STUDI LAICI SUL NUOVO TESTAMENTO


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MIKOS TARSIS

METODOLOGIA DELL'ESEGESI LAICA

Introduzione - 1) L'esegesi laica dei vangeli. Dall'invenzione alla falsificazione - 2) Questioni preliminari di metodo esegetico - 3) Per una storiografia laica dell'evento-Gesù - 4) Le tre ricerche esegetiche sul Cristo - 4.1) La Prima ricerca (1778-1906) - 4.2) Meriti e demeriti della critica positivistica della religione - 4.3) La Seconda ricerca (1892-1985) - 4.4) La Terza ricerca (1985-oggi) - 5) Considerazioni critiche - 6) Il cristianesimo primitivo nella storiografia russa - 7) Quando l'esegesi diventa inutile - 8) La fede ebraica e cristiana in seimila anni - 9) È possibile una biografia attendibile del Cristo? - 10) Per una esegesi critica - 11) I vangeli e il genere fantasy - Conclusione

Introduzione

I

L'esegesi confessionale considera i testi evangelici e tutti quelli del Nuovo Testamento come se fossero “veri” per definizione, le cui singole falsità non pregiudicano la verità complessiva, che si ritiene “ispirata”. Le falsità particolari vengono annoverate tra le semplici sviste o banali imprecisioni, errori involontari da parte dei copisti.

Proprio a motivo di questa sua categoricità, per essa risulta impossibile dialogare con un'esegesi laica, che per forza di cose non può vantare delle dimostrazioni apodittiche. I ragionamenti di un'esegesi non confessionale possono essere soltanto basati sull'induzione e quindi sulla probabilità (Aristotele docet). Essi però hanno il vantaggio di essere aperti al confronto dialettico e si guardano bene dal pretendere un'adesione fideistica a un dogma indiscutibile.

Questo per dire che mettere a confronto un'esegesi confessionale con una laicista, non ha alcun senso. Quando non ci si trova d'accordo neppure sulle premesse di un qualunque discorso, si finisce solo col perdere del tempo. Oggi un vero confronto è possibile solo tra differenti esegesi di tipo non confessionale, anche perché i ragionamenti deduttivi (quelli da premesse generali indiscutibili) che fanno i credenti diventano, in ultima istanza, ripetitivi e molto poveri di contenuto. Qualunque conclusione, infatti, deve servire per loro soltanto a dimostrare la validità delle premesse del sillogismo: non deve aprire la mente a elaborare nuove riflessioni.

Con questo naturalmente non si vuol sostenere che un'esegesi confessionale, siccome non è in grado di dimostrare la validità delle premesse dei propri sillogismi, non valga nulla. Ogni esegeta deve partire da premesse che ritiene vere: che poi qualcuno le ritenga vere in senso dogmatico, mentre un altro ritenga che le proprie siano vere solo in senso probabilistico, la sostanza non cambia. I ragionamenti si fanno sempre sulla base di premesse che si vogliono dimostrare. La differenza, semmai, sta nel modo in cui si permette all'interlocutore di reagire di fronte a determinate conclusioni. Ed è noto che nessuna confessione religiosa permette al credente di avere opinioni difformi da quelle canonizzate ufficialmente.

Qui sta la vera differenza tra il dogmatismo della fede religiosa e la libertà di critica della ragione laica. Se poi uno vuole sostenere che i dogmi sono inevitabili quando si costruiscono strutture comunitarie e che la libertà di critica può permettersela soltanto un'individualità isolata, allora bisogna rispondere che una comunità religiosa basata sui dogmi, è la prima a violare la libertà di coscienza.

II

Di tutti i vangeli, canonici o apocrifi che siano, soltanto due contano davvero qualcosa: quello di Marco (detto anche protovangelo) e quello di Giovanni. Tutti gli altri, in riferimento al “caso Gesù”, contano assai poco.

Quello marciano è il più importante di tutti perché la teologia petro-paolina che lo supporta ha fatto da terminus ad quem per tutti gli altri vangeli, inclusi quelli che sembrano dipendere da altre fonti.

La differenza tra questo vangelo e il quarto sta nel fatto che là dove il primo è stato manipolato, non si è fatto altro che accentuare il contenuto mistico che già possedeva, seppur in misura ridotta; viceversa il testo originario di Giovanni, ch'era stato scritto contro quello di Marco (o, in ogni caso, contro la teologia petro-paolina), è stato manipolato proprio perché si doveva tener conto di una teologia ufficiale pregressa, vera conditio sine qua non per potersi definire “cristiani”.

Marco non è stato un discepolo di Gesù, ma di Pietro, e in parte di Paolo, quindi il suo testo riflette anzitutto le idee petrine, cui però si sono col tempo sovrapposte quelle paoline, ovviamente non in forma così marcata come nel vangelo di Luca, che, in un certo senso, può essere definito il vangelo di Paolo, essendo stato Luca un suo discepolo diretto, per quanto nel suo testo non vi siano tutti i temi paolini.

Sia Luca che Matteo copiano smaccatamente da Marco e da un'altra fonte storicamente inconsistente, ch'è stata chiamata “Q” (da Quelle, che in tedesco vuol dire fonte).

L'ultima cosa che si può dire è che i manipolatori del quarto vangelo dovevano appartenere a un ambiente monastico, per cui, anche se la loro teologia è indubbiamente uno sviluppo spiritualistico di quella petro-paolina, nondimeno presenta degli aspetti che si differenziano non poco da tale teologia. E qui basterà citarne uno solo: nei Sinottici la crocifissione è vista come l'adeguamento della volontà di Gesù a Dio-padre; in Giovanni è invece vista come momento glorioso che lo stesso Gesù ha ardentemente desiderato.

Questa è la chiave per interpretare tutti i vangeli, i quali, pur essendo stati canonizzati solo nel IV secolo, già nel I si ponevano, con la loro teologia petro-paolina, in antitesi al messaggio ateistico e politicamente sovversivo del Cristo.

III

Se si legge un vangelo con l'intenzione di escludere tutte le parti mistiche o sovrannaturali, riguardanti il Cristo, come p.es. i miracoli, gli esorcismi, la trasfigurazione, la resurrezione, le apparizioni dopo morto, l'ascensione, ma anche gli interventi personali da parte di Dio o dello Spirito Santo a suo favore, le dichiarazioni ch'egli faceva sulla propria origine divina, le affermazioni redazionali relative a tale origine, le profezie o previsioni circa le intenzioni degli uomini o gli accadimenti del futuro, e cose del genere, non resta quasi nulla. I vangeli non meriterebbero d'essere considerati più importanti dei poemi omerici, o più interessanti delle fiabe di Andersen o più significativi dei grandi romanzi russi. Perché quindi migliaia di esegeti si ostinano a esaminarli criticamente? Per quale motivo lo fanno anche quelli che non posseggono la fede cristiana o sono addirittura atei dichiarati? Le ragioni sono fondamentalmente tre.

1) Anzitutto ancora oggi centinaia di milioni di persone, sparse in tutto il mondo, credono nella sostanza dei vangeli; cioè, anche se ritengono che alcune parti possano essere “esagerate” (o “redazionali”), nel complesso però reputano affidabili questi testi. È difficile dire se si comportano così per convinzione personale o perché vincolati da un'appartenenza ecclesiale. Noi sappiamo soltanto che tale appartenenza li rende politicamente o anche solo culturalmente molto influenti, tant'è che un esegeta confessionale non può permettersi di dire cose che non collimano coi criteri di adesione alla sua Chiesa di riferimento, a meno che lui stesso – come accadeva nel passato e soprattutto nel mondo protestante – non faccia emergere, in virtù della propria interpretazione, una nuova confessione religiosa.

Lo stesso esegeta laico, privo di una specifica fede religiosa, non può non sapere che qualunque affermazione faccia contro l'autenticità dei vangeli, incontrerà inevitabilmente l'opposizione, diretta o indiretta, politica o culturale, da parte di quelle istituzioni che difendono l'interpretazione canonica dei testi fondativi della religione cristiana. Un esegeta laico può anche scrivere un commento che smonta l'autenticità dei vangeli o che mina la credibilità del Nuovo Testamento, ma deve sapere che senza il supporto di strutture o di organizzazioni laiche, sociali o politiche, la sua critica difficilmente sortirà qualche effetto, di sicuro non nel lungo periodo.

Questo per dire che i testi religiosi che hanno fondato il cristianesimo posseggono, indirettamente o per ragioni storiche, un qualche contenuto politico, in quanto vengono tutelati da istituzioni di potere. La stessa cosa, peraltro, accade nel mondo ebraico o islamico. Chi è controcorrente, facilmente viene bollato di eresia, blasfemia o apostasia.

2) Un esegeta laico commetterebbe un grave errore metodologico se, nell'analisi dei vangeli, scartasse a priori tutte le parti mistiche. Un atteggiamento del genere avrebbe senso se si considerassero tali racconti il frutto di una pura e semplice invenzione. In tal caso sarebbe giusto esaminare i vangeli né più e né meno di come si fa con le favole per bambini.

Il fatto è però che coi vangeli si è sempre in presenza di qualcosa che va oltre la semplice invenzione letteraria. Le parti mistiche tendono piuttosto a censurare, a falsificare o a mistificare parole o azioni che di religioso non avevano nulla.

Compito fondamentale dell'esegeta è, in tal senso, quello di scoprire dove, come e perché si è operato un travisamento di ciò che concerneva il Gesù storico. L'esegesi quindi serve soprattutto a capire le caratteristiche della comunità di riferimento dei manipolatori dei vangeli, che sono opere collettive, scritte da autori anonimi in momenti diversi, a distanza di molti anni dagli argomenti trattati; e i redattori dovevano tener conto delle versioni considerate ufficiali circa il modo d'interpretare alcuni fondamentali eventi (p.es. nessun vangelo prescinde dal fatto che la tomba vuota andava interpretata come “resurrezione” e che quindi Gesù avesse una “natura divina”). Il testo che non rientrava in determinati canoni ermeneutici andava considerato “apocrifo”.

Naturalmente un esegeta laico non sarà costretto a considerare i quattro vangeli neotestamentari più attendibili o più vincolanti di tutti gli altri che la Chiesa cristiana ha voluto escludere dal canone. Saranno soltanto le valutazioni storico-critiche a decidere quale importanza dare a questo o a quel testo del cristianesimo primitivo.

3) Una volta identificate le parti mistiche; una volta individuate le motivazioni ideologiche che le hanno rese possibili, cos'altro resta da fare all'esegeta laico? È qui che interviene la sua intelligenza deduttiva. Egli infatti non potrà non chiedersi che possibilità vi sia di risalire a ciò che davvero di autentico può riguardare la vita di Gesù Cristo. Se le parti mistiche sono false, e se sappiamo il motivo per cui sono state prodotte, in che modo possiamo risalire a qualcosa di autentico utilizzando delle fonti così tendenziose e inquinate?

Possiamo farlo solo indirettamente, facendo valere la rigorosità di un ragionamento, la sua coerenza interna. E di volta in volta ci si confronterà su tali ragionamenti, su queste libere interpretazioni, svincolate da qualunque schema precostituito di tipo religioso, e ci si aiuterà a vicenda a scoprire la verità plausibile delle cose. Certo è che questo lavoro non potrà essere fatto con esegeti che nutrono idee di tipo religioso. La fede preclude di per sé, a prescindere dalle intenzioni dell'esegeta, una valutazione obiettiva delle cose. La laicità non può fare molta distinzione tra religione e superstizione.

Probabilmente, dopo aver compiuto il lavoro di filtraggio da tutti i sedimenti che rendono inattendibile la figura storica di Gesù, si arriverà a un punto in cui ci si accorgerà che restano due sole caratteristiche utilizzabili per interpretarlo: una è relativa alla concezione umanistica della vita, di natura laica; l'altra è relativa alla tensione politico-rivoluzionaria con cui egli avrebbe voluto compiere la liberazione nazionale dai nemici esterni (i Romani) e interni (la casta sacerdotale, il potere giudaico colluso con l'oppressore straniero).

Se si parte da questi due presupposti, i vangeli riacquisteranno la loro importanza, verranno riletti in tutt'altra maniera, potranno addirittura suggerire dei comportamenti utili per superare le contraddizioni del nostro presente.

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1) L'esegesi laica dei vangeli

Dall'invenzione alla falsificazione

I

La trattazione laica della figura del Cristo e del cristianesimo in generale può sottostare, a tutt'oggi, se si vuole assicurarle un minimo di scientificità, a due sole fondamentali e preliminari impostazioni di metodo: quella dell'invenzione e quella della falsificazione.

Ogni altra forma di esegesi, fosse anche derivata dalla demitizzazione bultmanniana, va considerata come “confessionale”, benché tra queste esegesi religiose vi siano differenze di non poco conto, al punto che si dovrebbe tendere a preferire le esegesi ortodosse a quelle cattoliche, in quanto più favorevoli a un cristianesimo di tipo “democratico” e non “monarchico”, e quelle protestanti a quelle ortodosse, in quanto più vicine al moderno ateismo o laicismo.1

Le migliori esegesi di tipo cattolico sono state quelle più vicine alle ideologie del socialismo o comunque del laicismo in generale (p. es. il modernismo, la teologia della liberazione, il cristianesimo per il socialismo...). Tutte correnti entrate profondamente in crisi dopo la fine del cosiddetto “socialismo reale”, anche se nei confronti delle istanze emancipative della religione cristiana, in genere, è notevolmente aumentata la disillusione a livello mondiale, specie sotto il pontificato di Wojtyla, dove gli aspetti accattivanti del “carisma personale” avevano praticamente fatto da paravento al valore del messaggio, che era profondamente conservatore, esattamente come quello del suo successore.

Questo per dire che le esegesi di tipo laico non dovrebbero rifiutare di confrontarsi con le esegesi di tipo confessionale, benché sia a tutti evidente che una qualunque esegesi confessionale parte sempre da un presupposto per un laico assolutamente indimostrabile, e cioè che il Cristo sia il “figlio di Dio” o che comunque esista un “Dio”.

Sotto questo aspetto è indubbiamente più facile che il confronto con le ideologie religiose verta su argomenti non strettamente o non esclusivamente religiosi, come la pace, la giustizia sociale, la libertà di coscienza, la tutela della vita e dell'ambiente ecc.

Oltre a questo va detto che un'esegesi laica del cristianesimo non può non tener conto del fatto che a questa religione dicono di credere ancora centinaia di milioni di persone, senza metterne minimamente in discussione i presupposti originari e neppure i dogmi, che pur hanno una loro storia, spesso alquanto controversa (si pensi solo a quello dell'infallibilità pontificia).

Noi non abbiamo il diritto di provocare tensioni tra le persone giudicandole negativamente per un dato atteggiamento assunto nei confronti della religione. Non possiamo dileggiare i presupposti della fede dei credenti, in quanto, anche se sappiamo che tali presupposti non hanno fondamenti scientifici, essi possono costituire, per chi vi crede, una vera fonte di “vita”, che può anche mutare l'esperienza personale. La psiche umana resta sempre qualcosa d'insondabile.

Non possiamo neppure non considerare il fatto che se da un lato può esistere uno Stato laico e aconfessionale, dall'altro può esistere, nel medesimo Stato, una nazione confessionale o pluriconfessionale, come sempre più stanno diventando quelle europee, a causa dei fenomeni migratori. In una parola noi non possiamo sindacare sulle opinioni di coscienza.

A questo punto però ci si può chiedere quali possano essere gli spazi di manovra di un'esegesi non confessionale del fenomeno religioso in generale e del cristianesimo in particolare, soprattutto delle sue fonti letterarie e non. Cioè la domanda che dobbiamo porci è la seguente: in che modo possiamo compiere un'analisi laica del cristianesimo senza offendere i sentimenti dei credenti, senza scendere in forme superate di anticlericalismo, senza creare inutili, anzi controproducenti battaglie di retroguardia?

Un modo l'abbiamo già detto: affrontando argomenti comuni, che coinvolgano credenti e non-credenti, che sono “comuni” appunto perché riguardano lo sviluppo della società civile. In questo modo il confronto avviene su questioni concrete, oppure, se su questioni teoriche, in base a un'impostazione generale di tipo laico, dove ci si differenzia soltanto nelle conclusioni finali, negli scopi ultimi dell'impegno umano e civile.

L'altro modo è quello di promuovere un'analisi scientifica o razionale, o storicamente fondata, o culturalmente motivata e qualificata dei testi in cui i credenti dicono di basare la loro fede, evitando accuratamente, oltre alle cose già dette in riferimento all'anticlericalismo, di parteggiare per questa o quella posizione religiosa, o anche solo di sostenere la causa di chi si oppone, per motivi religiosi, alla religione dominante. Nessuna religione è in grado di risolvere alcun problema dell'umanità, anche se, in quanto laici, lotteremo contro le discriminazioni per motivi religiosi e siamo ben consapevoli che non tutti i laicismi costituiscono alternative convincenti alle religioni.

Noi dobbiamo semplicemente dimostrare che vi sono ragioni sufficienti per insinuare dei dubbi all'interno di certezze secolari, ritenute incontrovertibili. Questo modo di procedere lo si incontra spessissimo nella storia del pensiero umano. Gli stessi cristiani, in origine, lo adottarono per mettere in discussione i fondamenti ideologici dell'ebraismo e del paganesimo.

Certo, noi potremmo dire di non aver bisogno di compiere un lavoro culturale del genere, in quanto la società in cui viviamo, che è borghese e capitalistica, porta naturalmente il credente a diventare scettico, agnostico, indifferente alle questioni religiose.

Potremmo anche pensare che il modo migliore di superare i pregiudizi religiosi sia quello di non far nulla e di attendere che il consumismo e la progressiva laicizzazione dei costumi e degli stili di vita facciano naturalmente il loro corso. Le stesse religioni sembrano oggi avere sufficienti anticorpi per isolare gli elementi più fanatici o estremistici al loro interno.

Tuttavia noi dobbiamo creare una società basata sull'umanesimo laico, cioè su una cultura che deve porsi in maniera autonoma, critica e propositiva. Noi non possiamo restare indifferenti al fenomeno religioso, anche quando questo fenomeno agisce nei limiti della legalità o della ragione.

In Italia abbiamo ancora l'insegnamento confessionale di una religione che viola la laicità dello Stato e il carattere pubblico della scuola, abbiamo uno Stato della Chiesa che gode dell'extraterritorialità in uno Stato che pretende legittimamente di essere sovrano, abbiamo continue ingerenze del clero cattolico nella vita politica, sociale e culturale del nostro paese, soprattutto nei momenti cruciali in cui si deve esprimere la libertà di coscienza e di voto politico, abbiamo una Costituzione che attraverso il Concordato mantiene un rapporto privilegiato con una determinata confessione, abbiamo delle statistiche falsate dal fatto che l'appartenenza o meno a una religione viene misurata in rapporto al numero dei battesimi, abbiamo una sorta di assistenza fiscale alle religioni convenzionate con lo Stato che passa sotto l'otto per mille, abbiamo spesso dichiarazioni di esponenti di governo o di istituzioni statali che esprimono pubblicamente esplicite preferenze per la religione cattolica in rapporto ad altre religioni, e così via.

Di fronte a tutto questo la cultura laico-umanistica non può assumere una posizione neutrale, di indifferenza, lasciando che siano i tempi, in maniera spontanea, a portare uomini e donne a rivedere l'atteggiamento assunto nei confronti di questa o quella religione.

Non possiamo limitarci a credere che quanto sia stato fatto in questi ultimi 500 anni, riguardo alla critica del fenomeno religioso (critica che in Italia è addirittura iniziata coi movimenti ereticali medievali), possa essere considerato sufficiente per tutelarci dagli abusi, dalle strumentalizzazioni politiche che ancora oggi si fanno di questo fenomeno e delle sue idee.

Noi vorremmo che la fede restasse circoscritta nei limiti della libertà di coscienza e che le comunità religiose venissero trattate come associazioni private, ma così purtroppo non è. Privilegi ingiustificati e indebite ingerenze persistono senza che da parte laica vi sia una sufficiente contestazione.

È indubbio che su questa debolezza della cultura laica ha pesato la metodologia di certa sinistra, che ha preferito ignorare il fenomeno religioso, temendo di scatenare guerre inopportune, anticlericalismi giacobini, e questo nella speranza di veder aumentare il proprio elettorato. Ma così facendo si è impoverita la cultura laica, che oggi non ha strumenti convincenti per contrastare ciò che le si oppone.

Ecco perché occorrerebbe riprendere la battaglia sui due versanti in cui più sono visibili le anomalie: quello culturale e quello politico. Quest'ultimo in relazione alle continue ingerenze clericali nella vita quotidiana. L'altro in relazione alle tesi integralistiche, ai dogmi della fede, alle opinioni dominanti in materia di religione.

II

Ma cerchiamo anzitutto di spiegare la differenza terminologica dei due termini fondamentali: invenzione e falsificazione.

Le favole, le fiabe sono invenzioni letterarie, prodotte dalla fantasia popolare e messe per iscritto da qualche redattore, spesso anonimo. Non sono necessariamente delle falsificazioni, poiché l'oggetto che si sarebbe dovuto falsificare non appariva così importante o così compromettente.

Certo, dietro taluni personaggi fiabeschi possono celarsi nomi di principi e sovrani autoritari, realmente esistiti, che non avrebbero tollerato di essere esplicitamente citati. Ma qui non siamo ancora in presenza di manipolazioni falsificatorie, cioè di mistificazioni più o meno mascherate, volute coscientemente per nascondere realtà scomode. Nelle fiabe popolari si possono incontrare accorgimenti letterari, forme di garanzie, di tutela da eventuali spiacevoli ritorsioni. Tant'è che spesso i redattori hanno preferito, per motivi di sicurezza, trincerarsi dietro l'anonimato e chi non l'ha fatto, come p. es. Esopo, è stato anche assassinato.

Un genere letterario che potrebbe essere letto in quest'ottica sono le parabole evangeliche, le quali, pur prendendo spunto da fatti concreti, sono in sostanza delle invenzioni letterarie, che non si pongono come obiettivo la falsificazione della realtà; anzi nei momenti di gravi limitazioni della libertà espressiva, l'uso della parabola, come critica metaforica dei poteri dominanti, può aver caratterizzato la stessa predicazione del Cristo.

La realtà, nelle fiabe, viene semplicemente edulcorata in quegli aspetti che potrebbero risultare sconvenienti per l'incolumità personale. La critica delle istituzioni, dei poteri dominanti che si fa attraverso questi artifici letterari è quindi sempre indiretta, è più etica che politica, o se vogliamo è solo implicitamente politica.

In una via di mezzo tra l'invenzione e la falsificazione stanno tutti i racconti natalizi dei vangeli di Matteo e di Luca. Qui la falsificazione interviene sull'invenzione, allorquando si vuole dimostrare che il Cristo è “figlio di Dio” o “di Davide”, secondo una genealogia del tutto inventata.

I racconti natalizi sono stati presi da tradizioni pre-cristiane, adattate al cristianesimo, esattamente come i classici omerici hanno preso vari temi da racconti molto antichi, reimpostandoli in modo tale che apparisse in maniera evidente la superiorità della civiltà ellenica. Anche qui in fondo si è in presenza di una falsificazione, in quanto sono state esageratamente esaltate le caratteristiche degli uomini di una civiltà antagonistica, appunto quella ellenica, mettendo in cattiva luce tutti i personaggi che non rientravano nei valori di questa civiltà (si pensi alla figura volutamente mostruosa, caricaturale, di Polifemo, rappresentante di una società agro-pastorale che l'astuto mercante-militare Ulisse doveva assolutamente sconfiggere ed espropriare). Ma questa falsificazione non aveva lo scopo di creare un “movimento popolare”: era solo un sollazzo intellettuale per i ceti benestanti, serviva semplicemente per confermare una posizione acquisita. Coi vangeli la questione è molto diversa e lo vedremo strada facendo.

III

Se prendiamo un qualunque racconto evangelico sulle guarigioni del Cristo è relativamente facile individuare nel carattere miracoloso dell'intervento terapico l'aspetto falsificatorio introdotto consapevolmente dai redattori. Usiamo l'avverbio “relativamente” poiché non vogliamo escludere a priori la possibilità che talune guarigioni abbiano avuto per oggetto delle malattie psico-somatiche, per le quali non era indispensabile alcuna terapia di tipo “religioso”.

Tuttavia in questi racconti quel che è molto più difficile accertare non è tanto la differenza tra “falso miracolo” e “terapia psico-somatica”, quanto la differenza tra “falsificazione” e “mistificazione”. Quest'ultima in genere sta nel tentativo di alterare, reinterpretandolo in chiave mistica, un contenuto che nella realtà originaria era politico o semplicemente umano. Proviamo ora a dare delle definizioni astratte e vediamo se in qualche modo possono trovare riscontro nei vangeli.

Noi sappiamo che quando una cosa è completamente inventata, si deve parlare di “invenzione” non di “falsificazione”. Si “scopre” qualcosa che era in natura, ma si “inventa” qualcosa attraverso la mente umana.

Di nessuna fiaba o favola si potrebbe mai parlare di “falsificazione”. Anche i miti e le leggende sono stati completamente inventati, per quanto dietro di essi vi possono essere state delle situazioni reali, cioè delle vicende andate perdute nella notte dei tempi, che magari non si volevano ricordare esattamente com'erano avvenute. Solo in maniera molto limitata i miti e le leggende possono rispecchiare quelle vicende.

D'altra parte anche certe fiabe popolari possono aver avuto delle radici storiche, per noi impossibili da individuare e da decifrare. Faremmo un favore troppo grande ai poeti, ai narratori e agli scrittori in generale dicendo che il loro parto di fantasia è stato assolutamente autonomo rispetto al dato sociale, ai condizionamenti del loro tempo.

Però in tutti questi casi non parliamo mai di “falsificazione” ma solo di “invenzione”. Gli uomini, con la loro fantasia e immaginazione, s'inventano delle cose per cercare d'interpretare se stessi e il mondo che li circonda, lasciando ai posteri tutte le operazioni ermeneutiche che vogliono.

Tutti sanno che si tratta soltanto di “invenzioni”, tutti possono sospettare che dietro ci sia qualcosa di vero, che è stato tramandato, attraverso le generazioni, in maniera distorta o poco chiara, o magari in maniera metaforica, simbolica, allegorica..., ma nessuno parlerà mai di “falsificazioni”. Sono soltanto “invenzioni” non “realtà”: lo si sa sin dall'inizio o comunque lo si intuisce, lo si sospetta, per cui si sta al gioco, anche perché, in ultima istanza, non si dà loro un gran peso rispetto all'esigenza che si ha di vivere in maniera dignitosa.

Anche il 99% della cinematografia è fiction, eppure davanti a molte scene ci si commuove, ci si indigna o ci si smaghisce, e si ha piacere di provare una certa empatia per questo o quell'attore; si arriva persino a immedesimarsi nel suo comportamento, nel suo linguaggio, nel suo abbigliamento... I film piacciono quando fanno provare sensazioni, emozioni, pur essendo noi consapevoli che gli attori stanno soltanto recitando una parte. Nel Medioevo non era ben visto il mestiere dell'attore, proprio perché si sapeva che poteva trarre in inganno. Non a caso negli Stati Uniti, il paese che più di ogni altro ama creare miti, quando un attore entra in politica riesce facilmente ad avere successo, a testimonianza che l'elettore medio fa poca differenza tra realtà e fiction: la politica è spettacolo come un concerto di musica leggera ed essa è strettamente legata al business, come il lancio pubblicitario di un film.

I miti son come le mode: dopo un po' passano e dopo un altro po' ritornano, con qualche variante, di forma, di stile... I miti sono forse “falsificazioni” della realtà? In parte sì, poiché tendono a edulcorare le cose, a semplificarle, a creare situazioni e personaggi che in fondo si somigliano, dovendo essi personificare degli atteggiamenti standardizzati (gli americani, in questo, son davvero dei maestri, paragonabili solo agli antichi greci: quanti serial polizieschi hanno saputo fare sulla base del semplice cliché che vedeva nel poliziotto protagonista un tipo “burbero ma bonario”?).

Nei miti infatti si trasferisce il desiderio di ciò che non si ha e che si spera, con una buona dose di fortuna, di poter un giorno avere. Gli americani sono anche tra i più grandi giocatori al mondo, quelli a cui piace sommamente scommettere, azzardare, rischiare, illudersi fino all'eccesso. Per rinsavire da questa sbornia del mito hanno bisogno di eventi catastrofici, come p. es. un crollo borsistico.

Il mito, le fiabe, le favole..., persino gli spot pubblicitari: tutto serve per far sognare e quindi, in un certo senso, essi danno dipendenza, seppure più che altro a livello psicologico, anche se le conseguenze si possono far sentire sulle proprie condizioni sociali ed economiche. Sono invenzioni e forse anche delle falsificazioni e mistificazioni, però ci si continua a credere senza tanti problemi, non ci si accorge neppure dell'influenza che questi oppiacei hanno sulla nostra psicologia, se non quando è troppo tardi. Di regola ci piace ridere e scherzare su queste cose, ci piace passare il nostro tempo libero, illudendoci che, au fond, ci sia qualcosa di vero e che questo qualcosa possa in qualche modo coinvolgere anche noi. I più disincantati sopportano queste cose come un male inevitabile.

Oggi l'insieme dei miti e delle leggende, delle fiabe e delle favole passa attraverso la cinematografia, la musica leggera, lo sport (soprattutto il calcio), la pubblicità (in cui prevale quella dedicata a creare uno status symbol: l'automobile, la bellezza estetica del corpo, la soddisfazione dei sensi). In misura minore resta la religione, con la sua ideologia schematica, coi suoi fenomeni cosiddetti “paranormali”.

Se vogliamo, nelle nostre società è tutto un mito: dalle sedute spiritiche agli avvistamenti degli Ufo. Il fatto che si sia sviluppata la scienza e la tecnica non ha certo reso meno frequente il desiderio di illudersi sulla propria condizione di vita: ne ha soltanto mutate le forme espressive. Basta vedere con quanta forza viene alimentata dai mass-media l'idea di poter realizzare una vincita colossale che permetta di vivere di rendita. Non è forse questa una forma legalizzata di abuso della credulità popolare?

Eppure se qualcuno si mettesse a dire che tutti i miti sono falsi e bugiardi chi lo ascolterebbe? Finché non ci sarà una catastrofe epocale, ci si continuerà a credere, negando ogni evidenza, e forse non senza una qualche ragione, poiché ogni popolo ha bisogno di darsi dei miti. Dunque quand'è che parliamo di “falsificazione” vera e propria? Quand'è che diciamo che su una certa cosa fantastica, irreale, si può anche soprassedere, mentre su un'altra, che consideriamo più reale, no?

Quanti episodi di violenza sono stati scritti o rappresentati sullo schermo avendo per tema la falsificazione dei gioielli di una persona facoltosa, o quella di un testamento o di un atto di proprietà? Non sono forse innumerevoli le cose che si possono falsificare? I cinesi stanno diventando la prima economia del mondo anche per la loro grande capacità di creare copie più o meno fedeli all'originale.

È bene dunque parlare di “falsificazione” solo in presenza di una cosa vera. Un diamante, un dipinto, un assegno... possono essere falsificati perché da qualche parte esiste un originale, qualcosa di autentico. Falsificare gli originali è un reato, a meno che chi li acquista non sia a conoscenza della loro falsità, oppure non si sia autorizzati a venderli come falsi. Può far piacere avere un van Gogh in casa sapendo benissimo che è un falso.

P. es. quando, verso la metà del secolo scorso, furono trovati a Qumrân molti importanti rotoli risalenti a duemila anni fa, si scoprì che tutta la parte “sacramentaria” dei vangeli era di origine essenica. Per venti secoli s'era creduto fosse originaria dello stesso cristianesimo. Ma si può parlare in questo caso di “falsificazione cristiana”? Omettere di citare una fonte o attribuire a se stessi opere di ingegno altrui non è esattamente come falsificare un originale. Se chi ha in mano l'opera autentica denuncia il manipolatore di dati relativi alla paternità della stessa, facilmente l'avrà vinta. Non a caso la versione definitiva dei vangeli è stata elaborata quando nessuno era più in grado di contraddire i loro contenuti né di mettere in discussione la vera identità dei loro autori.

Nell'VIII secolo la Chiesa romana produsse la famosa Donazione di Costantino, che circa settecento anni dopo si scoprì essere un falso. Un falso di qualcosa di autentico? No, un falso nel senso che quando si produsse quel documento si volle a tutti i costi far credere che fosse autentico. La falsità non era solo nel documento in sé (fatto risalire al IV secolo), ma anche nel tipo di contenuto che si voleva far credere come autentico. Al falso materiale si univa quello ideologico.

Falsificare dunque vuol dire “far credere vera una cosa falsa”, che esista o meno un originale autentico. L'invenzione è una cosa bonaria, la falsificazione è un reato o comunque un'azione moralmente riprovevole, che non può giustificarsi neppure quando ha un fine superiore (p. es. la sicurezza dello Stato).

IV

Ma cos'è la mistificazione? La mistificazione è una forma ulteriore di falsificazione, o forse sarebbe meglio dire ad essa “precedente”, poiché è quella che viene usata non soltanto per “far credere vera una cosa falsa”, ma anche per “far credere falsa una cosa vera”. La mistificazione interviene là dove non è possibile eliminare completamente la verità dei fatti. Essa infatti insinua un dubbio, un sospetto su una cosa acquisita, data per certa. Ecco perché diciamo che la mistificazione viene generalmente usata all'inizio di quel processo di più generale falsificazione della verità.

Ovviamente il dubbio in sé non è negativo. Porre un dubbio nei confronti di una ideologia dittatoriale non è lo stesso che farlo nei confronti di una ideologia democratica. La mistificazione va considerata sempre come un aspetto negativo che si compie nei confronti della verità delle cose.

È un procedimento subdolo che si fa con maestria e piena consapevolezza degli obiettivi che si vogliono perseguire. Non avviene mai in maniera spontanea, istintiva, anche se può diventare una “seconda natura” in chi è abituato a vivere un'esistenza “falsa”, non conforme a esigenze umane e naturali. La mistificazione è un'operazione intellettuale (tanto più efficace quanto più è frutto di un collettivo) che deve indurre le masse a credere non solo vera una cosa falsa, ma, prima di tutto, a credere falsa una cosa vera.

La mistificazione non è necessariamente in relazione al trascorrere del tempo: infatti se si trovasse il Vangelo di Marco originario, sarebbe sicuramente già mistificato, seppur in forma minore rispetto all'attuale, mentre non lo sarebbe affatto quello originario di Giovanni, pur essendo stato scritto successivamente, anche se l'attuale quarto Vangelo ha subìto le manipolazioni più sofisticate.

Facciamo un esempio di subdola mistificazione prendendo in esame il Vangelo di Marco. Nel racconto del processo a carico di Gesù, ad un certo punto viene fatta un'affermazione che da sempre la Chiesa considera corrispondente al vero: “Pilato sapeva che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia” (15,10).

Alcuni esegeti hanno ritenuto interpolato il versetto, in quanto quello ad esso precedente e quello successivo risultano già perfettamente coerenti, per cui non c'era alcun bisogno di fare questa puntualizzazione dal sapore così psicologico e moralistico. Peraltro avrebbe avuto poco senso, nel mentre si descrive un'istruttoria pubblica, fare una considerazione sugli aspetti personali, di coscienza, del giudice, meno che mai da parte di un redattore sobrio come Marco. E poi non si spiega perché mettere Pilato in così cattiva luce quando tutto il Vangelo marciano fu scritto per dimostrare che i cristiani erano politicamente inoffensivi. Se Pilato sapeva che Gesù era innocente, che le accuse a suo carico erano false o comunque non sufficienti per comminare la pena capitale; se sapeva che le motivazioni della condanna non erano né politiche né giuridiche, ma soltanto religiose o addirittura di un così basso livello morale come l'invidia, perché s'è prestato al gioco dei capi giudei e l'ha lasciato condannare? Se l'ha fatto per un puro e semplice calcolo politico, egli non ne esce certamente bene come giudice.

Vien quasi da pensare che in quella aggiunta vi sia stata una mano piuttosto antisemitica, una mano che non voleva tanto mettere in cattiva luce Pilato, il quale sin dall'inizio appare come una vittima delle circostanze, un burattino nelle mani della “perfidia giudaica”, quanto mostrare che le motivazioni dei sacerdoti relative alla morte di Gesù erano particolarmente meschine.

Sia come sia, in questo Vangelo Marco sta dicendo, ai suoi lettori romani o comunque pagani, che un loro prefetto aveva lasciato morire un innocente, pur sapendo che lo era. Un'accusa, questa, molto pesante, interamente rivolta alla capacità di “giustizia” del diritto romano. Tuttavia la comunità cristiana di Marco vuole anche farsi accettare a tutti i costi da Roma. Dunque ecco il compromesso: essa è disposta a perdonare l'errore giudiziario se in cambio le si permetterà di agire indisturbata, cioè di diffondere il vangelo della resurrezione, quello di Pietro e di Paolo.

E così tutta la principale colpa della morte del Cristo viene scaricata sui Giudei, i quali – stando ai vangeli canonici – seppero astutamente servirsi dell'autorità pagana per coinvolgerla in un'esecuzione che per la legislazione imperiale avrebbe avuto poco senso, come spesso diranno i funzionari romani nei confronti della predicazione paolina e delle accuse che contro questa muoveva il giudaismo ortodosso. L'esperienza del Nazareno – secondo il Vangelo di Marco – rientrava nella sfera della religiosità, non della politica e, per questa ragione, le autorità romane non avrebbero dovuto avere alcuna difficoltà ad accettarla.

Sull'effettiva benevolenza romana circa gli affari religiosi bisogna in verità essere sempre prudenti, in quanto con la predicazione petro-paolina, che distingueva Dio da Cesare, non sarebbe stato possibile per un sistema teocratico, quale quello romano-imperiale, che arrivò ad un certo punto a divinizzare persino gli imperatori, ritenere tranquillamente “lecita” una religione diarchica come quella cristiana. Non a caso ci vollero tre secoli prima che si rendessero conto ch'essa era politicamente “conservativa”. Ed è stata una grandissima fortuna per il cristianesimo petro-paolino quella di poter apparire rivoluzionario a causa delle persecuzioni subite, quando in realtà esso si poneva in maniera particolarmente regressiva rispetto al movimento rivoluzionario del Nazareno.

In ogni caso nel Vangelo di Marco gli insofferenti nei confronti del credo del Nazareno appaiono non i Romani (che col centurione credono addirittura nella divinità di Gesù crocifisso) bensì i Giudei, intenzionati a difendere in qualunque maniera la loro religione esclusivistica, tradizionalistica e nazionalistica. Cioè siccome i Giudei vedevano che la popolarità del Cristo cresceva a dismisura, avevano preso a temerlo, a essere “invidiosi” del suo successo. Questa in sintesi la trama mistificata del giallo politico.

V

Ora perché questa ricostruzione dei fatti è mistificante? Forse perché la motivazione dell'invidia è insussistente? In realtà è proprio il contrario. Se quella motivazione fosse stata completamente inventata, non ci sarebbero voluti duemila anni prima di accorgersene. Essa dunque pesca nel vero, ma – come direbbe Pascal – “sino a un certo punto”.

Ognuno di noi ricorda il racconto della Genesi e le parole che il serpente disse alla donna per indurla in tentazione: “Dio vi ha detto di non mangiare alcun frutto degli alberi del giardino” (Gn 3,1). Ecco la mistificazione: il senso di un divieto viene reinterpretato per confondere le acque.

La donna però rispose dando l'interpretazione esatta: “No, noi possiamo mangiare i frutti degli alberi del giardino. Soltanto dell'albero che è in mezzo al giardino Dio ha detto: Non mangiatene il frutto, anzi non toccatelo, altrimenti morirete!” (Gn 3,2 s.).

Il serpente aveva insinuato un dubbio, offrendo una lettura parziale, riduttiva, semplicistica del divieto. La donna aveva reagito puntualizzando a dovere le cose, specificando le priorità, distinguendo il lecito dall'illecito.

Fin qui ovviamente non c'è colpa, anche se il fatto di scendere a discutere col nemico può diventare pericoloso. Infatti il serpente seppe approfittarne, rincarando la dose della mistificazione: “Non è vero che morirete, anzi, Dio sa bene che se ne mangerete i vostri occhi si apriranno, diventerete come lui: avrete la conoscenza del bene e del male” (Gn 3,4 s.).

Era una verità o una falsità? Era ovviamente una mezza verità, altrimenti sarebbe stato impossibile indurre in tentazione chi sapeva come stavano esattamente le cose. Era un'ambiguità semantica, detta con un fine falsificatorio: per poter sottomettere l'interlocutore bisognava prima ingannarlo. Il peccato d'origine non è altro che la nascita dello schiavismo in un ambiente che fino a quel momento aveva conosciuto rapporti di tipo egualitario. E schiavismo vuol dire avere qualcosa in più degli altri, dei più deboli, dei propri rivali, costi quel che costi.

La mistificazione serve sempre per far credere necessario desiderare qualcosa che in un determinato momento non si possiede o non si possiede come si vorrebbe. Questo “qualcosa” è sempre riferito all'arbitrio soggettivo che vuole imporsi su una dinamica collettiva. Quando i borghesi dicevano ai contadini che “l'aria di città rende liberi”, sperando che abbandonassero i feudi e accettassero di diventare operai nei loro opifici, dicevano in sostanza le stesse cose del serpente edenico.

La mistificazione agisce là dove vi è una situazione di debolezza o di difficoltà e diventa falsificazione vera e propria soltanto quando sfrutta l'impazienza nel risolvere i problemi, quando cioè fa leva sugli istinti per vincere la ragione.

L'uomo e la donna erano certamente destinati alla conoscenza completa delle cose, ma in tempi e modi che non potevano essere quelli di chi voleva assoggettarli con l'inganno, sfruttandone la debolezza, l'ingenua innocenza.

Si avvidero ch'erano nudi dopo aver accettato il primato dell'arbitrio, cioè si accorsero di aver perso l'innocenza dei rapporti umani e naturali e di aver cominciato a guardare le cose come il loro nemico, con malizia.

VI

Ora però cerchiamo di capire meglio dove sta la mistificazione nell'uso redazionale della colpa dell'invidia. Che i sommi sacerdoti, gli anziani, i sadducei, buona parte dei farisei e degli scribi avessero “invidia” del successo popolare di Gesù, accolto in maniera trionfale durante l'ingresso delle palme a Gerusalemme, appare pacifico.

Ma poteva essere solo questa la motivazione della condanna a morte? Evidentemente no. E non perché il potere non possa condannare a morte una persona di cui “invidia” il carisma, l'ascendente sulle masse popolari. Stalin fece sterminare migliaia di leader politici e militari del suo partito per molto meno.

