Gv 19,40), ove si parla semplicemente di bende. Invece in Gv 11,44 (racconto di Lazzaro), l'evangelista afferma che: “il morto, legato mani e piedi con bende e la sua faccia era avvolta in un sudario (soudario)”. Per noi sudario e sindone o coincidono oppure è stata usata la parola sudario per negare la presenza della sindone.

171 Si noti che al v. 8 è scritto: “E vide e credette”. Queste sono parole molto strane, poiché, visto ch'erano in due, avrebbero dovuto essere messe al plurale. Qui sembra che gli apostoli abbiano visto due cose diverse o che, in ogni caso, abbiano dato alle medesime cose due diverse interpretazioni. Cioè si ha l'impressione che Giovanni non parli di “resurrezione” (di sicuro non ne parla come nel vangelo marciano), bensì di “strana scomparsa del corpo”, e la stranezza stava proprio in quel lenzuolo ripiegato.

172 Si noti che nelle traduzioni in lingua italiana si è sempre preferita la parola “risorto” a quella di “ridestato”, in riferimento alla tomba vuota del Cristo, al fine di non dare adito alla tesi della morte apparente. Ma nel testo greco i due termini sono equivalenti. Semmai in greco si nota una certa differenza tra l'azione attiva (“ridestarsi o risorgere da solo”) e quella passiva (“essere ridestato o risorto da qualcuno”), che evidentemente non vogliono dire la stessa cosa.

173 Se questo è vero, è possibile anche sostenere che tra il momento del decesso e il momento del ridestamento passarono soltanto poche ore, quelle sufficienti a impedire che il cadavere entrasse in putrefazione.

174 Il fatto che si sia voltata due volte nella stessa direzione (20,14.16) ha naturalmente insospettito gli esegeti; così come il fatto che in 20,1 s. essa s'allontani dalla tomba, mentre in 20,11 risulti di nuovo vicina; per non parlare del fatto che in 20,2 e in 20,13 dice due volte la stessa cosa e che gli angeli da lei visti (20,12 s.) le pongono la stessa domanda del Gesù risorto (20,15): “Perché piangi?”. A motivo di tali incongruenze molti esegeti vanno a cercare in quali particolari versetti si possono ravvisare delle mani redazionali e non riescono ad accettare l'idea che tutto il racconto (ad eccezione della semplice scoperta della tomba vuota) sia completamente inventato. Pensano che se davvero lo fosse, avrebbe dovuto avere maggiore coerenza, e non s'accorgono che le incongruenze (dovute in questo caso a sovrapposizioni) non sono altro che mistificazioni aggiunte ad altre mistificazioni.

175 Si noti come questa frase detta da Tommaso: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi...” (20,25), sembra contraddire l'evidenza sindonica dei chiodi nei polsi. Certo, si può pensare che qui venga detto “mani” per includere anche i polsi, ma non è da escludere che al momento della stesura del vangelo i redattori non sapessero più bene dove venissero infilati i chiodi, come d'altra parte non lo si saprà più sino a quando quel lenzuolo non verrà fotografato nel 1898.

176 Non è da escludere che anche Giovanni abbia creduto, sino all'ultimo, in un ritorno del Cristo, successivo alla morte di tutti gli altri apostoli.

177 Da notare che nell'ebraico biblico “kipphàh” (pietra), l'appellativo zelota usato per indicare Simon Pietro, vuol dire anche “capo militare”. L'altro significato è “rami di palma”, ch'era il simbolo dei partigiani combattenti contro Roma, in ricordo dei Maccabei. La stessa parola aramaica “Baryona” non voleva certo dire “figlio di Jona” (Mt 16,17), ma, semmai, combattente rivoluzionario, partigiano, latitante ecc.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Nuovo Testamento
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