La motivazione dell'invidia, che fa ricadere ogni responsabilità della morte del Cristo su tutti i capi giudei, nasconde in realtà altre motivazioni, come nelle scatole cinesi. E la principale, quella che assolutamente si doveva mistificare, adulterare, nascondere il più possibile era che il Cristo non voleva affatto anteporre alla religione giudaica una propria religione, ma voleva creare un sistema di vita sociale in cui la presenza della religione apparisse del tutto superflua. L'ateismo del Cristo poteva essere mistificato nel modo migliore non semplicemente negandolo, ma facendo credere ch'egli si proponeva come unico vero figlio di Dio.2

E forse per questa sua dichiarazione i Romani l'avrebbero crocifisso? Probabilmente no, benché un'autorità politica non veda mai di buon occhio un leader politico non professante alcuna religione. Al tempo della Repubblica e ancor più dell'Impero l'ateismo era al massimo l'acquisizione intellettuale di qualche filosofo, certamente non di un politico in carriera, che poteva sì essere ateo in coscienza (come p. es. Cicerone), ma a condizione che in pubblico svolgesse formalmente i riti previsti. Gli atei erano generalmente guardati con sospetto. Persino il monoteismo ebraico-cristiano, messo a confronto col politeismo pagano, passava per una pericolosa forma di ateismo (pericolosa in quanto si temeva che l'ateismo non offrisse garanzie sufficienti per una lealtà politica nei confronti delle istituzioni).

In ogni caso nei vangeli Gesù non viene giustiziato autonomamente dai Romani perché si proclama ateo, o perché si proclama figlio di Dio, ma perché il prefetto Pilato, preposto a garantire con tutti i mezzi l'ordine pubblico, volle fare un favore ai sommi sacerdoti, che odiavano Gesù quale eretico e sovversivo, in grado di minacciare seriamente la sicurezza del Tempio e della classe sacerdotale in generale, anche se la motivazione formale posta sulla croce dovette essere, agli occhi del funzionario romano, di natura politica (“re dei Giudei”, cioè sedizioso o ribelle). In questa maniera i redattori cristiani si sono risparmiati di chiamare in causa le ragioni, ben più importanti, che politicamente avevano portato Gesù a morire, ch'erano quelle di compiere una insurrezione nazionale in nome della democrazia e non quella di costruire un regno monarchico.

L'unica differenza tra i Sinottici e il quarto Vangelo sta nel fatto che per i primi Gesù doveva morire in quanto s'era fatto “figlio di Dio” (e quindi agli occhi dei Giudei osservanti appariva ateo), mentre per il Giovanni manipolato il Sinedrio decise di condannarlo a morte, temendo che la sua popolarità avrebbe compromesso le sorti della nazione, nella convinzione che i Romani sarebbero stati meno autoritari vedendo le autorità collaborare fattivamente con loro.

Si tratta di una considerazione aggiuntiva rispetto all'altra, di tipo teologico, di Marco, non destinata a contraddire l'idea che il Cristo si fosse ripetutamente dichiarato “figlio di Dio”. Di fatto in nessun vangelo Gesù appare ateo e sovversivo, né nei confronti dei propri seguaci e neppure agli occhi dei Romani. Pilato lo manda al patibolo per opportunismo non per convinzione: così lo dipinge la tesi marciana, cui tutto il Nuovo Testamento si attiene scrupolosamente.

Da tempo l'esegesi laicista ha chiarito che Gesù può tranquillamente essere stato un politico rivoluzionario sia contro qualunque forma di uso politico della religione, sia contro le istituzioni di potere basate sullo schiavismo. Ora non le resta che azzardare l'idea ch'egli fu anche un umanista ateo, sia per gli ebrei che per il movimento nazareno che dirigeva.

VII

Ora, più precisamente, cosa vuol dire “falsificare la realtà”? La realtà viene falsificata dai redattori anonimi dei vangeli e di tutto il Nuovo Testamento per una serie di ragioni.

Anzitutto la falsificazione viene fatta quando non si può prescindere da una determinata realtà: questa è la prima fondamentale motivazione. Nel senso che i redattori devono dare per scontata l'esistenza di una realtà ad essi precedente, di cui devono necessariamente tener conto, proprio perché loro stessi fanno parte di quella realtà.

Questa realtà, che in origine era quella umana e politica del Cristo, contiene un messaggio di vita, una proposta rivolta alle contraddizioni antagonistiche, conflittuali, della società schiavistica, nei cui confronti non ci si può porre in maniera neutrale: o la si accetta o la si rifiuta.

Se la si accetta bisogna essere coerenti e rischiare quello che il Cristo ha rischiato; se la si rifiuta e si vuole continuare a definirsi “cristiani”, bisogna necessariamente intervenire con una revisione dei fatti o appunto con una falsificazione.

Siccome la linea ufficiale, quella che per noi risulta storicamente prevalente, è stata la seconda, occorre che, nell'esame di queste fonti letterarie, si parta dal presupposto che dietro di esse vi sono state pesanti manipolazioni volte a giustificare una determinata scelta di campo.

Il marxismo della IIa Internazionale rientrava, a pieno titolo, nell'alveo del “socialismo scientifico”, però nell'imminenza della I guerra mondiale Lenin ebbe il coraggio di dire che in nome di questo socialismo i partiti della IIa Internazionale avevano tradito la causa del socialismo, in quanto invece di trasformare la guerra imperialistica in guerra civile, eliminando le rispettive borghesie nazionali che volevano portare l'umanità al massacro, avevano sostenuto l'idea di una guerra nazionale difensiva, mandando così il proletariato a combattere in trincea. Questo per dire che la falsificazione avviene sempre su qualcosa di già dato e da cui non si può prescindere.

La differenza, in tal senso, tra i vangeli e i poemi omerici sta appunto nel fatto che i redattori cristiani appartenevano a un movimento di persone che pretendeva di avere un progetto alternativo sulla società. Un progetto che, anche se non voleva porsi in maniera politica esplicita (salvo il concetto di separazione tra Chiesa e Stato), coinvolgeva sicuramente gli aspetti sociali e culturali.

Per noi che viviamo fuori della Chiesa può apparire irrilevante che i primi cristiani abbiano operato delle mistificazioni sul loro stesso fondatore; tuttavia sarebbe sciocco pensare che mistificazioni del genere possano avvenire solo in ambienti religiosi.

Qui piuttosto dovremmo chiederci: visto che una falsificazione da parte dei redattori neotestamentari indubbiamente vi è stata, a che livello essa s'è posta? quali sono i confini epistemologici entro cui s'è mossa?

Nel rispondere a tali domande è bene anzitutto sgombrare il campo da ogni equivoco ed essere molto precisi nelle tesi da sostenere. Il Cristo storico, non quello teologico, non si poneva come un profeta disarmato, ma come un leader politico intenzionato a liberare la Palestina dai Romani e dai loro collaborazionisti ebrei, creando una società basata sulla giustizia sociale e sulla libertà per tutti.

Questo tentativo rivoluzionario fallì perché tradito e perché, nonostante il tradimento e la morte del suo leader, il movimento nazareno non fu sufficientemente unito e determinato nel proseguire il messaggio originario, stando almeno alle fonti che ci sono giunte. Ciò che si portò avanti, da parte dei seguaci del Cristo, guidati in primo luogo da Pietro e successivamente da Paolo, le cui idee ad un certo punto risultarono dominanti, fu un'altra cosa.

Quest'altra cosa, per presentarsi non come diversa ma come un “seguito”, una prosecuzione della cosa originaria, ebbe necessariamente bisogno della mistificazione. E la prima, assoluta, mistificazione, quella per la quale si sono usate le parti finali dei vangeli, allo scopo di dimostrare la fondatezza del “nuovo cristianesimo”, è stata elaborata dall'apostolo Pietro, secondo cui la scomparsa del corpo di Cristo dalla tomba equivaleva ad affermare ch'era risorto.

La seconda mistificazione, conseguente a questa, è stata quella di Paolo di Tarso, secondo cui se il Cristo era risorto, allora era “figlio di Dio” e se non era ritornato in Palestina da trionfatore, allora non aveva senso continuare a lottare contro l'oppressore straniero.

Con Pietro e soprattutto con Paolo il cristianesimo s'è trasformato da messaggio politico di liberazione nazionale e di giustizia sociale, a messaggio spiritualistico di redenzione morale e universale dal peccato d'origine. Di colpo il cristianesimo diventava politicamente conservatore.

Solo nella sua fase iniziale il cristianesimo arrivò a chiedere una certa separazione di Chiesa e Stato, finché poi con Costantino e soprattutto con Teodosio fu imposto a tutto l'impero un nuovo Stato confessionale, vietando le manifestazioni del culto pagano o comunque non cristiano.

VIII

Ora facciamo un esempio di falsificazione preso direttamente dal Vangelo di Giovanni. Durante l'ultima cena Gesù commissionò a Giuda un compito molto importante, caratterizzato da un certa urgenza (non dimentichiamo che si era alla vigilia dell'insurrezione anti-romana), e usò le parole: “Quello che devi fare, fallo presto” (13,27).

Il significato di queste parole, nel contesto semantico in cui sono collocate, è ambiguo, e infatti Giovanni scrive che risultò incomprensibile ai discepoli, ma il suo manipolatore lascia intendere, in una maniera che l'esegesi laica non può accettare, che i Dodici non avevano capito l'intenzione che Gesù aveva di farsi ammazzare per il bene dell'umanità. In tal senso l'invito a sbrigarsi avrebbe dovuto essere inteso in tale maniera: “Se mi devi tradire, assumiti le tue responsabilità e adempi così al disegno divino secondo cui il Cristo deve morire”.

Il Cristo cioè doveva morire per salvare l'umanità dal peccato d'origine, doveva essere sacrificato come una sorta di “agnello pasquale”. Il tradimento era parte integrante del progetto salvifico di Dio. Questa è falsificazione, anzi, peggio, è mistificazione della realtà. Nel senso cioè che la frase può anche essere stata detta in quei termini, ma sicuramente aveva un significato opposto a quello che ci è stato tramandato.

Qui purtroppo possiamo solo ipotizzare delle varianti interpretative di un ordine perentorio che aveva tutta l'aria di essere di tipo militare: “Verifica se possiamo contare su questo o quell'alleato, poiché l'insurrezione è imminente”; oppure “Avvisa gli alleati di tenersi pronti questa stessa notte all'insurrezione”; oppure “Avvisa il tuo partito di riferimento di tenersi pronto” (supponendo – e di alcuni lo sappiamo anche – che i Dodici provenissero da diversi ambienti politici e non fossero semplicemente dei pescatori).

Esempi come questi sono numerosissimi in tutto il Nuovo Testamento. Basta farne un altro ancora per convincersene.

Proviamo ad applicare una regola grammaticale a una delle frasi fatte pronunciare da Gesù nel quarto Vangelo: “Io sono il figlio di Dio”, oppure l'equivalente “Io e il Padre siamo una cosa sola”.

Se a questa frase avesse aggiunto “non voi”, la proposizione sarebbe stata esclusiva, nel senso che la propria appartenenza alla natura divina sarebbe stata affermata come una “prerogativa personale”.

Se invece avesse aggiunto “come voi”, la proposizione sarebbe stata comparativa o inclusiva. Sicuramente, in questo caso, la democrazia conseguente sarebbe stata molto più significativa di quella che si poteva inferire dall'affermazione esclusivistica, dal sapore aristocratico, dove Dio appare in veste di monarca che considera il proprio figlio unigenito come unico portavoce della volontà divina, unico intermediario tra la divinità e l'umanità.

Ancora oggi i cristiani pretendono che questa espressione esclusiva venga interpretata alla lettera: questo per loro è un dogma fondamentale, assolutamente irrinunciabile. Infatti sanno che l'espressione comparativa o inclusiva potrebbe anche essere interpretata in maniera simbolica o metaforica.

Di fronte a un'espressione esclusivistica – se Cristo davvero l'avesse detta – gli ebrei non potevano che accusarlo di ateismo, in quanto nessun uomo può “farsi dio” o ritenersi tale, escludendo gli altri, tanto meno sostenendo la propria dipendenza genetica (ontoteologica) nei confronti di un Dio-padre.

Peraltro gli ebrei non pretendevano neppure d'essere considerati tutti “figli di Dio”; al massimo usavano l'espressione “figli di Abramo”. Tra Jahvè e l'uomo c'era troppa distanza perché qualcuno potesse pretendere d'equipararsi alla divinità: il nome di “Dio” non poteva neppure essere pronunciato (se non dal sommo sacerdote nel giorno dell'espiazione) e al posto della parola Yahweh, scritta secondo il tetragramma YHWH, si doveva pronunciare la parola “Adonaj” (“Signore”) o “haShem” (“il Nome”).

Pertanto un Gesù esclusivista non solo poteva apparire ateo agli occhi di un giudeo, ma inevitabilmente appariva anche folle, un vero e proprio bestemmiatore, privo di razionalità e di eticità.

E la cosa non sarebbe cambiata di molto se avesse sostenuto un'espressione allargata, inclusivista di tutto il genere umano. Infatti l'espressione “siamo tutti figli di Dio” per un ebreo avrebbe potuto comportare una relativizzazione del primato storico di Israele, rendendo gli ebrei uguali a tutti gli altri popoli della Terra; avrebbe incrinato le fondamenta della società basata sulla precedenza del “religioso” (gestito dalla casta sacerdotale) rispetto al “civile”. Se si è tutti “figli di Dio”, non ci può essere qualcuno che, per motivi storici, lo è più degli altri (l'ebreo rispetto al gentile, in virtù del patto d'alleanza con Jahvè; o, per motivi funzionali, il sommo sacerdote rispetto al semplice credente).

Un'affermazione comparativa come quella avrebbe potuto sostenerla anche il Battista, il quale però s'era limitato a dire che i veri “figli di Abramo” non sono quelli che hanno poteri politici o istituzionali, né quelli che possono vantare ascendenze e genealogie prestigiose, ma piuttosto i semplici e onesti credenti che lottano per la giustizia sociale e la liberazione nazionale.

Dunque Gesù, in quell'occasione, disse un'altra cosa, che i redattori “credenti” dovevano per forza censurare, e cioè che tutti gli uomini sono divini, nessun escluso. Nell'universo non c'è alcun dio che non sia l'uomo stesso: era questa l'affermazione che più scandalizzava gli ebrei, quella che nei vangeli è stata omessa non solo per ragioni di opportunità ma anche di legittimità rispetto alla teologia petro-paolina; un'affermazione assolutamente ateistica, che si è voluta mistificare facendo dire al Cristo che solo lui era “figlio di Dio” secondo natura, in quanto unigenito; un'affermazione per la quale si voleva linciarlo senza processo (mentre non è da escludere che nella realtà volessero farlo per la motivazione opposta, quella appunto ateistica).

Proprio mentre Gesù voleva dare all'uomo la massima autonomia decisionale, i fanatici della religione pensavano che, riducendo la propria dipendenza da Dio, si toglieva all'uomo la propria dignità. Un atteggiamento, questo, riscontrabile in tutte le religioni.

IX

Cerchiamo di ridire la stessa cosa in un'altra maniera.

Qual è la differenza tra un padre e un figlio? È soltanto la cronologia. Vi è un prima e un dopo, e sul prima il figlio non può avere le idee chiare per motivi oggettivi. Ciò che non è ancora non può sapere come è stato.

Tuttavia, man mano che il figlio cresce, s'accorge d'essere come il padre, pronto a diventare un nuovo padre. Si rende cioè conto che vi è un'essenza umana che precede le singole persone. Siamo legati, come genere umano, gli uni agli altri, e in particolare lo siamo rispetto a qualcosa che precede tutti.

Che questo “qualcosa” debba essere un “qualcuno” ci appare evidente, poiché c'è troppa differenza tra noi e gli animali o tra la nostra coscienza e la natura. Indubbiamente vi sono leggi incontrovertibili della materia, ma noi ne siamo l'autoconsapevolezza. L'essere umano è un'espressione della materia di livello superiore, in quanto non vive le sue leggi in maniera semplicemente automatica o istintiva, ma avendo coscienza della loro universalità e necessità.

Ora, che questo “qualcuno” debba essere connotato in maniera duale o doppia, nel senso del genere maschile e femminile, ci appare ugualmente scontato, benché, per tradizione ebraico-cristiana, siamo abituati a pensare a un “Dio-padre”, in senso maschile, che crea da solo tutto il resto, incluso il Figlio e lo Spirito, le cosiddette “due mani di Dio”, come le chiamavano i teologi antichi.

Non solo, ma nel cristianesimo si ritiene che il Dio-padre non avrebbe mai potuto “incarnarsi” come uomo, perché troppo diverso, troppo altro dall'essere umano. Senza poi considerare che dal giorno del cosiddetto “peccato originale” il Padreterno, prima del sacrificio del Figlio, si sentiva profondamente offeso dal comportamento indegno degli uomini.

Ecco perché il compito dell'incarnazione sarebbe stato assegnato al Dio-figlio, con l'assistenza del Pneuma. Questo perché è stato proprio in virtù del Figlio che l'universo è stato creato, come se fosse un giocattolo con cui baloccarsi. L'uomo sarebbe stato creato dal Padre per soddisfare un desiderio del Figlio (in questo più limitato del Padre, che è sempre soddisfatto di sé).

Poi, siccome la creatura umana, a motivo della possibilità del libero arbitrio, è sfuggita al controllo del Figlio, conducendo una vita tutt'altro che umana e naturale, il Padre avrebbe imposto al Figlio di porvi rimedio. Di qui l'incarnazione.

Che tale incarnazione dovesse poi trasformarsi in “passione” non andava considerato scontato, ma la si sarebbe dovuta prevedere, a causa della malvagità degli uomini. L'importante, nell'economia salvifica del Padre, sarebbe stato che il Figlio non vi si fosse sottratto, altrimenti sarebbe stato impossibile dimostrare il proprio amore incondizionato verso gli uomini. Il che avrebbe anche potuto indurre il Padre a sterminarli, come già aveva fatto ai tempi di Noè.

La croce quindi non era inevitabile, ma se il Figlio l'avesse rifiutata, il Padre ne avrebbe tratto le debite conseguenze, non ovviamente a carico del Figlio, di natura divina come lui e quindi immortale, bensì a carico del genere umano. Il Padre aveva bisogno di una prova inconfutabile dell'amore del Figlio nei confronti degli esseri umani. E la ottenne.

In fondo questa filosofia di vita era già presente nel libro di Giobbe, là dove Satana dice a Dio: “Giobbe ti rispetta perché non gli manca nulla; prova a portargli via tutto, e vedrai se non ti maledice”. Ma Giobbe superò la prova e Dio lo ricompensò abbondantemente.

Ora, come si può ben vedere, la rappresentazione che ancora oggi abbiamo di Dio-padre è enormemente influenzata dalla teologia antico-testamentaria, seppur mediata da quella farisaica e cristiana di Paolo di Tarso. È una teologia patriarcale e maschilista, legalista e moralista, che non ha più ragione di esistere.

Il modo migliore per superarla è quella di negare il rapporto teologico tra Padre e Figlio. L'unico “Padre” del genere umano è il Logos, che è umano, coadiuvato nella creazione e nella generazione dalla Sapienza (o Ruah o Pneuma), che è donna. Non esiste altro. Sul piano teologico sia il Cristo che la Sapienza sono “atei”, e tutti gli esseri umani beneficiano della loro stessa divinità, ad eccezione ovviamente di quell'aspetto che determina, sul piano cronologico, un prima e un dopo. Prima che noi fossimo, loro due erano. Ed essendo come loro, dobbiamo risolvere da soli i nostri problemi.

X

I vangeli sono indubbiamente dei testi antisemitici, ma un lettore romano, di religione pagana, fiero del proprio diritto, sarebbe rimasto scandalizzato al vedere un comportamento così poco giuridico come quello di Pilato. Non furono forse i Romani a inventare il principio “Nullum crimen, nulla poena sine lege”? Al giudice non era consentito stabilire la pena; doveva soltanto accertare quale legge era stata violata: infatti era questa che stabiliva la pena e qualunque cittadino la conosceva in anticipo.

Se un giudice come Pilato arriva a dire con sicurezza che in Gesù non aveva trovato alcuna colpa da fargli meritare la croce, che era l'esecuzione capitale più infamante, e finisce con l'agire in maniera opposta alla propria convinzione, inevitabilmente sarebbe stato sanzionato dai propri superiori e avrebbe potuto avere la carriera, politica o amministrativa, compromessa.

Un procuratore romano, davvero convinto dell'innocenza di Gesù, avrebbe avuto tutti gli strumenti per risparmiargli il patibolo. Peraltro nei vangeli sembra che Gesù gli venga consegnato a sua insaputa, come se lui non sapesse minimamente nulla della sua pericolosità politica. Infatti, deve chiedergli se davvero lui si qualifica come “re dei Giudei”. In tal caso, se la risposta fosse stata affermativa, egli avrebbe avuto un qualche motivo per condannarlo, poiché in Giudea l'unica vera autorità politica e militare era solo quella romana (l'altra, in subordine, era quella del sommo sacerdote Caifa, che però non poteva far nulla di decisivo senza il consenso di Pilato).

Insomma, se davvero Pilato era convinto dell'innocenza di Gesù e ha accondisceso a eliminarlo solo per fare un favore alle autorità religiose, non ha certo svolto il ruolo del giusto giudice. Un suo superiore avrebbe potuto rimproverarlo di aver fomentato, almeno indirettamente, l'odio della popolazione ebraica verso i Romani. Egli non poteva assolutamente permettere che le motivazioni teologico-politiche dei sacerdoti prevalessero su quelle giuridiche del diritto romano. Così facendo, peraltro, egli aveva perduto la possibilità di ottenere, da parte di Gesù e dei suoi seguaci, un'alleanza che avrebbe potuto tornar comodo contro quelle stesse autorità. Insomma si sarebbe comportato come un procuratore privo di lungimiranza e totalmente incapace di agire con rettitudine, per quanto il suo ruolo, in quel momento, forse quello di reprimere ogni moto ribellistico alla dominazione romana.

Se invece le cose si affrontano in una maniera più naturale, tutto diventa più facile da spiegare. Pilato sapeva bene che Gesù era un sovversivo sia contro le autorità religiose che gestivano il Tempio (in quanto qualche anno prima aveva già provato a occuparlo), sia contro la presenza romana in Palestina. La prima volta gli era sfuggito, ma la seconda è in grado di arrestarlo grazie al tradimento di un apostolo.

Pilato voleva giustiziare Gesù esattamente come lo voleva Caifa, ma secondo motivazioni diverse. Caifa avrebbe anche potuto legittimare un messia anti-romano, ma lo voleva a proprio uso e consumo; non avrebbe mai accettato di cercare un'intesa con chi aveva provato a occupare il Tempio per cacciarne tutti i sadducei.

Pilato non mette in piedi un processo giuridico, quanto piuttosto un processo politico, in cui deve giudicare una persona che per lui va assolutamente condannata a morte. Siccome però Gesù era molto popolare, egli deve trovare degli escamotage per convincere la folla di Gerusalemme a eliminarlo con convinzione. Non può rischiare, durante le festività pasquali, alla presenza di decine di migliaia di persone, che queste si ribellino di fronte a una sentenza che ritengono ingiusta. Ecco perché deve indurre la stessa popolazione a emettere una sentenza di morte. Qui sta la genialità politica di Pilato.

I sotterfugi che ha usato sono stati di varia natura: 1) preventiva dichiarazione d'innocenza riguardo all'operato del Cristo; 2) offerta al popolo di scegliere quale prigioniero liberare; 3) screditare Gesù con una pesantissima flagellazione; 4) invitare il popolo a decidere che cosa fare di un uomo che, proprio a seguito di quella fustigazione, non sarebbe stato in grado di compiere alcuna insurrezione nazionale, neppure se l'avesse lasciato libero.

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2) Questioni preliminari di metodo esegetico

Falsificazioni e mistificazioni

Quando si leggono i vangeli sembra d'avere a che fare con dei testi dalla forma quasi elementare, che non potrebbe reggere minimamente il confronto con le Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, o coi testi storici di Tacito, Erodoto o Tucidide, e men che meno con le tragedie classiche del mondo greco. Eppure la loro forza sta proprio nella semplicità apparente con cui presentano vicende molto profonde e complicate.

La maestria redazionale degli evangelisti non sta tanto nella capacità letteraria (che pur p. es. non manca in Giovanni), quanto piuttosto nel far sembrare vera una cosa falsa e falsa una cosa vera, prendendo spunto dalla realtà. In questo gli scrittori di origine ebraica restano insuperabili. In via del tutto preliminare, prima di accingersi a leggere qualsivoglia pericope, bisognerebbe anzitutto precisare la distinzione tra i concetti di “falsificazione” e “mistificazione”.

Falso, sul piano letterario, può essere un qualunque documento che descrive una realtà mai accaduta: generalmente p. es. tutti gli Apocrifi, esclusi dal canone del Nuovo Testamento, sono palesi falsificazioni, in quanto pure e semplici invenzioni leggendarie, alla stregua dei miti pagani. Più interessanti semmai sono le svariate controversie teologiche che si celano tra le loro pagine.

Essi non sono però falsificazioni di testi originali che dicevano la verità o che si avvicinavano alla realtà con maggiore verosimiglianza. Più che nel genere delle “falsificazioni”, gli Apocrifi andrebbero classificati in quello delle “invenzioni”.

Anche i vangeli canonici contengono molte invenzioni (p. es. le genealogie del Cristo, i racconti sui suoi natali, quelli sulla resurrezione...), ma questo genere letterario, nel suo complesso, andrebbe messo nella categoria delle “mistificazioni”.

Mistificazione vuol dire falsificazione di dati reali. Mentre la falsificazione di un testo viene fatta su un testo precedente, con intento mistificatorio (questo, p. es., nel quarto Vangelo è molto evidente), oppure è invenzione di cose mai accadute, fatte passare per vere (p. es. i prodigi miracolosi del Cristo), la mistificazione è invece sin dall'inizio una lettura deformata della realtà, una lettura che parte da un'interpretazione distorta delle cose, viziata da un difetto di fondo, che resta preliminare a tutto. Per questo motivo è più difficile da individuare. Di sicuro, p. es., se si trovasse il Vangelo originario di Marco, scopriremmo ch'era un testo mistificato: le ulteriori falsificazioni che su questo testo sono state successivamente aggiunte (p. es. il battesimo di Gesù) erano in linea con quella mistificazione.

Di fronte a molti testi si è ermeneuticamente incerti, come quando negli interrogatori di polizia non si sa se credere di più a chi nega ogni cosa o a chi dice le mezze verità. E noi non possiamo “torturare” nessun redattore, nessun testimone, non solo perché questo – anche nel caso in cui fosse possibile – sarebbe umanamente indegno, ma anche perché qui si ha spesso a che fare con intellettuali che si lascerebbero facilmente martirizzare, nella convinzione d'apparire più convincenti.

Occorre dunque indurre i testimoni a parlare da soli, spontaneamente, mettendoli di fronte alla realtà dei fatti, facendo soprattutto capire loro che le decisioni che hanno preso noi le giudichiamo “umanamente comprensibili”, ancorché non “pienamente legittimate”. Un esegeta deve “capire”, non “condannare”. Un giudizio è “storico” quando non fa il singolo responsabile di processi in cui la libertà s'è giocata in maniera collettiva. Spesso all'interno delle mistificazioni s'incontrano ulteriori falsificazioni, di gravità minore: sono le cosiddette “interpolazioni” arbitrarie dei copisti, volute (per motivi ideologici) o accidentali (in questo caso dovute a distrazioni, errate interpretazioni ecc.). Bisognerebbe esaminare i due vangeli fondamentali: Marco e Giovanni, classificando ogni versetto, ogni pericope, nelle tre categorie fondamentali: mistificazione, falsificazione e invenzione.

Un esempio

Giusto per fare un esempio, prendiamo la chiusura autentica del Vangelo di Marco (16,1-8), cui segue quella posticcia a partire dal v. 9:

le donne, andate al sepolcro per imbalsamare Gesù, lo trovarono vuoto.

La descrizione è apparentemente realistica, in quanto è verosimile che siano potute andare al sepolcro il giorno dopo la sepoltura, ma è del tutto inverosimile che vi siano andate con l'intenzione d'imbalsamare un corpo, senza l'aiuto di qualcuno che aprisse loro l'ingresso della tomba, chiuso con una pietra molto pesante.

le donne videro un giovane dentro il sepolcro.

La descrizione è palesemente inventata in quanto magica o mitologica: il giovane che parla è in realtà la coscienza “religiosa” della Chiesa post-pasquale, intenta a giustificare il proprio tradimento politico del messaggio originario del Cristo.

il giovane disse loro che Gesù era risorto ed era andato in Galilea, per incontrarsi di nuovo coi discepoli.

La descrizione è mistificante, in quanto si fa coincidere arbitrariamente un fatto reale (la tomba vuota) con una tesi arbitraria (la resurrezione) e questa con un'altra tesi ancora più indimostrabile (la parusia), con l'aggiunta di una contrapposizione tra Galilea e Giudea.

le donne, spaventate, non raccontarono niente a nessuno.

La descrizione è falsa con intenti mistificatori, in quanto le donne andarono, inevitabilmente, a riferire agli apostoli quel che avevano visto, sostenendo la versione del trafugamento del corpo, mentre la tesi della resurrezione viene fatta risalire implicitamente all'apostolo Pietro, che è all'origine del Vangelo di Marco.

La mistificazione evangelica, che è un'interpretazione arbitraria di un fatto realmente accaduto, venne elaborata basandosi sulla constatazione della tomba vuota, a fronte della quale la Chiesa post-pasquale non si limitò ad affermare: “Non sappiamo dove sia il suo corpo”, ma pretese addirittura di sostenere il contrario: “È risorto, non è qui”. Cioè il concetto di “resurrezione” venne applicato a un fatto che non era più “reale” ma era già un'interpretazione.

La tomba vuota non è stata interpretata come “evento umano inspiegabile”, bensì come “evento spiegabile in senso sovrumano”. Pur non avendo alcuna prova della resurrezione, la si è data per certa (“Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede”, dirà Paolo). È noto infatti che tutti i racconti che parlano delle apparizioni del risorto sono delle finzioni letterarie di tipo simbolico-evocativo, che spesso celano controversie reali tra i discepoli, come p. es. quella tra Pietro e Giovanni o quella tra Tommaso e gli altri apostoli.

Nei Sinottici l'uso dell'interpretazione (“è risorto”) risulta così prevalente rispetto alla descrizione della realtà (“non è qui”), che gli evangelisti non hanno neppure avvertito il bisogno di citare il fatto che Pietro e Giovanni, quando entrarono nel sepolcro, trovarono la Sindone piegata e riposta da una parte, come risulta nel quarto Vangelo, dove, dopo che Giovanni l'ebbe vista, viene scritto: “E vide e credette” (20,8).

La parola “credere” è stata qui interpretata con intento mistificatorio da uno dei redattori (manipolatori) del quarto Vangelo, che ha voluto aggiungere subito dopo: “Non avevano ancora capito quello che dice la Bibbia, che Gesù doveva risorgere dai morti” (v. 9). Il fatto ch'egli abbia avvertito l'esigenza di fare questa precisazione, del tutto falsa, induce inevitabilmente a pensare che, per lui, il “credere” del v. 8 non voleva esattamente dire la stessa cosa. Infatti per l'evangelista Giovanni la Sindone attestava che il corpo non era stato trafugato da qualcuno, ma era stranamente scomparso, senza che nessuno avesse mai potuto ritrovarlo o rivederlo ancora vivo e vegeto, quindi la tesi petrina della “resurrezione” andava considerata come un'arbitraria o molto ipotetica interpretazione, certamente non come un dogma di fede.

Il falsificatore doveva conoscere bene questa dubitativa posizione giovannea, altrimenti non avrebbe aggiunto al fatto ch'egli “credette” alla misteriosa scomparsa del cadavere, l'idea che ancora non aveva accettato la tesi mistica della resurrezione.

Anche da questa semplice ricostruzione dei fatti si evince bene che se il quarto Vangelo è stato il tentativo di far luce sulle mistificazioni dei Sinottici, lo stesso Vangelo è stato a sua volta alterato in modo da rendere quasi irriconoscibile l'originale.

Concludendo, oggi possiamo tranquillamente dire che i vangeli partono sì dalla realtà dei fatti, ma per stravolgerla completamente nel suo significato, che da umano diventa sovrumano, da politico diventa religioso. Il motivo per cui, invece che dare un'interpretazione realistica dei fatti, si sia preferita la soluzione mistica, va ricercato nell'incapacità che i discepoli di Gesù hanno avuto, dopo la sua morte, di proseguire il suo messaggio di liberazione così come lui l'aveva elaborato.

Detto questo si può qui aggiungere che forse l'aspetto che ci rende ancora interessanti i vangeli non è tanto quello di voler scoprire le loro molteplici mistificazioni, quanto piuttosto quello di vedere se in essi possono ancora sussistere degli elementi paradigmatici utili all'uomo contemporaneo, ovviamente dopo averli depurati da tutte le incrostazioni di tipo teologico che li caratterizzano. P. es. l'analisi della procedura processuale con cui venne condannato il Cristo potrebbe forse aiutarci a capire il formalismo giuspolitico della democrazia nell'ambito delle civiltà antagonistiche.

Assolutamente drammatici, degni di stare a fianco delle grandi tragedie greche, sono quei brani ove il popolo decide di far morire in croce il proprio messia, nella convinzione (stimolata ovviamente dai ceti intellettuali e di potere) che quella fosse la soluzione migliore per i destini di liberazione nazionale del proprio paese. Sono innumerevoli i passi evangelici in cui l'ambiguità delle parole pesa come un macigno sull'interpretazione che se ne può dare.

Lo stesso Caifa, quando convinse il Sinedrio a decretare la morte di Gesù, era più che certo di compiere il bene del proprio paese. Persino Giuda probabilmente non si sentiva affatto un traditore, ma un uomo avveduto, prudente, politicamente moderato. La descrizione abbietta che ne fanno i Sinottici è semplicemente ridicola.

In sintesi

Quando si esaminano i vangeli bisogna sempre mettersi dalla parte del falsificatore e chiedersi: “Come posso trasformare un determinato episodio della vita di Gesù in modo tale che il suo connotato politico o umano abbia una caratterizzazione religiosa? Cioè cosa posso togliere o aggiungere all'originale o semplicemente modificare? Come posso reinterpretare le cose facendo bene attenzione a che il lettore non s'accorga della mistificazione?”

È importante chiarire subito questa impostazione metodologica dell'esegesi, altrimenti si rischia di fare delle concessioni indebite a quelle parti del testo che, di primo acchito, ci sembrano non manipolate e che invece non lo sono state proprio perché il loro contenuto, con un piccolo ritocco, poteva essere interpretato in maniera favorevole a delle tesi di tipo religioso.

Facciamo un esempio. Nel racconto della tempesta sedata, così come è descritto nel primo vangelo, viene detto che Gesù era molto stanco, per cui nella barca dei discepoli s'era messo a dormire. Perché questo aspetto non è stato modificato, visto che in quel vangelo si presenta Gesù come una divinità in grado di guarire qualunque handicap fisico? Semplicemente per far capire ch'egli non dormiva in senso umano, a causa della stanchezza, ma per mettere alla prova i suoi discepoli, che subito dopo sarebbero stati alle prese con una improvvisa burrasca sul lago ove stavano remando. Infatti, temendo d'affogare, lo svegliarono e lui li rimproverò d'aver avuto poca fede e immediatamente ordinò alle acque di calmarsi.

In questa maniera i manipolatori sono stati in grado di ottenere un duplice risultato: potevano far vedere che Gesù era un dio e che quello che faceva era vero, proprio perché aveva delle caratteristiche in linea con atteggiamenti umani.

L'artefice principale di questa procedura falsificatoria va ricercato nell'autore del vangelo di Marco, il quale rappresenta, per così dire, ufficialmente l'ideologia mistica di Pietro, cui successivamente si è sovrapposta la teologia spiritualistica di Paolo. Lo si vede bene nel duplice finale dello stesso vangelo: nella sua prima versione esso si concludeva con la scoperta della tomba vuota da parte delle donne e con la dichiarazione dell'angelo secondo cui il Cristo era risorto ed era tornato in Galilea, ove aspettava il ritorno degli apostoli.

Poi qualcuno deve aver aggiunto che quelle donne ebbero paura e non raccontarono niente a nessuno. Questa aggiunta fu messa per indurre il lettore a credere che Gesù era risorto non tanto perché il suo corpo non fu trovato nella tomba, ma proprio perché era Dio. Quindi la testimonianza delle donne valeva molto poco. L'idea di “resurrezione” è stata inventata da Pietro e usata per rinunciare al progetto insurrezionale contro Roma. Che poi a questa idea non abbiano creduto neppure i Giudei, tanto peggio per loro – sembra dire la prima conclusione del vangelo: i cristiani se ne faranno una ragione e continueranno per la loro strada.

Pietro sperava in un ritorno imminente e glorioso del Cristo, ma, di fronte a questa mancata parusia, sarà poi Paolo di Tarso che elaborerà tutta una sofisticata teologia a favore della divinità del Cristo.

Quanto alla seconda chiusura del vangelo di Marco, essa è stata completamente inventata e aggiunta in un secondo momento da altri autori. Essa appare così poco credibile che molti esegeti si son chiesti come mai ci siano voluti secoli e secoli prima di accorgersene. Il motivo però è molto semplice: se si comincia a dubitare di qualcosa, l'intero castello di carte rischia di crollare.

Tutto ciò per dire che i vangeli non possono essere classificati nel genere letterario dei miti e delle leggende. Essi, in realtà, sono dei testi politici, i cui redattori si sono assunti il compito non di riportare i fatti così come sono accaduti, ma di interpretarli in maniera tendenziosa, facendo sì che la colpa principale dell'esecuzione del messia ricadesse sui Giudei, i quali non volevano riconoscere in Gesù il rapporto esclusivo di figliolanza divina. I Giudei in sostanza lo uccisero perché l'equiparazione di Gesù a Dio era per loro una insopportabile affermazione di ateismo.

In questa ricostruzione dei fatti i Romani sembrano non avere alcuna responsabilità diretta nell'esecuzione capitale del messia pacifico e religioso, ad eccezione ovviamente dell'atteggiamento opportunistico di Pilato, fatto passare per un procuratore che accettò di fare una cosa indegna del suo ruolo di giudice imparziale. Ciò in quanto – così prosegue la tesi mistificante –, s'egli avesse potuto prendere una decisione in piena libertà, in assoluta autonomia, senza condizionamenti da parte dei sommi sacerdoti, non avrebbe mai emesso alcuna sentenza di condanna, non ritenendo pericoloso l'accusato per l'autorità politica dello Stato romano.

Qui appare altresì evidente che il cristianesimo petrino, di origine galilaica, è sorto sulla base di una rottura col giudaismo ufficiale e, nel contempo, sulla base di una ricomposizione con l'ideologia politica della romanità. Quando Pietro torna a Gerusalemme per porre le proprie condizioni di un rinnovato rapporto col giudaismo, esse non prevedono alcuna resistenza armata contro l'oppressore straniero. Anzi Pietro chiede che Gesù morto e risorto venga considerato come “autentico messia religioso”, avente capacità sovrumane.

I sacerdoti rifiutano, anzi incarcerano Pietro, ma lui evade e prende la via dell'esilio. D'ora in poi, sotto la guida di Giacomo, fratello giudeo di Gesù, la comunità cristiana si porrà come una setta ebraica indifferente alle sorti politiche della Palestina, unicamente preoccupata a testimoniare l'origine divina del Cristo, nonché la superiorità del regno dei cieli su quello terreno e il ritorno trionfale del figlio di Dio per il giudizio universale. Chi darà una veste teologica eccelsa a questa impostazione mistica dell'attività del Cristo sarà il fariseo Paolo. Quindi è giusto sostenere che all'origine del cristianesimo vi è l'ideologia religiosa petro-paolina.

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Dunque i criteri ermeneutici su cui si basano queste letture del Nuovo Testamento sono i seguenti:

– Cristo era il leader di un movimento politico (detto “nazareno”) che si accingeva a compiere un'insurrezione armata nazionale contro i Romani e i loro collaborazionisti del Tempio di Gerusalemme (casta sacerdotale). Semmai va rivalutato il rapporto che aveva coi farisei, almeno con quella corrente progressista favorevole a una liberazione nazionale.

– Era un ateo: non ha parlato di Dio come di una realtà esistente, autonoma rispetto all'uomo; non ha mai detto d'essere suo “figlio”, anzi ha detto esplicitamente che tutti gli uomini sono delle “divinità”, capaci di distinguere da soli il bene dal male, senza dover dipendere dai sacerdoti, che presumono d'essere intermediari tra le esigenze umane e la volontà divina.

– Non ha mai compiuto nulla che potesse far sembrare che non era un uomo ma un dio (al massimo le guarigioni fisiche possono aver avuto origini psichiche e comunque con nessuna guarigione egli ha mai voluto dimostrare d'essere più che un uomo). Ovviamente noi non possiamo sapere con certezza fin dove possono spingersi le risorse della natura umana, ma se esistono risorse che possono farci sembrare più che umani, queste appartengono virtualmente a ogni essere umano, sebbene non tutti riescano a esercitarle. Qualunque prodigio spettacolare, al di là delle possibilità umane, viola la libertà umana di coscienza, in quanto induce a credere in ciò che appare un'evidenza.

– Tutti i racconti di resurrezione, ascensione, apparizioni del Cristo redivivo sono stati inventati con grande maestria letteraria: dopo l'evento della tomba vuota (da ritenersi attendibile) nessuno l'ha più rivisto in alcuna forma, né avrebbe potuto farlo senza che la propria libertà di coscienza venisse violata.

– Il primo mistificatore del vangelo di Gesù, responsabile della trasformazione del Cristo da politico a religioso, è stato Pietro, la cui ideologia regressiva è contenuta nel Vangelo di Marco che, insieme a quella di Paolo, è risultata dominante nel Nuovo Testamento. Quindi Gesù non è stato tradito solo da Giuda ma anche da Pietro e da altri apostoli, che non hanno voluto compiere, dopo la sua morte, l'insurrezione antiromana per la quale era nato il movimento nazareno. In tal senso si può affermare che il cristianesimo sia una elaborazione dell'ideologia religiosa di Pietro e di Paolo, che non ha nulla a che fare con la visione ateistica e rivoluzionaria del Cristo.

– L'unica ideologia in grado di fornire una versione opposta a quella petro-paolina è presente nel quarto Vangelo, che però è stato oggetto di numerose alterazioni, persino, probabilmente, da parte degli stessi discepoli di Giovanni.

– La Sindone può essere considerata un reperto autentico, utile a farci capire che quel condannato a morte doveva apparire ai Romani come un sovversivo (un uomo crocifisso, cioè odiato a morte dai Romani in quanto ritenuto politicamente sedizioso, non può essere compatibile con l'immagine mite e religiosa rappresentata dai vangeli). In ogni caso resta fuorviante l'interpretazione della tomba vuota come “resurrezione”. L'unica interpretazione possibile è quella della “strana scomparsa del cadavere”, anche se ci si rende conto che sulla base di un'interpretazione del genere non sarebbe mai potuta nascere alcuna nuova religione.3

– È profondamente sbagliato l'antisemitismo dei vangeli, in quanto tutti i protagonisti sono ebrei, o della Giudea o della Galilea (a volte anche della Samaria). Il cristianesimo, con la sua ideologia spiritualista e universalista, non è di per sé migliore dell'ebraismo, con la sua ideologia politico-nazionalistica.

Addendum

Se un esegeta laico sostenesse che i Sinottici sono falsi si precluderebbe qualunque rapporto coi credenti. Invece dovrebbe indurli a credere che non sono falsificazioni bensì mistificazioni, in quanto la falsità è stata messa su cose reali. In questo modo renderebbe anche più credibile la propria esegesi, poiché dimostrerebbe di voler affrontare il cristianesimo primitivo sul piano storico-probabilistico e non ideologico. È meglio mostrare che esiste una verità sepolta sotto montagne di interpretazioni mistiche, piuttosto che affermare che non si può ricavare alcuna verità storica da fonti ritenute troppo contraddittorie e soprattutto troppo inverosimili.

È evidente che i Sinottici dipendono da Paolo, ma Paolo dipende da Pietro, poiché l'idea di resurrezione è sua (Paolo vi ha aggiunto la divinità del Cristo, la redenzione dal peccato originale e il giudizio universale).4

Esiste una linea di falsificazione che va dal giudaismo politico al galileismo petrino sino al fariseismo revisionato di Paolo, che diventerà il cristianesimo ufficiale. Poi ne esiste un'altra, parallela, che va dal giudaismo essenico all'orfismo-gnosticismo e che porta al monachesimo (e che è la linea dei falsificatori di Giovanni). Entrambe le linee falsificano, in maniera diversa (più galilaica quella petrina, più giudaica quello pseudo-giovannica), la predicazione del Cristo, ma di tutte le versioni che abbiamo, quella del IV vangelo cela alcuni aspetti autentici, che han dovuto essere sapientemente manipolati da esperti teologi e filosofi.

E si può aggiungere anche questa considerazione: il Paolo giudeo era un politico farisaico che diventa metafisico da cristiano, dopo aver accettato il petrinismo galilaico e non senza essersi lasciato influenzare dall'orfismo, ch'era molto forte nella sua Tarso e in tutta l'Asia Minore. Viceversa i manipolatori di Giovanni sono metafisici giudeo-essenici (influenzati inevitabilmente dal paolinismo, già risultato vincente) che han dovuto mistificare un testo originario, inaspettato, rispetto a quello ufficiale marciano, e che era politico per eccellenza, quello appunto di Giovanni.

Il vangelo di Marco va considerato “ufficiale”, perché non è possibile mettere sullo stesso piano le sue falsificazioni con quelle di Matteo e Luca, che dipendono da lui per l'80 o il 90 per cento, e che per il resto dovrebbero rientrare in una letteratura del tutto mitologica, come quella greca. Marco riflette indubbiamente le posizioni di Paolo ma anche quelle di Pietro, che inizialmente non collimavano con quelle di Paolo. Fino alla catastrofe del 70 la vittoria di Paolo non poteva essere considerata sicura, in quanto i successori di Pietro, a Gerusalemme, erano filo-giudaici (p. es. Giacomo fratello di Gesù), mentre Pietro è sempre stato galilaico, cioè tendenzialmente ellenista (il vangelo di Marco è antisemitico proprio perché riflette la posizione galilaica petrina, che odia quella giudaica dei sacerdoti, cui attribuisce il fallimento della rivoluzione di Cristo). Paolo però farà capire a Pietro che non era abbastanza ellenista per diventare “cristiano” (come si deduce dal cosiddetto “incidente di Antiochia”).

L'ellenismo è sicuramente un pensiero influenzato dalle filosofie idealistiche e mistiche (soprattutto orfiche) del mondo greco, ma il cristianesimo non proviene dall'ellenismo più di quanto non provenga dal giudaismo, nel senso cioè che la grandezza del paolinismo è stata proprio quella di aver unito due correnti molto lontane tra loro e, in questo, si è sacrificato il lato politico del giudaismo, facendogli però acquistare un aspetto universalistico che aveva perduto e che la predicazione del Cristo aveva cercato di recuperare.

*

A proposito di ellenismo, mi è stato detto che non prendo mai in alcuna considerazione i rapporti del cristianesimo con le religioni pagane, coi miti solari e cose del genere. Ebbene, personalmente sono convinto che tutto quanto di sovrannaturale esiste nei vangeli abbia radici pagane (gnostiche, egizie, indo-buddiste e mediorientali), ma di queste cose non mi sono mai preoccupato, proprio perché le ho sempre date per scontate, anche se indubbiamente meritano d'essere approfondite.

Inoltre le religioni, sensu lato, non possono interessare l'esegeta che vuole associare l'umanesimo laico al socialismo democratico. I vangeli andrebbero esaminati esclusivamente da un punto di vista politico, come forme di falsificazione di un fallito progetto rivoluzionario di Gesù. Personalmente sono partito dalle analisi di Belo e soprattutto di Brandon, servendomi anche di Bultmann (risalendo fino a Reimarus), e le ho ampliate, arrivando a conclusioni più radicali delle loro, in quanto in genere questi teologi credono in Dio, mentre per me il Cristo era ateo.

In tal senso non credo sia sufficiente dire che i vangeli sono racconti allegorici di miti solari di origine pagana: sono indubbiamente anche questo, in tutte quelle parti che qualunque ebreo sano di mente avrebbe rifiutato, ma sono soprattutto una mistificazione di un evento reale, elaborata per rendere il cristianesimo accettabile alle autorità romane.

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3) Per una storiografia laica dell'evento-Gesù

I

Chiunque compia una ricerca su Gesù Cristo, ovvero su tutta la documentazione del cristianesimo primitivo, e viene inevitabilmente a scontrarsi col fatto che chi ha prodotto quella documentazione aveva, come si suol dire, “fede in Gesù Cristo”, non dovrebbe soltanto chiedersi fino a che punto tale documentazione possa essere considerata “storicamente obiettiva”, ma anche se la suddetta “fede” debba per forza essere intesa nel medesimo senso “religioso” degli autori di quei documenti.

Di questi due aspetti cerchiamo ora di spiegare il primo, ponendoci la seguente domanda: se Cristo fosse stato un uomo “religioso”, potremmo considerare “storicamente obiettiva” un'esegesi di tipo religioso, cioè confessionale? Noi tendiamo a negare sia che il Cristo fosse un credente, sia che una qualsivoglia storiografia religiosa possa essere storicamente obiettiva.

Se il Cristo è stato un “credente”, solo una storiografia laica può interpretarlo adeguatamente, proprio perché qualunque fede religiosa è di per sé, a prescindere dal modo come viene vissuta e anche dalla consapevolezza che se ne possa avere, una forma di alienazione.

Posto questo, veniamo alla seconda parte del problema. È possibile che alla espressione “fede in Cristo” si possa dare una connotazione laica? Sì, è possibile, anzi bisogna farlo, soprattutto nel caso in cui si ritenga che il Cristo non sia stato una persona credente.

È compito dello storico dimostrare che al tempo di Gesù Cristo vivente la “fede” o la “fiducia” nei suoi confronti poteva manifestarsi in forme non espressamente religiose e, in particolare, che queste forme potevano anche assumere connotazioni politiche e persino politico-rivoluzionarie, cioè eversive.

Perciò anche la semplice espressione “fede in Gesù Cristo”, che di regola viene data per scontata nella sua accezione religiosa, va rimessa in discussione, togliendo alla Chiesa, o comunque all'esegesi confessionale, il privilegio d'avere una sorta di monopolio interpretativo.

In sintesi: il fatto che la documentazione storica del cristianesimo primitivo ci presenti un Cristo religioso non è motivo sufficiente per credere ch'egli lo fosse veramente, e questo per almeno quattro ragioni:

    1. Gesù non ha scritto una sola parola;

    2. l'unico documento ch'egli ci ha lasciato è la Sindone, che attesta l'esecuzione di un sovversivo politico, ritenuto (e le incredibili sevizie lo dimostrano) particolarmente pericoloso: di regola infatti i sovversivi venivano o fustigati o crocifissi, a seconda della pericolosità, mentre i sovversivi religiosi, se giudei, venivano lapidati; se invece cittadini romani, venivano decapitati, ma in tal caso dovevano esserci motivazioni politiche;

    3. i documenti più antichi intorno alla sua vicenda sono stati scritti almeno mezzo secolo dopo, quando Gerusalemme era già stata distrutta e tutta la Palestina occupata dai Romani, e quindi sotto il peso di un condizionamento storico che indubbiamente favoriva un'interpretazione di tipo revisionista (nella fattispecie in senso mistico) dell'operato politico del Cristo;

    4. se vogliamo considerare le lettere di Paolo come fonte ispirativa dei vangeli, allora bisogna precisare ch'esse propagandano un Cristo del tutto spoliticizzato, avulso dalle problematiche della Palestina del suo tempo. Il Cristo di Paolo è per così dire decontestualizzato, privo di riferimenti spazio-temporali.

Il Paolo che si convertì sulla strada di Damasco, si considerava, inizialmente, un seguace di Pietro (cioè credente nell'idea di resurrezione del Cristo e di una imminente parusia trionfale), e lo restò fino a quando, constatata l'assenza di tale parusia (a favore del nazionalismo ebraico), se ne distaccò dopo l'incidente di Antiochia, rinviando alla fine dei tempi la resa dei conti, cioè il cosiddetto “giudizio universale”. Questa idea di Paolo fu condivisa però dall'ultimo Pietro.

Detto questo, torniamo alla prima delle quattro ragioni e chiediamoci: perché Cristo, che sicuramente aveva tutti i mezzi per poterlo fare (e un'importante tradizione ebraica alle spalle), scelse di non scrivere una sola parola? È difficile pensare che questo comportamento non sia stato dettato da una scelta consapevole.

Per rispondere a tale domanda dovremmo porcene un'altra, dando per scontato che avesse lasciato scritto qualcosa di suo pugno: se l'avesse fatto, gli storici avrebbero davvero potuto avere notizie più obiettive su di lui? Oppure dovremmo arrivare ad ammettere che l'unica condizione per poter avere notizie più obiettive su di lui sarebbe stata quella di veder realizzato il suo tentativo rivoluzionario? In tal caso infatti i suoi discepoli avrebbero sicuramente avuto meno motivi per mistificarlo.

Va detto tuttavia che anche nel caso in cui il Cristo avesse scritto qualcosa di suo pugno o che la rivoluzione avesse avuto buon esito, nulla avrebbe potuto impedire agli storici di dare opposte interpretazioni a medesime fonti.

Non è neppure da escludere che, se anche la rivoluzione fosse riuscita e Cristo fosse morto serenamente di vecchiaia dopo aver scritto le proprie memorie, i suoi successori, volendo, avrebbero potuto ribaltare tutte le sue conquiste e tutte le interpretazioni ortodosse che se n'erano date. Cose di questo genere sono comunissime lungo la storia. Lo stalinismo, p.es., s'impose come l'erede più coerente del leninismo. Il fascismo di Mussolini s'affermò come tentativo di realizzare, dal punto di vista della piccola borghesia, gli obiettivi rivoluzionari del socialismo.

La scelta di non scrivere nulla è dipesa probabilmente dalla convinzione che la scrittura, ai fini della verità storica, non serve a niente. La sua è stata una scelta nettamente anti-ebraica. Peraltro, immaginiamoci che possibilità avrebbe avuto il Cristo, nel caso in cui avesse lasciato dei testi scritti, di non vederseli manipolati una volta che il suo tentativo eversivo fosse fallito. Praticamente nessuna, tanto più che ai suoi tempi i testi erano scritti a mano e circolavano in poche versioni, per lo più a disposizione della classe dirigente, che li leggeva a un pubblico che si limitava ad ascoltare.

Sono possibili manipolazioni persino oggi, con testi stampati e prodotti in migliaia di copie: figuriamoci cosa si sarebbe potuto fare allora. Oggi la manipolazione avviene in tanti modi, del tutto diversi da quelli di duemila anni fa: basti pensare a tutti gli ostacoli, se non impedimenti veri e propri, che esistono nel far circolare una pubblicazione, alla sua mancata segnalazione nei premi prestigiosi, al privilegio di recensirla che hanno i pochi addetti all'informazione pubblica, ai costi eccessivi di stampa e diffusione e pubblicità, al fatto che una società basata prevalentemente sull'informazione audiovisiva non favorisce la diffusione della lettura, al fatto che i media, di volta in volta, impongono all'attenzione dell'opinione pubblica determinati argomenti e non altri.

Duemila anni fa fu sufficiente lasciar credere che la tomba vuota andava interpretata come “resurrezione di un morto” per ottenere un'intera documentazione storica falsificata sull'evento-Gesù. Non esiste neppure un testo del Nuovo Testamento o del cristianesimo primitivo che metta in discussione questa fondamentale tesi mistica, e tale unanimismo ha indotto molti storici a credere che l'avvenimento in questione sia davvero accaduto.

Se si fosse partiti subito dal presupposto che, nella predicazione del Cristo, qualunque aspetto favorevole allo sviluppo della fede religiosa va considerato spurio, cioè in sostanza aggiunto successivamente alla sua predicazione, prima in forma orale poi scritta, noi ci saremmo risparmiati la fatica di cercare dei criteri con cui stabilire, con buona approssimazione, la storicità di ciò che Cristo può aver detto o fatto.

Infatti, qualunque criterio che non parta da questo presupposto ha un'efficacia euristica ed ermeneutica prossima allo zero. Facciamo solo due esempi. Sulla base del criterio della molteplice attestazione si sostiene che il Cristo abbia predicato il regno di “Dio” o dei “cieli”. In realtà è tutto da dimostrare che il regno predicato dal Cristo fosse davvero di “Dio” e non dell'“uomo”, fosse dei “cieli” e non della “terra”.

Questo per dire che se, in via preliminare, non ci s'intende sul significato delle parole, è impossibile cercare di stabilire dei criteri scientifici. E, stante l'attuale documentazione religiosa su Cristo, quel che al massimo possiamo cercare di fare è comprendere in che senso i suoi seguaci intendevano la parola “regno” dopo la distruzione di Gerusalemme, cioè dopo la sconfitta della guerra giudaica contro Roma. La storia del cristianesimo primitivo è soltanto la storia delle origini dell'interpretazione mistificata che si diede (anzitutto tra i suoi stessi seguaci) dell'operato del Cristo, la quale ad un certo punto diventò dominante.

Il fatto che i vangeli non siano testi storici ma teologici o catechetici non può impedire dall'affermare che siano stati elaborati da un'intenzione mistificatrice nei confronti della storicità del Cristo. È evidente ch'essi, per come sono redazionalmente impostati, assai lontani dai nostri criteri scientifici, non vogliono raccontare chi “è stato” Gesù. Tuttavia, siccome hanno la pretesa di farlo sembrare un Cristo teologico, l'esegeta ha tutto il dovere di chiedersi se in tale operazione gli autori siano stati fondamentalmente onesti o no; tanto più che la tradizione presume che tali autori siano stati o dei testimoni oculari (come Matteo e Giovanni) delle vicende narrate o molto vicini a queste (come Marco, discepolo di Pietro), o comunque molto informati (come Luca, discepolo di Paolo e lettore di Marco).

Naturalmente non si può escludere che i nomi degli autori siano del tutto fittizi e/o che i loro testi originari siano stati ampiamente manipolati, ma è proprio per questa ragione che l'esegeta deve fare molta attenzione a non accettare acriticamente la rappresentazione di Gesù che quei testi offrono. Anche perché qui non si ha a che fare con semplici opere letterarie da leggersi per un gusto intellettuale, come p.es. possono essere quelle omeriche; qui si ha a che fare con testi che sono stati utilizzati per edificare organizzazioni o movimenti ecclesiastici in grado di gestire, ancora oggi, una fetta molto ampia del potere politico, socioeconomico e culturale di tanti Stati nazionali. Una qualunque operazione critica nei confronti di questi testi, capace di demistificare i loro presupposti mistici e impianti teologici, può servire, quanto meno, per demolire le fondamenta delle suddette organizzazioni.

*

Ora prendiamo un esempio che, secondo molti esegeti, soddisfa il criterio dell'imbarazzo: il battesimo di Gesù. Stando a coloro che ne sostengono la storicità, tale evento sarebbe attendibile, in quanto col passare del tempo si è cercato di ridurne l'importanza o addirittura di tacerlo, come risulta in quella linea canonica che va dal protovangelo di Marco a Giovanni. In realtà quell'evento non è mai accaduto, e non perché un “figlio di Dio” (consapevole di esserlo) non poteva essere battezzato da un uomo, quanto perché il Cristo politico non poteva ritenere possibile che con un battesimo di penitenza si sarebbe potuto risolvere il problema della corruzione della classe sacerdotale che gestiva il Tempio.

Nei Sinottici il battesimo di Gesù viene messo bene in evidenza semplicemente perché nell'ambito dell'operazione falsificatoria (in senso mistico) operata nei confronti del Cristo (il quale aveva rotto i ponti col Battista sin dal momento dell'epurazione del Tempio), i cristiani poterono riprendere i rapporti con la corrente essenico-battista, dando ad essi una valenza esclusivamente religiosa, sulla base di un compromesso molto preciso: i battisti avrebbero considerato Gesù l'ultimo messia e l'unigenito figlio di Dio, mentre i cristiani avrebbero considerato Giovanni Battista il primo che ebbe consapevolezza di questa particolare identità del Cristo. La conclusione del patto fu che i cristiani avrebbero adottato il battesimo essenico come rito di iniziazione cristiana, in cui il convertito non si limita a pentirsi dei propri peccati, ma crede anche che l'unica salvezza possibile proviene dalla divino-umanità del Cristo.

Nel quarto vangelo questa falsificazione ha dovuto fare i conti con una versione originaria dei fatti che squalificava il battesimo sul piano politico, ritenendolo del tutto insufficiente per la realizzazione del regno. Di qui la defezione dei discepoli di spicco dalla comunità del Precursore.

Di questi esempi se ne possono fare a centinaia, ma non ne vale la pena. Cercare di stabilire dei criteri di verificazione all'interno di testi mistificati non ha alcun senso. L'unica cosa che si può fare è soltanto quella di cercare di capire i motivi per cui sono nate certe falsificazioni, ovvero che cosa di vero esse possono aver rimosso o manipolato.

II

Perché è da così poco tempo che si mettono in discussione i vangeli e si tenta di elaborare un'interpretazione alternativa della vita di Gesù?

Indubbiamente nel corso di duemila anni di storia del cristianesimo sono esistite persone e movimenti che si sono serviti dei vangeli o della figura di Gesù per contestare, anche molto duramente, l'idea cristiana di “Chiesa di stato” e di “Stato della chiesa”. Tuttavia l'odierna esegesi sta andando oltre questi tentativi.

Da un lato, infatti, si afferma che il Gesù dei vangeli, per come viene descritto, non può essere esistito (vedi p.es. la storiografia mitologistica, di derivazione positivistica); dall'altro si arriva a dire che, se anche fosse esistito, doveva essere molto diverso da come è stato raccontato dagli evangelisti (vedi p.es. la storiografia storicistica).

Perché dunque si è arrivati a una posizione del genere? La risposta può essere una sola: la lotta politica contro la Chiesa di stato e lo Stato della chiesa, se ha indubbiamente reso più autentica la fede religiosa, ha, nondimeno, favorito notevolmente lo sviluppo di idee laicistiche. Una cosa, infatti, è lottare contro gli abusi della fede restando all'interno della Chiesa o creando un movimento ecclesiale alternativo; un'altra è quella di rinunciare a qualunque esperienza religiosa, schierandosi apertamente dalla parte dell'agnosticismo o dell'ateismo.

In tal senso se è possibile convenire sul fatto che gli esegeti liberali di matrice protestantica hanno contribuito enormemente a smitizzare la figura evangelica del Cristo (si pensi soprattutto a Rudolf Bultmann); quelli dichiaratamente laicisti hanno portato la riflessioni protestantiche a conclusioni molto più radicali e sicuramente molto più vicine alla realtà storica della Palestina di duemila anni fa.

Gli esegeti protestanti, infatti, se anche arrivavano ad accettare l'idea di un Cristo politicamente sovversivo, disposto a combattere contro le legioni romane e contro la corrotta casta sacerdotale del Tempio, non arrivavano mai ad accettare l'idea di un Cristo ateo. Molti di loro erano (e sono) docenti universitari, accademici, insigni studiosi impegnati in case editrici confessionali: avevano (e hanno) delle posizioni “teologiche” da difendere. Ecco perché non ci si deve fare tanti scrupoli se, di fronte al miglior esegeta confessionale, si finisce col preferire un mediocre esegeta laicista.

Per fortuna i tempi sono sufficientemente maturi per poter compiere, in tutta tranquillità, una scelta del genere. Anzi, son così maturi che un dialogo, per dirsi proficuo, è meglio farlo solo con gli esegeti a-confessionali. Con quest'ultimi, infatti, si può andare oltre la semplice discussione, il mero confronto di idee contrapposte: si può pensare di approfondire insieme i punti oscuri, senza dover concedere nulla al misticismo.

Il che, ovviamente, non vuole affatto dire che un'interpretazione laicistica non possa essere tendenziosa. Basta vedere con quanta ostinazione taluni esegeti cerchino di scaricare tutte le responsabilità della morte di Gesù sui Romani, sostenendo che il ruolo di primo piano attribuito dai vangeli ai Giudei è stato inventato dai cristiani.

III

I testi antichi dedicati a Gesù Cristo sono tantissimi, molti di più di quelli scritti su Cesare o Alessandro Magno, eppure nessuno di essi, nel suo insieme, ci dice qualcosa di “umanamente accettabile”.

Se prendiamo in esame i cosiddetti “apocrifi”, dobbiamo dire che sono ancora più fantasiosi di quelli canonici. Il che fa pensare che i redattori degli apocrifi avessero come modello di riferimento proprio i testi che nel quarto secolo verranno definitivamente codificati (o almeno essi erano dipendenti dalla versione dei fatti che prima Pietro, poi Paolo, diedero della tomba vuota).

Per trovare qualcosa di “ragionevole”, bisogna concentrare l'attenzione su singoli aspetti, il più delle volte d'importanza marginale agli occhi tendenziosi dei redattori. Questo per dire che è proprio la prospettiva con cui essi guardano le cose ad essere falsata.

Non serve a nulla limitarsi a trovare le interne contraddizioni ai singoli vangeli o quelle a loro trasversali, al fine di poter dire che non sono fonti attendibili. I vangeli sono tendenziosi in sé e per sé, a prescindere dalle loro antinomie. Lo sarebbero anche se fossero perfettamente coerenti; anzi, se fossero nati così, la certezza della loro tendenziosità sarebbe stata addirittura maggiore, proprio perché sarebbe aumentato il sospetto di una certa artificiosità.

Quel che l'esegeta deve cercare di capire è il motivo della tendenziosità e come essa s'è venuta formando.

Cerchiamo di spiegare con due esempi la necessità di questo impegno ermeneutico. In tutti i vangeli Pietro appare come un apostolo che non riesce sempre a comprendere ciò che Cristo dice o vuole. Appare come un ebreo politicizzato, mentre la rappresentazione che i cronisti danno di Gesù è quella di un mistico. Pietro fa delle figure meschine; arriva persino a negare di conoscere il suo maestro; ma poi si pente, e il lettore lo scusa, lo accetta ugualmente come persona “umana”, che se anche molte volte può sbagliare, non si dispera come Giuda. In poche parole sembra che sia capace di “autocritica”. Eppure se c'è una cosa che nei vangeli manca è proprio l'autocritica. L'impostazione generale che hanno è sempre quella di giustificare, in chiave mistica, il fallimento dell'insurrezione nazionale contro Roma e contro il Tempio.

Perché tutti i redattori si comportano così? Il motivo è molto semplice. I redattori, generalmente, sono ebrei che odiano altri ebrei. Non a caso tutti i vangeli sono profondamente antisemitici. Se avessero potuto mistificare completamente la realtà dei fatti, avrebbero scritto che furono i Giudei a crocifiggere Gesù, o quanto meno a eseguire una qualche sentenza di morte (lapidazione, rogo, decapitazione, strangolamento... quelle tipiche della loro civiltà). La cosa più importante che hanno potuto fare è stata quella di attribuire ai soli Giudei la decisione della condanna a morte, facendo passare i Romani per dei semplici esecutori, i quali, se fosse dipeso da loro, l'avrebbero liberato, non riconoscendo in Gesù alcun elemento politico eversivo.

Il movimento nazareno post-pasquale, al seguito del Gesù crocifisso, non si è voluto assumere alcuna responsabilità riguardo al fallimento dell'insurrezione nazionale, in quanto ha preferito scaricare tutte le colpe sui Giudei e soprattutto sulla loro classe dirigente, sadducea o farisaica che fosse. Tale movimento (che poi si chiamerà “cristiano”, per voler rompere col proprio passato) ha voluto fare della tomba vuota il perno attorno a cui far ruotare la propria diversità dal giudaismo tradizionale. Cioè non è stato capace di realizzare un patto politico con cui proseguire la strategia rivoluzionaria del Cristo. Si è dato per scontato, in forza della tomba vuota, che il Cristo sarebbe tornato molto presto e in maniera gloriosa. Han fatto prevalere considerazioni di tipo mistico su altre di tipo politico.

Il principale responsabile di tale travisamento dei fatti è stato proprio Pietro, i cui atteggiamenti contraddittori, umanamente comprensibili, descritti nei vangeli, risultano del tutto insignificanti rispetto alla volontà di non impegnarsi in un progetto politico rivoluzionario successivo alla morte di Gesù. È difficile quindi sostenere che l'unico traditore del movimento nazareno sia stato Giuda.

Questo è solo un piccolo esempio per cercare di capire che spesso ci si avvicina di più alla verità leggendo i vangeli in maniera rovesciata rispetto a come si presentano.

Vediamone ora un altro. Nel vangelo di Matteo vien fatto dire a Gesù, di fronte a Pietro che ha appena staccato un orecchio a un servo del sommo sacerdote Anania, mentre la turba armata era entrata nel Getsemani per catturarli tutti: “Rimetti la spada nel fodero. Pensi forse che non potrei chiamare dodici legioni di angeli in mio soccorso?” (26,53).

Dicendo questo, Matteo non si rendeva conto di una cosa, che se anche Gesù fosse stato una persona sovrumana, come viene descritta nei vangeli, una frase del genere non avrebbe mai potuto dirla. Perché? Semplicemente perché con essa, proprio nel momento in cui avesse affermato la propria identità divina, avrebbe negato, ipso facto, quella umana. Qualunque cosa venga fatta dire a Gesù che abbia un sapore mistico, nega, sic et simpliciter, la libertà umana (di credere o di non credere). È quindi relativamente facile scoprire dove i vangeli mentono. Il problema sta nel capire perché e come lo fanno.

Nel caso in oggetto la motivazione è lo stesso Matteo a offrirla, sulla scia della tesi marciana, secondo cui Gesù “doveva morire”. Un uomo che risorge dopo morto, avrebbe potuto evitare la croce. Se non l'ha fatto, è stato perché non voleva farlo, e non voleva perché non poteva, e non poteva perché doveva rispettare un patto preso con Dio.

IV

Al giorno d'oggi quali possibili letture ci sono rimaste dei vangeli, su cui si può ancora discutere?

Dal nostro punto di vista è fuor di dubbio che tutti gli autori dei vangeli, per qualche loro motivo, su molti aspetti della vita e delle parole di Gesù mentono clamorosamente. Ma se questo è assodato, perché lo fanno? È sulle risposte a questa domanda che bisognerebbe continuare a confrontarsi.

Di primo acchito, infatti, si ha netta l'impressione che Gesù non sia stato sufficientemente capito dai suoi interlocutori. Ma perché questo misunderstanding? La risposta prevalente che i vangeli danno, dopo aver trasformato il Cristo da soggetto politico a teologico, è la seguente: la distanza tra un uomo avente una natura divina e gli uomini in generale era così grande che diventava impossibile non fraintenderlo. In altre parole, se i personaggi dell'epoca l'avessero capito in maniera adeguata, come soggetto extraterreno, non l'avrebbero ammazzato, sia perché non avrebbero avuto motivo di temere ch'egli, forte della sua onnipotenza, volesse imporsi con la forza o compiere qualcosa che avrebbe potuto nuocere all'esistenza di qualcuno (essendo egli un pacifista assoluto); sia perché si sarebbero accorti che le sue intenzioni erano quelle di realizzare il meglio per gli esseri umani solo in una dimensione ultraterrena. Diciamo questo restando nell'ambito del misticismo, in quanto risulta evidente che un Cristo sovversivo non avrebbe mai potuto rinunciare all'uso della violenza intesa come legittima difesa.5

Gli esegeti laici sanno che tali giustificazioni sono state elaborate da redattori che, dopo aver constatato la tomba vuota, avevano dedotto che Gesù dovesse avere una natura divina. Tuttavia, quando lui era in vita, qualcuno aveva mai forse sospettato qualcosa in tal senso? Nessuno, e proprio perché lui non poteva dare adito, senza violare la libertà di coscienza, che nella sua natura umana vi fosse anche una componente sovrumana che i discepoli non avrebbero potuto capire.

Dunque perché un soggetto umano è stato trasformato in un soggetto religioso? Qui si ha l'impressione che tale transizione involutiva sia stata generata da una specie di rimorso, dovuto al fatto di non essere stati sufficientemente capaci di sostenere con decisione il messia nel suo tentativo insurrezionale contro i Romani e i loro collaborazionisti ebraici. In altre parole il senso di colpa ha indotto a credere o a far credere che Gesù Cristo si sia lasciato crocifiggere proprio per dimostrare che gli uomini non hanno alcuna speranza di realizzare sulla Terra né la democrazia né il socialismo, e che, non per questo, si devono sentire perduti, disperati, poiché tali obiettivi li vedranno realizzati nell'aldilà.

A dir il vero per alcuni anni, dopo la sua morte, gli apostoli han creduto in un suo ritorno immediato e trionfale, al punto che, con Pietro, arrivarono a dire (in una maniera non meno assurda della tesi sulla resurrezione) che Gesù non aveva voluto mostrare subito agli uomini l'esistenza di una realtà ultraterrena, proprio perché voleva dar loro il tempo di pentirsi del crimine che avevano compiuto, ovvero di cominciare a credere nella sua natura divina. Poi, quando gli apostoli si resero conto ch'era inutile attendere una parusia imminente, presero ad aggiungere alle loro fantasticherie (questa volta con Paolo) che si doveva divulgare in tutto il mondo la necessità di aver fede in questa figura divina, poiché solo dopo aver realizzato questo universalismo religioso vi sarebbe stata la parusia.

La lettura che diede Paolo alla morte del Cristo fu però caratterizzata da ulteriori elementi. Nella sua teologia farisaica, infatti, Gesù doveva morire per riconciliare Dio col genere umano, il quale, dai tempi del peccato adamitico, non era più capace di rispettare adeguatamente la legge o la volontà divina, cioè di ritrovare la propria vera identità; sicché Dio, intenzionato a distruggere l'intera umanità (come già avrebbe voluto fare ai tempi di Mosè), aveva bisogno, per poterlo non fare e dare quindi soddisfazione ai propri risentimenti, che qualcuno si sacrificasse a favore degli uomini. Senonché, siccome tra gli uomini nessuno sarebbe stato in grado di sacrificarsi in maniera esemplare, in quanto l'innocenza è un valore definitivamente perduto (altrimenti non esisterebbe la legge), l'unico che avrebbe potuto placare l'ira divina era soltanto il suo unigenito Figlio. Col suo sacrificio l'umanità si è definitivamente salvata, qualunque cosa possa compiere da qui alla fine dei tempi. Infatti nessun altro sacrificio potrà mai essere superiore a quello del Figlio di Dio.

Quindi, se fino a Paolo si poteva pensare che il ruolo di Dio non fosse indispensabile per spiegare i rapporti tra Gesù e gli esseri umani, dopo di lui è diventato assolutamente necessario. Peraltro, se anche oggi volessimo eliminare la giustificazione data da Paolo alla morte del Cristo, non si uscirebbe automaticamente dal misticismo, in quanto continuerebbero ad esistere altre giustificazioni, intenzionate a fare della natura divina di Gesù un elemento fondamentale per spiegare il suo comportamento.

Quindi l'unico modo per superare queste spiegazioni mistiche e mistificanti relative alla sua morte, è quello di dimostrare che gli obiettivi ch'egli voleva realizzare, possono esserlo su questa Terra. L'unico modo per togliere al cristianesimo il proprio misticismo è quello di dimostrare che i valori in cui esso crede sono realizzabili, in maniera adeguata, in questo mondo. Soltanto la piena realizzazione della natura umana può rendere irrilevante il fatto che Gesù fosse dotato di una natura divina. Di più. Soltanto in questa maniera gli esseri umani potranno capire d'essere essi stessi dotati di una natura divina.

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4) Le tre ricerche esegetiche sul Cristo

Per quale motivo tutti i commenti esegetici fatti ai vangeli e in genere al Nuovo Testamento dall'inizio dell'esegesi cristiana sino a quelli di H. Reimarus (cui si fanno risalire le prime operazioni di smontaggio laico del cristianesimo primitivo) e soprattutto fino a quelli di D. F. Strauss e B. Bauer della Sinistra hegeliana (dopo i quali sarà definitivamente impossibile tornare indietro), non valgono assolutamente nulla ai fini della comprensione del cosiddetto “vero vangelo di Gesù”? Semplicemente perché essi non supponevano un intento falsificatorio da parte degli evangelisti e davano per scontato che il Cristo fosse stato un semplice redentore dell'umanità e non un liberatore politico-nazionale.

I commenti esegetici pre-critici si differenziano tra loro solo in questo senso: quelli cattolici sono favorevoli all'affermazione monarchica del pontefice (il cui antesignano essi ritengono sia stato Pietro); quelli ortodossi invece sono favorevoli all'affermazione collegiale degli apostoli (e quindi di tutti i vescovi e metropoliti loro successori). I primi commenti ovviamente sono stati quelli ortodossi, che vedevano in Cristo un maestro dell'amore universale, senza ambizioni di tipo politico terreno. Sono stati poi i cattolici a fare del Cristo un soggetto politico-religioso, trasformando il suo messaggio universale in una religione specifica da accettare senza discutere.

Certo, è anche esistita, in ambito cattolico-romano, una critica di certe interpretazioni anti-patristiche, formulate dalla Chiesa romana (p. es. quelle sul primato di Pietro), che per un momento hanno lasciato presagire la possibilità di un'esegesi laica dei vangeli (si pensi p. es. al Defensor Pacis di Marsilio da Padova e alle tante opere delle eresie pauperistiche). Ma nel complesso non si può dire che tali interpretazioni abbiano dato una svolta significativa agli studi confessionali del cristianesimo primitivo.

Quanto all'esegesi di area protestante, di una cosa bisogna esserle riconoscente: avendo portato alle estreme conseguenze le assurdità dell'esegesi cattolica, essa ha finito col mettere in dubbio la stessa autenticità dei vangeli, aprendo così le porte alla moderna critica scientifica, che di religioso non ha proprio nulla. I protestanti laicizzeranno così tanto i contenuti religiosi che il passaggio alle esegesi di tipo umanistico, storicistico, mitologistico diverrà in un certo senso inevitabile.

Oggi tutte le esegesi strettamente confessionali, pur di “salvare il salvabile”, tendono ad affidarsi alle interpretazioni simboliche più azzardate, giustificando qualunque affermazione evangelica, anche la più inverosimile. In particolare esse si preoccupano di emarginare tutte le interpretazioni laiche che sottolineano troppo le difformità tra un vangelo e l'altro.

Si pensi solo a quali salti mortali sono stati fatti per sostenere che i “fratelli di Gesù” non erano “uterini”, ma “fratellastri” o “cugini”.

*

A monte della moderna esegesi critica del Nuovo Testamento vi è, come spesso succede quando c'è di mezzo la “critica della religione cattolica”, la Riforma luterana, con cui si rigettò il “quadruplice senso” della Scrittura accolto dalla tradizione monastica prima e poi dalla Scolastica (letterale, allegorico, morale, anagogico). Gli evangelici o riformati avevano un unico principio con cui fare “esegesi”, quello della “Sacra Scriptura sui ipsius interpres”, cioè le Scritture si autointerpretano: giusto per far capire al clero cattolico che il suo ruolo era finito e anche quello dei teologi cattolici.6

Poi, grazie allo sviluppo del capitalismo, venne il deismo o razionalismo inglese, che contestava il concetto di religione rivelata, i dogmi e l'ufficialità ecclesiastica, affermando la possibilità di conoscere il vero Dio con la sola ragione e riducendo la fede a una morale basata sul buon senso, e senza escludere, a volte, un riferimento privilegiato ai poveri (D. Hume, J. Locke, A. Collins7, J. Toland8, Th. Chubb9, P. Annet10, Th. Woolston11...).

L'illuminismo francese fece il resto, esaltando la ragione unita a una politica sovversiva e contestando la fede cristiana che pretende di fondarsi sulla storia. Si pensi solo a Voltaire, Rousseau, Diderot, d'Holbach, Bayle, Meslier... Ma forse il primo esegeta francese che cercò di smontare le interpretazioni ufficiali del Nuovo Testamento e del Pentateuco fu Richard Simon (1638-1712), avversato non solo dai teologi cattolici (in particolare da J.-B. Bossuet) ma anche da quelli protestanti.

Tuttavia fu il filosofo tedesco Lessing che, seppur indirettamente, diede una svolta decisiva agli studi esegetici neotestamentari, tanto che gli studiosi di tutto il mondo sono soliti far risalire a una sua presentazione di un testo di H. S. Reimarus, che vedremo più avanti, l'inizio della critica moderna dei vangeli. Lessing non solo condivideva l'impianto ermeneutico di Reimarus, ma arrivò anche a formulare, lucidamente, l'idea di una differenza sostanziale tra verità religiose (ritenute inconfutabili dai credenti) e verità storiche (da considerarsi solo probabili o plausibili).12

La sua impostazione fu pienamente condivisa da Ernst Troeltsch, il quale aggiunse un'altra importante considerazione, quella secondo cui gli uomini del passato, nella sostanza, sono assolutamente identici a quelli del nostro presente, altrimenti sarebbe del tutto impossibile interpretare le loro azioni e le loro idee; ma questo vuol dire che gli storici devono sentirsi autorizzati a interpretare anche quelle esperienze religiose del passato in cui oggi difficilmente si crederebbe (almeno non come vi credevano i protagonisti di allora); sicché diventa naturale relativizzare il valore delle interpretazioni teologiche di quelle stesse esperienze. Con Troeltsch, in poche parole, il fenomeno religioso veniva chiaramente affrontato in maniera laica.

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4.1) La Prima ricerca (1778-1906), detta “illuministica”

Gotthold E. Lessing (1729-81), che di mestiere faceva il bibliotecario, trovò per caso uno scritto inedito, intitolato Apologia degli adoratori razionali di Dio, in cui un certo docente tedesco di lingue orientali, Hermann S. Reimarus (1694-1768), contestava la fede della Chiesa ufficiale (luterana), difendendo una sorta di filosofia razionale o deistica, di stampo illuministico.

Tale Reimarus era un illustre sconosciuto in campo biblico, anche perché, finché restò in vita, non aveva avuto il coraggio di pubblicare le sue idee laicistiche sui vangeli. Ebbene, fu proprio Lessing che lo rese noto al mondo grazie alla pubblicazione di una parte di quella Apologia, che volle chiamare I frammenti dell'Anonimo di Wolfenbüttel (in italiano cfr ed. Bibliopolis, Napoli 1977), di cui il VI e il VII riguardano proprio il Nuovo Testamento.

La tesi ch'egli sosteneva, formulata per la prima volta, era la seguente: il Gesù storico non ha nulla a che fare col Cristo teologico rappresentato nei vangeli. Il primo doveva essere, come tanti altri messia di quel tempo, un uomo politicamente sovversivo, intenzionato a cacciare i Romani dalla Palestina. Il cristianesimo nacque quando, dopo il fallimento della sua impresa, gli apostoli, che non si erano rassegnati, trafugarono il suo cadavere facendo credere ch'era risorto. Di qui la trasformazione del Gesù storico-politico in un Cristo mistico-teologico.

La tesi fece ovviamente scalpore, poiché mandava al macero tutta l'esegesi confessionale fin lì elaborata, da quella patristica a quella medievale (inclusa quella luterana e calvinistica del periodo iniziale della Riforma), ma non trovò seguaci diretti perché troppo anticlericale.

A questo proposito sostiene James D. G. Dunn: “Reimarus fu il primo a inserire sistematicamente un cuneo tra Gesù e i suoi discepoli: in particolare la morte di Gesù come salvatore sofferente per tutta l'umanità contraddice le intenzioni di Gesù e dovrebbe essere considerata un'invenzione successiva dei suoi discepoli” (Gli albori del cristianesimo, vol. I, ed. Paideia, Brescia 2006, p. 47). Avrebbe anche potuto aggiungere che fu un'invenzione straordinariamente efficace e dall'alto contenuto idealistico, come solo la cultura ebraica, notoriamente dotata sul piano intellettuale, avrebbe saputo fare.

In ogni caso per tutto l'Ottocento, all'interno della Prima ricerca, i teologi protestanti, soprattutto tedeschi, pur evitando di considerarlo un politico antiromano, presero a togliere al Cristo tutte le caratteristiche sovrumane riportate nei vangeli. Praticamente lo trasformarono in un profeta morale, ancorché eticamente rivoluzionario rispetto alla mentalità giudaica, così preoccupata di rispettare la legge mosaica e tutti i precetti successivi della tradizione sacerdotale, farisaica, rabbinica ecc.

Quindi niente nascita e morte miracolose, niente guarigioni straordinarie, niente spettacolari prodigi. Già il giovane Georg W. F. Hegel aveva sostenuto una rappresentazione del genere nella sua Vita di Gesù del 1795 (cfr Scritti giovanili, Guida Editori, Napoli 1993), che naturalmente si guardò bene dal pubblicare per non compromettere la sua carriera accademica.13

Un suo allievo, Ferdinand C. Baur (1792-1860), arrivò a dire che il giudeocristianesimo di Pietro, sommato al cristianesimo pagano di Paolo, aveva generato un prodotto teologico del tutto antistorico, quello del IV vangelo, pur in presenza di forti conflitti interni tra petrinismo e paolinismo. Col suo metodo storico-critico nello studio del N.T. era convinto di aver dimostrato la priorità dei Sinottici rispetto a Giovanni; e sulla base di questa convinzione gli studiosi sono andati avanti per molto tempo. Di lui non esiste nulla in italiano.

Tuttavia, più che lui, furono due filosofi ateistici della Sinistra hegeliana a demitizzare fortemente i vangeli: David F. Strauss (discepolo dello stesso Baur)14 e Bruno Bauer15. Il primo applicò ai vangeli il concetto di mito, nel senso che nel Gesù storico si realizza l'idea di umanità: il mito è il rivestimento simbolico di questa idea.16 Il secondo addirittura pensò di negare l'esistenza storica del Cristo, almeno per come veniva descritto nei vangeli; individuò anche la differenza tra la teologia petrina e quella paolina e ritenne il vangelo marciano di molto superiore agli altri tre canonici, dando così un impulso notevole alle ricerche storico-critiche in Germania.

Gli studiosi di questa Prima ricerca sostanzialmente si dividono in due campi: quelli che vedono in Cristo un semplice profeta morale/sapienziale o un genio religioso, come voleva p.es. il francese Ernest Renan (1823-92), che nella sua Vita di Gesù (ed. Newton Compton, Roma 1990, ed. or. 1863), considerava i vangeli delle mere biografie leggendarie. O come voleva il teologo liberale Adolf von Harnack (1851-1930), che nella sua Essenza del cristianesimo (1900, pubblicato dalla Queriniana nel 1980) non solo mostrò un certo interesse per l'ambiente giudaico coevo a Gesù, ma confermò anche l'importante tesi di Christian G. Wilke e Christian H. Weisse, ripresa da Heinrich J. Holtzmann e da Paul Vernle, e a tutt'oggi condivisa dalla grande maggioranza degli studiosi, secondo cui doveva esistere una fonte molto antica dei vangeli (relativa alle sentenze o logia del Cristo), cui avevano attinto sia Matteo che Luca, e non Marco, che però è modello degli altri due Sinottici. Questa fonte anonima gli studiosi la vollero chiamare con la prima lettera della parola tedesca Quelle, che appunto vuol dire fonte.

Il secondo gruppo invece arrivò a dire che Gesù non poteva essere stato un semplice maestro di morale interiore, ma doveva essere stato anche un profeta escatologico o apocalittico, ancorché non violento, per cui qualcosa di eversivo doveva esserci nella sua predicazione, foss'anche solo in riferimento a un regno ultraterreno. Altrimenti come spiegare l'odio feroce delle autorità giudaiche nei suoi riguardi e la disponibilità dei Romani a giustiziarlo? Quanto meno il Cristo andava sottratto alla fede dogmatica per collocarlo nel suo ambiente originario.

Di rilievo, tra le varie che han cercato di riscoprire l'escatologia giudaica, le opere del francese Alfred Loisy (1857-1940), tra cui Il Vangelo e la Chiesa (1902, ed. Astrolabio Ubaldini, Roma 1978), per la quale fu scomunicato nel 1908. Famosa la sua frase “Gesù annunciava il Regno e invece è venuta la Chiesa”: cioè è stato un profeta escatologico sconfessato dai suoi seguaci, che costruirono le strutture soffocanti della Chiesa.17

In Germania invece valorizzarono l'apocalittica Johannes Weiss (La predicazione di Gesù sul Regno di Dio, D'Auria, Napoli 1993, ed. or. 1900), che però la intese come da realizzarsi in un futuro prossimo, non ben precisato, in cui lo stesso Dio-padre, nella volontà del Cristo, sarebbe apparso come co-autore; e Albert Schweitzer (Storia della ricerca sulla vita di Gesù, ed. Paideia, Brescia 1986, ed. or. 1906), che invece era convinto che Gesù la ritenesse imminente.18 Quest'ultimo chiuse la Prima ricerca, dicendo che, allo stato attuale delle fonti, era impossibile risalire all'autentico Gesù storico (quindi la Leben-Jesu-Forschung andava considerata fallita). E siccome non voleva cadere nel rischio di proiettare sulla vita di Gesù le proprie esigenze e convinzioni personali, decise di abbandonare la carriera accademico-teologica per consacrarsi alla cura dei lebbrosi africani fino alla sua morte. Almeno in questa maniera – diceva – poteva mettere in pratica la morale evangelica.

Radicale come Schweitzer fu anche William Wrede (1859-1906), per il quale i vangeli andavano considerati come delle rappresentazioni post-pasquali di Gesù da parte dei suoi discepoli, mentre il vero fondatore del cristianesimo era stato Paolo, con le sue idee mistico-gnostiche che si sovrapponevano a quelle farisaiche. Famoso fu il suo lavoro (Il segreto messianico nei vangeli, ed. D'Auria, Napoli 1996) sul tema marciano del “segreto messianico” (quello per cui Gesù non voleva essere riconosciuto come “messia”). Al dire dell'esegeta era stato introdotto per giustificare il mancato riconoscimento della messianicità di Gesù da parte del movimento nazareno, sicché il protovangelo non era meno teologico del quarto.

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4.2) Meriti e demeriti della critica positivistica della religione

Tutta la migliore cultura razionalistica, illuministica e positivistica europea ha affrontato l'argomento “vangeli” secondo l'impostazione dell'invenzione. I più importanti teorici sono stati Feuerbach e alcuni esponenti della Sinistra hegeliana: D. F. Strauss e Bruno Bauer. È stato sulla base di questi studi che progressivamente è emersa anche l'altra impostazione: quella della falsificazione o della mistificazione.

Con la nascita del socialismo scientifico, soprattutto con gli studi di Engels e di Kautsky, e successivamente con quelli dell'inglese Brandon, che non era marxista e che riprese e sviluppò gli studi di Eisler, Hengel e Stauffer, è venuta emergendo un'analisi delle origini del cristianesimo che per certi versi lascia ancora più sconcertati. I vangeli mistificano la realtà presentando un Cristo del tutto spoliticizzato, e questo per far sì che i cristiani venissero accettati senza riserve dalle istituzioni romane. In pratica il Cristo dei vangeli è un'invenzione che si basa su una falsificazione.

In Russia queste due interpretazioni le chiamarono con altri nomi: “scuola mitologista” e “scuola storicista”. L'esponente più significativo della prima fu Iosif A. Kryvelev. L'altra scuola ha avuto molti seguaci. Non erano scuole in opposizione, ma portavano a risultati diversi.

La scuola mitologista (di cui in Italia il maggiore rappresentante è stato Ambrogio Donini) si è sempre preoccupata di dimostrare che il Nuovo Testamento in nessuna parte può essere considerato una fonte storica e che allo stato attuale delle fonti un affronto storicistico del cristianesimo è praticamente impossibile. Questa corrente si è in sostanza servita delle contraddizioni relative a spazio e tempo per dimostrare l'infondatezza di tutte le tesi religiose.

L'altra scuola invece ha ragionato in termini ipotetici e s'è chiesta se, pur dando per scontate alcune cose, si potrebbe arrivare lo stesso a una conclusione laico-razionale nell'analisi del cristianesimo primitivo. In pratica la domanda che s'è posta è stata la seguente: ammesso che il Cristo sia esistito, per quale ragione lo si è voluto presentare come un dio e non come un uomo? perché lo si è voluto completamente spoliticizzare e in che modo si può dimostrare la presenza di questa volontà mistificatrice?

La critica positivistica della religione, fissandosi sulla tesi dell'inesistenza del Cristo, ha finito per impoverirsi, anche se oggi in rete trova seguaci di non poco conto, di cui il principale resta Luigi Cascioli, scomparso di recente. In particolare essa ha liquidato troppo in fretta i Vangeli canonici (in questo errore persino un intelligente storico delle religioni come Donini era caduto).

In effetti, è vero che i Vangeli non sono documenti storici al cento per cento, ma è anche vero che non sono documenti di pura fantasia. Non esiste nessun documento leggendario che non trovi alcun riscontro nella realtà, e non esiste alcun documento storico che non sia anche il frutto di un'interpretazione della realtà. Compito dello storico è appunto quello di trovare un'obiettività minima delle cose.

Ci si è basati troppo sulle contraddizioni insanabili dei vangeli al fine di dimostrare la loro tendenziosità, quando proprio la presenza di contraddizioni offre in genere più garanzie di autenticità che non l'assoluta coerenza letteraria.

Dunque, da un lato il razionalismo positivista ha fatto bene a mettere in dubbio l'equazione di “Gesù storico” e “Cristo della fede”; dall'altro però, insistendo nel dire che non è mai esistito alcun Gesù Cristo, esso si è tolto la possibilità non solo di discutere coi credenti (i quali così si sono sentiti riconfermati nella decisione di restare “cristiani” semplicemente per partito preso), ma anche di scoprire il motivo per cui sul vero vangelo del Cristo sono state operate così tante manipolazioni.

In effetti, è un fenomeno abbastanza curioso che il razionalismo positivista non si sia mai accorto che è sempre stato nell'interesse della Chiesa oscurare l'esistenza storica del Cristo. Se tale razionalismo fosse stato meno prevenuto, avrebbe accettato senza difficoltà la tesi secondo cui la Chiesa cristiana ha dovuto censurare il Cristo storico proprio perché questi non aveva nulla di religioso. Il Cristo della Chiesa cristiana (di qualunque confessione questa sia) è semplicemente un soggetto che “redime” i peccati degli uomini, non un liberatore politico-nazionale, tanto meno un ateo umanista.

Passare dalla inattendibilità del Cristo “redentore” alla sua inesistenza tout-court significa precludersi la possibilità di capire un fenomeno che, pur con tutte le sue falsificazioni rispetto all'autentico messaggio del Cristo (messaggio che, per inciso, va necessariamente letto tra le righe delle poche fonti che ci sono pervenute), rappresenta comunque un progresso rispetto all'ebraismo e al paganesimo.

L'unica fonte autentica del Nuovo Testamento resta la Sindone, che è nel contempo la testimonianza di una presenza umana e politica nel messaggio di liberazione del Cristo e di una sconfitta di tale messaggio. Tutte le altre fonti che ci sono pervenute sono nate dopo il fallimento di tale messaggio e dopo il ritrovamento della Sindone e sono state costruite allo scopo di giustificare quel fallimento. Dopo le lettere paoline i vangeli sinottici sono stati i primi a essere stati scritti e sicuramente sono più attendibili di tutti i vangeli apocrifi, ma non sono più attendibili del Vangelo di Giovanni, l'ultimo a essere stato scritto e il più manipolato di tutti. Per tale ragione l'esegesi laica è arrivata alla conclusione che quanto è stato prodotto, negli ultimi duemila anni, da parte dell'esegesi confessionale, ha un valore alquanto irrisorio e che, se si vogliono continuare ad esaminare le fonti neotestamentarie, bisogna in sostanza ripartire da zero.

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4.3) La Seconda ricerca (1892-1985), detta “kerigmatica”

I (la “Storia delle forme”: 1892-53)

Nella Seconda ricerca sullo studio del N.T., che è possibile suddividere in due momenti: (1892-1953) e (1954-85), avviene il processo inverso della precedente, cioè là dove si era arrivati a dire che sarebbe meglio pensare a un Gesù storico in luogo di un Cristo teologico, si preferisce sostenere che, siccome sul Gesù storico non si può dire nulla di certo a causa della tendenziosità delle fonti evangeliche, è meglio limitarsi a esaminare il Cristo teologico, cercando di capire le modalità (linguistiche, formali) con cui la Chiesa ha elaborato un soggetto del genere.

Tale Ricerca la si fa risalire a un testo di Martin Kähler apparso nel 1892, Il cosiddetto “Gesù storico” e l'autentico Cristo biblico (ed. D'Auria M., Napoli 1993), con cui si cercava di superare lo stallo ermeneutico della Prima ricerca. In sostanza la sua tesi era la seguente: poiché l'unico Cristo che abbiamo, dalle fonti che ci sono pervenute, è quello teologico o kerygmatico o storico-biblico, è su questo che dobbiamo lavorare; e tale soggetto va comunque considerato “storico” (“soggetto di storia”), altrimenti si dovrebbe scartare tutto del Nuovo Testamento, anche se il Gesù della fede non può coincidere strettamente con quello “storico-reale”. In tal senso il Cristo “reale”, quello in cui milioni di persone credono, è il Cristo “predicato”, non avendo gli storici (che ne fanno “oggetto di storia”) elementi sufficienti per tenerli nettamente separati. I vangeli possono essere approcciati soltanto come “testimonianze di fede”, oppure è meglio lasciarli perdere.19

Alcuni critici cominciarono a prenderlo alla lettera e svilupparono una determinata critica letteraria o “storia delle forme” (Formgeschichte), che prima non esisteva nello studio del Nuovo e Antico Testamento. Per esempio Paul Wendland s'accorse che non pochi testi del N.T. risentivano dell'influenza della cultura gnostico-ellenistica o di Filone Alessandrino (cfr La cultura ellenistico-romana nei suoi rapporti con giudaismo e cristianesimo, ed. Paideia, Brescia 1986).

Hermann Gunkel fu il primo a comprendere che la Bibbia andava suddivisa in unità letterarie caratterizzate dall'adozione di uno specifico genere letterario (o forma, gattung). A ogni genere, poi, occorreva associare l'ambiente socio-culturale che l'aveva originato, determinandone le caratteristiche (forma, stile, gusto estetico, ecc.). Per indicare questo ambiente Gunkel coniò la fortunata espressione Sitz im Leben (contesto vitale), tuttora molto comune nel linguaggio tecnico dei biblisti. Gunkel, quindi, iniziò un cammino a ritroso, che dal testo scritto cercava di risalire a precedenti versioni “orali”. Di lui in italiano esistono soltanto La fiaba nell'Antico Testamento (ed. Medusa, Milano 2007) e I profeti (ed. Sansoni, Firenze 1967).

Di rilievo il fatto che, agli inizi del Novecento, Julius Wellhausen (1844-1918), già famoso per i suoi studi sul Pentateuco, formulò la teoria, oggi rimasta insuperata, secondo cui doveva esistere un vangelo aramaico originario di Marco, di cui l'attuale versione greca sarebbe la traduzione, con ulteriori aggiunte, e da questo Marco aramaico dipenderebbero i vangeli di Matteo e di Luca. La stessa fonte “Q” sarebbe meno importante di Marco.

Per diciotto secoli si era pensato esattamente il contrario, e cioè che Marco fosse un riassunto di Matteo. Come noto, i teologi cattolici non sopporteranno d'aver creduto in un abbaglio del genere per così tanto tempo (anche perché se Matteo venisse fatto dipendere da Marco, il misticismo dei vangeli diminuirebbe di un bel po') e, con Marie-Joseph Lagrange, s'inventeranno l'esistenza di un Matteo aramaico, dal quale dipende l'attuale vangelo greco di Matteo e quindi anche il vangelo greco di Marco, che però avrebbe fatto riferimento a un'ulteriore fonte del tutto ipotetica (poi individuata da Léon Vaganay nella tradizione orale di origine petrina).

Addendum

Prima di affrontare il tema della “Storia delle forme” vorremmo aprire una parentesi su ciò che abbiamo appena detto.

Cerchiamo di rispondere a questa domanda: Cosa c'è che non va, da un punto di vista laico, nell'impostazione metodologica di Martin Kähler?

1) Gli esegeti (anzitutto protestanti), a partire dall'epoca storica che ha iniziato a caratterizzarsi in maniera laico-razionale (l'Illuminismo), avevano cominciato a chiedersi se i vangeli potevano contenere aspetti di natura laico-umanistica o razionale, sottesi a quegli elementi di natura religiosa che col tempo vi si erano sovrapposti, come in un processo di sedimentazione. La ricerca esegetica arrivò alla conclusione ch'era impossibile trovare degli aspetti di natura laica all'interno di fonti così marcatamente teologiche, e che quindi era impossibile, per un esegeta moderno, studiare il caso di Gesù Cristo prescindendo dalla fede religiosa di chi l'aveva raccontato duemila anni fa.

2) A questo punto la strada – secondo noi – poteva biforcarsi solo in due opposte direzioni: a) la prima era quella di smettere di studiare il cristianesimo primitivo, poiché, al giorno d'oggi, la fede non è più argomento d'interesse (intellettuale), in grado di suscitare curiosità o di promuovere determinati comportamenti morali; b) la seconda strada è quella che da sempre percorre la Chiesa ortodossa, secondo cui il Nuovo Testamento e il cristianesimo primitivo vanno presi così come sono, evitando di studiarli a partire dalle moderne concezioni laicistiche dell'esistenza. In questa seconda strada, molto conservativa, l'unica cosa che si può fare è quella di dimostrare che la Chiesa romana si è col tempo discostata dalla tradizione ecclesiale più autentica, e ha prodotto una nuova religione, che giustamente dagli “ortodossi” viene considerata “eretica”. Non meno eretica, per loro, è la confessione protestante, la quale, pur contrapponendosi al cattolicesimo, non ha saputo recuperare il senso o il valore della fede cristiana originaria. Quindi, se si voleva dare per scontato che dalla fede non si può prescindere, allora gli esegeti confessionali avrebbero dovuto abiurare la loro fede e accettare quella più vicina alla concezione religiosa che i cristiani avevano duemila anni fa.

3) Ora, siccome riteniamo che queste due strade non siano sufficienti per comprendere gli avvenimenti che hanno caratterizzato la vita di Gesù Cristo, non resta che proporne una terza, quella di ipotizzare una rappresentazione di Gesù come soggetto politicamente eversivo e ideologicamente ateo. Cioè possiamo provare a essere conformi ai nostri tempi, interpretando i vangeli (canonici e apocrifi) e tutto il Nuovo Testamento come un gigantesco tentativo, durato circa un secolo (cioè sino alla stesura del IV vangelo), di mistificare l'operato del Cristo.

Noi dobbiamo ipotizzare qualcosa che è l'opposto di ciò che ci è stato tramandato. Non ci può bastare sostenere che le fonti sono tendenziose; abbiamo bisogno di scoprire quale può essere stata la verità storica ch'esse hanno volutamente deformata.

Un'indagine del genere non può evitare, visto che le Chiese cristiane costituiscono un indubitabile potere istituzionale, che lo scontro ermeneutico, esegetico, culturale tra storici del cristianesimo, si trasformi in uno scontro politico tra opposti schieramenti. Non è infatti pensabile che l'identità storica del Cristo – considerato il modo in cui è stato eliminato – non abbia avuto una forte caratterizzazione politica.

Se oggi esistesse uno come Gesù Cristo, il quale, a motivo del proprio ateismo e del proprio atteggiamento anti-capitalistico, finisse con l'essere giustiziato, e i suoi discepoli volessero tramandare ai posteri una sua rappresentazione falsata, su quale aspetto dovrebbero puntare? Cos'è che oggi diamo per scontato, cui nessuno di noi potrebbe o vorrebbe rinunciare? Duemila anni fa era la religione: oggi non è forse la scienza? In seguito alla rivoluzione industriale, noi oggi abbiamo a che fare con una scienza strettamente connessa alla tecnologia. Quindi se volessimo mistificare l'operato di un Cristo anti-capitalistico, sarebbe sufficiente sostenere ch'egli non era affatto contrario al macchinismo, ma solo all'appropriazione privata del prodotto che con esso si ottiene. Detto altrimenti, il miglior modo per mistificare Gesù Cristo oggi sarebbe quello di rappresentarlo come un socialista che del capitalismo accetta la rivoluzione industriale, della quale l'unica cosa che contesta è la gestione privatistica della proprietà.

Tra duemila anni gli esegeti laici forse riusciranno a capire, attraverso i nostri testi mistificati, che Gesù non era solo un soggetto anti-capitalistico, ma anche anti-industriale. Quale sarà la condizione per riuscire in questa impresa? Rispondere a questa domanda è come rispondere a quest'altra: per quale motivo oggi facciamo così tanta fatica ad accettare un Cristo ateo e sovversivo? La fatica è dovuta al fatto che la religione non solo ha ancora un enorme potere politico ed economico, ma continua a condizionare con la sua mitologia anche le idee di tipo scientifico, senza che la scienza neppure se ne accorga, tant'è che continuamente si traveste nei panni di una nuova religione, per quanto l'importanza ideologica e culturale del cristianesimo sia profondamente scemata in concomitanza con lo sviluppo del laicismo borghese e proletario.

Si può quindi presumere che il Cristo anti-capitalistico potrà davvero essere conosciuto nella sua identità storica soltanto quando la civiltà umana avrà rinunciato all'industrializzazione in nome della tutela ambientale. Quando gli uomini capiranno che la natura va salvaguardata così com'è (as is) e che l'ecologia ha un primato sull'economia, non solo riusciranno a comprendere adeguatamente il Cristo socialista, ma anche quello “reale”, quello anti-schiavistico di duemila anni fa.

Chiusa la parentesi.

*

Coloro che applicarono il metodo della “Storia delle forme” al Nuovo Testamento furono soprattutto Martin Dibelius, Karl L. Schmidt e Rudolf Bultmann. Ma andrebbero messi nell'elenco anche i francesi M. Goguel e C. Guignebert.

Costoro si accorsero che anche i vangeli potevano essere suddivisi in piccole unità letterarie autosufficienti, dette “pericopi”, che, messe a confronto tra loro, permettevano di capire, grazie all'analisi storico-critica e linguistica, quale di esse era originaria e quale derivata, quale influenzata dall'Antico Testamento o da altre fonti, quale dipendeva da una tradizione orale e quale no, inoltre quale era organica al contesto in cui era stata posta e quale invece era stata collocata successivamente da nuovi redattori, o addirittura perché le stesse pericopi erano state inserite in contesti molto diversi tra loro (si pensi p.es. alla cacciata dei mercanti dal Tempio, che nel IV vangelo è posta all'inizio della carriera politica di Gesù, mentre nei Sinottici alla fine). La classificazione delle pericopi fu piuttosto schematica: detti profetici, detti sapienziali, precetti, parabole, novelle, apoftegmi (“enunciazione di una sentenza”), paradigmi, dispute, racconti di miracoli, storia della passione, miti.

Nessuna di queste forme appariva con sicurezza più autentica di altre sul piano storico, in quanto tutte risultavano influenzate dalla rappresentazione del Cristo teologico, benché non con lo stesso grado d'intensità.

In Italia il più famoso dei suddetti esegeti fu il tedesco R. Bultmann (1884-1976), i cui testi più significativi li produsse nella prima metà del Novecento. Anche lui era dell'avviso che, siccome agli evangelisti non interessava fare una biografia di Gesù né elaborare dei testi storici secondo i nostri parametri, è comunque possibile studiare la formazione del cristianesimo primitivo a partire dalla decodificazione storico-filologica del Nuovo Testamento, nonché – e qui sta la sua novità – da un'analisi delle radici ellenistiche o comunque extrapalestinesi del cristianesimo paolino.

Nessuno dei suddetti esegeti pensò di dare un valore politico all'azione di Gesù (come p.es. fece Samuel Brandon), ma ci si limitò a salvaguardare delle istanze di tipo esistenzialistico, pur nella convinzione che i vangeli altro non sarebbero che miti creati dalle prime comunità cristiane, i quali miti riflettono le varie correnti sociali, teologiche e culturali dell'epoca, inizialmente caratterizzate da una trasmissione orale delle conoscenze.

Bultmann era addirittura convinto che la messianicità di Gesù fosse stata un'invenzione della Chiesa. Alcuni suoi testi fecero da spartiacque nella storia della moderna esegesi: La storia della tradizione sinottica (1921, da noi è stato tradotto il testo del 1925: Storia dei vangeli sinottici, ed. Dehoniane, Bologna 1969) e Gesù, del 1929 (ed. Queriniana, Brescia 1972). Ma di lui sarebbe bene leggersi anche Nuovo Testamento e mitologia (ed. Queriniana, Brescia 1970, ristampato nel 2005, ed. or. 1941) e altri suoi saggi sulla demitizzazione, che sicuramente risentono dell'influenza della filosofia heideggeriana, secondo cui ciò che conta è “prendere decisioni”, a prescindere dalla verità storica. La stessa teologia dialettica di Karl Barth sosteneva che la fede viene dall'ascolto del kerygma (annuncio di fede) e non dalla ragione.

Bultmann fece scalpore anche quando formulò la teoria secondo cui a monte del vangelo di Giovanni (di cui deve essere esistita una versione aramaica andata perduta) dovevano esserci almeno tre fonti diverse: una relativa ai miracoli, un'altra relativa ai discorsi (di matrice gnostico-ellenistica) e un'altra ancora riguardante la passione. Robert T. Fortna arriverà addirittura a dire che in tale vangelo si possono individuare ulteriori due fonti: un editore che rielabora tutte le fonti e un redattore che revisiona il lavoro precedente. Insomma questo sarebbe stato il vangelo più manipolato di tutti, probabilmente – potremmo aggiungere – a motivo della sua controtendenza rispetto ai Sinottici. Le idee di questi due esegeti furono, nella sostanza, ampiamente condivise da Jürgen Becker, Joachim Gnilka, Marie-Émile Boismard e Arnaud Lamouille. Chi invece si oppose strenuamente a Bultmann fu l'abate Giuseppe Ricciotti con la sua Vita di Gesù Cristo (ed. Rizzoli, Roma 1941).

II (la “Storia delle forme”: 1954-85)

Tale impostazione demitizzante subì una modificazione a partire dai discepoli dello stesso Bultmann, il primo dei quali fu Ernst Käsemann, nel testo Il problema del Gesù storico, del 1953 (apparso in italiano nei suoi Saggi esegetici, ed. Marietti, Casale Monferrato 1985)20, mentre il secondo fu Günther Bornkamm, nel libro Gesù di Nazaret, del 1956 (ed. Claudiana, Torino 1977).

Entrambi arrivarono a dire che il Cristo della fede (o biblico) è sostanzialmente equivalente al Gesù storico, benché mediato dalla fede religiosa dei suoi discepoli, che non ha fatto modifiche significative al suo messaggio. Quindi la differenza sta soltanto nei diversi livelli di “fede” tra l'uno (Gesù) e gli altri (i discepoli). In altre parole, se i cristiani hanno creduto nella resurrezione di Gesù, vuol dire che non si può prescindere da tale convinzione nella ricostruzione delle sue vicende. Come disse il teologo Joachim Jeremias, la pretesa era quella di arrivare agli “ipsissima verba Jesu” (cfr Teologia del Nuovo Testamento. vol. I: La predicazione di Gesù, ed. Paideia, Brescia 1976).

Käsemann formulò cinque fondamentali criteri per poter individuare, all'interno dei vangeli, ciò che poteva essere considerato più autentico o più attendibile. Tali criteri sono stati successivamente precisati da altri esegeti, che arrivarono a triplicarli. Qui riportiamo solo i principali, frutto di una lunga riflessione storico-critica.

1) Attestazione (o testimonianza) molteplice: sono credibili i fatti di Gesù attestati almeno da due fonti letterarie tra loro indipendenti e/o in più di una forma o genere letterario (p.es. la nascita di Gesù a Betlemme o l'istituzione dell'eucaristia). Questo criterio però non tiene conto che prima della tradizione delle fonti scritte vi fu la trasmissione orale tra i primi discepoli, di cui quella petro-paolina finì con l'imporsi su tutte e quindi anche sulle fonti scritte, nelle parti almeno più irrinunciabili (p.es. i racconti della Passione). Per non parlare del fatto che un singolo testo molto antico potrebbe essere entrato in più linee della tradizione proprio perché ritenuto interessante da molti cristiani, oppure un detto e/o un'azione storica decisiva possono aver fatto parte di una sola testimonianza (come in genere succede in quella giovannea). Quindi non è affatto scontato che l'antichità di una tradizione possa provare l'autenticità della predicazione gesuana. Prendiamo p. es. il battesimo di Gesù: ne parlano i Sinottici, ma non Giovanni, che fu testimone oculare della vita di Gesù, addirittura il solo, tra gli evangelisti, nel primo periodo della sua vita, quando tra il Battista e il Cristo esisteva una certa affinità di vedute, venuta poi meno a causa della decisione del movimento nazareno di compiere un'attiva epurazione del Tempio dalla corruzione dilagante, non condivisa dal Battista. Secondo questo criterio il battesimo di Gesù dovrebbe essere considerato attendibile: invece non lo è affatto, in quanto potrebbe essere stato inventato dalla comunità post-pasquale, che aveva ripreso i rapporti con quella battista dopo il tradimento degli ideali politici del Cristo. È assurdo far dipendere il risultato della ricerca storica da valutazioni che riguardano la critica letteraria o filologica. Quale esegeta considererebbe come “fonti storiche” Matteo e Luca i cui vangeli dipendono per almeno l'80% da quello di Marco, mentre la parte restante è assimilabile alla letteratura apocrifa? E dovendo esaminare le parabole dei Sinottici e quelle del vangelo (molto antico) di Tommaso, a quale si darebbe la priorità storica, visto che le une hanno una prospettiva escatologica e le altre no? E come si può escludere che le varianti tra Marco e Q non dipendano da una fonte comune post-pasquale? Insomma questo criterio avrebbe un minimo di senso solo se si partisse dal postulato che da Gesù siano derivati sin dall'inizio, simultaneamente, vari gruppi con le rispettive tradizioni, senza contatti tra loro, ma ciò nessuno è in grado di dimostrarlo.

2) Imbarazzo ecclesiale: sono credibili i fatti di Gesù che hanno creato difficoltà nella loro applicazione all'interno delle prime comunità cristiane, o che avrebbe indebolito la posizione della Chiesa nella discussione con gli avversari, come p.es. il battesimo di Gesù ad opera di uno, come Giovanni Battista, che per natura gli era inferiore, oppure la non conoscenza di Gesù del giorno finale (cfr Mc 13,32), nonché la stessa idea di resurrezione, che comportava persecuzioni di vario genere. Questo criterio però non considera che il vero imbarazzo creato da Gesù, che i vangeli non accettarono, cercando di mistificarlo in tutti i modi, fu il lato politico della sua predicazione; tutti gli altri “imbarazzi” non possono che essere conseguenti alla risposta che si diede a quello principale. Peraltro è difficile dire, in via del tutto generale, se una cosa imbarazzante per noi lo fosse anche per la Chiesa primitiva, e viceversa naturalmente.

3) Originalità o difformità o discontinuità o dissomiglianza o doppia irriducibilità: una tradizione (azioni o detti di Gesù) è autentica se non è stata desunta da un motivo presente nel giudaismo di quel tempo o se la mentalità della Chiesa, al tempo dell'autore del vangelo, non era in grado di giustificarla: p.es. il fatto che Gesù chiami Dio con l'appellativo “Abbà”, o la proibizione del giuramento o del ripudio nel matrimonio. Questo criterio però trascura il fatto che i vangeli sono opere collettive, continuamente revisionate, scritte per mistificare l'operato del Cristo, per cui anche quando appaiono cose che potrebbero far pensare a un Cristo inedito, esse restano sempre inserite in una cornice teologica che ne deforma o snatura il modo di porsi originario, o comunque ne riduce la portata eversiva. Con questo criterio – è facile notarlo – si può giustificare qualunque cosa. In pratica è come se si volesse sostenere la seguente tesi: poiché Gesù è il figlio di Dio, egli poteva affermare o fare cose con un'autorità sconosciuta alle persone del suo tempo, cioè cose che non potevano essere comprese sul momento, ma solo successivamente. Peraltro noi non conosciamo completamente né il giudaismo né il cristianesimo del I sec.; non possiamo essere sicuri che un elemento ritenuto discontinuo non sia tale semplicemente per la lacunosità delle fonti di cui disponiamo. Non è detto che quanto appare a noi discontinuo, rispetto al giudaismo e al cristianesimo del I sec., sia centrale nel messaggio e nella vita Gesù, e non invece del tutto periferico. Se questo criterio venisse applicato in maniera unilaterale, si renderebbe il Cristo totalmente estraneo al giudaismo del suo popolo.

4) Coerenza o conformità: tra le parole e i fatti di Gesù doveva esserci una coerenza logica o convincente, in conformità col tempo e con l'ambiente in cui egli visse, altrimenti dovremmo definirlo una persona assurda, incomprensibile. Cioè se un'azione o un detto di Gesù è coerente con altri elementi considerati autentici, allora è credibile: p.es. la nascita di Cristo negli ultimi anni del regno di Erode il Grande. Tuttavia, se era vero il criterio precedente (quello della difformità), come può esserlo anche questo, che è l'esatto opposto? Come si può stabilire con sicurezza quando è il momento di applicare un criterio o l'altro? Si può onestamente pensare che sulla base del solo criterio della conformità si riuscirebbe davvero a comprendere la reale diversità del Cristo dal giudaismo del suo tempo? Peraltro questo criterio non tiene conto che il Gesù dei vangeli appare come una persona assurda ai suoi contemporanei proprio in quanto alla sua istanza politica viene continuamente sovrapposta dai redattori una preoccupazione teologica o un'intenzione mistica. Questo per dire che se anche, di primo acchito, è facile pensare che qualche singolo detto o fatto, a lui attribuito, sia attendibile, in quanto nessuno può sostenere con certezza che tutto il contenuto di un vangelo sia falso; nondimeno la coerenza tra due o più cose mistiche non le rende per questo storicamente più credibili. Inoltre che valore ha la coerenza formale o la conformità quando la predicazione di Gesù non è stata presentata da nessun evangelista come l'esposizione di una dottrina sistematica?

5) Criterio del rifiuto e dell'esecuzione di Gesù: l'esegeta deve mostrare i punti salienti in cui il conflitto tra Gesù e i suoi oppositori doveva portare a una rottura inconciliabile. Questo criterio non indica direttamente se un determinato detto o fatto di Gesù sia autentico, però serve per interrogarsi su quali parole e fatti storici di Gesù possono spiegare il suo processo e la sua crocifissione come re dei Giudei. Tale criterio è indubbiamente interessante, ma a condizione di accettare l'idea che gli oppositori di Gesù furono sia i sadducei e i farisei più integralisti, che i Romani, altrimenti si finisce col restare fermi alle tesi del protovangelo marciano, secondo cui gli unici veri colpevoli sono stati i Giudei.

Oltre a questi cinque criteri, che molti esegeti ritengono fondamentali, se ne possono citare altri otto, formulati successivamente all'opera di Käsemann, che hanno riscosso un certo interesse.

1) Criterio delle tracce aramaiche: una frase (o anche solo una parola) che riecheggia parole o strutture linguistiche aramaiche, cioè conformi al vissuto contenuto negli eventi raccontati, ha un maggior grado di probabilità d'essere originale e non frutto di una personale elaborazione dei redattori o di aggiunte posteriori. P.es. i semitismi nello stile del vangelo di Marco o i detti aramaici in esso contenuti. È stato però fatto notare che tali indizi non permettono di distinguere chiaramente un detto pronunciato per la prima volta in aramaico da Gesù, p.es. nel 29 d.C., da un detto pronunciato per la prima volta in aramaico da un giudeo-cristiano vissuto nel 33 d.C., visto che tutti i Giudei in Palestina parlavano la stessa lingua.

2) Criterio dell'ambiente palestinese: simile a quello degli indizi aramaici e a quello della coerenza. Esso afferma una buona probabilità di storicità di quelle fonti che trasmettono (come accade p.es. nelle parabole) usi e tradizioni sociali, giuridiche, economiche, commerciali, culturali della Palestina del I sec. Questo criterio è però ingenuo tanto quanto quello degli indizi aramaici, semplicemente perché un falsificatore dei detti o fatti di Gesù potrebbe avere tutto l'interesse a rendersi maggiormente credibile inserendo le proprie falsità in una cornice apparentemente realistica.

3) Criterio della vivacità del racconto: la vivacità e i dettagli concreti dei racconti evangelici – specialmente quando non sono rilevanti per l'intento principale del testo – possono essere degli indicatori di un resoconto fatto da testimoni oculari, più che provenire da una certa intraprendenza di un interpolatore. Va detto tuttavia che un esegeta, per stabilirne il grado di autenticità di un racconto, deve concentrarsi sull'intenzione generale che l'ha prodotto, senza lasciarsi influenzare o distrarre da singoli dettagli che pur appaiono molto realistici. In astratto si può tranquillamente affermare che come la vivacità in se stessa non prova la storicità di alcunché, in quanto può essere benissimo un merito redazionale, così non è necessariamente astorica una narrazione scarna.

4) Criterio della variante più difficile: quando le fonti testuali presentano diverse varianti, relativamente a un testo, si deve preferire “la più difficile”. P.es. in Marco 1,41 alcuni manoscritti riportano che Gesù “si adirò” di fronte al dubbio del lebbroso (“Se vuoi, puoi guarirmi”), mentre nella maggior parte dei codici viene detto che “si commosse”. Ora difficilmente la seconda variante redazionale poté trasformarsi nella prima, mentre è verosimile il contrario. Questo tuttavia ci dice soltanto che Marco è fonte di Matteo e Luca; non ci dice che quella guarigione sia stata effettivamente compiuta così come Marco la descrive.

5) Criterio della variante più corta: è più verosimile, fra due testi in contrasto, che quello più ampio sia un'amplificazione di quello più breve, e che quindi quest'ultimo sia più realistico. Tuttavia questo criterio non regge nei racconti di guarigione, che in Marco sono sempre più estesi o più variegati di quelli di Luca e Matteo, che copiano da lui. Semmai aveva ragione Bultmann quando diceva che nei Sinottici, col passare del tempo, il racconto orale o scritto si è precisato con particolari e amplificazioni del tutto inventati: p.es. i “molti” ammalati risanati da Gesù secondo Mc 1,34 sono diventati i “tutti” di Mt 8,16. Ma anche questo dimostra soltanto la priorità storica di Marco, non dimostra la sua autenticità, né dimostra che le leggi redazionali dei Sinottici debbano valere come norma della tradizione in generale (non a caso il IV vangelo si pone in contrasto col protovangelo, per non parlare dei contrasti esistenti tra vangeli canonici e apocrifi: una distinzione, quest'ultima, che i moderni esegeti tendono a rifiutare).

6) Criterio della supposizione o presunzione storica: l'onere della prova che un testo è manipolato ricade sull'esegeta; senza prove sufficientemente attendibili, occorre far valere l'autenticità del testo (cioè nel dubbio prevale la tradizione). Questo perché una teoria resta valida fino a quando viene “falsificata” da una nuova teoria più fondata. Tuttavia questo criterio non tiene minimamente conto del fatto che nei vangeli vi sono racconti la cui inattendibilità, al giorno d'oggi (in cui tende a prevalere la laicità sul misticismo), non ha bisogno d'essere dimostrata, essendo evidente di per sé, anche perché i vangeli sono stati prodotti da una volontà tendenziosa, volta a mostrare un Cristo esclusivamente teologico.

7) Criterio dell'antichità delle fonti: più una fonte è antica, e quindi vicina agli eventi raccontati, più è verosimile che le informazioni siano fedeli e storicamente fondate, particolarmente quando sono in contrasto con fonti posteriori. Questo criterio non tiene però conto del fatto che i vangeli ci sono giunti in lingua greca, mentre quelli in lingua aramaica sono andati perduti o sono stati distrutti, per cui, se ci è possibile sapere quale fonte greca sia più antica di altre, non ci è possibile sapere se questa fonte sia stata una fedele traduzione di quella aramaica, ammesso e non concesso che anche una fonte aramaica sia una fedele registrazione dei detti e delle azioni di un uomo, come Gesù, che non ha ritenuto indispensabile lasciare alcuna fonte scritta. Inoltre è tutto da dimostrare che una fonte scritta sia più attendibile di una fonte orale. Come d'altra parte è tutto da dimostrare che l'interpretazione di un esegeta che non può avvalersi di fonti storiche per dimostrare le proprie tesi, sia meno attendibile di quella di chi invece utilizza fonti ritenute tendenziose, come appunto quelle evangeliche. Da ultimo: dei circa 5700 manoscritti antichi contenenti tutto o in parte il Nuovo Testamento a chi diamo la preferenza visto che neppure due sono esattamente identici tra loro?

8) Criterio della spiegazione necessaria o della spiegazione sufficiente o della plausibilità storica: è un'acquisizione recente, adattata al clima della cosiddetta “Terza ricerca”; è stata formulata da esegeti confessionali o comunque disposti ad accettare elementi mistici nella personalità di Gesù, non riuscendo ad accettare l'idea che da un'analisi linguistica (letteraria o filologica o ermeneutica) non si possa ricavare alcuna certezza storica. È il tentativo di trovare qualcosa di attendibile, cercando di tenere insieme il meglio di tutti i criteri formulati in precedenza. Lo si è fatto inserendo tali criteri in una cornice storica prevalentemente giudaica, ritenuta più prossima alla predicazione di Gesù, la quale comunque doveva contenere elementi di distinguibilità o di peculiarità. Di qui la necessità di avvalersi di studi a 360 gradi riguardanti la Palestina del I secolo a.C. e d.C. Sul criterio di plausibilità storica occorre esaminare il manuale di Gerd Theissen e Annette Merz, Il Gesù storico, ed. Queriniana, Brescia 1999 (ristampato nel 2011). In Italia tale criterio è stato fatto proprio dai coniugi A. Destro e M. Pesce.

*

In questo secondo periodo della Seconda ricerca i contributi esegetici sono stati molto diversificati, per cui è impossibile classificarli entro un medesimo paradigma. Ci vorrebbe un testo a parte solo per analizzare le opere di J. Robinson, Kerygma e Gesù storico (ed. Paideia, Brescia 1977); R. Latourelle, A Gesù attraverso i vangeli: storia ed ermeneutica (ed. Cittadella, Assisi 1978); C. H. Dodd, Il fondatore del cristianesimo (ed. Elledici, Leumann 2007); C. Perrot, Gesù e la storia (ed. Borla, Roma 1981); E. Trocmé, Gesù di Nazaret: visto dai testimoni della sua vita (ed. Paideia, Brescia 1975); F. Lambiasi, L'autenticità storica dei vangeli (ed. EDB, Bologna 1978).

In via del tutto generale si può sostenere che la gran parte dei teologi ha ammesso che la fede non si fonda sulla storia, e tuttavia il “caso Gesù” è incomprensibile senza la fede dei suoi discepoli, i quali avvertivano se stessi in opposizione al giudaismo. Inoltre il regno di Dio doveva essere qualcosa, nella mente del Cristo, non realizzabile nel presente ma soltanto anticipabile con parabole e guarigioni, anche perché tutti i cosiddetti titoli a lui attribuiti, incluso quello di messia21, sono post-pasquali. Egli in sostanza voleva semplicemente dimostrare d'essere superiore a Mosè.

III (la “Storia della redazione”)

Di fronte al rischio che la “Storia delle forme” riducesse i testi a un coacervo di frammenti autonomi, collegabili tra loro solo sul piano filologico e storico-critico, e gli autori biblici a semplici compilatori di testi o tradizioni indipendenti da loro, verso la fine degli anni Cinquanta prende piede la metodologia esegetica chiamata “Storia della redazione” (Redaktionsgeschichte), con cui si tenta di ricostruire il processo e le varie fasi della produzione di un testo. In questo caso si pone l'accento sul lavoro – fonti, intenzioni, metodo e risultato – del redattore che ha dato al testo la sua fisionomia definitiva.

Willi Marxsen, coi suoi testi, tra cui Alle origini della cristologia (ed. Dehoniane, Bologna 1969), insieme a due discepoli di Bultmann, Hans Conzelmann (Teologia del Nuovo Testamento, ed. Paideia, Brescia 1991; Le origini del cristianesimo: i risultati della critica storica, ed. Claudiana, Torino 1976; Guida allo studio del Nuovo Testamento. ed. Marietti, Genova 1996) e Günther Bornkamm (Gesù di Nazareth: i risultati di quaranta anni di ricerche sul Gesù della storia, ed. Claudiana, Torino 1981; Bibbia – Il Nuovo Testamento: introduzione nel quadro della storia del cristianesimo primitivo, ed. Morcelliana, Brescia 1974), sono tra gli esegeti più significativi.

La storia della redazione è complementare alla storia delle forme, poiché parte dallo stesso presupposto teorico: il testo attuale si spiega in funzione del contesto o situazione vitale in cui esso è maturato. Senonché la ricostruzione di questo Sitz im Leben non si limita più alla sola comunità in cui si è formata la tradizione delle forme, ma si estende anche alla comunità destinataria, per la quale il testo ha assunto la forma definitiva, una comunità composta da lettori e redattori.

Bisogna quindi continuare con l'analisi lessicale e stilistico-letteraria, ma al fine di ricostruire lo stile, gli interessi vitali e la prospettiva teologica dei vari autori, editori, redattori e lettori di tutte le comunità afferenti a un determinato testo. Spesso il lavoro redazionale consiste nel fare aggiunte, integrazioni in forma di glossa esplicativa o correttiva di un fatto o di una parola (p.es. si modificano i tempi dei verbi, o la struttura sintattica di una frase, oppure si spiegano dei termini a un'utenza particolare); si mutano certe espressioni ritenute inidonee o teologicamente inaccettabili, oppure si inseriscono citazioni e commenti scritturali, si fanno spostamenti di parole e di frasi; si omette o si riduce il testo utilizzato come fonte: p.es. Matteo e Luca abbreviano particolari di Marco ritenuti superflui, oppure Matteo fa continui accenni al compimento delle Scritture. Vediamo il redattore trasformare le immagini, a seconda che abbia in mente l'ambiente palestinese o quello ellenistico, o usare in maniera simbolica determinate parole, come p.es. mare, monte ecc. L'attività redazionale si inserisce in modo più rilevante nelle introduzioni e conclusioni di un testo; in apertura e alla fine delle sezioni o unità minori, al fine di stabilire la connessione letteraria tra elementi originariamente autonomi, ovvero per offrire indicazioni logistico-geografiche e cronologiche, o per collocarli nel disegno teologico complessivo dello stesso redattore. A volte vengono usati materiali provenienti da fonti ignote, che vanno a dare alle pericopi significati ambigui o inaspettati.

Infine va detto che esiste anche una ricerca di tipo nuovo, fondamentalmente antropologica e sociologica, che inizia dopo la metà degli anni Settanta con Gerd Theissen (p.es. Gesù e il suo movimento: analisi sociologica della comunità cristiana primitiva, ed. Claudiana, Torino 1979, ripubblicata col doppio delle pagine nel 2007, col titolo Gesù e il suo movimento: storia sociale di una rivoluzione di valori). Theissen vede nel Cristo non un politico sovversivo ma soltanto un profeta radicale, che chiede ai suoi discepoli, per poterlo seguire, di rinunciare a casa, famiglia e proprietà. La sua predicazione sarebbe stata itinerante, come poteva esserlo quella dei filosofi cinici, quindi diversa da quella di Paolo, che fondava delle comunità locali.

Tale ricerca trova poi nel libro di Ed P. Sanders, Gesù e il giudaismo (ed. Marietti, Genova 1992, ed. or. 1985) un altro momento forte, per arrivare infine a quella suscitata dal “Jesus Seminar”, fondato nel 1985 da Robert W. Funk e da John D. Crossan, con la collaborazione dell'Istituto nordamericano Westar, in Oregon. I suoi primi risultati sono stati pubblicati nel 1993, ma gli incontri sono periodici.

Crossan tende a privilegiare, rispetto ai fatti dei vangeli canonici, i detti di un Gesù gnostico-sapienziale, riportati in quel vangelo di Tommaso che forse è lo scritto più importante rinvenuto nel fondo di Nag Hammadi. È inoltre convinto che il vangelo di Pietro sia la fonte dei racconti canonici nella Passione; e che in Mc 10,32-46a vi sia una traccia fondamentale del vangelo segreto di Marco. Condivide la tesi di J. S. Kloppenborg (The Formation of Q, Philadelphia, A&C Black, 1987), secondo cui la fonte Q può essere suddivisa in tre sottoinsiemi: sapienziale, apocalittico e introduttivo. Di lui si possono ricordare Il Gesù storico. La vita di un contadino ebreo mediterraneo (1991); e Gesù, una biografia rivoluzionaria (ed. Ponte alle Grazie, Firenze 1994). Non ancora tradotto è The Cross That Spoke: The Origins of the Passion Narrative (Harper & Row, 1988).

Simile a Crossan è Helmut Koester (discepolo di Bultmann), Ancient Christian Gospels: Their History and Development (London-Philadelphia, Bloomsbury T&T Clark, 1990). Anche i suoi due volumi di Introduzione al Nuovo Testamento meriterebbero d'essere tradotti, poiché sono divenuti un classico degli studi biblici.

A dir il vero il primo ad aver introdotto l'esigenza di integrare gli studi sul cristianesimo primitivo con la sociologia, in particolare con la metodologia weberiana relativa alle scienze sociali, è stato Ernst Troeltsch (1865-1923), coi suoi due libri: Il significato della storicità di Gesù per la fede (1911) e La dottrina sociale della Chiesa e dei gruppi cristiani (1912, ed. La Nuova Italia, Firenze 1941). Tuttavia, siccome questa metodologia fu applicata anche in campo marxista, con finalità ovviamente più radicali della sociologia borghese (come p.es. risulta dall'opera del 1908 di K. Kautsky, L'origine del cristianesimo, ed. Samonà e Savelli, Roma 1970), la suddetta esigenza verrà davvero messa in atto dall'esegesi confessionale soltanto quando emergerà la cosiddetta “Terza ricerca”. Lo stesso Bultmann e tutta la tradizione critica della “storia delle forme” non riuscirono mai a valorizzare adeguatamente le istanze della sociologia borghese, in quanto la racchiusero entro i limiti ristretti dell'approccio linguistico-filologico.

IV (la “Storia della tradizione”)

Un piccolo riferimento bisogna farlo alla cosiddetta “Storia della tradizione” (Überlieferungsgeschichte) o “Scuola della storia della tradizione” (Traditionshistorische Schule), quasi del tutto sconosciuta in Italia.

Col termine “scuola” si deve intendere prevalentemente quella scandinava, che assume una posizione critica nei confronti della teoria delle fonti, preferendo valorizzare il ruolo dell'evoluzione della tradizione orale rispetto al testo scritto. Il che la porta a dare molta importanza alle parabole e alle dispute evangeliche, nonché a considerare attendibili, sul piano storico, anche testi scritti molto tempo dopo gli avvenimenti, proprio perché in essi possono essere confluite delle tradizioni orali.

Nell'ambito degli studi neotestamentari vanno ricordati Harald Riesenfeld (The Gospel Tradition and Its Beginnings, 1961) e Birger Gerhardsson (Memory and Manuscript: Oral Tradition and Written Transmission in Rabbinic Judaism and Early Christianity, 1961).

V (l'esperienza del “Jesus Seminar”)

Si legga quanto dice Wikipedia su questo evento periodico chiamato “Jesus Seminar” (www.wikiwand.com/it/Jesus_Seminar). Si tratta in sostanza della traduzione, riadattata, della versione inglese che appare qui www.wikiwand.com/en/Jesus_Seminar. Il nostro commento, subito dopo, riguarda solo questa sintetica introduzione generale. Il resto richiederebbe ben ampia trattazione, che esula da questo articolo.

La ricostruzione del Gesù storico fatta dal “Jesus Seminar”, che vede impegnati un gruppo di 150-200 studiosi, provenienti da varie parti del mondo, lo presenta come un saggio ebreo-ellenistico itinerante che non morì in remissione dei peccati né risorse dai morti, ma predicò un “vangelo sociale” per parabole e aforismi. Da iconoclasta, Gesù ruppe con i dogmi teologici consolidati e con le convenzioni sociali della società giudaica sia attraverso i suoi insegnamenti che attraverso le sue azioni, spesso rovesciando il senso comune e confondendo le attese dei suoi ascoltatori: predicò un “regno dei Cieli”, affermando che fosse già venuto ma non fosse stato visto; raffigurò Dio come un Padre amoroso; fraternizzò con i perdenti della società, criticando i ricchi e i potenti.

Si noti che subito dopo la dicitura “saggio ebreo-ellenistico itinerante” appare, nella versione inglese, l'espressione “faith-healer”, che si potrebbe tradurre come “guaritore di fede”, se in italiano avesse un senso (forse per questo è stata omessa). In realtà essa vuol dire che quando Gesù guariva, lo faceva in nome di Dio o per suscitare una fede in Dio, oppure pretendendo la fede in Dio per concedere la guarigione fisica. Incredibile che studiosi quotati credano ancora oggi a una cosa del genere. Tra gli esegeti laici è da tempo assodato che Gesù non fece alcuna guarigione che non fosse alla portata dell'uomo; se ne fece qualcuna che apparentemente sembrava straordinaria, la causa che l'aveva determinata era indubbiamente di origine psicosomatica, per cui non vi era nulla di irreversibile, e comunque la cura non aveva alcunché di mistico: mai in nessuna guarigione Gesù invoca l'assistenza divina.

Nella versione in inglese si precisa comunque ch'egli “did not perform nature miracles”. Cioè “guarigioni miracolose” (compiute in nome di Dio) sì, “miracoli sovrannaturali” no. Per quale motivo uno che guarisce un lebbroso con un dito non possa placare una tempesta sul lago, resta un mistero. Quando c'è “Dio” di mezzo, c'è forse qualcosa di impossibile? Che tipo di Gesù amano rappresentarsi questi esegeti (prevalentemente nordamericani)? Forse un devoto religioso dai poteri limitati, almeno finché Dio non gli concede una grazia particolare?

Ma vediamo l'espressione “saggio ebreo-ellenistico itinerante”. Gesù sarebbe stato soltanto un “saggio” o un “sapiente” che predicava un “vangelo sociale” (in inglese però l'espressione è più calzante: a gospel of liberation from injustice) per parabole e aforismi, per di più in forma “itinerante”, cioè senza preoccuparsi di costruire un movimento di seguaci. Davvero Gesù è stato questo? E un soggetto del genere (un teologo dal comportamento filosofico) avrebbe fatto così tanta paura alle autorità religiose da indurle a consegnarlo ai peggiori nemici della Palestina? E i Romani gli avrebbero affibbiato una condanna capitale tipica degli schiavi rivoltosi? E poi che c'entra “ebreo-ellenistico”? Gesù voleva una liberazione nazionale della Palestina dal giogo romano e dai collaborazionisti ebrei: non si era posto come compito la divulgazione della cultura ellenistica. Questo, semmai, lo fece Paolo.

L'espressione “non morì in remissione dei peccati”, che traduce l'espressione “nor die as a substitute for sinners”, indica che Gesù non morì per riconciliare l'umanità col Creatore, il quale Creatore – stando alla predicazione paolina –, sin dai tempi del peccato originale s'era terribilmente offeso e aveva abbandonato l'uomo a se stesso. Sembra, questa, una tesi di tipo laico, confermata dal fatto che Gesù “was a mortal man born of two human parents” (strano che questa frase non sia stata tradotta in italiano), e che non risorse dai morti.

Fermiamoci su tale mancata “resurrezione”. Questi esegeti da un lato fan bene a escludere che la tomba vuota andasse interpretata come “resurrezione”, e ancor meglio han fatto a considerare del tutto inventati i racconti di riapparizione del Cristo, ma, dall'altro lato, perché negare l'evento della “tomba vuota”? Perché non accettarla come un fatto non spiegabile razionalmente? Perché non considerare la Sindone come un reperto autentico, ancorché non in grado di dimostrare alcunché? Che senso ha fare i laicisti e poi affermare che Gesù “raffigurava Dio come un Padre amoroso” e che predicava un “regno di Dio” o “dei cieli” (un regno peraltro per lui già presente ma invisibile)? Non si rischia di dare di Gesù una rappresentazione del tutto fantastica? Non era meglio sostenere che non esiste alcun Dio che non sia umano? E che non era certamente parlando di Dio che Gesù avrebbe potuto convincere gli ebrei a liberarsi della casta sacerdotale e dei Romani?

Ci piace qui concludere con questa nota di colore. Gli studiosi del “Jesus Seminar” votavano sui singoli detti o fatti riportati nei vangeli canonici, gettando una pallina di diverso colore per qualificare fatti e parole (sicuro – probabile – improbabile – impossibile). Ebbene, per loro l'82% dei detti attribuiti a Gesù non sarebbe autentico! Della preghiera del “Padre nostro”, p.es., hanno considerato autentiche soltanto le due parole “Padre nostro”, quando anche queste, in realtà, andrebbero ritenute post-pasquali! La cosa assurda è che sono convinti che il Vangelo (gnostico) di Tommaso contenga gli insegnamenti più autentici di Gesù!

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4.4) La Terza ricerca (1985-oggi), detta “giudaica post-moderna”.

I

Vi sono stati vari esegeti che, in maniera autonoma, hanno dato il via alla Terza ricerca su Gesù nell'ultimo ventennio del Novecento. John P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico (quattro volumi tradotti dalla Queriniana a partire dal 2001).22 Un altro libro molto importante, più volte ristampato, è quello di G. Theissen - A. Merz, Il Gesù storico (ed. Queriniana, Brescia 1999).

Tuttavia è con Ed P. Sanders che si fa iniziare convenzionalmente la Third quest. I suoi due libri fondamentali sono quello citato sopra (Gesù e il giudaismo, del 1985, tradotto dall'editore Marietti di Genova nel 1992) e quello, più semplificato anche se contiene nuovi argomenti, Gesù: la verità storica (A. Mondadori, Milano 1995). Ma di lui bisognerebbe leggere anche Paolo e il giudaismo palestinese (ed. Paideia, Brescia 1986), dove le lettere paoline vengono considerate come facenti parte della “letteratura giudaica” del I sec.

Sanders è tra i massimi esperti di giudaismo al mondo e ha avuto modo, come tanti altri esegeti contemporanei, di avvalersi della scoperta della biblioteca gnostica di Nag Hammadi (1945) e dei rotoli essenici delle grotte di Qûmran (1947), che hanno consentito una conoscenza molto più precisa del giudaismo del I sec., smontando l'idea che fosse qualcosa di monolitico o monocromatico. Fino a qualche tempo fa (anche sotto l'influenza dell'opposizione luterana tra legge e grazia) lo si confondeva col rabbinismo di matrice farisaica successivo alla distruzione del Tempio nel 70 d.C.; ora invece si è individuata la presenza di un significativo carattere pluralistico del giudaismo, tanto che non è più possibile retroproiettare acriticamente il rabbinismo al tempo di Gesù. Naturalmente vengono studiati parecchio anche i testi di Giuseppe Flavio e i vangeli apocrifi (complessivamente esistono più di 15 mila manoscritti inerenti al Nuovo Testamento, oltre a 20 mila citazioni dei Padri della Chiesa).23

Sanders sostiene la tesi secondo cui Gesù era molto più ebreo di quel che non si pensi, al punto che va considerato immaginario un significativo conflitto coi farisei (che non possono essere considerati come dei fanatici integralisti) o una tensione polemica nei confronti della legge mosaica (quest'ultima viene “completata” non “abrogata”). A suo parere non è affatto vero che il giudaismo abbia avuto solo la funzione di spianare la strada al cristianesimo.

Diciamo che Sanders, come altri studiosi ebrei (p. es. Martin Buber) o “laici” (tra i quali, nella prima metà del XX sec., gli italiani Omodeo, Salvatorelli, Martinetti e Parente), ritiene storica la predicazione escatologica e la rivendicazione messianica di Gesù. Ciò d'altra parte era facilmente prevedibile: se sul piano esegetico si pone l'accento sull'ebraicità o giudaicità del Cristo, è giocoforza veder aumentata la sua politicità, quanto meno quella contro l'establishment della casta sacerdotale. Non a caso Sanders parla di “escatologia della restaurazione d'Israele”.24

Quindi, piuttosto che analizzare le singole pericopi per approdare a una ricostruzione storica dell'evento Gesù, secondo lui è meglio collocare subito quest'ultimo nel contesto giudaico del suo tempo, e da lì reinterpretare le pericopi. Ecco perché viene criticata la “storia delle forme letterarie” e vengono dati per scontati alcuni eventi ritenuti incontrovertibili, quando in realtà, per tanti esegeti, non lo sono affatto: p.es. che Gesù sia stata battezzato da Giovanni, che abbia predicato l'avvento imminente del regno di Dio, di cui si sentiva l'ultimo inviato (una specie di “viceré”), e che abbia compiuto l'epurazione del Tempio alla fine della sua missione, quella per cui fu condannato a morte.

II

La fase attuale della ricerca su Gesù è comunque piuttosto complessa, in quanto si stanno seguendo almeno tre filoni diversi, in ognuno dei quali Gesù viene rappresentato in maniere differenti: profeta apocalittico (Ben F. Meyer, Realismo critico e Nuovo Testamento, Istituto superiore di scienze religiose San Lorenzo Giustiniani, Venezia 2009; E. P. Sanders e James H. Charlesworth), predicatore morale e sapiente o pacifico apolide itinerante o filosofo cinico (F. Gerald Downing, J. D. Crossan e Burton L. Mack), rabbi giudeo pio e osservante (David Flusser, Jesus, Morcelliana, Brescia 1997; e Bruce D. Chilton), fariseo illuminato (Harvey Falk), mago guaritore (Morton Smith, Gesù mago, ed. Gremese, Roma 1990), taumaturgo esorcista e rabbi carismatico (Geza Vermes, La religione di Gesù l'ebreo, ed. Cittadella, Assisi 2002; Gesù l'ebreo, ed. Borla, Milano 1983; I volti di Gesù, ed. Bompiani, Milano 2000), politico sovversivo (Martin Hengel, Gli zeloti. Ricerche sul movimento di liberazione giudaico dai tempi di Erode I al 70 d. C., ed. Paideia, Brescia 1996; Horsley Richard A. - Hanson John S., Banditi, profeti e messia. Movimenti popolari al tempo di Gesù, ed. Paideia, Brescia 1995; Marcus J. Borg, Quale Gesù?: due letture, ed. Claudiana, Torino 2007, Douglas E. Oakman, Il denaro nell'universo etico del Nuovo Testamento, ed. Paideia, Brescia 2006 e con K. C. Hanson, La Palestina ai tempi di Gesù: la società, le sue istituzioni, i suoi conflitti, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2003; Richard A. Horsley, Gesù e l'impero: il regno di Dio e il nuovo disordine mondiale, ed. EMI, Bologna 2008). La corrente del Cristo politicizzato riprende la tesi di Reimarus, ed è in qualche modo imparentata con la teologia della liberazione.25

Le tre principali correnti sono sostanzialmente le seguenti: 1) riscoperta dell'ebraicità di Gesù e continuità con l'ambiente giudaico, con una certa accentuazione della prospettiva storica su quella teologica e con la collaborazione di diverse discipline ausiliarie, antroposociologiche in primis (in Italia i principali esponenti di questa corrente sono i coniugi Mauro Pesce e Adriana Destro); 2) critica antidogmatica come proseguimento della Prima ricerca, con gusto dissacratorio, provocatore e talora sensazionalistico (in Italia ha fatto molto scalpore l'opera di Luigi Cascioli); 3) riscoperta delle tradizioni orali e della “memoria culturale” in parallelo alla teoria delle fonti: il Gesù ricordato e testimoniato. Su quest'ultimo aspetto occorre esaminare i tre volumi di James Dunn, Gli albori del cristianesimo (ed. Paideia, Brescia 2006-2007, ed. or. Jesus remembered, 2003), ove si spiega che le contraddizioni interne ai vangeli vanno intese come prova della presenza di una trasmissione orale, diversificata a seconda degli ambienti, e non tanto come indizio di una manipolazione redazionale. Col che egli riprende le tesi della Scuola scandinava citata sopra e si distacca dal presupposto della sola Scriptura luterana, che ha notevolmente inciso sui presupposti ermeneutici della Seconda ricerca.

Riguardo alla “memoria culturale” della comunità cristiana bisogna invece fare riferimento a Richard Bauckham, Gesù e i testimoni oculari (ed. GBU, Chieti-Roma 2010). Egli passa dalla storia orale ai vangeli attraverso la tradizione collettiva, che per lui vuol dire psicologia cognitiva della memoria, fenomenologia della memoria-testimonianza su Gesù. Il Gesù storico è un “Gesù testimoniato” nella sua unicità o straordinarietà, che come tale veniva avvertita dai discepoli.

In via del tutto generale si può sostenere che la Terza ricerca tende ad abbandonare il principio razionalistico che ha dominato le precedenti Ricerche. Questo perché si ritiene che l'esegeta non debba lasciarsi influenzare dal laicismo dominante (che ormai lo condiziona come una inevitabile pre-comprensione) e che debba distinguere il Gesù storico dal Gesù degli storici, anche perché la storia del passato non coincide con la conoscenza che di quella storia noi abbiamo.

Il Nazareno quindi viene fatto passare per una sorta di “provocatore escatologico marginale”, in quanto non integrato nel sistema (non si dichiarò mai “messia politico”, proprio perché avrebbe dovuto essere il popolo o la casta sacerdotale a farlo). Il criterio per interpretarlo diventa quello della “plausibilità storica” rispetto al quadro del giudaismo palestinese del suo tempo.

Di questa Terza ricerca resta comunque interessante il superamento di quei pregiudizi verso l'origine ebraica di Gesù che avevano i teologi liberali (soprattutto tedeschi), i quali, condizionati da una certa cultura antisemitica, vedevano in lui una figura religiosa unica, nettamente antitetica al giudaismo del secondo Tempio, ch'essi definivano, con una certa supponenza, “tardo giudaismo”, come se dopo non vi fosse più stato nulla di significativo. In ciò si facevano forti anche del fatto che la riscoperta dell'anteriorità del vangelo marciano aveva scalzato il primato del vangelo “giudaico” di Matteo. Sembra essere superata definitivamente la netta distinzione bultmanniana tra giudaismo ed ellenismo, su cui già M. Hengel, peraltro, nutriva parecchi dubbi (cfr Giudaismo ed ellenismo, ed. Paideia, Brescia 2001).

III

L'ultima corrente, apparsa alla fine degli anni Ottanta, che si va facendo strada è quella ermeneutica della critica narratologica, ostile al metodo storico-critico. Metodologicamente si rifà a Hans-Georg Gadamer e fa leva sul fatto che gli studi sul Gesù storico non sono riusciti a produrre dei risultati su cui vi sia accordo, per cui essa tende a preferire un approccio di libera interpretazione letteraria.

Tale corrente quindi non è interessata alle questioni storiche e neanche a quelle strettamente filologiche, ma solo al testo come strumento narrativo, in cui il lettore, in un certo senso, crea l'autore, poiché va lasciato libero di trovare nel testo un proprio significato, che non necessariamente coincide con quello voluto dall'autore stesso.

In pratica sono i lettori, come esperienza collettiva, che danno significato ai testi, i quali, di per sé, non possono avere un senso univoco, per cui tutte le interpretazioni sono lecite. Si tratta soltanto di metterle a confronto tra loro, dopodiché un lettore sceglie quella più vicina alla propria sensibilità, ai propri interessi. Questa è un'esegesi basata sul pluralismo e che, nei confronti della verità storica, si pone in maniera molto relativistica.

I testi di riferimento sono quelli di S. D. Moore, Literary Criticism and the Gospels: The Theoretical Challenge (Yale University Press, 1989); R. A. Culpepper, Anatomy of the Fourth Gospel: A Study in Literary Design (Philadelphia 1983); AA. VV., The Postmodern Bible: The Bible and Culture Collective (Yale University Press 1997).

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5) Considerazioni critiche

A

Ora, cerchiamo di partire da una frase che potrebbe valere come presupposto ermeneutico per interpretare la cosiddetta “Terza ricerca” sui vangeli: Se si sottolinea troppo l'ebraicità del Cristo, si finisce col non comprendere il motivo per cui l'hanno condannato a morte.

Gesù era un ebreo al 100 per cento? Sì, ma in che senso? Di sicuro non lo era come gli esseni, poiché non si accontentò della pratica battesimale del Battista, e ancor meno scelse un luogo semidesertico ove predicare (in quei luoghi remoti lo vediamo rifugiarsi solo per evitare linciaggi e mandati di cattura). Non era ebreo neppure come i sadducei, poiché non sopportava la loro gestione corrotta del Tempio e il loro collaborazionismo con l'occupante romano. Non lo era neppure come gli zeloti, poiché non accettava i metodi terroristici, le concezioni integralistiche della fede, il gretto nazionalismo e l'avventurismo politico-conflittuale (rifiutò l'invito dei cinquemila Galilei che volevano farlo entrare con la forza di un sovrano assoluto a Gerusalemme e, per di più, senza il consenso dei Giudei). Non lo era neppure come i farisei, dei quali non condivideva il rispetto maniacale delle regole di purità legale e l'idolatria del sabato, e tanto meno la convinzione di potersi opporre efficacemente al dominio romano limitandosi a restare tenacemente attaccati alle tradizioni del passato. Cercò a più riprese alleanze con loro per scardinare il potere dei sadducei e cacciare i Romani dalla Palestina, ma siccome i farisei anteponevano l'ideologia alla politica, non riuscì mai a trovarle.

Dunque, in che senso Gesù può essere considerato un ebreo? Bastava forse essere circoncisi per dimostrare d'essere ebrei? Bastava forse parlare bene l'aramaico, senza avere la pronuncia rozza dei Galilei? Non è forse vero che dalle sinagoghe veniva regolarmente espulso, tanto che, ad un certo punto, non vi poté più entrare? Non lo si vede mai pregare (le sue preghiere sono tutte post-pasquali) né compiere sacrifici al Tempio, dove al massimo si recava per predicare temi eversivi alle folle. Quando partecipava alle feste di precetto, lo faceva per discutere di politica, non per amministrare un determinato culto o una funzione religiosa. Neppure lo si vede interessato a svolgere un mestiere cattedratico come quello degli scribi o dei rabbini, tant'è che non fa nulla per ottenere un seggio al Sinedrio, pur avendone i titoli (per Matteo e Luca è figlio di Davide) e le competenze (parlava come una persona autorevole, dice Mc 1,27).

Noi siamo anche disposti a considerarlo più giudeo che galileo, quindi ancora più “ortodosso” degli ebrei non giudaici o della diaspora. Ma tutto ciò significa soltanto una cosa, che dobbiamo limitarci a considerarlo ebreo più sul piano formale che sostanziale. Diciamo che era un ebreo che voleva la liberazione di tutta la Palestina (e non solo della Giudea) dai Romani e dalla casta sacerdotale corrotta. Anche gli esseni e gli zeloti volevano la stessa cosa e combattevano per averla; anche i farisei, in teoria, l'avrebbero voluta. Qual era dunque la differenza tra il suo ebraismo e quello degli altri ebrei che politicamente volevano le sue stesse cose?26

La differenza stava unicamente nel modo di essere ebreo per realizzare l'obiettivo dell'insurrezione nazionale. Era, quello, un obiettivo di grande portata, per il quale sarebbe stata necessaria l'alleanza del maggior numero di partiti, correnti, associazioni, movimenti, comunità di vario tipo. Per realizzare un obiettivo del genere non era possibile soffermarsi troppo sulle differenze che opponevano i vari gruppi sociali, culturali e politici. Non aveva alcun senso anteporre all'obiettivo politico-nazionale, di natura generale, le questioni particolari di carattere ideologico (p.es. quelle relative agli alimenti da mangiare, alle abluzioni da rispettare e così via). Gesù cercò di ridurle al minimo, di non farle pesare sulla sua strategia rivoluzionaria, ovvero di demandarne l'affronto a liberazione compiuta.

Nella sua attività politica sono sufficientemente chiare due modalità con cui egli si approccia ai vari gruppi politico-religiosi della Palestina: la democraticità nella gestione della strategia rivoluzionaria, e l'umanizzazione nell'affronto dei bisogni comuni. Democraticità vuol dire non imporre con la forza un proprio progetto politico, ma cercare di farlo condividere ad ampie masse popolari; umanizzazione vuol dire molte cose: anzitutto non compiere discriminazioni di alcun tipo (p.es. tra gli apostoli vi erano soggetti provenienti da vari gruppi politici, vi erano anche pubblicani e peccatori pentiti, vi erano uomini e donne, Giudei e Galilei, ecc.); valorizzare, degli oppressi, le istanze di emancipazione dal peso di tradizioni soffocanti, le esigenze di giustizia e di riscatto sociale, di liberazione nazionale dai nemici interni ed esterni; non anteporre mai le idee ai fatti, e quindi cercare sempre di avere un senso realistico delle cose, mirando a vincere i pregiudizi, le illusioni, le false rappresentazioni della realtà. In una parola: voleva fare della libertà di coscienza, della condivisione dei bisogni, del rispetto dei valori umani fondamentali i criteri elementari del vivere civile.

Gesù, in tal senso, era un vero ebreo? Sì, lo era, ma, alla luce di quanto detto, quanti ebrei, politicamente o socialmente o culturalmente più importanti di lui, non lo erano? Sottolineare troppo l'ebraicità di Gesù non aiuta a comprendere le grandi differenze che opponevano lui a molti altri ebrei nel vivere la sostanza dell'ebraismo. Se era così tanto ebreo, perché nei vangeli le autorità religiose gli sono irriducibilmente nemiche, salvo eccezioni? Perché i farisei, quando lo contattano, lo fanno sempre con molta circospezione? Perché i rabbini lo giudicano subito come un eretico? Perché molti intellettuali giudei arrivano più volte sul punto di linciarlo mentre sta parlando? E soprattutto perché lo consegnano ai Romani, il peggior nemico d'Israele? E che bisogno avevano i Romani, se egli fosse stato un semplice ebreo ortodosso, ancorché “non allineato”, di punirlo con la peggiore sentenza di morte? Non potevano considerarlo un loro alleato? Il cristianesimo primitivo, a partire dalla predicazione di Pietro e Paolo, ha mai cercato con l'impero romano uno scontro politico diretto?

Insomma molti esegeti della cosiddetta “Terza ricerca” rischiano di apparire ideologici non meno di quelli che negavano al Cristo un'esistenza storica o non meno di quelli che, condizionati da un'appartenenza ecclesiastica, non vedono alcuna differenza tra il Gesù storico e il Cristo teologico.

B

Peraltro, accentuando il tema dell'ebraicità di Gesù si finisce col porre in risalto una sua inesistente religiosità. Tutte le odierne chiese cristiane non possono che essere soddisfatte di questa tendenza clericale presente nella “Terza ricerca”, la quale, anche se nega gli aspetti più mistici dei racconti evangelici (dimostrando, in ciò, d'essere più vicina alle tradizioni ermeneutiche di matrice protestantica), non è certamente paragonabile all'anticlericalismo della “Prima ricerca” o al distaccato intellettualismo della “Seconda”, che esaminava il caso-Gesù senza nessuna particolare empatia.

Noi, personalmente, ci sentiamo lontani da tutte e tre le Ricerche, o meglio vorremmo cercare di radicalizzare la Prima, perché, così com'è, pecca di antistoricismo. Vorremmo farlo sulla base di presupposti che consideriamo irrinunciabili: 1) Gesù Cristo era ateo, cioè credeva che l'unico dio presente nell'universo fosse l'uomo; 2) se di questo uomo lui si considerava il “prototipo”, ciò non poteva comunicarlo ai suoi discepoli; 3) qualunque cosa egli potesse compiere oltre le capacità degli uomini del suo tempo, avrebbe violato la loro libertà di coscienza, per cui va escluso qualunque suo intervento prodigioso o miracoloso; 4) se si vuole accettare l'idea che sia nato in una maniera non esattamente naturale, nessuno può saperne la modalità, neppure sua madre, per cui non è un argomento che possa interessare l'esegesi laica; 5) si può anche dare per scontato l'evento della tomba vuota, ma non lo si può interpretare con la categoria della “resurrezione”, poiché questa implica, di necessità, che il corpo scomparso venga rivisto vivo, il che non poteva accadere senza violare – di nuovo – la libertà di coscienza; 6) si può anche dare per acquisito che l'immagine impressa nella Sindone sia quella di Gesù Cristo, ma essa non è in grado di “dimostrare” alcuna “resurrezione”, semmai “mostra” che qualcosa di strano è avvenuto in quel sepolcro, su cui però gli esegeti non possono dire nulla; 7) l'immagine presente nella Sindone indica l'esecuzione capitale di un uomo che venne ritenuto un pericoloso sovversivo da parte del potere romano, quindi si può dare per scontato che Gesù volesse compiere una insurrezione nazionale; 8) poiché, secondo i vangeli, è stato tradito da un proprio discepolo e consegnato ai Romani dalle autorità giudaiche, si deve dare per scontato ch'egli si ponesse anche contro la casta sacerdotale che gestiva il Tempio. Ciò vuol dire che di tentativi insurrezionali egli ne fece due: il primo, contro il Tempio, all'inizio della sua carriera politica, come risulta nel quarto vangelo; il secondo, contro la Fortezza Antonia, ove era acquartierata la coorte romana, nell'ultimo ingresso trionfale a Gerusalemme; 9) tutti gli argomenti etici, sociali, culturali, religiosi o politici, affrontati dal Cristo nel corso della sua vita, vennero svolti avendo come obiettivo finale la liberazione della Palestina dagli occupanti Romani e dai collaborazionisti ebrei; 10) i contenuti delle argomentazioni sostenute dal Cristo riguardavano i valori umani fondamentali, la democrazia politica, la necessità di recuperare i princìpi del comunismo primitivo, il rispetto della libertà di coscienza, il rispetto della differenza di genere, l'uguaglianza sociale, la testimonianza della verità... In nessun caso tali contenuti dovevano portare l'interlocutore a credere in qualcosa di sovrannaturale o di mistico-teologico.

Quindi, parafrasando un'espressione di Wittgenstein, si potrebbe concludere dicendo: Di ciò di cui non si può parlare, in quanto va oltre una semplice umana comprensione, è meglio tacere; ma di ciò di cui si può parlare, è bene farlo con chi è disposto ad ascoltare, cioè con chi non ha motivazioni oggettive che glielo impediscano, come in genere hanno coloro che appartengono alla categoria del “clero”.

C

Nell'esegesi laica dei vangeli si può dedurre da una determinata questione affrontata con gli strumenti della linguistica (filologia, glottologia, semantica, psicosociolinguistica, ecc.) il significato della realtà storica correlata o sottesa a quella questione? Si può trovare in tale realtà, partendo dalla linguistica, un'adeguata giustificazione o motivazione del problema ermeneutico affrontato? È legittimo credere che, partendo da un'analisi strettamente linguistico-letteraria dei testi evangelici, si possa arrivare a una plausibile verità storica? Queste sono domande che un qualunque esegeta deve porsi, ma a maggior ragione uno di cultura laica, poiché, nel caso in oggetto, egli ha a che fare con dei testi che sono all'opposto della sua cultura.

Noi pensiamo che un semplice affronto linguistico dei vangeli non sia sufficiente per capire tutte le mistificazioni e falsificazioni che li hanno originati. È vero che sul piano storico nessuna verità è sicura in maniera incontrovertibile e che dobbiamo accontentarci di verità relativamente attendibili, a meno che non si abbia a che fare con verità elementari, la cui banalità però non aiuta a far progredire l'autoconsapevolezza dell'umanità. Ma è anche vero che qualunque impostazione “religiosa” del caso-Gesù implica, già di per sé, un travisamento doloso del suo messaggio. Il che ci porta a dire che un qualunque affronto “confessionale” o anche solo vagamente “mistico” del suo messaggio, per quanto scientifico e documentato si presenti, resta sempre inadeguato.

D

Per interpretare i vangeli gli esegeti contemporanei vanno a elemosinare i criteri ermeneutici dalle scienze antropologiche e psico-sociali o sociologiche (e persino numismatiche). Basta leggersi Il nuovo Gesù storico, curato da W. Stegemann, B. J. Malina e G. Theissen (ed. Paideia, Brescia 2006).

Si sono così laicizzati che non fanno più alcun riferimento alle interpretazioni confessionali della Patristica, della Scolastica, della Riforma e della Controriforma. Fino a qualche tempo fa privilegiavano gli aspetti linguistici, per cui studiavano come forsennati il greco classico, l'aramaico, l'ebraico, il copto, il siriaco e tutto quanto poteva servire per mettere a confronto i papiri e le pergamene originali dei testi canonici ed apocrifi, dell'Antico e del Nuovo Testamento. Esultarono come bambini di fronte al ritrovamento del tesoro letterario di Qûmran e di Nag Hammadi.27

Oggi invece, pur di dire qualcosa di originale, si vanno a studiare M. Weber, S. Freud, M. Mauss, J. Habermas, E. J. Hobsbawn, M. I. Finley e tanti altri studiosi che non sanno nulla di esegesi biblica, essendo stati impegnati in discipline completamente diverse. E inevitabilmente gli esegeti son costretti a premettere ai loro saggi ampi riassunti delle particolari metodologie scientifiche che hanno incontrato e che hanno cercato di applicare, con fatica ma con molto entusiasmo, al Nuovo Testamento, scusandosi, a più riprese, se le loro ricerche hanno conseguito risultati ancora molto parziali, ovvero se le loro analisi – a causa del carattere inedito di queste ricerche – sono purtroppo molto provvisorie.

Sembra che abbiano scoperto un nuovo mondo: dopo tanta teologia hanno finalmente capito – come Blaise Pascal – che esistono molte altre scienze non meno interessanti. E tuttavia, poiché comunque è la teologia che devono insegnare dalle loro cattedre universitarie, presso Istituti e Facoltà sulla cui “laicità” è lecito nutrire qualche dubbio, non arrivano mai ad apprezzare ciò che potrebbe risultare fastidioso o imbarazzante alle orecchie di chi ha concesso loro di vincere un concorso o di ottenere un incarico, e cioè il lato umanistico, non religioso, e politicamente eversivo del Cristo, quello che metterebbe in discussione il valore in sé di un qualunque Istituto teologico o di una qualunque fede o esperienza religiosa.

Questi esegeti rappresentano la quintessenza della teologia protestantica, che da sempre – in virtù del principio del “libero esame” – si sente meno vincolata rispetto alla teologia cattolica, che è impossibilitata a sottrarsi all'imprimatur delle gerarchie. In un certo senso gli esegeti protestanti del mondo linguistico anglo-sassone suscitano non poche invidie da parte dei loro colleghi cattolici, per cui quest'ultimi fanno di tutto per tradurre i loro testi, dimostrando così alle autorità ecclesiastiche che il meglio di sé la teologia non lo sta dando nella patria che ospita lo Stato del Vaticano ma in tutt'altri Paesi.

In un certo senso i teologi cattolici si meritano questa netta subordinazione ai risultati delle ricerche dei loro colleghi protestanti, poiché non hanno mai fatto nulla per difendere, negli anni passati, le posizioni dei cattolici modernisti, dei catto-comunisti, dei cristiani per il socialismo e dei teologi della liberazione, preferendo non contestare i decreti di condanna o di scomunica da parte dei pontefici o del Sant'Uffizio.

In ogni caso, sia che i teologi siano imbavagliati, sia che possano parlare più liberamente, non si esce dall'ambito della teologia, e anche quando ci si sforza di ribadire che il Gesù storico non può coincidere col Cristo della fede, così smaccatamente rappresentato dai vangeli, non si trova mai il coraggio di dire che il Gesù storico non aveva nulla a che fare con la religione e che sostanzialmente era un ateo.

E

Non si può confondere – come fa Bruce J. Malina nel testo già citato sul Nuovo Gesù storico28 – l'obiettivo politico del movimento nazareno (o gesuano) con quello teologico-politico degli zeloti o degli esseni o dei farisei. Tale svista la si ritrova nella gran parte degli esegeti della cosiddetta “Terza Ricerca”, sempre molto interessati a mostrare l'ebraicità del Cristo.

Gesù voleva semplicemente liberare la Palestina dai Romani e dalla casta sacerdotale corrotta e collusa con loro, e voleva farlo in maniera democratica, cioè non aveva alcuna intenzione di creare un “regno di Dio (o dei cieli)”. Un “regno” è sempre qualcosa di monarchico e una qualificazione teologica è sempre una discriminazione tra un atteggiamento di fede e un altro. Nell'ambito del movimento nazareno la parola “democrazia” non voleva soltanto dire “uguaglianza sociale”, ma anche “libertà di coscienza”, soprattutto in materia di religione, come risulta dalla pericope giovannea dedicata ai Samaritani.

In altre parole è da escludere che Gesù volesse realizzare una teologia politica, ma non perché – come vogliono i vangeli – egli voleva porsi soltanto come Cristo teologico, quanto perché voleva porsi soltanto come Cristo politico. Se si accetta l'idea evangelica che il Cristo fosse solo un soggetto teologico, è difficile sostenere ch'egli abbia davvero potuto fare un passo avanti, rispetto alla teologia-politica del giudaismo: porre le basi per una trasformazione dell'idea ebraica di nazionalismo politico nell'idea cristiana di universalismo religioso non può essere considerato un gran progresso. I vangeli non hanno dubbi nel sostenere che l'universalismo religioso del cristianesimo fu una conseguenza della loro rappresentazione del Cristo teologico. E questa tesi non può certo essere smontata da quegli esegeti che invece sostengono che Gesù era un ebreo purosangue e che la sua intenzione originaria, di tipo teologico-politico, era quella di realizzare il “regno di Dio” in Israele. Sia in un caso che nell'altro non si esce dall'ambito della religione.

Indubbiamente il cristianesimo poteva più facilmente diventare una religione universale, in quanto si poneva come una teologia astratta, ma di fatto, storicamente, lo è diventato perché ha saputo associare la propria teologia alla politica degli Stati, assumendo la fisionomia di una religione istituzionalizzata. A partire dalla svolta costantiniana e soprattutto teodosiana, la Chiesa cristiana ha assunto una teologia-politica equivalente a quella giudaica, privata però di tutte quelle sovrastrutture ideologiche che rendevano il giudaismo una religione nazionalistica o settaria, come p.es. i precetti alimentari, le abluzioni, i riti purificatori, i sacrifici di animali, il culto del sabato, la circoncisione, la minuziosità formale delle cerimonie, fino al monoteismo aniconico.

Senonché la vera novità del Cristo non riguardava né la teologia mistica né la teologia politica, bensì la politica democratica. In virtù di questa egli voleva compiere una liberazione nazionale, ma all'interno di una visione di uguaglianza o equivalenza interetnica, che avrebbe impedito di riconoscere alla Giudea un qualsivoglia primato storico ipostatizzato.

Ora, bisogna affermare che tale concezione della politica democratica, che deve dimostrare in un territorio specifico il proprio valore, in quanto non può apparire come una concezione meramente teorica, e che, non per questo, fa della nazione un elemento di contrapposizione o di rivalsa o di oppressione nei confronti di altre nazioni; dunque, tale concezione della politica, unitamente al principio fondamentale della libertà di coscienza, ha trovato il suo sviluppo più coerente soltanto a partire dalla formazione delle idee e della prassi del socialismo. Ci sono voluti diciotto secoli prima di cominciare a capire che il messaggio politico di Gesù non ha nulla da spartire con quello religioso o teologico-politico propagandato dalle Chiese cristiane.

Il moderno socialismo (almeno nei suoi aspetti migliori) rivendica l'uguaglianza sociale e il regime di separazione tra religione e politica, così come faceva il cristianesimo primitivo prima che diventasse religione di stato; con la differenza che il socialismo non crede in nessuna religione e, sul piano economico, vuole abolire la proprietà privata dei mezzi produttivi e quindi lo sfruttamento del lavoro altrui. Non è soltanto un socialismo della distribuzione (come viene descritto negli Atti degli apostoli, 2,44 ss.), ma vuole esserlo anche della produzione. Non vuole creare isole di uguaglianza sociale all'interno di società basate sull'antagonismo tra ceti o tra classi (come farà il socialismo utopistico); ma vuole rivoluzionare l'intero sistema, recuperando i contenuti del comunismo primitivo, quello antecedente alla nascita delle civiltà schiavistiche.

Se non si riesce a ritrovare questo lato eversivo del Cristo, umanamente laico, il destino di questo personaggio, ampiamente manipolato dal cristianesimo, è quello di essere definitivamente rimosso dalla storia; nel senso che o il suo autentico messaggio viene valorizzato dal socialismo (che dev'essere però in grado di demistificare i vangeli), oppure, quando il socialismo riuscirà a realizzare i propri obiettivi, quel messaggio verrà spazzato via insieme alla civiltà del capitalismo.

Last but not least: il fatto che il Cristo non sia riuscito a conseguire il proprio obiettivo non va imputato a una qualche limitatezza dei suoi tempi o a una erroneità nella sua strategia. In tal senso va considerata assurda la seguente affermazione di Malina: “La gente sapeva per certo di non avere il dominio della propria esistenza e, per lo più, di non essere responsabile di quanto le accadeva” (p. 22). Dire questo di una popolazione che ha combattuto tenacemente i Romani per almeno sessant'anni, subendo una disfatta senza precedenti, è quanto meno ingeneroso.

Il Cristo non riuscì nella sua impresa unicamente perché la democrazia politica implica delle esigenze che non possono essere soddisfatte senza un certo consenso popolare, senza una significativa affermazione della volontà popolare. Un leader può essere democratico quanto vuole, può anche circondarsi di uno staff non meno democratico di lui, ma se il consenso popolare viene meno, soprattutto nel momento decisivo in cui si deve compiere una insurrezione o una rivoluzione, il leader e il suo staff non possono reagire a questa forma di debolezza rinunciando ai princìpi della democrazia. Non si può pensare di voler realizzare i propri obiettivi politici anche a costo di rinunciare alla propria umanità. Un leader coerente coi princìpi della democrazia può essere tradito dai propri seguaci, ma non può tradire se stesso.

Questo modo di comportarsi dovrebbe essere tenuto in considerazione da chiunque voglia compiere delle rivoluzioni politiche. Infatti è l'unico che permette di affermare che se anche si esce dalla storia come “perdenti” sul piano politico, se ne esce però come “vincenti” su quello umano.

F

A partire dai vangeli, la Chiesa non ha fatto altro, nel migliore dei casi, che ribadire, precisandole, le tesi principali in essi contenute. Con la Sinistra hegeliana si è cominciato a mettere in dubbio, con un'analisi rigorosa dei testi, la validità (storica anzitutto) di molti dei fatti e dei discorsi attribuiti al Cristo. Da allora è stato un torrente in piena. Tutti i tentativi fatti per difendere l'integrità dei vangeli, favorendo in particolar modo le interpretazioni simboliche e allegoriche, sono miseramente falliti.

Oggi si rivela molto più credibile un qualunque testo laico d'interpretazione dei vangeli che non un testo esegetico altamente specializzato. È il punto di vista sul “caso-Gesù” ad essere radicalmente mutato. Gli esegeti progressisti hanno definitivamente smesso di credere in tutte quelle sciocchezze relative alla “necessità” della morte di Gesù per la redenzione del genere umano, colpevole, quest'ultimo, di fronte a Dio sin dal peccato adamitico, e così via.

La critica esegetica contemporanea ha pienamente dimostrato, dopo circa duemila anni di esegesi confessionale, che, dei Sinottici, il più attendibile – nonostante la sua palese tendenziosità – è il Vangelo di Marco. E non pochi esegeti tendono a conferire un particolare valore, sul piano storico e politico, anche al Vangelo di Giovanni, almeno in quelle parti di tipo non metafisico.

A questo punto però ci si potrebbe chiedere se ha ragione lo storico Donini quando sostiene che dai vangeli non si può desumere alcuna linea politica per il presente. Ora, a parte il fatto che da nessun documento del passato si può desumere, sic et simpliciter, una linea politica per il presente, sarebbe davvero strano se, dopo aver smascherato le falsificazioni operate ai danni del messaggio originario del Cristo, mantenessimo nei confronti dei vangeli lo stesso atteggiamento scettico che si aveva ai tempi del razionalismo positivista.

Va certamente rifiutata qualsiasi mescolanza di tipo politico-operativo tra socialismo e religione (essa al massimo ha diritto di cittadinanza nell'ambito della coscienza personale del credente). Tuttavia, se neghiamo al vangelo di Cristo la sua valenza religiosa e conserviamo soltanto quella umana e politica, non si capisce perché nei suoi confronti non potremmo assumere un atteggiamento di interesse o almeno di curiosità. Nei riguardi di qualunque testo che abbia una carica umana e politica innovativa è sempre legittimo cercare motivi ispiratori per l'azione nel presente.

Questo peraltro può portarci a formulare nuove interpretazioni di certi brani evangelici che la tradizione religiosa, con sfumature più o meno rilevanti, ha sempre ricondotto entro canoni esegetici prestabiliti. Si pensi p. es. a come ancora oggi si considera l'espressione “porgere l'altra guancia” (Mt 5,39). Persino i due ateismi scientifici, positivista e marxista, l'hanno sempre intesa come un invito alla pura e semplice “non resistenza al male”, quando invece voleva dire esattamente il contrario.

Oggi sappiamo che l'immagine del Cristo descritta nei vangeli non è quella vera, ma sappiamo anche che nei vangeli è possibile trovare delle tracce autentiche di quello che è stato manipolato. “La forza di Gesù – dice Ida Magli – è stata tale da giungere fino a noi, malgrado tutti i travisamenti che ha subìto, proprio perché vi era implicita una rivoluzione sociale, che non può essere inglobata in nessuna istituzione, in nessuna forma di potere”.29

A tale scopo il Vangelo di Marco è utile per capire quella parte di vita che Gesù ha vissuto in Galilea, mentre il Vangelo di Giovanni è utile per capire anche quella parte di vita ch'egli ha vissuto in Giudea. In particolare Giovanni, più di ogni altro evangelista, si è interessato agli aspetti politici del messaggio di Gesù, per questo ha subìto le maggiori manipolazioni. Ora però dobbiamo riscoprire il vero volto del Cristo, cioè il suo vero messaggio di liberazione dalle contraddizioni sociali. E per fare questo non abbiamo altre risorse, ancora una volta, che i vangeli. Dobbiamo continuare a lavorare su delle falsificazioni, su dei “fantasmi”, nella speranza di trovare, almeno indirettamente, qualcosa di umanamente positivo.

G

Se nella formazione del cristianesimo primitivo vi è stata, all'inizio, una tradizione orale, essa può aver riguardato solo quella che si può rinvenire, vagamente, nelle primissime lettere paoline (e anche nell'Apocalisse). Il tema di tale tradizione era soltanto uno: la tomba di Gesù Cristo, la cui morte in croce era indubitabile, era stata trovata vuota, per cui, siccome si escludeva l'ipotesi del trafugamento, si doveva supporre che fosse risorto (autonomamente o per volontà divina); ma se lo era stato, allora non poteva non tornare, più o meno immediatamente, per trionfare sui suoi nemici. Quindi bisognava tenersi pronti, perché avrebbe potuto aver bisogno del movimento ch'egli aveva creato. Tale interpretazione della tomba vuota risaliva direttamente a Pietro, e non era stata condivisa da tutti gli apostoli. Nel testo fondamentale di Luca, Atti degli apostoli, solo di un apostolo si parla, Pietro, poi rimpiazzato da Paolo. Tutti gli altri, ben presenti nei vangeli, scompaiono misteriosamente.

Solo quando ci si accorse che la parusia tardava, si cominciò a trasformare Gesù da soggetto politico a soggetto puramente religioso, dicendo, p.es., che la tomba era stata trovata vuota proprio perché egli doveva risorgere, e doveva farlo perché non aveva una natura semplicemente umana, e che, pur avendo una natura divina, si era lasciato giustiziare per adempiere a un dovere superiore impostogli da Dio-padre, e che il suo ritorno sulla Terra, per giudicare i vivi e i morti, dipendeva appunto dalla volontà di Dio, e cose del genere.

La trasformazione del Cristo politico in Cristo teologico non poteva limitarsi a essere trasmessa solo oralmente: per essere convincente, doveva anche essere messa per iscritto. Le prime opere scritte, responsabili di tale trasformazione, sono state le lettere di Paolo. Pietro, ad un certo punto, dopo aver lasciato la guida del movimento nazareno a Giacomo il Giusto e dopo il cosiddetto “incidente di Antiochia”, si adeguò al contenuto di quelle lettere.

L'idea paolina secondo cui il ritorno di Cristo doveva essere posticipato alla fine dei tempi, non fu condivisa dai giudeo-cristiani residenti in Giudea o a Gerusalemme, che facevano capo a Giacomo il Giusto, e che diedero vita alle comunità degli ebioniti e dei nazorei, almeno non fino a quando il Tempio non venne distrutto nella guerra del 66-70. Di qui la lunga controversia con le posizioni di Paolo, più o meno condivise da Pietro, e sulle quali si trovò una sorta di compromesso al Concilio di Gerusalemme.

Si può dire, in un certo senso, che la tradizione scritta, relativa ai detti di Gesù (la cosiddetta “fonte Q”), maturò proprio in ambito giudaico per opporsi alle tesi rassegnate di Paolo. In tali detti il Cristo resta consapevolmente “giudaico” e non si dà affatto per scontato ch'egli non possa tornare in tempi brevi.

Solo quando ci si rese conto che la guerra contro Roma non lasciava alcuna speranza per Israele, si pensò d'integrare tali detti in una biografia del Cristo. Tuttavia, siccome la prima biografia fu quella di Marco, discepolo di Pietro, tale integrazione, a motivo del forte antigiudaismo di entrambi, non vi fu. Pietro, di origine galilaica, non apprezzava le tradizioni, la cultura, il fanatismo dei Giudei; sicché quando chiese a Marco di scrivere una biografia del Cristo, l'impostazione generale ch'egli voleva dare a questo vangelo era di tipo “ellenistico”, proprio in quanto l'interlocutore privilegiato era diventato il mondo pagano. L'ultimo Pietro è dunque pienamente favorevole alle tesi paoline: questo comporterà anche la riconciliazione di Marco con Paolo, che si era interrotta in uno dei viaggi missionari del tredicesimo apostolo.

Naturalmente non si può escludere che singole pericopi del vangelo marciano non fossero già in uso nelle comunità fondate da Pietro. Diciamo che il lavoro redazionale di Marco è stato quello di collocarle in uno schema spazio-temporale che, come noto, è stato ridotto a un anno e con riferimento quasi esclusivo alla Galilea.

Si dovrà comunque aspettare la comunità legata al nome di Matteo prima di vedere un'integrazione effettiva tra detti di Gesù (di origine giudaica) e biografia (di impostazione marciana). Fatta questa operazione, subentrerà Luca, discepolo di Paolo, che provvederà a scrivere un proprio vangelo, indirizzando quella integrazione matteana, che nel suo vangelo subirà non poche modifiche, a un'utenza specificatamente pagana.

Quindi, mentre Marco risente di un'influenza della teologia petro-paolina, Luca invece si basa esclusivamente su quella paolina e non senza prima averla depurata di tutte quelle argomentazioni che un pubblico pagano non avrebbe potuto capire o a cui non sarebbe stato interessato.

Oltre a ciò Luca deve avere avuto contatti con ambienti giovannei, poiché mostra uno spiccato interesse per la madre di Gesù; e noi sappiamo, dal IV vangelo, ch'essa, dopo la morte del figlio, era stata presa in custodia dall'apostolo Giovanni.

Questo lo schema, molto semplificato, della complessa formazione iniziale del cristianesimo. La tradizione giovannea non partecipa affatto a tale formazione; anzi, si può presumere che, nella sua fase originaria, le si opponesse, in quanto riteneva che l'interpretazione della tomba vuota come “resurrezione” sviasse il movimento nazareno dal compito di insorgere immediatamente contro Roma, visto l'alto consenso che il Cristo aveva ottenuto.

Il vangelo di Giovanni, quindi, quando nacque, aveva lo scopo di opporsi a quello marciano, responsabile dell'impianto generale degli altri due Sinottici. Tuttavia, siccome al tempo dell'elaborazione del IV vangelo la tradizione petro-paolina s'era imposta in maniera evidente, tale vangelo, per riuscire a non essere distrutto, dovette sottoporsi a una pesante revisione, di cui si fecero carico, in momenti diversi, alcuni discepoli dello stesso Giovanni, che frequentavano ambienti di tipo monastico.

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6) Il cristianesimo primitivo nella storiografia russa

Inquadramento generale

La storiografia ateistica russa a indirizzo mitologico (che per molto tempo ha prevalso su quella storicistica quando in Urss dominava il “socialismo reale”) non solo non ha mai considerato la letteratura cristiana una fonte storica sicura per conoscere le origini del cristianesimo, ma ha sempre messo anche in dubbio l'autenticità di tutte le fonti non-cristiane, da quelle romane di Tacito, Svetonio e Plinio il Giovane, a quelle ebraiche di Giuseppe Flavio, Filone Alessandrino, Mara ecc.

Sulla scia della critica radicale di studiosi come A. Kalthoff, P. Jensen, A. Drews, P. L. Couchoud, J. M. Robertson e altri, essa ha sempre sostenuto l'impossibilità di poter determinare con sicurezza persino l'esistenza storica di Gesù Cristo. Sono noti i nomi degli studiosi russi della scuola mitologica: Vipper, Ranovič, Kovaliov, Kryvelëv... Persino Kautsky, che pur non negava l'esistenza del Cristo, anzi, contrariamente a Engels, lo definiva un ribelle rivoluzionario, non attribuiva alle fonti extra-evangeliche alcun peso.

Questa storiografia ha sempre sostenuto che la causa delle falsificazioni cristiane sarebbe da attribuire al silenzio degli autori giudei e greco-romani su Gesù Cristo negli anni compresi, all'incirca, fra il 70 e il 120. Nessuno in effetti può smentire che le fonti storiche del I secolo tacciono del tutto sulla persona e l'attività di Cristo, anche quando si tratta di documenti ufficiali e semiufficiali, o di opere storiche e filosofiche del tempo.

Le interpolazioni dei copisti cristiani quindi sarebbero un prolungamento del lavoro redazionale già intrapreso col Nuovo Testamento, al fine di dimostrare il dogma relativo alla passione, morte e resurrezione di Cristo. Necessità che divenne attuale particolarmente dopo il Concilio di Nicea (325) per combattere i diversi eretici.

All'inizio quindi vi sarebbe stato solo un culto divino del Cristo, del tutto astratto e non molto diverso da altri culti misterico-ellenistici del tempo, e solo in seguito ci si sarebbe preoccupati di dare al Cristo-Dio una fisionomia anche umana. Dimodoché quanto più la fonte cristiana è antica, tanto più è povera in essa la biografia terrena di Cristo (vedi ad es. l'Apocalisse di Giovanni, che già Engels riteneva scritta verso il 68-69 d.C.).

Questa tesi, seppur in maniera più sfumata, venne ripresa e diffusa in Italia soprattutto da A. Donini. M. Craveri, di cui Teti editore ha pubblicato Un uomo chiamato Gesù, è stato il primo, da noi, ad aver fatto una panoramica (breve) della storiografia ateistica russa o ex-sovietica, relativamente allo studio della figura di Gesù Cristo e delle origini del cristianesimo, con il saggio Gli studi sovietici sulle origini del cristianesimo, apparso nella “Nuova rivista storica” nel 1968.

Le altre tre ricerche, che stranamente non citano quella di Craveri, sono di due sacerdoti cattolici: Ermis Segatti, Il senso di Gesù e della comunità primitiva nella ricerca biblica dell'ateismo sovietico (“Rivista Biblica Italiana”, XXIV-XXV/1976-77); id., L'ateismo. Un problema nel marxismo (ed. Piemme 1986); e Jozef Rajčak, Gesù nella ricerca sovietica contemporanea (ed. Piemme 1985).

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Craveri, nel saggio succitato, ha messo sinteticamente in luce che fino al 1958 gli studiosi russi avevano affrontato il problema delle origini del cristianesimo “più con la preoccupazione di dare conferma alle opinioni espresse in proposito da F. Engels” (p. 175), il quale, a sua volta, aveva aderito alle conclusioni di B. Bauer e della “Scuola di Tubinga”. A partire da quella data, con S. I. Kovaliov, inizia invece la messa in discussione di alcune tesi ufficiali del marxismo.

Craveri ritiene che lo storico del cristianesimo più importante e più fedele alla lezione engelsiana sia stato A. B. Ranovič, il quale però comprese meglio di Engels l'efficacia pratica del movimento cristiano, basata sostanzialmente sull'idea dell'uguaglianza morale di tutti gli uomini (davanti a Dio), cioè l'idea del riscatto universale dal peccato dell'egoismo.

Bene ha fatto Craveri ad affermare che, nonostante ciò, anche a Ranovič, come a Engels, è “sfuggito l'appello alla fratellanza, alla charitas, all'aiuto reciproco, che pure ha costituito uno dei cardini della predicazione cristiana e ha reso possibili, almeno nelle prime comunità, indubbie forme di riscatto, non solo spirituale, per i fedeli bisognosi” (p. 178).

Nessuno dei due inoltre (Engels lo fece solo in riferimento all'Apocalisse di Giovanni) ha mai sottolineato a sufficienza che “tra le principali cause dell'affermarsi del cristianesimo [vi era] la certezza, che i suoi “profeti” cercavano d'inculcare, nell'imminenza di un'effettiva, concreta realizzazione, su questa terra, di quel “regno” di giustizia e di benessere, più tardi trasferito in cielo” (ib.).

Craveri inoltre contesta, giustamente, la tesi sostenuta dai due marxisti, secondo cui il cristianesimo riuscì a diffondersi a livello mondiale perché, a differenza delle altre religioni, “non conteneva particolari forme di rito, sacrifici e cerimonie” (ib.). Non si deve infatti dimenticare che il cristianesimo – quello soprattutto di Paolo – è nato come “religione” e, per quanto i suoi riti, all'inizio, fossero meno complicati di quelli ebraici o di altre religioni misterico-orientali, essi costituivano pur sempre il “guscio mistico” che avvolgeva la fede dei credenti.

Il rapporto tra fede e sacramenti è sempre stato fondamentale nel cristianesimo, anche se nei vangeli solo col presupposto della fede si può scorgere l'esistenza di qualche sacramento istituito da Cristo. Essi infatti lo descrivono intento a discutere e non a pregare o a fare riti particolari. Gv 4,2 afferma che “Gesù in persona non battezzava”. E il battesimo del Precursore – imitato inizialmente dai seguaci di Gesù – non aveva certo un valore sacramentale.

Nel corso dell'impero romano tutte le religioni trapiantate in occidente – ad eccezione di quella ebraica – pretendevano d'avere un carattere universale. Quella parte di ebraismo che volle avere questo carattere si trasformò appunto in cristianesimo. L'ebraismo più conservatore, invece, continuò a subordinare il proprio universalismo alla riuscita politica del messianismo nazionale.

Il cristianesimo non ebbe la meglio su tutte le altre religioni semplicemente perché offriva di più sul piano dell’universalismo cosmopolitico. Esso divenne universale dopo il crollo delle religioni fondate sulla polis, e non lo divenne neppure attraverso la semplice mediazione filosofica delle opere di Seneca e di Filone Alessandrino. L'universalismo era un processo intrinseco all'ideologia cosmopolita del principato romano, che coinvolgeva, come tale, tutte le religioni e tutte le filosofie.

Per quanto riguarda il cristianesimo, esso maturò in quegli ambienti ebraici che, rassegnati all'idea di non poter realizzare alcuna liberazione politico-religiosa a livello nazionale dal giogo dell'imperialismo romano, pensarono di potersi imporre sulla cultura ellenistica (religiosa e filosofica) non solo adottando il carattere universale di quest’ultima, ma facendo leva anche sul proprio “spirito collettivistico”.

In tal senso è limitativo sostenere – come fa Ranovič – che l'originalità del cristianesimo stava nel suo carattere di “religione universale”. Quando il cristianesimo abbatteva “tutte le vecchie barriere etniche e le differenze di casta tra gli uomini” (p. 181), non era, in questo, molto diverso dall'orfismo o dal mitraismo. Quando Paolo sosteneva che in Cristo non c'era più “né giudeo né greco”, stava semplicemente chiedendo ai giudeo-cristiani di considerare i greco-cristiani uguali a loro. Non aveva inventato una nuova formula cosmopolitica per il mondo ellenistico. La differenza, dalle altre religioni e filosofie, stava nel fatto che il cristianesimo cercava di essere coerente nella prassi coi principi umanistici affermati in sede teorica.

Ma la critica di Craveri è efficace soprattutto laddove contesta a Ranovič l'idea che Gesù sia stato, in principio, una “creatura mitologica celeste” (come nell'Apocalisse), successivamente umanizzata e storicizzata (come nelle Lettere di Paolo e nei vangeli). Ranovič ignora completamente – dice Craveri – “gli approfonditi studi moderni di esegesi neotestamentaria e accampa grossolanamente la tesi comparativistica di fine Ottocento, secondo la quale la redazione dei vangeli e il conseguente culto di Gesù Cristo sono frutto della contaminazione di leggende pagane, culti misterici e reminiscenze bibliche” (ib.).

Molto più indovinata è l'analisi di Ranovič sul modo in cui il cristianesimo democratico si è involuto, trasformandosi in religione di stato.

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Craveri fa anche notare che gli studi di Ranovič posero le fondamenta per la “giovane scuola sovietica”, a indirizzo mitologico, la quale accentuò ancor più la tesi che l'origine del cristianesimo va cercata non in Palestina ma nella diaspora ebraica.

Il primo che mise in forse questa tesi, sostenendo esattamente il contrario, fu – dice Craveri – lo storico S. I. Kovaliov, in un saggio apparso nel 1958. Craveri tuttavia sembra concedere troppo alla pretesa “rottura” di Kovaliov. È vero infatti che questi paragonò il cristianesimo a “una delle tante forme dei culti misterici orientali” (p. 185), dimostrando così che l'universalismo, e persino il monoteismo, erano un'esigenza comune, sentita in tutto l'impero; ed è altresì vero ch'egli ha scorto nel maggiore democraticismo del giudeo-cristianesimo (rispetto alle altre religioni) un elemento decisivo nella lotta contro “la religione ufficiale del popolo romano conquistatore” (ib.). Ma è anche vero che Kovaliov continuò a considerare il Cristo un mito storicizzato, non attribuendo ai vangeli alcun valore come fonti storiche. Sicché è difficile pensare che con lui si sia usciti dall'angusto ambito della “giovane scuola sovietica”.

Egli, p. es., sosteneva che la mancanza di fonti non cristiane sulla nuova religione, durante il I secolo e l'inizio del II, andava spiegata col fatto che il cristianesimo, agli inizi, fu “un fenomeno così insignificante da non meritare l'attenzione degli scrittori pagani” (p. 188). In tal modo però Kovaliov si precludeva la via alla comprensione della censura che la stessa Chiesa cristiana aveva operato sul messaggio e sull'attività politica del Cristo.

Craveri, tuttavia, fa giustamente notare che “se il cristianesimo ha avuto le sue prime origini in territorio palestinese, diventa meno incredibile l'esistenza di un profeta predicatore di nome Gesù” (p. 189). Certo, questa può essere considerata una “conquista” dell'ateismo scientifico, ma si tratta ancora di ben poca cosa. Lo dimostra il fatto che altri insigni storici, come A. P. Každan e M. M. Kublanov, che hanno voluto proseguire gli studi di Kovaliov, si sono limitati a vedere “l'origine del mito di Cristo nelle concezioni messianiche della setta di Qûmran, poi complicate dalle dottrine filosofiche filoniane e stoiche” (p. 190), dando così per scontata la spoliticizzazione del Cristo, e ribadendo, implicitamente, la preoccupazione apologetica di dimostrare la superiorità del socialismo scientifico rispetto al cristianesimo.

È evidente che se si considera il cristianesimo come una pura e semplice religione e non anche come il tentativo di deformare un messaggio che religioso non era, non si avrà alcuna difficoltà a paragonarlo ad una delle tante religioni orientali dell'epoca, o all'ebraismo ellenistico, o all'essenismo qumranico.

Più interessante, in tal senso, è la posizione del filologo tedesco G. Hartke, citato da Craveri perché molto studiato in Russia. Egli sostiene che “siccome la letteratura del Nuovo Testamento è l'unico documento in nostro possesso per la ricostruzione delle origini del cristianesimo, tutto il problema si riduce ad un esame critico di ciò ch'essa ci offre” (p. 192). (In attesa naturalmente di trovare nuove fonti storiche!)

Gli studi di Hartke andrebbero ripresi soprattutto là dove afferma che certi passi del vangelo di Giovanni sono più autentici o più antichi di quelli di Marco, e che i versetti d'ispirazione gnostica, abbondantemente presenti nel quarto vangelo, sono interpolazioni posteriori. Come, d'altra parte, sono stati aggiunti, in un secondo momento, tutto il gruppo di versetti in cui Gesù non è più considerato “uomo-messia” ma “Logos divino”, nonché le composizioni di sapore gnostico che dividono il genere umano in “figli della luce” e “figli delle tenebre”.

Il torto di Hartke, sottolineato da Craveri, è stato quello di aver avuto la pretesa di ricostruire una vita “storica” di Gesù e una cronologia “sistematica” della redazione del N.T. a partire dalle stesse fonti cristiane. Alla fine Hartke è caduto in ingenuità non meno grossolane di quelle della scuola mitologica. Qui infatti è bene precisare, a scanso di equivoci, che al di là di una mera “critica” delle fonti cristiane non è possibile andare, in quanto la verità storica è stata soffocata da duemila anni di menzogne.

Dalla scuola mitologista a quella storicista

Ingenuamente J. Raičak, nell'Introduzione al suo libro Gesù nella ricerca sovietica contemporanea, dopo aver riconosciuto “l'importanza capitale dell'ateismo sovietico nel mondo contemporaneo”, si chiede il motivo per cui “il numero delle pubblicazioni sovietiche su questo argomento sia molto esiguo” in Europa occidentale e soprattutto in Italia, e crede di trovarlo nella scarsa conoscenza della lingua russa.

In realtà le ragioni sono di tipo ideologico e politico. Il mondo cattolico (ma sarebbe meglio dire “cristiano in generale”) non ha mai avuto, ovviamente, alcun interesse a divulgare testi ateistici che presumono d'essere scientifici sulla storia del cristianesimo: le poche volte che l'ha fatto, ha sempre scelto di pubblicare le parti più facilmente criticabili.

L'area facente capo al marxismo occidentale (in Italia al gramscismo) ha sempre temuto (un'eccezione significativa è stata quella di Ambrogio Donini) che la divulgazione di una pubblicistica così chiaramente determinata in direzione dell'ateismo, potesse compromettere il dialogo politico col mondo cattolico.

Infine tutte le correnti marcatamente anticlericali: laicisti, anarchici, trotzkisti, maoisti ecc., pur essendo ideologicamente favorevoli all'impostazione ateistica della storiografia sovietica, hanno preferito, per ragioni meramente politiche, cioè per ragioni di rozzo anticomunismo o anti-sovietismo, non misurarsi sul terreno del confronto culturale, ma di restare legate, sostanzialmente, alle vecchie posizioni mitologiste della Sinistra hegeliana e della “Scuola di Tubinga”, riprese poi dal positivismo.

La ricerca di Rajčak è comunque interessante perché mette in luce come, dopo circa sessant'anni di assoluto dominio dell'indirizzo mitologico, si vada facendo strada presso gli studiosi russi (Rajčak intende riferirsi al periodo compreso dal 1975 al 1982) “un più marcato interesse per una probabile esistenza storica dell'uomo Gesù” (p. 106). Da un lato infatti essi, come la migliore scuola mitologista, affermano – dice Rajčak – che “l'oggetto primario della ricerca sovietica non è la questione dell'esistenza storica di Gesù Cristo” (p. 107); dall'altro però sono indotti ad ammettere che “la questione dell'esistenza storica di Gesù Cristo non è indifferente agli studiosi marxisti, poiché essi sono convinti che la soluzione scientifica di questo problema darà un colpo decisivo al cristianesimo” (ib.).

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Ora vediamo quali importanti affermazioni ha fatto la scuola storico-razionalista russa sul tema della storicità del Cristo e dei vangeli.

Riguardo al genere letterario dei vangeli si sta cominciando ad ammettere che molti racconti, non contenenti “nulla di soprannaturale” (p. 114), possono essere considerati “storici”. La scuola mitologista, in questo senso, era stata molto categorica: i vangeli non sono che testi leggendari, teatrali, vere e proprie raccolte di favole, inventate da cima a fondo.

Quanto, in tale mutamento di prospettiva, abbiano influito le scoperte dei rotoli di Qûmran, è facile intuirlo. Il primo a rivedere alcune classiche tesi della scuola mitologista fu – come già detto – lo storico Kovaliov, il quale dovette costatare che quei rotoli bimillenari attestavano la presenza di gruppi molto vicini non solo agli Esseni e agli Ebioniti, ma anche a quella che è la figura idealizzata di Gesù nella letteratura neotestamentaria. Kovaliov, in sostanza, pur senza chiedersi in che modo la Chiesa cristiana aveva operato una falsificazione ai danni del movimento originario di Gesù, finì con l'accettare la versione che il cristianesimo, come religione, sorse in Palestina, in stretta relazione con problemi e movimenti di natura specificamente ebraica.

Generalmente i rappresentanti russi della scuola storicista ammettono che gli autori principali (non ovviamente gli unici) dei vangeli siano Matteo, Marco, Luca e Giovanni, di origine palestinese (ad eccezione naturalmente di Luca), e concordano sulla periodizzazione della vita di Gesù da parte degli evangelisti (che non si discosta, in sostanza, da quella ufficiale della tradizione cristiana, pur considerando l'evidente sfasatura tra la cronologia sinottica e quella giovannea). Viceversa, la storiografia mitologista soltanto sulla ebraicità di Giovanni Battista sosteneva di non avere dubbi: essa infatti nel Precursore ha sempre visto una specie di prototipo del personaggio standard del messia.

Quanto alle fonti dei vangeli (relativamente alla loro tipologia e alla loro attendibilità) i pareri della scuola storicista non sono molto omogenei:

1. N. M. Nikol'skij, A. P. Každan, Z. Kosidovskij e I. Svencickaja sostengono che tali fonti sarebbero – dice Rajčak – “le tradizioni orali riguardanti un predicatore ebreo di nome Gesù, le quali, accanto ai racconti leggendari o mitici (p. es. i miracoli), contengono un vero nucleo storico” (p. 115);

2. per gli ultimi due storici, “i vangeli si formarono in un lungo periodo di tempo dopo la morte di Gesù, da una parte sulla base della tradizione orale, dall'altra in forza della 'creatività tendenziosa' dei loro autori” (ib.);

3) M. M. Kublanov sostiene che “sugli autori dei vangeli esercitarono un forte influsso il pensiero del filosofo alessandrino Filone, le concezioni dualistiche del mondo proprie dei qumraniti e degli iraniani e le idee messianiche anticotestamentarie degli ebrei” (ib.): oltre a ciò, egli è convinto che “il vangelo di Giovanni dipenda in gran parte da quello di Marco, ma anche da un'altra fonte detta ‘Q’, non pervenuta ai nostri giorni” (ib.). Su questo le tesi della scuola mitologista non sono molte diverse, se non per il fatto che tendono ad accentuare l'influenza dei racconti mitologici greco-romani, babilonesi, siriani, egiziani e indiani.

Molto significativa è l'affermazione di Každan secondo cui le contraddizioni contenute nei vangeli potrebbero anche essere “un argomento a favore del nucleo storico di essi, poiché provengono dalle differenti tradizioni orali che si conservarono nelle diverse comunità cristiane primitive e si riferivano ai fatti storici” (ib.).

Con Nikol'skij si è anche arrivati a considerare i miracoli come “semplici guarigioni psichiche o neurotiche” (p. 122), escludendo quindi la possibilità di altri eventi prodigiosi come la trasfigurazione, la resurrezione di Lazzaro, la moltiplicazione dei pani o la tempesta sedata.

Interessante altresì è l'opinione di Kovaliov in merito alle fonti non cristiane su Gesù. Egli sostiene che quelle di Plinio il Giovane e di Tacito non devono essere liquidate con troppa sicurezza. La scuola mitologista – come noto – le ha sempre ritenute inattendibili, semplicemente perché voleva restare legata a una concezione dello sviluppo, senza mediazioni, della figura di Cristo, che va dal mito della sua divinità (già descritto nelle Lettere paoline più antiche) sino alla rappresentazione umana delineata nei vangeli.

Kosidovskij (che non è russo ma polacco) ritiene invece che “non esistono alcune ragioni fondate per negare la storicità di Gesù, dato che nella Palestina di quel tempo i predicatori, i profeti e i messia di quel genere erano un fenomeno quotidiano” (p. 98). A suo parere cioè “si può considerare tranquillamente come verità storica il fatto che Gesù fosse il figlio di un carpentiere, che avesse vissuto a Nazareth fino al momento in cui, sotto l'influsso del Battista, iniziò a predicare in Galilea e a Gerusalemme, raccogliendo attorno a sé molti seguaci, e infine il fatto che, mettendosi contro il potere religioso e civile, venisse crocifisso come un pericoloso disturbatore dell'ordine pubblico. Dopo la sua morte avvenne qualcosa che spinse i suoi seguaci a credere che era risorto” (ib.).

Každan, in questo senso, ha precisato che uno studioso marxista può anche ammettere l'esistenza storica dell'uomo-Gesù, ma, a differenza di un teologo, dovrà sempre rifiutare che si tratti di un “figlio di Dio” che portò all'umanità un messaggio originale (p. 95).

Sintomatico è il fatto che in questa critica alle posizioni estreme della scuola mitologista, la scuola storicista non abbia fatto altro che recuperare le tesi fondamentali del teorico più importante della IIa Internazionale, K. Kautsky, per il quale Gesù Cristo fu “un lottatore politico della resistenza, un rivoluzionario sociale” (p. 51). 30

Questo significa che nell'area ideologica marxista vi è sempre stato un indirizzo favorevole alla storicità di Gesù. Esso è stato tenuto per molti anni ai margini della storiografia sovietica ufficiale semplicemente perché risultava politicamente scomodo nel contesto delle relazioni conflittuali che dividevano il socialismo dal capitalismo. Solo a partire dai primi anni Sessanta del secolo scorso l'atteggiamento schematico della maggior parte dei biblisti sovietici ha cominciato a diventare più flessibile e problematico, e solo oggi si può pensare di approfondire l'ateismo scientifico in termini veramente storici e umanistici.

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Come esempio concreto di questa possibilità si può prendere in esame l'interpretazione storicista di Nikol'skij, che Segatti riporta piuttosto estesamente nei suoi due lavori già citati.

Nikol'skij (1877-1959) sostiene che “l'escatologia... per gli uomini del I secolo giocava un ruolo pari per importanza alla dottrina del socialismo e del comunismo per la società attuale” (“Riv. Bib. It”., XXV/1977, p. 169).

Parlando dei vangeli sinottici, egli è convinto ch'essi rappresentino “l'immagine più vicina ai concetti e sentimenti autentici delle masse che si aggregarono per prime nella comunità cristiana” (p. 170). “In generale l'oggetto dei vangeli è l'annuncio del regno di Dio come fatto imminente... Tutto l'agire di Gesù è contro il padrone di questo mondo (gerarchie dominanti, preti, farisei, Romani)... La gente stenta a crederlo poiché lo ritiene uno dei tanti sovvertitori che si sono già presentati sulla scena della storia. Ma egli si dichiara l'ultimo di tutti i tempi. E, anche se vinto, Gesù apparirà di nuovo e allora sarà l'unico signore del futuro regno del bene” (ib.).

Il regno futuro appartiene ai “miserabili e ne sono esclusi i ricchi” (p. 171). Ma dai Sinottici – prosegue Nikol'skij, che però non s'avvede come l'escatologia post-pasquale fosse stata già un modo di falsificare il messaggio del Cristo – è difficile individuare a quali “miserabili” ci si riferisca. Stando alla comunità post-pasquale di Gerusalemme sarebbero i poveri giudeo-cristiani, conformemente all'escatologia giudaico-nazionalista; stando invece alle comunità giudaico-ellenistiche della diaspora, che aspirano a un superamento del principio nazionalistico e puntano all'essenzialità della fede cristiana, sarebbero i poveri tout-court, credenti nella messianicità di Gesù.

“Quanto al tempo, pare che l'aspettativa fosse di assoluta imminenza, [anticipata] dall'inasprimento della persecuzione dei discepoli e dalla trasformazione del cristianesimo in forza mondiale irresistibile. Dalla convinzione congiunta dell'imminenza della fine e della sua ineluttabilità derivò il rigore stoico e la severità dei costumi cristiani. In un tale clima, la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito poteva lasciare supporre che la venuta del regno stesse per scoccare” (ib.).

Tuttavia, afferma Nikol'skij (riassunto sempre da Segatti), i primi cristiani “non costruirono alcun sistema sociale alternativo, poiché il cambiamento avviene per loro non attraverso un processo costruttivo di trasformazione sociale, bensì attraverso uno sconvolgimento cosmico di tipo miracolistico” (p. 172).

Infatti, il momento in cui i cristiani furono disposti a seguire Gesù in qualità di “messia-re” in una insurrezione armata (e cioè durante la sua predicazione in Galilea, cfr Gv 6,1 ss.), non si è più ripetuto, con altri capi cristiani, dopo la sua morte. Anzi, con il processo di divinizzazione del Figlio dell'uomo, con la sua mancata parusia e con la mondializzazione del cristianesimo, l'escatologia dei primi cristiani – dice Nikol'skij – ha perduto la sua forza propulsiva (p. 177). “Già si prefigura in questo stadio lo sviluppo successivo:... trovare una via di compromesso con questo mondo. Cominciano ad entrare in forma predominante i ricchi nelle comunità cristiane, ed essi non sono affatto interessati a cambiare le cose” (p. 178).

Che cos'è la verità storica?

Il grande merito della scuola mitologista russa è stato quello di aver dimostrato che le fonti storiche del cristianesimo primitivo portano il credente ad avere una fede incompatibile con la ragione. Questa scuola, tuttavia, se può aver indotto molti credenti di “buon senso” a dare maggiore peso alle motivazioni della ragione piuttosto che a quelle della fede, ha anche indotto, a causa della sua unilateralità, molti altri credenti a un fideismo ancora più cieco nei riguardi delle loro fonti storiche originarie, pregiudicando così la possibilità di un dialogo e di un approfondimento culturale in direzione dello storicismo umanistico.

In effetti, il torto principale della scuola mitologista, che pur aveva giustamente appurato la presenza di contraddizioni insostenibili nelle fonti neotestamentarie, è stato quello di aver svalutato, col pregiudizio di chi fa d'ogni erba un fascio, le fonti cristiane nel loro complesso, ritenendole del tutto fittizie.

Essa si è lasciata eccessivamente influenzare da determinati stereotipi, provocando così quello che in psicologia viene definito “effetto alone”, cioè dalla constatazione di un aspetto negativo si è passati a negativizzare il tutto. Si può forse avere la pretesa di sostenere, a priori, un criterio col quale stabilire con esattezza ciò che può essere considerato una “fonte storica credibile”? No, non si può, semplicemente perché l'attendibilità di una fonte non può che essere il frutto di una paziente e laboriosa ricerca.

Peraltro è sempre molto difficile appurare tutte le ambiguità implicite in una qualunque fonte storica, anche se, col passare del tempo (e paradossalmente), gli uomini tendono ad avvicinarsi sempre più alla verità dei fatti storici del passato. Dice infatti J. Huizinga: “Ogni fase di civiltà, dal Medioevo in poi, si ricostruisce un'immagine nuova dell'antichità greco-romana”, e questo sulla base delle stesse fonti scritte!31 “Per raggiungere un accordo due storici – ha detto H. I. Marrou – devono arrivare ad avere le stesse categorie mentali, le stesse affinità, delle identiche basi culturali”. 32

Se uno storico, in coscienza, ritiene inverosimile l'esistenza di Gesù Cristo, probabilmente non la riterrebbe verosimile neppure se avesse sotto mano un carteggio diretto tra Seneca e Pilato, in quanto non potrebbe fare a meno di sospettare che si tratti di un falso d'epoca. “Un gran numero di falsificazioni spesso apparenti – ha scritto J. Topolski – ha affinato il criticismo degli storici, conducendo a volte all'ipercriticismo”. 33

Il fatto è che non esiste una prova inconfutabile della verità di un'esistenza, di una teoria, di un'esperienza... Neppure il soggetto interessato è in grado di dirci di se stesso una verità maggiore di quella che altri possono dire di lui. Con la moderna burocrazia si può addirittura rischiare che un cittadino vivente, al cospetto di un'anagrafe che abbia smarrito i suoi documenti, non possa neppure dimostrare la propria esistenza in vita!

Se mettessimo a confronto i vari dipinti che ritraggono la figura di Cristoforo Colombo, chi potrebbe affermare con sicurezza, vedendo una così grande diversità di fattezze, ch'egli sia veramente esistito? Si pretende insomma un senso storico-scientifico per gli scritti del passato, quando neppure oggi siamo in grado di possederlo. Potrebbe mai accadere che un marxista arrivi a considerare le testimonianze dirette di Trotzky sulle rivoluzioni russe più attendibili di quelle di Lenin? No, eppure Trotzky fu un protagonista attivo di quegli avvenimenti, e cercò di riportarli puntualmente in una serie di scritti che ancora oggi, dai suoi seguaci, vengono considerati più veridici di quelli di Lenin.

Con questo naturalmente non si vuole sostenere che è impossibile stabilire una verità storica, o che tutto è relativo, ovvero che non esiste scienza ma solo opinione. Semplicemente la verità non s'impone da sé, altrimenti tutti vi crederebbero. Vi è sempre un margine di fraintendimento, o nel fatto storico stesso o nella sua comprensione. Pascal diceva, con acume, che nella vita vi è abbastanza per credere e abbastanza per dubitare. Questo forse significa che, come ripeteva Kierkegaard, la verità sta nella soggettività? No, significa soltanto che la verità implica una ricerca continua, ininterrotta, in cui il coinvolgimento personale non è un aspetto secondario. Quando si dice che la verità storica è il processo di adeguamento alla comprensione dell'istanza umana di liberazione, di cui vanno smascherati i tradimenti, si sottintende, ovviamente, che lo storico non può sentirsi estraneo a tale istanza.

Se si parte peraltro dal presupposto che non si può dedurre l'esistenza di un Gesù storico dall'idea mitica di un Cristo divino o, viceversa, che il Cristo divino non può essere una conseguenza del Gesù storico, si finisce col non capire più le radici storiche della creazione di quello stesso mito. Si finisce cioè col non capire fin dove è stata possibile l'invenzione e fin dove invece era impossibile.

La scuola mitologista russa, in tal senso, s'è lasciata fuorviare dal testo dell'Apocalisse di Giovanni. Ritenendolo scritto prima dei vangeli (prima della distruzione di Gerusalemme avvenuta nel 70), e costatando che in esso non esiste alcuna descrizione storica di Gesù, essa si è sentita in dovere di sostenere il carattere mitico del Cristo morto e risorto, successivamente umanizzato nei vangeli.

In realtà è del tutto irrilevante sapere quando l'Apocalisse sia stata scritta. Ciò che più importa notare è che anch'essa, come ogni altro testo del N.T., ha operato una censura sul Cristo storico. Essa l'ha trasformato in un essere divino (il primo a farlo in realtà è stato Paolo), proponendosi come obiettivo quello di far credere alle comunità cristiane che la liberazione dall'imperialismo romano sarebbe dipesa unicamente da lui. Le comunità avrebbero dovuto soltanto attendere in modo “etico-religioso” la sua venuta imminente.

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L'ateismo scientifico non ha il diritto di pretendere che la Chiesa cristiana consideri le proprie fonti storiche come globalmente false; anche perché, così facendo, esso non farebbe che spingerla ulteriormente a considerare le proprie fonti storiche come valide in sé e per sé, a prescindere dall'analisi del perché delle loro contraddizioni.

Un credente infatti potrà sempre sentirsi autorizzato ad affermare che le fonti cristiane vanno accettate solo con un atteggiamento di fede, poiché non è possibile credere nella divinità del Cristo con la sola ragione. Non a caso nell'area della confessione ortodossa si è sempre sostenuto che la verità delle fonti storiche del cristianesimo primitivo risiede appunto nel fatto che da duemila anni vi si crede. Ecco perché in quell'area non si è mai sviluppata, a livello religioso, un'esegesi critica neotestamentaria analoga a quella del mondo protestante.

Per gli ortodossi una qualunque indagine filologica, esegetica, letteraria o di altro genere sulla storicità del Nuovo Testamento, o finisce col riaffermare cose che sostanzialmente già si sapevano, oppure porta fuori della Chiesa, perché finisce col negare il presupposto fondamentale della fede cristiana, e cioè la resurrezione di Cristo. Il problema, per gli ortodossi, è semplicemente quello di come mettere in pratica gli insegnamenti evangelici, non certo quello di metterli in discussione. E, in questo senso, essi non si preoccupano affatto delle conquiste razionalistiche dei protestanti o del potere politico preteso dai cattolici, poiché sanno che la dimostrazione della verità di Cristo non dipende da nessuna delle due cose.

Ecco perché l'ateismo scientifico deve limitarsi a porre democraticamente, umanamente, quelle condizioni che permettano al credente di capire da solo, in piena libertà, che l'origine delle contraddizioni presenti nel N. T. coincide, in realtà, con l'origine della sua stessa fede: nulla potrà obbligarlo a credere nel rapporto di causa/effetto che lega questi due processi. D'altra parte mai nessun credente rinuncerà alle proprie idee se non si convincerà che quanto è stato tradito dal cristianesimo primitivo era qualitativamente superiore a quanto il cristianesimo stesso ha affermato.

La scuola mitologista s'è preoccupata di negare ogni credibilità alle “ragioni” della fede. La scuola storicista, invece, dovrà provare che la “fede” (quella umana) può avere delle ragioni assai diverse da quelle che il cristianesimo, monopolizzando il concetto di “fede”, ci ha tramandato.

Il compito della scuola storicista è senza dubbio più difficile e di lunga durata, ma è destinato ad ottenere risultati più convincenti. Naturalmente non ci si può limitare ad un affronto di tipo intellettualistico del fenomeno religioso, poiché qui si ha appunto a che fare con un “fenomeno sociale” e non con una semplice “opinione”. Occorre pertanto superare l'esperienza della fede religiosa con un'altra qualitativamente migliore, quella dell'umanesimo laico e socialista.

*

Se la scuola mitologista avesse affrontato con più obiettività il problema delle contraddizioni neotestamentarie e quello delle alterazioni, interpolazioni e omissioni redazionali ai danni delle fonti cristiane e non-cristiane, avrebbe facilmente scoperto che le falsificazioni non sono servite ai cristiani per dimostrare l'esistenza del “loro” Cristo, la verità della “loro” religione, ma piuttosto per negare ciò da cui il “loro” Cristo e la “loro” religione erano nati.

Avrebbe cioè scoperto che l'assenza di testimonianze su Cristo da parte delle fonti pagane è dipesa non solo dal fatto che il movimento di Cristo ebbe scarsa risonanza nell'impero romano del I secolo, non solo dal fatto che quel silenzio era una delle armi usate dal potere dominante per combattere la popolarità della nuova religione, ma anche dal fatto che gran parte delle testimonianze furono distrutte dalla stessa Chiesa cristiana. Sicché il silenzio degli autori non-cristiani va considerato non come causa bensì come effetto delle falsificazioni volute dalla Chiesa.

La Chiesa, se vogliamo, aveva ogni interesse a far sparire le prove dell'esistenza storica (fisica) di Cristo, proprio perché quell’esistenza, per come si era svolta, escludeva categoricamente l'idea di un messia, cioè di un leader politico, assolutamente pacifico e non-violento, mero “redentore” di una umanità schiava del peccato originale. Essa aveva bisogno di propagandare le tesi mitologiche di Paolo per poter realizzare un compromesso politico col potere dominante, allontanandosi definitivamente dalle tradizioni della società ebraica. La falsificazione è iniziata subito, prima ancora della stesura dei vangeli, già nella predicazione di Pietro e di Paolo. L'uso artificioso e tendenzioso di certe profezie veterotestamentarie ne è stata una delle prove più eloquenti.

Naturalmente se le manomissioni fatte nei testi pagani dovevano servire per negare al Cristo una qualunque fisionomia di leader politico, quelle fatte sui testi ebraici dovevano invece servire per affermare la natura divina della sua messianicità. Si pensi, ad es., al cosiddetto Testimonium Flavianum, dove i copisti cristiani si sono sforzati di far apparire Gesù il “Cristo” atteso da Israele, promesso dai profeti, vero “superuomo” perché “risorto” dopo tre giorni dalla sepoltura (come i profeti avevano previsto!). Qui non si è neppure in presenza di una semplice interpolazione, ma di una costruzione del tutto artificiosa.

Con la scoperta dei rotoli di Qûmran è emersa un'altra censura del cristianesimo primitivo: il N. T. non dice nulla degli esseni (nonostante il Battista provenisse da quegli ambienti) proprio perché si doveva attribuire al Cristo l'origine degli aspetti sacramentali della nuova Chiesa. E non è forse singolare che nei vangeli il Battista venga considerato come il “precursore” per eccellenza del Cristo (per giunta consapevole di esserlo), quando la storia del movimento di Gesù ha inizio proprio dal drammatico distacco dal movimento del Battista? Come mai alla Chiesa non è mai parso contraddittorio che la prima persona ad aver saputo riconoscere immediatamente la grandezza di Gesù, come uomo e come dio, non abbia poi deciso di diventare un seguace del movimento nazareno e abbia chiaramente rifiutato (come appare nel vangelo di Giovanni) di salire a Gerusalemme per compiere la cosiddetta “purificazione del Tempio”?

Come noto, i responsabili principali di buona parte delle falsificazioni dei testi pagani sul Cristo sono stati i monaci occidentali, i quali hanno praticamente “riscritto la storia”, soprattutto per togliere alle eresie sorte in ambito cristiano il pretesto per opporsi alla nuova religione di stato. Qui inoltre non si deve dimenticare che la Chiesa cristiana (sotto la guida del vescovo Teofilo) è all'origine dell'incendio che devastò la biblioteca del Museo d'Alessandria d'Egitto nel 391.

Ha dunque ragione la storiografia cattolica quando dice che le persecuzioni cristiane furono il frutto di un tragico “malinteso”, ma bisognerebbe aggiungere che lo furono solo perché il potere romano non aveva capito subito che il cristianesimo paolino, sul piano politico, nonostante la sua irriducibilità ideologica, non aveva alcun carattere rivoluzionario.

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7) Quando l'esegesi diventa inutile

In un libretto delle ed. Carocci, del 2008, intitolato L'enigma Gesù, vi sono tre esegeti italiani, Claudio Gianotto, Enrico Norelli e Mauro Pesce che, sul piano metodologico, dicono sostanzialmente le stesse cose, inclusa la curatrice Emanuela Prinzivalli.

L'esegesi moderna si sforza di andare oltre quella confessionale, ma, per timore di finire su posizioni dichiaratamente ateistiche, si limita a fare discorsi di tipo sociologico sul cristianesimo primitivo, che aiutano sicuramente a comprendere meglio le varie caratteristiche in cui si sono formati i vari testi canonici e apocrifi, ma non aiutano a demistificare l'intenzione originaria che i cristiani hanno avuto di trasformare il Gesù storico in un Cristo teologico.

A motivo delle grandi competenze che richiede in varie discipline, l'esegesi neotestamentaria è diventata una cosa molto complessa, in cui solo pochi esperti si possono cimentare. Così facendo però si trasforma l'esperienza del movimento nazareno (quello antecedente al cristianesimo) in un qualcosa di intellettualistico, perdendo di vista il motivo fondamentale per cui esso era nato: compiere un'insurrezione nazionale contro l'occupante romano e i suoi collaborazionisti interni, in special modo i gestori sadducei del Tempio.

Il fatto che tale movimento abbia fallito il proprio obiettivo non può essere considerato come prova per negare al Cristo una caratterizzazione politica. L'esegesi laica deve anzi cercare di capire perché l'iniziativa di tale insurrezione nazionale venne presa nel 66 non dal movimento nazareno, bensì da quello zelota.

Gli zeloti si erano già ribellati ai Romani prima che nascesse il movimento nazareno, tant'è che alcuni di loro militavano tra gli apostoli e sicuramente erano presenti tra quei cinquemila Galilei che volevano marciare su Gerusalemme facendo di Gesù un sovrano dai poteri assoluti.

Il movimento nazareno eredita il meglio dello zelotismo galilaico, ma cerca anche un continuo confronto dialettico col fariseismo giudaico, al fine di poter unire le due più importanti correnti politiche. Le altre due forze combattive con cui il Cristo s'era messo in relazione furono l'essenismo del Battista e il samaritanesimo.

La guerra giudaica, durata circa un sessantennio, ha spazzato via definitivamente l'idea politica di poter costituire una nazione libera e indipendente. Ciò che è sopravvissuto non era più la stessa cosa di prima. I farisei hanno indubbiamente sostituito i sadducei, ma si sono trasformati in guide spirituali e intellettuali, accontentandosi di gestire le loro sinagoghe. I nazareni sono diventati “cristiani”, facendo propria la teologia mistica di un ex fariseo, Paolo di Tarso, che accettò l'interpretazione petrina della tomba vuota come “resurrezione”, arrivando a fare del Cristo “l'unigenito figlio di Dio”, in via del tutto esclusiva. Quanto all'essenismo, si può pensare che il suo stile di vita sia confluito nel monachesimo cristiano, che indubbiamente è a capo del quarto vangelo.

Il grande sconfitto è stato lo zelotismo, che forse si è diluito in quelle correnti cristiane che hanno originato una parte della letteratura apocrifa.

Di tutti questi movimenti l’unico ad aver veramente trionfato è stato il cristianesimo, benché in una forma completamente diversa da quella del movimento nazareno. Ora, per comprendere la diversità di queste due forme, secondo noi non ha senso sostenere che il “Gesù reale” resta inconoscibile (come fanno appunto i suddetti autori), semplicemente perché le fonti a nostra disposizione non ci permettono di distinguere tra un “Gesù storico” e uno “teologico”, nel senso che se quest’ultimo è il prodotto definito e definitivo della teologia paolina, l’altro, quello “storico”, al massimo sarebbe il prodotto culturale di varie correnti cristiane, spesso in opposizione tra loro. Nulla di più.

Stante le cose in questi termini sarebbe meglio dire che tutta quanta la letteratura cristiana è sostanzialmente “teologica”, essendo nata da comunità politicamente sconfitte. È una letteratura che ha dovuto necessariamente fare della falsificazione (invenzione stricto sensu) e della mistificazione (interpretazione distorta di fatti reali) gli strumenti della propria affermazione.

Quando è stato deciso il “canone” non si sono scelti i testi più attendibili, ma i testi la cui irrealtà era riuscita a imporsi meglio col passare dei secoli. Se non si parte da queste premesse, è impossibile pretendere di elaborare un'esegesi laica, cioè critica.

Non si può essere contrari a tutte le interpretazioni che vedono in Gesù un soggetto di idee ateistiche e di comportamenti politicamente eversivi, soltanto perché questi due aspetti non appaiono con chiarezza o non appaiono affatto nelle fonti a nostra disposizione.

Bisogna anzi partire dal presupposto che se consideriamo quelle fonti l’esito di una sconfitta politica, allora è fuor di dubbio che il Cristo da esse raffigurato sia molto diverso da quello che è stato nella realtà e che nella realtà doveva essere molto più simile all'uomo della Sindone, unica fonte di tutto il Nuovo Testamento che possiamo considerare autentica.

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8) La fede ebraica e cristiana in seimila anni

Quale cultura pre-cristiana si è avvicinata di più a quell'ateismo che caratterizzava l'essere umano prima della nascita dello schiavismo? È stata quella ebraica. Il motivo fondamentale sta nel divieto mosaico di farsi una qualunque rappresentazione di Dio. La cultura ebraica è aniconica per definizione. Essa aveva capito che Jahvè è “totalmente altro” rispetto al mondo dominato dal male che l'uomo compie. È la speranza di una diversità radicale.

Questo Dio totalmente altro viene percepito come assolutamente familiare alla natura umana, tant'è che passeggia nell'Eden originario insieme ad Adamo ed Eva; e discute alla pari coi patriarchi e i profeti. Viene cioè immaginato come prototipo dell'umanità. È “totalmente altro” rispetto al male che l'uomo provoca, ma non lo è rispetto alla natura umana. Anzi l'essere umano, diviso per genere, è considerato a “immagine e somiglianza” della divinità.34

Il Dio ebraico non può essere rappresentato con oggetti materiali che ne sminuirebbero la potenza, il valore, ma viene considerato come qualcuno che fa un “patto” di onore, di amicizia, di collaborazione con un determinato popolo. Un patto vincolante per entrambi i contraenti.

La cultura ebraica era superiore a qualunque cultura pagana, proprio perché era esigente sul piano etico e vedeva la divinità come il partner principale di una realtà il popolo. Jahvè non è mai stato concepito come una divinità per il singolo credente. E neppure lo si è mai confuso con le forze della natura. Il Dio ebraico poteva servirsi della natura per mostrare la propria volontà, ma non perdeva mai la propria identità a vantaggio di quella della natura. Il Dio ebraico aveva una personalità umana, e poteva essere considerato più umano dell'uomo soltanto perché più coerente con gli ideali di giustizia.

Il popolo ebraico era un popolo “politico” per antonomasia, in quanto preoccupato a costruire un regno in cui dominasse l'idea di giustizia, nel senso che riteneva che la realizzazione della giustizia fosse il suo principale compito storico: ecco perché non sopportava d'essere dominato da potenze straniere. Gli ebrei non volevano sentirsi schiavi di nessuno: per questo si erano liberati, con Abramo, delle sofferenze patite sotto gli Assiri e i Babilonesi, e lo stesso avevano fatto con gli Egizi ai tempi di Mosè.

L'ultima parte della storia del popolo ebraico è quella più dolorosa; è la storia di una lotta indomita contro l'influenza dell'ellenismo, la cultura più sofisticata, più elaborata, più complessa del mondo pagano. L'epopea gloriosa della resistenza maccabea contro la potenza seleucide, stava per tramontare definitivamente al cospetto della potenza romana, il cui impero schiavistico appariva il più forte di tutti i tempi antichi. La principale artefice di questa collusione col nemico proveniente da Roma era la casta sacerdotale del Tempio di Gerusalemme. Dopo 4000 anni di storia la cultura ebraica era giunta a una svolta decisiva: o cambiare o perire.

La proposta di un radicale mutamento venne fatta da un giudeo di nome Gesù, il quale propose agli uomini di rendersi artefici del loro destino, di considerarsi al pari degli dèi, di emanciparsi dal dispotismo della casta sacerdotale e di organizzare tutti insieme, a prescindere dagli atteggiamenti nei confronti della religione, una insurrezione armata contro Roma.

L'insurrezione la fecero, ma non come lui avrebbe voluto: fu una insurrezione basata su una logica estremistica, autoritaria, in cui si lasciava poco spazio alla diversità... Sicché i Romani ebbero la meglio e per le sorti di Israele fu una tragedia assoluta.

Tuttavia una parte degli ebrei volle ricordare quanto Gesù aveva detto e fatto, ma siccome non ebbe il coraggio o la volontà di restare fedele al suo autentico messaggio, pensò di propagandarlo in maniera deformata. Questa parte di Israele, che prese il nome di cristianesimo, elaborò l'idea di un Cristo figlio unigenito di Dio. Cioè, mentre gli ebrei di un tempo, i pochi sopravvissuti alla distruzione di Israele, si raccolsero intorno al partito farisaico per ricostituire su basi nuove quel che restava del vecchio giudaismo; un'altra parte del popolo ebraico si inventò l'idea di attribuire a Gesù una esclusiva natura divina, paragonabile a quella di Jahvè, al punto che arrivarono a dire che solo attraverso Gesù si poteva comprendere Dio.

Mai, prima di allora, gli ebrei avevano fatto una cosa del genere. Per loro sarebbe stato sacrilego attribuire a un uomo una natura divina. Quando dicevano che qualcuno era una sorta di “figlio di Dio”, intendevano questo appellativo solo in senso simbolico o metaforico. Invece per i cristiani Gesù era un uomo che aveva una natura divina vera e propria; anzi, già nel vangelo attribuito a Giovanni arrivarono a dire che, oltre a lui, esisteva un'altra figura che procedeva da Dio-padre: era lo Spirito o Paraclito, cioè il Consolatore. Il Dio unico ebraico, che pur si serviva della Sapienza per gestire le forze della natura, veniva a trasformarsi in qualcosa di triadico.

Ma come avevano potuto i cristiani arrivare a una conclusione del genere? Gesù, infatti, non aveva mai mostrato, nel corso della sua vita, di avere una natura divina. I cristiani arrivarono a convincersi che l'avesse quando, dopo averlo sepolto in una tomba, non trovarono più il suo corpo. Di fronte a quella misteriosa scomparsa, alcuni cominciarono a dire ch'era “risorto”; dopodiché, pur senza averlo mai rivisto, si cominciò a pensare che sarebbe dovuto ritornare per trionfare sui nemici che l'avevano messo a morte. Solo quando ci si rese conto che la speranza di un suo ritorno immediato era mal riposta, si cominciò a dire ch'egli sarebbe tornato alla fine dei tempi storici, per giudicare i vivi e i morti.

Il cristianesimo aveva costruito una grande illusione. Invece di continuare sulla strada dell'emancipazione umana da qualunque idea di divinità, preferì ribadire la dipendenza degli uomini da una particolare idea divina, quella di un Cristo redentore dell'umanità. Passò infatti la convinzione, espressa da Paolo di Tarso, un ex-fariseo divenuto cristiano, secondo cui Gesù si era sacrificato per riconciliare una umanità votata al male (a causa del peccato originale) col Dio creatore, il quale avrebbe così rinunciato ad abbandonarla a se stessa. Gli uomini quindi non potevano liberarsi da soli delle proprie contraddizioni, ma dovevano soltanto aver fiducia nella potenza di Gesù, il quale però solo alla fine dei tempi avrebbe potuto dimostrarla. Questa era la volontà del Padreterno.

Agli uomini di fede non restava che attendere passivamente, comportandosi in maniera dignitosa, la sua seconda venuta. Nell'attesa dovevano ovviamente negare la pretesa che qualcun altro potesse considerarsi di natura divina. Gli dèi erano soltanto tre: tre persone in un'unica natura, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che la Chiesa cristiana interpreterà nella maniera più mistica possibile, dividendosi poi, col tempo, in tre grandi tronconi: ortodossa, cattolica e protestante.

Il cattolicesimo, a differenza dell'ortodossia, arrivò a dire non solo che il papato era un organo infallibile, superiore all'istanza conciliare, ma anche che la Chiesa doveva trasformarsi in uno Stato a tutti gli effetti per poter essere davvero libera.

La Chiesa protestante invece, come quella ortodossa, rifiutò l'idea di Stato della Chiesa, accettando, al massimo, quella di Chiesa di Stato, ma, a differenza di quella ortodossa, arrivò a dire che il Gesù rappresentato dai vangeli non poteva essere identico al Gesù storico, in quanto aveva le sembianze di una figura mitologica. Influenzata dallo sviluppo della cultura borghese, la Chiesa protestante ebbe alcuni teologi che cominciarono a sostenere, a partire dall'Illuminismo, che il Cristo dei vangeli era in realtà il Cristo inventato dalla comunità cristiana, così come questa aveva voluto costruirlo.

Da allora fu un fiume in piena. Gli studi si moltiplicarono: non solo i vangeli, ma anche tutto il Nuovo Testamento e i testi apocrifi furono reinterpretati. Le conclusioni più radicali di alcuni teologi furono che il Gesù storico doveva essere stato molto diverso dal Cristo teologico. Quanto più si teorizzava questa dicotomia, tanto più si finiva col pensare che Gesù fosse stato in realtà un politico sovversivo contro i Romani e contro la casta sacerdotale del Tempio, che collaborava col nemico. E che i vangeli avevano addossato tutta la responsabilità della sua morte ai capi-giudei proprio perché si voleva trovare un compromesso politico col potere romano. I cristiani cioè avrebbero accettato il dominio degli imperatori e il sistema schiavistico, a condizione di non essere costretti a riconoscere la pretesa natura divina agli stessi imperatori, né a partecipare ad alcun culto pagano pubblico, a favore di questa o quella città o istituzione. In pratica si fecero delle differenze di tipo religioso l'unica forma oppositiva al sistema.

Quando la classe borghese, che sosteneva le idee radicali del protestantesimo, si trovò ad essere contestata dal proletariato di idee socialiste, la figura di Gesù perse qualunque riferimento alla religione e cominciò a diventare chiaramente un qualcosa di sovversivo, come mai nessuna Chiesa avrebbe potuto accettare. Oggi addirittura si può arrivare a sostenere ch'egli fosse del tutto ateo e che le uniche divinità della storia siano gli stessi esseri umani, che hanno il compito di liberarsi, qui e ora, degli antagonismi sociali che li affliggono.

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9) È possibile una biografia attendibile del Cristo?

La domanda se fosse possibile una ricostruzione sufficientemente attendibile della vita di Gesù, visto che i vangeli sono per così dire viziati da una visione teologica degli eventi, e visto che, a tutt'oggi, non vi sono fonti alternative che li possano smentire in maniera evidente, non poteva emergere che in ambienti non strettamente confessionali.

I ritrovamenti dei manoscritti di Qûmran, sotto questo aspetto, sono stati abbastanza deludenti, anche se ci hanno aiutato a capire i rapporti tra esseni e battisti, tra esseni e il IV vangelo, tra esseni e la teologia sacramentaria del cristianesimo primitivo e, infine, tra essenismo e zelotismo poco prima della catastrofe del 70 d.C. Anche i codici di Nag Hammâdi (Egitto), trovati nel 1945, non hanno affatto costituito una svolta epocale. Molto più interessante invece è stata l'analisi scientifica della Sindone, che solo per un pregiudizio pseudo-ateistico o anti-clericale viene considerata un falso.

È senza dubbio vero che di nessun grande personaggio storico si può essere sicuri che le biografie tramandateci possano essere considerate attendibili. I grandi biografi del passato facevano gli interessi delle classi dominanti o erano addirittura sul libro-paga degli stessi sovrani di cui dovevano raccontare le gesta gloriose. Era quasi impossibile scrivere qualcosa in controtendenza, soprattutto se il sovrano era ancora vivo.

Inoltre, non esistendo la stampa, erano pochi i manoscritti che circolavano, per cui era relativamente facile toglierli di mezzo o manipolarli, se risultavano scomodi per qualche ragione. L'intellighenzia cristiana riuscì persino a modificare impunemente i testi di Flavio Giuseppe, che pur erano stati prodotti in un ambito giudaico favorevole al mondo romano. Anzi, non è da escludere che i suoi testi siano sopravvissuti proprio perché accusavano i Giudei d'essere stati la rovina di loro stessi.

Forse il primo esegeta neotestamentario che ha avuto il coraggio di tentare un'interpretazione della vita di Gesù radicalmente opposta a quella canonica dei vangeli, è stato Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), filosofo illuminista tedesco, di religione protestante, il quale poté avvalersi delle sue forti competenze in campo linguistico.

La sua tesi di fondo era che la vicenda di Gesù aveva connotati chiaramente politico-eversivi, che gli evangelisti avevano censurato, in quanto la loro preoccupazione era quella di presentare un Cristo teologico dalla natura sovrumana, capace di compiere miracoli e di risorgere dopo morto, quando in realtà il suo corpo fu trafugato dagli stessi apostoli per trovare un'alternativa alla sconfitta politica.

Oggi è difficile incontrare un esegeta autenticamente laico che possa prescindere in toto da una tesi del genere, per quanto essa presenti una contraddizione di non poco conto. Infatti, se davvero il Cristo è stato un politico rivoluzionario (contro Roma e i collaborazionisti sadducei, che gestivano il Tempio), è difficile pensare che ai suoi più importanti seguaci, gli apostoli, che sicuramente erano sediziosi come lui, sarebbe venuto in mente di far credere, al mondo ebraico cui appartenevano, che Gesù era stranamente scomparso dal sepolcro se non lo fosse stato per davvero.

Cioè quello che non regge nell'analisi di Reimarus è l'idea di attribuire a degli ebrei fortemente politicizzati un atteggiamento che risente di influenze ellenistiche, quelle che il cristianesimo subirà successivamente ad opera della teologia paolina (benché lo stesso fariseismo tendesse a credere nell'idea di resurrezione dei corpi, in polemica col materialismo sadduceo). E questo senza considerare che anche nel mondo di cultura non ebraica, quando si parlava di morte e resurrezione, si dava per scontato che si trattasse di una finzione letteraria, di una elaborazione mitologica, in cui appunto “si fingeva” di credere.

Nel mondo pagano si credeva nella “resurrezione” di figure che potevano essere paragonate agli dèi o erano esse stesse delle divinità, ma assai difficilmente si sarebbe presa questa cosa come storicamente attendibile. Nessuno si sarebbe messo a fare delle ricerche per dimostrarne la fondatezza. Paolo, all'Areopago, venne canzonato quando cercò di sostenere che Gesù Cristo era davvero risorto.

Dunque la tesi di Reimarus, relativa al trafugamento del corpo di Gesù, è un controsenso, proprio perché non tiene conto che nessun seguace del movimento nazareno si sarebbe fatto martirizzare per una cosa che avrebbe potuto tranquillamente essere considerata mitologica. Nessuno s'è mai fatto uccidere sulla base dell'idea che i racconti di Omero rispecchiavano assolutamente la realtà.

Attribuire – come fa Reimarus – a un intero movimento come quello nazareno (caratterizzato in maniera politicamente eversiva) la convinzione che Gesù era risorto, senza che nessuno sollevasse alcuna perplessità, alcuna obiezione, comporta inevitabilmente il rischio d'apparire antisemiti. Pur essendo l'Antico Testamento infarcito di racconti assolutamente leggendari, erano piuttosto gli ebrei ad accusare i pagani di credere nelle favole, la prima delle quali, al tempo di Gesù, era la divinizzazione degli imperatori.

Con ciò ovviamente non si vuole affatto sostenere che i racconti di riapparizione del Cristo scomparso siano veri; anzi, essi sono stati un tentativo poetico, molto ingenuo, di opporsi alla inevitabile contestazione dei nemici del protocristianesimo (che pur aveva molti elementi risalenti al giudaismo), secondo i quali erano stati gli stessi apostoli a nascondere il suo corpo per farlo credere ancora vivo (o intenzionato a ritornare in modo, questa volta, “glorioso”). Già l'evangelista Matteo aveva affrontato una questione del genere (27,62 ss.), pensando di risolverla mettendo delle guardie giudaiche davanti alla porta del sepolcro.

Una qualunque “ricomparsa” di un Cristo redivivo avrebbe violato, ipso facto, la libertà di coscienza degli appartenenti al movimento nazareno, in quanto, imponendo d'imperio la verità delle cose, avrebbe negato il diritto a non credere.

L'unica “prova” che gli apostoli avevano della misteriosa scomparsa di Gesù dalla tomba, era la sindone, che però non poteva “dimostrare” alcunché: ecco perché quando Pietro inventò la tesi del ridestamento miracoloso, decise di non avvalersi di quel reperto.

L'idea di “resurrezione” venne in mente a un apostolo proveniente dalla Galilea, ch'era una regione palestinese più influenzata dall'ellenismo di quanto non lo fosse la Giudea. Ad essa probabilmente si opposero tutti gli altri membri del Collegio apostolico, che infatti negli Atti degli apostoli scomparvero molto presto (tant'è che Luca avrebbe fatto meglio a intitolarli “Atti di Pietro e Paolo”). Poi l'idea di Pietro venne portata alle sue estreme conseguenze ellenistiche da Paolo di Tarso, il vero fondatore del cristianesimo.

Ora, premesso questo, che cosa è necessario fare, almeno in via preliminare, per avvicinarsi il più possibile alla verità sulle caratteristiche del Cristo?

La prima cosa da fare è quella di avere un atteggiamento sospettoso, guardingo, soprattutto nei confronti di tutto ciò che induce a credere in qualcosa di mistico o di sovrannaturale o di sovrumano. Certo, un esegeta può arrivare a dire che se dai vangeli si tolgono queste cose, resta ben poco. Tuttavia è proprio qui che s'impone la seconda cosa: saper andare al di là dell'apparenza, nella consapevolezza che raramente ciò che appare coincide con la verità delle cose, pur essendo l'esegeta in presenza di cose realmente accadute.

Delle due, infatti, l'una: o si rinuncia del tutto a interpretare delle fonti tendenziose e ci si limita a svolgere il ruolo di “storico del cristianesimo” o della Chiesa (come p.es. fece Ambrogio Donini), oppure ci si sforza di supporre o d'immaginare qualcosa di “umano”, soggetto a censura o falsificazione o mistificazione, a motivo di una certa interpretazione “teologica”, ovvero “mitologica” di fatti accaduti realmente.

Nel caso di Gesù bisogna partire da due presupposti fondamentali e, sulla base di questi, rileggersi le fonti tendenziose del N.T.

Il primo è quello che anche certa esegesi confessionale (soprattutto protestantica o cattolico-sudamericana) ha intravisto: la predicazione gesuana non aveva solo contenuti eversivi contro le autorità giudaiche connesse alla gestione del Tempio, e colluse con Roma, ma doveva avere anche dei contenuti politici contro l'occupazione romana, per cui la crocifissione non può essere considerata un errore giudiziario o il frutto di una debolezza politica di Pilato o di un raggiro ben orchestrato del pontefice Caifa o di un puro e semplice fraintendimento da parte di molti, bensì una scelta consapevole del potere romano in carica, eventualmente di concerto con la volontà giustizialista della casta sacerdotale.

Il secondo presupposto è non meno radicale, almeno sul piano ermeneutico: Gesù Cristo era ateo, per cui, se anche voleva compiere un'insurrezione nazionale, dai nemici interni ed esterni, non aveva in mente di realizzare alcun “regno di Dio”.

Naturalmente un qualunque esegeta (p.es. J. Jeremias) può sostenere che una tale rappresentazione della figura di Gesù non è che una proiezione della stessa concezione di vita della persona che l'ha formulata.35 Ma da una tale critica non ci si può far mettere in crisi, poiché l'elemento soggettivo (esigenze represse, istanze di liberazione, pregiudizi ideologici, retaggi culturali, condizionamenti educativi, ecc.), nell'elaborazione di determinate tesi interpretative, va dato per scontato. Qualunque “comprensione” parte sempre da una “pre-comprensione”. Si legga Gadamer per convincersene.

Ogni studioso, essendo situato storicamente in un determinato contesto socio-culturale e politico, ha dato un'interpretazione di Gesù e del suo movimento strettamente vincolata ai propri interessi, alle proprie aspirazioni, ai propri ideali. Bisogna prenderne atto ed evitare di dire che la propria metodologia non soffre di tali condizionamenti. Gli stessi vangeli vengono definiti “tendenziosi” proprio perché i redattori avevano come obiettivo principale quello di sostenere la “divinità” del Cristo (che è la cosa meno dimostrabile di questo mondo), spoliticizzandolo al massimo.

L'obiettività di un'argomentazione dipende dall'argomentazione stessa, non da qualche autorità dogmatica. Solo il tempo potrà dire quale tesi interpretativa risulta essere più obiettiva di altre. Nell'immediato il problema dell'obiettività può essere affrontato in maniera parziale e basandosi sulla concretezza delle applicazioni pratiche. Nel senso che se è valido il principio secondo cui il criterio della verità è la prassi, allora il confronto sulle interpretazioni dei fatti deve vertere anche sugli effetti pratici, sociologicamente rilevabili, che tali interpretazioni, in forma diretta o indiretta, hanno generato.

Se l'obiettivo di una determinata interpretazione dei vangeli è quello di affermare che in essi è presente un'istanza politica rivoluzionaria, l'esegeta non può non chiedersi dove, come e quando tale istanza ha trovato nella storia le applicazioni più coerenti o comunque più significative rispetto ai princìpi originari, e dove invece tali applicazioni si sono rivelate una forma di tradimento di quei princìpi. È tenuto a fare questo lavoro se non vuole rischiare di fare discorsi astratti, anche perché non può non sottoporre continuamente a critica le proprie stesse convinzioni.

Non può infatti essere considerato un caso che tutte le rappresentazioni teologiche o teologico-politiche del Cristo siano state funzionali agli interessi di un occidente (Europa e Stati Uniti) che si sentiva autorizzato a dominare il mondo. Quando incontriamo una teologia politica intenzionata ad opporsi a questo schema precostituito di tipo imperialistico, è perché essa è influenzata dalle idee del socialismo (vedi p.es. i testi prodotti dalla teologia della liberazione, ma anche in Europa si sono avute esperienze analoghe passate alla storia con nomi diversi: catto-comunismo, cristianesimo per il socialismo, e così via, per non parlare dei movimenti pauperistici ereticali del Medioevo, le cui istanze sociali emancipative giocavano un ruolo forte e che hanno sicuramente anticipato le stesse idee del socialismo).

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10) Per una esegesi critica

I

Al giorno d'oggi non ha più senso scrivere un testo su Gesù Cristo usando i “forse”, i “può darsi”, le frasi dubitative o interrogative, come se non fosse possibile fare altro. Non è più ammissibile lasciare alle confessioni cristiane il diritto d'interpretare un personaggio storico come questo, peraltro così indebitamente strumentalizzato, sotto il pretesto che le fonti sono quello che sono e altre non ne abbiamo.

L'esegesi confessionale non ha mai usato i “se” e i “forse”, e continua a non farlo. Sono circa due secoli che invece lo fa quella laica, per cercare di smontare l'avversaria, svelando le tante incongruenze delle fonti e le loro interne contraddizioni. Tuttavia è ora di superare questa fase di critica negativa.

Non possiamo aspettare di scoprire una fonte decisiva, che smonti in maniera incontrovertibile le consuete interpretazioni dei classici vangeli. Tutte le nuove fonti che dal 1945 ad oggi sono state ritrovate (dai codici di Nag Hammâdi ai rotoli di Qûmran) non ci hanno chiarito, in maniera definitiva, i dubbi e le perplessità che suscitano, a una lettura non superficiale, le cosiddette “fonti canoniche”.

Forse l'unica vera fonte che ci ha lasciato senza parole è stata, nell'ultimo secolo, la Sindone. Per noi infatti si può tranquillamente escludere che la complessità di quell'immagine sia da attribuire a un falsario.

Noi diamo per scontato che qualunque azione sovrumana abbia potuto compiere Gesù, in vita, costituisca una falsificazione o mistificazione operata dagli evangelisti o comunque dalle loro comunità di appartenenza. Stesso giudizio diamo per le frasi o i gesti di tipo mistico o religioso in cui egli si esprime. Siamo però disposti ad accettare l'idea che in quel lenzuolo funebre l'immagine si sia impressa in una maniera che sfugge alla nostra comprensione razionale. Tuttavia siamo lontanissimi dall'intenzione di costruirci sopra una nuova religione o di usare quel reperto per cercare delle conferme a favore del cristianesimo.

Questo per dire che oggi possiamo fare un passo avanti, rispetto alla tradizionale esegesi demitizzante (nata in ambito protestantico), e rischiare una lettura non dubitativa ma affermativa dei fatti riportati nei vangeli. Una lettura che sia la più possibile coerente, la cui credibilità stia proprio nella sua intrinseca organicità e non tanto nell'erudizione intellettualistica con cui si va a disquisire sul significato originario di questo o quel termine o singolo versetto.

Non possiamo soffermarci troppo sui significati reconditi delle parole. Non è possibile pensare che la semantica di un detto di Gesù, di una pericope o di un evento o dell'intera sua vicenda possa dipendere proprio da un qualche enigma o cripticità appositamente voluta dal redattore di un vangelo.

Dobbiamo abituarci ad avere uno sguardo d'insieme, senza soffermarci troppo sui particolari, anche se non è da escludere che proprio alcuni particolari possono aiutarci in maniera decisiva ad avere una visione olistica delle cose. Dobbiamo trovare il filo conduttore che tiene uniti gli eventi, nella consapevolezza che la ricostruzione sarà comunque limitata, benché non tendenziosa come quella confessionale.

Certamente siamo consapevoli che non tutti sono liberi di parlare, di dire quello che pensano: gli stessi evangelisti furono enormemente condizionati dall'egemonia di quella teologia che può essere definita col termine di “petro-paolina”.

Tuttavia qualunque redattore deve essere consapevole che se col suo testo vuole trasmettere un messaggio a qualcuno, non può pretendere che solo una mente sopraffina possa capirlo. Non ci piace pensare che il senso ultimo delle cose debba essere diffuso in virtù di un certo aristocraticismo intellettuale. Anche perché tale modo di esprimersi sarebbe del tutto contraddittorio a quello scelto da Gesù, che addirittura si rifiutò di lasciare qualcosa di scritto, sapendo evidentemente che la scrittura non offre maggiori garanzie di autenticità rispetto alla trasmissione orale delle conoscenze.

Se nei vangeli appaiono cose che apparentemente non hanno alcun senso (come p.es. maledire un fico che non dava frutti, essendo fuori stagione), ciò va attribuito esclusivamente agli autori dei vangeli, non a Gesù Cristo. E noi non possiamo perdere tempo nel cercare d'individuare l'esatto significato delle loro parole, anche perché, avendo a che fare con autori “sospetti”, si continuerebbe a restare entro il perimetro del loro misticismo.

Tornando alle questioni delle fonti, si può qui aggiungere che si è capito da un pezzo che su nessuna cosa (idea o fenomeno che sia) si possono avere delle prove schiaccianti, assolutamente inconfutabili. Il che però non vuol dire che dobbiamo essere dei relativisti assoluti, poiché anche una posizione del genere sarebbe dogmatica. Vogliamo semplicemente dire che alla verità oggettiva delle cose ci si può avvicinare soltanto in maniera graduale, nella certezza che una qualche oggettività necessariamente esiste.

Spesso la stessa scienza non è altro che un atto di fede, soprattutto quando si pensa che determinate scoperte o invenzioni non avranno conseguenze negative sull'ambiente e sulla vita umana. Oggi la laicità non si qualifica semplicemente perché dice di “pensare” o di “ragionare” e non di “credere”. Tutti crediamo in qualcosa, che lo si voglia o no. Al 100% non siamo sicuri di nulla. Ci giochiamo la nostra libertà di scelta all'interno di un certo margine d'incertezza. Siamo umani e non ce ne vergogniamo.

Un esegeta quindi non deve fare sfoggio di particolare erudizione, meno che mai se vuole rivolgersi a un pubblico di media cultura. Può ammettere tranquillamente, sin dall'inizio, di non sapere che poche cose essenziali, di non aver letto le oltre centomila biografie che negli ultimi tempi sono state scritte su Gesù Cristo. Se un esegeta dovesse prendere in esame tutte le versioni discordanti, presenti nelle fonti del cristianesimo primitivo, che si riferiscono a questo o a quel versetto o pericope, mostrando i pro e i contro, finirebbe con lo scrivere dei mattoni per pochi specialisti. La forza dei suoi ragionamenti deve invece stare nella capacità di argomentare determinate tesi. Il resto deve lasciarlo decidere alla storia. Le cosiddette “spiegazioni necessarie”, con cui oggi si cerca di dare un quadro sintetico della personalità di Gesù, sono numerosissime e molto diversificate: era un fanatico apocalittico (A. Schweitzer), un rabbi e un profeta che chiamò a una decisione esistenziale (R. Bultmann), un mago omosessuale contrario alla legge (M. Smith), un catalizzatore di rivoluzione sociale non violenta (R. A. Horsley), un politico rivoluzionario (K. Kautsky), un uomo carismatico dello Spirito che fondò un movimento di rivitalizzazione (M. J. Borg), e così via.

Le uniche cose che un esegeta laico non può permettere è che, in nome di una fede religiosa, tutti siano costretti a credere o comunque ad accettare una Chiesa di stato o uno Stato della chiesa o uno Stato confessionale. La libertà di coscienza è un valore che va difeso dalla coscienza della libertà.

Oltre a ciò è evidente che un esegeta laico non può interpretare i vangeli, neanche per un momento, così come i redattori volevano essere interpretati. Questo perché deve dare per scontato che le loro posizioni ideologiche sono fortemente tendenziose, non solo per il forte contenuto antisemitico, ma anche per la continua preoccupazione che hanno a trasformare, da un lato, l'ateismo del Cristo in una palese teologizzazione della sua vita personale e della vita umana in generale; e, dall'altro, a spoliticizzare al massimo la sua strategia insurrezionale contro l'occupazione romana e il collaborazionismo ebraico che la supportava. In entrambi i casi l'intenzione era e ancora oggi è quella di indurre quanti credono in lui a sostituire la parola “liberazione” con la parola “redenzione”, e a modificare l'obiettivo del “regno terreno” con quello del “regno celeste”.

Nelle intenzioni degli evangelisti il Cristo è “politicizzato” solo quel tanto che serve per opporsi alla casta sacerdotale, per la quale la religione era, peraltro, un tutt'uno con la politica. Il Cristo dei vangeli viene obbligato dai redattori a porre le premesse ideologiche per la nascita di una istituzione religiosa, la Chiesa, che non crede possibile la liberazione umana su questa Terra e che, nel contempo, non permette all'istituzione civile di agire in assoluta autonomia. Sarà infatti la Chiesa a spiegare ai sovrani ciò che è bene e ciò che è male sul piano teologico e persino etico (quante volte si è sentito dire dalle autorità ecclesiastiche che senza religione l'etica non può essere umana?).

Ovviamente ci rendiamo conto che, in teoria, tutte le fonti scritte rischiano di apparire come tendenziose, proprio perché esistono delle civiltà antagonistiche da almeno seimila anni. In genere gli intellettuali si pongono al servizio dei potenti, e quando non lo fanno, vengono facilmente travisati, manipolati o censurati. Nell'antichità, prima della nascita della stampa, era sufficiente modificare i pochi manoscritti esistenti, riscrivendoli in maniera appunto tendenziosa o capziosa, ed eliminando l'originale.

Oggi invece è sufficiente fare in modo che i mezzi di comunicazione non... comunichino nulla di autentico, nulla di originale. Uno può dire o scrivere ciò che vuole contro il sistema, ma difficilmente riuscirà a divulgare in modo significativo le proprie informazioni o interpretazioni.

Al tempo dei Greci e dei Romani erano i cosiddetti “barbari” ad essere ostracizzati, nonché tutti quelli che non parlavano greco o latino. Nel Medioevo l'ostilità ideologica era nei confronti della Chiesa ortodossa e dell'Impero bizantino, avvertiti nell'Europa occidentale come concorrenti molto più temibili degli Arabi o dei Turchi. In epoca moderna l'odio viscerale si è manifestato, in tutto il mondo, nei confronti delle idee social-comuniste.

Rebus sic stantibus: ha senso “citare le fonti”? Quali fonti possono pretendere maggiore attendibilità di altre? Esiste forse qualcuno che possa garantirlo? Il discorso qui sarebbe lungo, ma, se vogliamo essere concreti, è meglio sostenere che uno studio su Gesù Cristo può avere un qualche valore se ciò che si pensa di affermare può essere utilizzato come premessa per affrontare il nostro presente, impegnandosi per risolvere le contraddizioni che c'impediscono d'essere liberi.

Ovviamente non ha alcun senso fare di questa “premessa” il significato “integrale” della propria vita. Occorre uno svolgimento pratico della teoria, che porti a riformulare quest'ultima in chiave moderna e a trovare nuove soluzioni operative per il presente. Ciò d'altra parte sarebbe conforme allo stesso oggetto esaminato, cioè i vangeli, che sono appunto un invito a cambiare vita. E dobbiamo farlo in relazione all'epoca in cui viviamo, lontanissima da quella del movimento nazareno e del cristianesimo primitivo.

Chi pensa sia sufficiente un esame meramente “teorico” del “caso Gesù”, si è già posto fuori strada. Sarebbe come esaminare i grandi rivoluzionari della storia (Marx, Lenin, Trockij, Mao Zedong, Che Guevara, Ho Chi Minh...) senza chiedersi se quanto hanno detto e fatto abbia ancora un valore effettivo per il presente. Chi non attualizza le grandi idee e conquiste del passato, non è in grado di comprendere nulla in maniera adeguata.

II

Ora, per cercare di semplificare questa introduzione di carattere generale, è sufficiente prendere in esame la questione centrale di tutti i vangeli: la cosiddetta “tomba vuota” del Cristo.

Un esegeta laico non può pensare che la constatazione della tomba vuota sia stata un'invenzione degli apostoli. Se si pensa che il corpo di Gesù sia stato trafugato da loro per far credere ch'era risorto, allora si dovrebbe affermare che il cristianesimo è equivalente a una falsificazione in piena regola: il che però ci aiuta poco a capire il suo incredibile successo.

Se invece l'esegeta accetta l'idea di una strana scomparsa di un corpo sicuramente deceduto, allora può anche pensare d'essere in presenza di una mistificazione. Nel senso cioè che l'interpretazione della tomba vuota come “resurrezione” è stata un atto arbitrario, privo di riscontri attendibili, in quanto Gesù non poteva riapparire, dopo morto, senza violare la libertà di coscienza degli uomini, discepoli o meno che fossero.

La verità non può mai essere un'evidenza che si autoimpone. Se il Cristo è scomparso in maniera strana, in quanto non era esattamente un essere umano come tutti gli altri, allora solo dopo essere morti gli uomini potranno appurarlo. Prima di quel momento è impossibile.

Questo per dire che il cristianesimo, basandosi sull'assunto paolino secondo cui “se il Cristo non è risorto, vana è la nostra fede”, è una religione che sul piano laico e logico non ha senso. Infatti è proprio il credere in un Cristo risorto, senza averlo rivisto e senza poterlo rivedere finché si è vivi, che rende puerile questa fede.

Che il Cristo sia risorto o no, è del tutto irrilevante rispetto al compito che l'uomo deve avere di credere in se stesso, nelle proprie capacità di liberarsi delle contraddizioni che lo fanno soffrire. Credere in un Cristo “risorto” significa non credere nell'autonomia dell'essere umano, che è quella stessa autonomia per la quale egli ha lottato sino all'ultimo dei suoi giorni.

Quindi se c'è qualcosa che ha “tradito” il messaggio originario del Cristo, questo è proprio il cristianesimo, sin dalle sue origini, cioè a prescindere dalle differenti correnti in cui si è sviluppato.

Tutta l'esegesi “critica” che è stata elaborata per distinguere una corrente “cristiana” da un'altra, non è servita a chiarire che qualunque corrente “cristiana” si pone automaticamente in antitesi al messaggio originario del Cristo, pur essendo diversificate le forme e le modalità tra l'una e l'altra.

Se davvero vuole essere “critica”, un'esegesi deve porre come elemento discriminante fondamentale, sul piano metodologico, il fatto che Cristo era ideologicamente ateo e politicamente rivoluzionario; e, sulla base di questo assunto, reinterpretare tutte le suddette correnti.

Le falsificazioni (cioè le invenzioni in senso stretto) e le mistificazioni (cioè le interpretazioni distorte di fatti reali) vanno smascherate in rapporto a questo assunto metodologico preliminare. Confrontarsi con gli studiosi che non l'accettano, non serve a nulla. Un'esegesi “critica” può essere soltanto laica. Un'esegesi “confessionale” non potrà mai diventare “critica”.

Forse a qualcuno può apparire esagerato che, per essere “critici”, si debba parlare di un “Cristo ateo”. Infatti, quando nel passato l'esegesi laica ha introdotto l'argomento di un Cristo politicamente eversivo, non ha mai messo in discussione ch'egli volesse realizzare il cosiddetto “regno di Dio”. Ebbene anche qui occorre fare un passo avanti.

Che Gesù sia stato un ateo è dimostrato dal fatto che non discute mai di argomenti strettamente religiosi. I pochi che appaiono nei vangeli: la resurrezione dei morti, il perdono dei peccati, il principale comandamento di Dio, la natura del matrimonio, la preghiera, i due sacramenti del battesimo e dell'eucaristia, l'identità di Padre e Figlio, la figura dello Spirito Santo ecc., sono tutti argomenti chiaramente redazionali, cioè attribuiti a lui da comunità cristiane già ben strutturate.

Gli unici tre momenti realistici, in materia di “religione”, si trovano nel vangelo di Giovanni, e due sono relativi al periodo iniziale della sua vita pubblica: il primo, quando l'autore dice che Gesù non battezzava mai, anche se lo permetteva ai suoi discepoli provenienti dal movimento del Battista (4,2); il secondo, quando Gesù dice alla samaritana (4,21) che un credente dovrebbe essere lasciato libero di pregare il suo Dio dove e come vuole (col che poneva le basi della libertà di coscienza). Il terzo momento è quello in cui Gesù dichiara il proprio ateismo dicendo che tutti gli uomini sono dèi (10,34).

*

Tuttavia sulla parola “ateismo” dobbiamo chiarire alcune cose, prima di chiudere questa introduzione, e saranno considerazioni che non piaceranno agli atei tradizionali.

Se si leggono i vangeli in greco, ci si accorge abbastanza facilmente che là dove si parla di “resurrezione”, si dà per scontato che il protagonista sia stato lo stesso Gesù e non Dio, come invece appare chiaramente negli Atti degli apostoli e nelle Lettere paoline.

Nel vangelo di Marco persino quando si dice che Cristo “spirò”, si evita di dire – a differenza degli altri tre evangelisti – che “rese lo spirito”, cioè il pneuma. Per l'evangelista “spirare” è un semplice sinonimo di “morire”, senza implicazioni mistiche. Viceversa per Lc 23,46 quel verbo significa “rimettere lo spirito nelle mani del Padre”, lasciando così credere, pur senza dirlo esplicitamente (cosa che però farà negli Atti) che il Padre fu l'autore della resurrezione del Figlio.

Quando Marco scrive “è risorto”, dà per scontato che Gesù l'abbia fatto da solo, senza bisogno di supporti esterni. Si può addirittura presumere che nel Marco originario (Ur-Markus) il termine “Dio” non fosse neppure presente, in quanto Gesù viene fatto apparire così grande da ritenere legittima la sua equiparazione con Dio. Infatti quando compie i suoi miracoli (che pur sono chiaramente inventati), non ha bisogno di alcun intervento divino.

Tutto ciò cosa ci porta a pensare? Una cosa molto semplice: Gesù era un ateo e, dopo la sua morte, qualcosa di “ateistico” è rimasto nei vangeli, pur nella mistificazione religiosa compiuta dai suoi apostoli (o da alcuni di essi).

In effetti, se ci pensiamo bene, l'idea di far risorgere Gesù da solo (per quanto questa idea si possa prestare a negare l'esigenza di una insurrezione antiromana), rende inutile l'esistenza di un Dio onnipotente. Se l'esegesi laica vuol ammettere che Gesù, in via del tutto ipotetica, può essere risorto da solo, non essendo esattamente uguale all'essere umano, allora deve anche arrivare alla conclusione che non esiste alcun dio che non sia umano.

Cerchiamo di capire fino a che punto può spingersi un'esegesi laica senza tradire se stessa. Abbiamo già detto che non si può parlare di “resurrezione”, ma solo di “scomparsa misteriosa di un corpo fisicamente morto”. Giovanni ci tiene a precisare che il decesso è attestato dal colpo di lancia del soldato che si accontentò di trapassare il cuore di Gesù, invece di rompergli le ginocchia. E la Sindone ha confermato questo particolare. Quindi la morte non fu apparente.

Senonché oggi diamo per scontato che non sia possibile “rivedere” un corpo “redivivo”, in quanto ciò violerebbe la libertà di coscienza, che va lasciata libera di credere o di non credere. Se il Cristo fosse davvero riapparso, non si potrebbe parlare di “fede” nella resurrezione. Invece i cristiani ne parlano proprio perché il corpo non è più stato rivisto vivo, anche se le varie comunità si sono inventate dei racconti in cui ciò risulta vero. Questo perché là dove c'è “mistificazione” è facile che vi sia anche “falsificazione”.

I racconti di riapparizione sono stati inventati proprio perché è molto difficile, anzi impossibile credere nella “resurrezione” (o ridestamento da morte sicura) di un corpo umano. Tanto meno lo si può credere se non lo si è rivisto coi propri occhi. Questo perché, se anche qualcuno (che aveva visto quel corpo quand'era vivo) dicesse di averlo rivisto dopo che era morto, potrebbe sempre incontrare qualcun altro che, pur avendo anch'egli visto quel corpo quand'era in vita, si chieda come mai non sia riuscito a rivederlo dopo la sua resurrezione. È questa, in sostanza, l'obiezione di carattere generale dell'apostolo Tommaso: “non credo se non vedo”.

*

Che cos'è dunque il cristianesimo? La fede nella resurrezione di Gesù o la fede nella dichiarazione della sua resurrezione? Per come sono andate le cose, il cristianesimo è nato come fede nella dichiarazione che ha fatto Pietro circa la modalità in cui Gesù è scomparso dal proprio sepolcro. Il cristianesimo è nato nel momento stesso in cui la tomba vuota è stata interpretata come “resurrezione”, nonostante che nessuno abbia potuto rivedere fisicamente il corpo redivivo.

Il cristianesimo è una creazione di Pietro, cui Paolo ha dato un risvolto altamente mistico e teologico, equiparando Gesù al “Figlio di Dio”. Nell'immaginario di Pietro Gesù è Dio, ed essendo tale, la resurrezione doveva implicare una parusia trionfale più o meno immediata. Viceversa, nell'immaginario di Paolo Gesù è “l'unigenito Figlio di Dio”, in quanto il momento della parusia può essere deciso solo da Dio.

Pietro si è piegato a tale interpretazione quando si rese conto che la parusia non si sarebbe verificata secondo le sue aspettative. Egli ha “tradito” Gesù proprio nel momento stesso in cui ha interpretato falsamente la tomba vuota, inducendo il movimento nazareno a rinunciare all'insurrezione antiromana, o meglio, ad attendere passivamente il ritorno trionfale del Cristo, ritenuto imminente. Rispetto a questo tradimento il suo rinnegamento, quando Gesù era ancora vivo, è stato ben poca cosa.

Vi è quindi una linea di continuità abbastanza coerente tra la teologia petrina, che da quella zelotica passò a quella mistica, in virtù appunto dell'interpretazione della tomba vuota come “resurrezione”, e la teologia paolina, che da quella farisaica integralistca passò anch'essa a una posizione mistica, anzi ancora più teologica, in virtù dell'interpretazione della tomba vuota come “esclusiva figliolanza divina del Cristo”. Paolo non fece che rinunciare alla parusia immediata, inerente al concetto di resurrezione, che nell'ideologia galilaico-zelotica di Pietro aveva ancora degli addentellati politico-nazionalistici, procrastinandola alla fine dei tempi, quando si sarebbe trasformata in “giudizio universale” per un regno esclusivamente ultraterreno.

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11) I vangeli e il genere fantasy

I vangeli possono essere letti in maniera metalinguistica, andando a cogliere, nei vari episodi, gli agganci a questo o quel genere letterario. Vediamo ora le affinità col genere “fantasy”, dopodiché passeremo al genere “fantastico” o “surreale”.

Fantasy

I temi tipici del genere letterario detto “fantasy” si ritrovano negli stessi vangeli cristiani, salvo la distinzione tra invenzione e falsificazione, essendo più che altro i vangeli, che pur non disdegnano l'invenzione, come nel caso dei racconti di resurrezione, una falsificazione di episodi realmente accaduti.

Il “fantasy” in fondo è solo un gioco innocente, in cui al massimo possono celarsi dei pregressi un po' traumatici, che lo scrittore ha saputo sublimare mettendosi appunto a scrivere fiumi di parole, spesso con degli intrecci assurdamente arzigogolati. I vangeli invece sono un'opera di finissima mistificazione, in cui ogni parola è stata sapientemente pesata.

Tuttavia può apparire curioso rilevare come possano esistere così tante analogie. Vediamo le principali.

La magia, nell'uso della mente, del corpo, degli oggetti. Anche Cristo risana in maniera sovrannaturale molti malati giudicati inguaribili, semplicemente toccandoli con un dito o esigendolo con un atto di volontà. Lo vediamo anche moltiplicare pani e pesci, camminare sulle acque, placare una tempesta sul lago di Galilea con un comando perentorio, trasfigurarsi sul Tabor, riapparire dopo morto...

La lotta tra il bene e il male, considerando, quest'ultime, come due realtà ipostatizzate, immodificabili. Anche nei vangeli molti gruppi politici e/o religiosi, come p. es. i sadducei, gli erodiani, i farisei, i sommi sacerdoti..., vengono ritenuti capaci di grande perfidia, non hanno alcuna possibilità di compiere azioni positive in autonomia o comunque la loro capacità di bene, al cospetto di Gesù, è limitatissima, proprio perché rappresentano sempre e comunque i “nemici” da biasimare, da criticare, da condannare sul piano morale e da non prendere mai come esempio di applicazione della legge, delle regole della civile convivenza.

L'ambientazione vaga e indefinita, specie sul piano cronologico. Nei Sinottici tutta l'attività di Gesù è racchiusa nell'arco di un anno, ma nel vangelo di Giovanni gli anni della predicazione sono almeno tre. Incerta è la data di nascita del messia (si pensa tra il 7 e il 4 a.C.); impreciso il luogo di nascita: Betlemme o Nazareth; oscura l'origine paterna; frequentissimo l'uso dell'espressione “in quel tempo”, analogo a quello fiabesco di “c'era una volta”; molto sommarie le descrizioni dei luoghi.

Il frequente ricorso alla suspence e ai colpi di scena. Uno stile, questo, molto evidente nei racconti di guarigione, il cui finale lascia gli astanti senza parole.

Il linguaggio ricco di figure retoriche. Nei vangeli le parabole eccellono in questo, ma lo si ritrova anche nei discorsi alle folle (p. es. là dove Gesù parla di “sale e luce”) e persino nel memoriale eucaristico cannibalico (p. es. pane-corpo, vino-sangue).

L'obbligo di risolvere quiz e indovinelli da parte dell'eroe protagonista: cosa che si verifica puntualmente nei vangeli là dove i farisei sottopongono a Gesù tutta una serie di quesiti e domande di natura politica, allo scopo di trarlo in inganno, di coglierlo in fallo, per poi poterlo denunciare.

Il riconoscimento, allorquando l'eroe protagonista in incognito o in privato rivela la sua vera identità, oppure questa viene manifestata da altri in pubblico. Anche Gesù chiede ai risanati di non rivelare che è stato lui a guarirli e, se questi vengono esorcizzati, lo vieta espressamente ai demoni, che appaiono ben consapevoli della sua natura divina. E tuttavia, sapendo che gli uomini sono deboli per natura e che si esaltano quando pensano d'aver trovato un supereroe, egli prevede che faranno il contrario di quanto chiesto loro. Anche ai discepoli impone di non rivelare pubblicamente che è lui il messia e solo a quelli più fidati fa capire d'essere più di un uomo, d'essere il figlio unigenito di dio, in grado di ricevere da dio stesso, al momento del battesimo e della trasfigurazione, la testimonianza che la vantata figliolanza divina è del tutto legittima e veritiera: cosa che gli riconosce personalmente anche il Battista, l'ultimo grande profeta ebraico.

Il viaggio verso un luogo predestinato. È vero che Gesù si muove in varie direzioni, ma la principale resta indubbiamente quella verso Gerusalemme, dove sa che l'attende un destino di morte e di resurrezione, un destino di sconfitta e di vittoria: egli è sicuro di vincere, anche se la maggioranza del suo popolo non vorrà riconoscerlo. Non ha paura della morte, anzi l'affronta con molto coraggio, come un vero eroe che sa di essere invincibile.

La ricerca di un oggetto prezioso o magico, simbolo di grande valore, da cui dipende la salvezza di un personaggio o di un'intera collettività. Questo oggetto nei vangeli è chiaramente la grazia divina che induce ad aver fede in Gesù come essere sovrumano, capace addirittura di vincere la morte su di sé; la fede in lui come figlio di dio, in grado di compiere opere prodigiose, sovrannaturali. Il Cristo chiede di credere in lui come soggetto trascendente in forza delle opere straordinarie che compie e che pur non vorrebbe compiere, temendo che il consenso ricevuto sia soltanto relativo ai favori concessi o alle dimostrazioni eccezionali delle proprie capacità. Tuttavia, per dimostrare che non vuole abusare della propria grandezza, si lascerà uccidere senza reagire, anche se non potrà impedire a se stesso di risorgere. Una volta risorto, per dimostrare ancora la sua grandezza d'animo, non farà strage dei suoi nemici, ma a tutti darà il tempo necessario per ravvedersi delle proprie colpe.

La riconquista del potere da parte dell'eroe protagonista. Inizialmente gli apostoli hanno pensato che ciò sarebbe accaduto molto presto, mediante una trionfale parusia che avrebbe sancito definitivamente la sua superiorità sui nemici. Poi cominciarono a dilazionare nel tempo la conquista del potere, finendo col credere che il ritorno glorioso del Cristo neppure lui poteva deciderlo, ma solo chi gli era superiore, e cioè dio-padre.

Dunque, come si può facilmente notare, le analogie tra il genere “fantasy” e i vangeli non sono poche. Vi sono tuttavia altre due differenze non meno significative di quella detta nella premessa: nei vangeli l'eroe può vincere sui suoi nemici soltanto e unicamente morendo, poiché solo così potrà definitivamente dimostrare, risorgendo, d'essere il figlio di dio, cioè superiore alla morte in quanto essere invulnerabile.

La seconda differenza sta nel fatto che nei vangeli Gesù, una volta risorto, non ha fretta nel voler compiere la sua idea di giustizia (il cosiddetto “giudizio universale”), poiché vuole offrire agli uomini un lunghissimo tempo per pentirsi del male compiuto. Nei racconti di fantasy invece l'autore non ha tutto questo tempo da aspettare, e il lettore meno di lui: le storie devono avere un inizio e, in tempi ragionevoli, una fine.

Fantastico o Surreale?

Definiamo le caratteristiche fondamentali del genere “fantastico” o “surreale” e vediamo se vi sono corrispondenze nei vangeli cristiani.

Viene narrata una vicenda che ha la pretesa di apparire vera, reale o comunque verosimile, anche in virtù di taluni particolari, relativi ad ambienti o personaggi, che offrono l'impressione di una qualche attendibilità storica.

In tale vicenda vi sono degli episodi che contengono aspetti irreali o fantastici, nel senso che la realtà tende a sfumare nella finzione.

I fatti non possono essere interpretati in maniera del tutto razionale e il lettore, alla fine del racconto, si trova come spaesato, confuso.

Il narratore però vuole convincere il lettore a considerare autentici anche i fatti che gli possono apparire più incredibili, la cui verità non sta in se stessi ma in qualcosa a loro superiore, umanamente poco comprensibile.

Com'è facile notare, tutte queste caratteristiche si applicano perfettamente ai vangeli, specie a quei racconti in cui più risaltano aspetti o situazioni di tipo sovrumano: miracoli, guarigioni, resurrezione con apparizione del risorto, ma anche quando il protagonista fa delle profezie su di sé, che poi si realizzeranno puntualmente.

Che cosa può aver indotto gli evangelisti a elaborare una descrizione fantastica della vita di Gesù? Perché non si sono limitati a farne una di tipo realistico? Uno dei motivi, forse il più banale, sta nel fatto che quando si comincia a dare delle spiegazioni surreali a un episodio ritenuto decisivo, poi, per restare coerenti con l'idea di fondo, si è indotti a usare lo stesso tipo d'interpretazione anche per molti altri fatti meno importanti.

La prima spiegazione surreale che la comunità cristiana ha dato della vita di Gesù non riguarda la sua vita ma la sua morte. Di fronte al fatto strano, misterioso, della tomba vuota si è fatta passare come vera la sola interpretazione della resurrezione, che venne ideata per la prima volta da Pietro.

Accettata questa, che incontrò probabilmente non poche contestazioni, tutte le altre vennero di conseguenza: un uomo che si “desta” dalla morte può aver fatto in vita qualunque cosa. Si passò così da una mistificazione a un'altra, al punto che alla fine diventava quasi irrilevante essere convinti che il Cristo fosse risorto perché faceva miracoli o il contrario, ch'egli aveva potuto fare miracoli prodigiosi proprio perché era risorto. Un uomo che vince la morte, mostrando d'essere un dio, può tranquillamente aver vinto, in vita, ogni malattia e superato qualunque ostacolo materiale e naturale. Che poi abbia accettato di farsi crocifiggere, questo è un altro discorso.

A questo punto vien da chiedersi se negli episodi in cui appaiono i suoi poteri miracolosi possa essere contenuto qualche elemento di verità o se invece non siano tutti quanti completamente inventati. Ebbene, se accettiamo l'idea che un racconto evangelico miracoloso non possa contenere alcun elemento di verità, l'interpretazione si ridurrà a ben poca cosa, in quanto si concentrerà inevitabilmente sulle sole contraddizioni del racconto, per mostrarne appunto l'inattendibilità.

Tuttavia noi, di fronte a racconti di questo genere, non dobbiamo comportarci come investigatori del crimine o come saccenti eruditi. Dobbiamo soltanto cercare di capire il motivo per cui, ad un certo punto, invece di raccontare tutta la verità, si sia preferito trasformarla in finzione.

I vangeli infatti avrebbero potuto essere scritti in maniera realistica, raccontando la vita di Gesù per quello che effettivamente era stata, eventualmente aggiungendo solo nella parte finale l'interpretazione fantastica della tomba vuota, quella petrina della resurrezione. Che cosa sarebbe cambiato? Per quale motivo gli evangelisti hanno avvertito il bisogno di mistificare non solo la morte di Gesù, ma anche la sua stessa vita? Inserendo continuamente elementi surreali in una descrizione realistica, non rischiavano forse di far apparire assurdo tutto il vangelo?

Vien quasi da pensare che la decisione di mistificare anche la vita di Gesù non sia stata una cosa di cui si poteva fare a meno: la strada era obbligata. Ma in che senso? Il motivo questa volta non è banale: la vita di Gesù non è mai stata quella di un uomo religioso, ma quella di un uomo politico e, per giunta, di uno che voleva liberare la Palestina dai Romani. La sua vita era l'esatto opposto di quel che si è voluto rappresentare nei vangeli.

Ora, se si fosse stati realistici nel descrivere questa vita, limitandosi a fantasticare sulla sua morte, che impressione si sarebbe lasciata al lettore?

Uno avrebbe potuto pensare che se era davvero risorto, prima o poi sarebbe dovuto ritornare per completare ciò che aveva iniziato, e siccome tutta la sua vita era stata di natura politica, il ritorno (la parusia) avrebbe dovuto avere caratteristiche analoghe.

Un altro invece avrebbe potuto pensare che la comunità, trovandosi orfana e sconfitta, s'era illusa di poter sopravvivere, di poter continuare la missione di lui in chiave mistico-poetica, inventandosi un'interpretazione del tutto fantasiosa della sua fine (in tal senso lo stesso racconto della tomba vuota rientrerebbe nel genere surreale).

Qualcun altro, infine, avrebbe potuto chiedersi il motivo per cui, di fronte alla cattura di Gesù, e al suo processo davanti alle folle di Gerusalemme, il movimento nazareno, che pur in quella occasione stava per compiere un'insurrezione armata, non fece assolutamente nulla per liberarlo.

Forse è stata quest'ultima possibile lettura dei fatti che ha indotto gli evangelisti (espressione redazionale di una comunità) a mistificare l'intera vita di Gesù, mirando a far credere che la croce rientrava in realtà in un misterioso progetto salvifico che dio-padre aveva per l'umanità intera.

Cristo è morto in croce perché non poteva che morire così; il movimento nazareno non ha responsabilità alcuna di questa morte; essa è servita per far capire agli ebrei che il loro primato storico, etico e politico, era finito e che d'ora in avanti essi sarebbero stati uguali ai pagani, avendo il compito di accettare il Cristo non come liberatore politico nazionale ma come redentore morale universale.

Questo per dire che ogniqualvolta s'incontrano, nei vangeli, dei racconti fantastici, lì va vista una sorta di mistificazione spiritualistica di un evento realmente accaduto, che quasi sicuramente aveva una connotazione politica. La religione, che è misticismo, magia, fede in cose sovrannaturali, viene usata proprio per falsificare delle vicende che sarebbero risultate nocive agli interessi della comunità cristiana post-pasquale, in quanto ne avrebbero messo in luce degli aspetti spiacevoli.

In altre parole, gli evangelisti non ebbero soltanto la preoccupazione (ad extra) di dimostrare alle autorità romane che i cristiani non andavano considerati politicamente pericolosi, ma anche quella (ab intra) di celare agli stessi seguaci del Cristo la pusillanimità che i nazareni avevano dimostrato nel momento decisivo dell'insurrezione armata.

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Conclusione

Che cosa può aggiungere l'esegesi laica a tutto ciò che fino adesso è stato detto, dando per scontato che l'idea di “resurrezione” abbia un qualche significato realistico? Ciò su cui si può discutere in maniera astratta o ipotetica, senza poter formulare delle tesi assodate, riguarda le seguenti riflessioni, che qui però vogliamo porre solo in via introduttiva.

Supponendo che Gesù sia stato una specie di “extraterrestre”, giunto sul nostro pianeta per indicarci la strada che dobbiamo percorrere per essere davvero “umani”, per quale motivo non si è sottratto alla fine terribile che gli uomini gli hanno riservato? Non avrebbe potuto indicarci ugualmente la strada da percorrere morendo di vecchiaia, senza dover subire una violenza così orribile? Se aveva la possibilità di sottrarsi a una fine così ingloriosa, perché non l'ha usata?

Queste, probabilmente, sono state le prime domande che gli apostoli, in maniera molto laica, si sono posti quando hanno visto vuota la tomba, alle quali però hanno dato risposte completamente sbagliate, perché appunto di tipo religioso. Nelle loro risposte, infatti, il Cristo appare di natura sovrumana, cioè in maniera assolutamente artificiale.

A dir il vero il principale apostolo, responsabile di tale travisamento dei fatti, è stato – come già detto – il solo Pietro, che è a monte del vangelo di Marco. Degli altri apostoli sappiamo soltanto che Giovanni cercò di confutarlo col suo vangelo, la cui redazione originaria ci è giunta quasi irriconoscibile, a causa delle tantissime manomissioni.

Purtroppo nessun vangelo, né quelli canonici né quelli apocrifi, ci consente di rispondere alle suddette domande. Quando illustrano la vita di Cristo, lo fanno a partire non dalla vita stessa, ma dall'interpretazione mistificata della tomba vuota come “resurrezione”, anche quando non parlano affatto della sua morte. Sicché tutto diventa falsato.

Dunque, si può forse trovare una risposta “umana”, cioè non “religiosa”, a quelle domande? Ecco forse potremmo trovarla se considerassimo Gesù Cristo come una sorta di essenza umana universale, un prototipo dell'umanità, il quale, essendo determinato dal principio della libertà, non può imporsi sul genere umano. Può soltanto indicare la strada. Il percorso su questa strada va lasciato completamente alla libertà umana. E in questo percorso gli esseri umani devono cercare d'essere se stessi, cioè liberi.

Pertanto non è possibile restare indifferenti a ciò che impedisce alla libertà d'essere se stessa, di manifestarsi per quello che è. L'insegnamento di Gesù consiste appunto in questo, che, di fronte ai condizionamenti che impediscono alla libertà di esprimersi per quello che è, bisogna reagire, anche a costo di sacrificare la propria vita.

Non c'è nulla di più grande della libertà: libertà di essere se stessi, di vivere un'esistenza degna d'essere vissuta, una vita umana e secondo natura, che non violi la libertà altrui. Non è la verità che rende liberi, se questa verità è un'acquisizione meramente intellettuale. Semmai è vero il contrario: è la libertà che ci rende veri. Ma la libertà, per essere vera, deve esserlo per tutti. Ecco perché, se è giusto lottare per la verità, lo è ancora di più per la libertà, la quale, per definizione, implica la giustizia sociale. Una vita senza questa libertà, non vale nulla, non merita d'essere vissuta. Si deve lottare affinché tutti siano liberi, uomini e donne.

Ecco, in questo senso bisogna dire che siamo “copie” di un prototipo, cioè riflesso di qualcosa di originario, immagine e somiglianza di qualcuno che è umano come noi e che è in grado di deificarci come lui.

Non solo, ma dobbiamo anche aggiungere che questo qualcuno non è un'identità singola, bensì duale, in quanto divisa per genere maschile e femminile. Non esiste affatto una rappresentazione esclusivamente maschile dell'essenza umana universale. Deve per forza essercene una anche femminile. Non riconoscere questo principio fondamentale ci porterebbe subito in un vicolo cieco. Bisogna quindi dare per scontato che in origine non vi è affatto l'uno, bensì il due. L'essenza umana è una (nel senso di unita in se stessa), unica (nell'intero universo) e duale (divisa per genere).

Tuttavia, se in origine vi è un'identità sdoppiata, in cui elementi si compenetrano e si completano a vicenda, pur restando distinti e distinguibili nelle loro rispettive identità, bisogna anche dire che la religione non ha alcun senso. Le religioni, infatti, credono in qualcosa di assolutamente diverso dall'uomo. Noi invece vogliamo credere che l'identità originaria sia del tutto umana.

Le religioni attribuiscono all'identità divina delle caratteristiche sconosciute all'uomo, quando invece tra il prototipo e la copia non vi è una differenza sostanziale su quell'aspetto di fondamentale importanza che è la libertà: libertà di coscienza e coscienza della libertà.

Una volta concessa, la libertà non può più essere tolta o coartata. Non può neppure essere aumentata, in quanto la libertà, come essenza, è quello che è. Può essere aumentata o diminuita la forma in cui viverla o la consapevolezza in cui la si vive, ma non la sua natura intrinseca.

Il prototipo dell'umanità non è in grado di prevedere le scelte della libertà, proprio perché questa è libera di fare ciò che vuole. L'unica cosa stabilita a priori dal prototipo è che la libertà è davvero libera solo entro determinati limiti. Sono questi limiti che garantiscono l'esercizio umano della libertà. E i limiti sono sempre i soliti due: la libertà deve essere umana e naturale. Ciò che va oltre questi limiti (tautologici) rende impossibile la libertà.

Non esiste quindi pre-scienza o pre-veggenza, ma solo convinzione che gli uomini, alla lunga, non riescono a vivere oltre i limiti in cui la libertà deve essere vissuta. La libertà, infatti, una volta posta, non può più essere cancellata. Non la si può manipolare a proprio piacimento. L'uomo può soltanto impedire a se stesso di sentirsi libero, ma non può impedirsi d'essere libero, poiché si è liberi in quanto umani.

Anche quando s'impedisce ad altri d'essere liberi, gli altri possono sempre ribellarsi. Non è possibile creare essere umani privi di libertà o con una libertà ridotta al minimo. La libertà è la principale facoltà della coscienza. La coscienza può essere piccola o grande, ma, se c'è, non può più non essere. Negli animali o nei robot non esiste coscienza e non potrà mai esserci.

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1 Attenzione che col concetto di “laicità” non va intesa la possibilità di permettere alla Chiesa di concepirsi politicamente o anche solo giuridicamente come uno “Stato” all'interno di un altro Stato. Una presenza ecclesiastica del genere nega, ipso facto, qualunque laicità statale. “Laicità” vuol dire piuttosto “separazione” di Chiesa e Stato, e in campo culturale vuol dire “interpretazione umanistica”, dove qualunque aspetto “religioso” è escluso a priori, anche quando viene usato in senso metaforico o simbolico, anche quando lo si vuol far passare, come fece Maritain, dietro formule che il laicismo potrebbe in via di principio accettare, come quella dell'“umanesimo integrale”.

2 Da notare che anche gli imperatori romani stavano cominciando ad appropriarsi di un titolo del genere, sicché, se il Cristo l'avesse effettivamente usato per sé, sarebbe apparso ugualmente un sovversivo, proprio per motivi “teologici”, i quali, in tal caso, sarebbero stati strettamente connessi a quelli “politici”. Consapevole che nell'umanesimo laico del Cristo vi era un aspetto politico rivoluzionario che si doveva sì censurare ma non del tutto, il cristianesimo petro-paolino, per non apparire alla stregua di una delle tante religioni pagane o orientali, è stato costretto, nella propria opera di mistificazione, a porsi, sin dall'inizio, come una “teologia politica”.

3 Su quest'ultimo punto vorremmo fare la seguente precisazione. Forse a qualcuno parrà strano che io non consideri del tutto inverosimile il racconto della tomba vuota. Non può infatti essere ritenuto impossibile che una cultura o mentalità mistica possa aver elaborato un racconto del genere per sostenere la tesi della resurrezione di Gesù. La mitologia pagana non era aliena a casi del genere. Un'esegesi laica avrebbe potuto dire che i redattori cristiani non avevano inventato alcunché di nuovo. In fondo l'idea di resurrezione poteva anche essere interpretata come un ingenuo tentativo di dimostrare che con la morte del Cristo non era finito tutto e che i suoi discepoli avevano voluto, in qualche modo, proseguire il suo messaggio, nel senso che non si erano rassegnati a quella inaspettata tragedia (che poi, per eccesso di misticismo, vollero far credere che lo stesso Gesù l'aveva più volta preannunciata). Tuttavia io resto dell'avviso che se l'idea di resurrezione è politicamente mistificante, in quanto basata su supposizioni e congetture, il racconto della tomba vuota, depurato da ogni elemento mistico, può essere considerato realistico, nel senso che si trattò di una pura e semplice constatazione di fatto: l'unico elemento rimasto a disposizione dei discepoli di Gesù, relativamente alla sua sepoltura, fu appunto la Sindone, cioè il lenzuolo usato per avvolgere il suo corpo insanguinato.

4 È noto, tuttavia, che i farisei già credevano nell'idea di resurrezione, per cui non è da escludere che Pietro l'avesse presa da loro.

5 Naturalmente qui non si può togliere legittimità all'idea che anche una conoscenza adeguata della natura extraterrena del Cristo non avrebbe potuto di per sé impedire di dubitare delle sue intenzioni “pacifiche”. Se prendiamo come punto di riferimento i racconti o i film di fantascienza è rarissimo vedere gli umani guardare con fiducia gli extraterrestri. Il pacifismo del Cristo storico, quello reale, poteva essere adeguatamente compreso solo mettendolo in relazione all'idea di giustizia sociale e di liberazione nazionale.

6 Difficile però non vedere che la Riforma era già stata in parte anticipata dalla tarda Scolastica, quella più sovversiva, sviluppatasi in Inghilterra e Scozia (Duns Scoto, Guglielmo di Ockham, Ruggero Bacone), che porrà le basi, pur senza volerlo, al sensismo ed empirismo inglesi, che, come minimo, si dichiareranno agnostici. Invece possiamo tranquillamente dire che del secolo d'oro dell'esegesi cattolica (1563-1663), oggi non è rimasto assolutamente nulla. Non c'è studioso contemporaneo che ricordi le opere controriformistiche di Tommaso de Vio, detto “Caietano”, Cornelio Musso, Girolamo Seripando, Isidoro Clario (Taddeo Cucchi di Chiari), Luigi Lippomano, Antonio Agelli (Agellius), Giovanni Stefano Menocchio, Alfonso Tostado, Alfonso Salmeron, Juan Maldonado, Francesco Toledo, Benedetto Pereyra, Manuele Sa, Francesco Rivera, Benedetto Arias Montano, Girolamo Oleaster di Azambuia, Francesco Foreiro, Giacomo Bonfrère, Nicolò Serario, Giacomo Tirino, Giovanni Gordon, Cornelius Cornelissen van den Steen.

7 Anthony Collins, nel suo Discourse on the Grounds and Reasons of the Christian Religion del 1724, fu forse il primo a capire che i redattori evangelici avevano interpretato arbitrariamente taluni passi dell'Antico Testamento per far credere che la venuta del Cristo era già stata anticipata profeticamente.

8 L'ateo John Toland fu il primo a sostenere nel suo testo Nazarenus che per capire il cristianesimo post-pasquale bisogna riservare un posto privilegiato alla setta degli Ebioniti, i quali, pur accettando la messianicità del Cristo, rifiutavano l'idea della sua divinizzazione operata dalla teologia paolina.

9 Thomas Chubb arrivò a sostenere, nel 1734, che la predicazione del Cristo andava considerata molto diversa da quella degli apostoli, e che se anche si accetta l'idea della sua resurrezione, ciò di per sé non può essere considerato una prova che la sua missione era di natura divina.

10 Peter Annet fu forse il primo che nella sua Resurrection of Jesus (1744) arrivò ad affermare che sarebbe stato meglio considerare Paolo il vero fondatore del cristianesimo. Per questo e per aver negato qualunque valore ai miracoli e alla resurrezione di Gesù fu condannato alla gogna pubblica e ai lavori forzati.

11 Thomas Woolston, coi suoi Six Discourses on the Miracles of Our Saviour (1727-29), fu forse il primo ad aprire le porte alla demitizzazione dei vangeli, sostenendo che andavano interpretati soltanto in maniera allegorica e non letterale, in quanto era assurdo credere nei miracoli. Per questa sua tesi fu condannato a pagare una forte multa e, siccome non aveva soldi, finì il resto della sua vita in prigione.

12 Oltre a Reimarus vanno segnalati, in quel periodo, altri importanti esegeti tedeschi, persuasi che nei vangeli vi fossero falsificazioni vere e proprie, dovute al fanatismo degli apostoli: H. E. G. Paulus, K. F. Bahrdt e K. H. Venturini, tutti teologi protestanti, favorevoli a una religione della ragione. Di loro non esiste nulla tradotto in italiano.

13 Di questo libro, pubblicato nel 1906, esistono varie edizioni e ristampe presso Newton Compton, Queriniana, Laterza e TEN.

14 Il suo libro, Das Leben Jesu, di oltre 600 pp., dopo la prima traduzione italiana nel lontano 1863, è stato ristampato dall'editore La Vita Felice, Milano 2014 in due volumi, col titolo La vita di Gesù o esame critico della sua storia.

15 Di lui in lingua italiana non si trova nulla dedicato ai vangeli. Viene ricordato solo in rapporto a K. Marx in merito alla questione ebraica. Nel 1996 è apparso un suo breve testo antihegeliano del 1841, La tromba dell'ultimo giudizio contro Hegel ateo ed anticristo. Un ultimatum (Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli), ristampato nel 2014 da edizioni Immanenza. Le idee sulla non-storicità del Cristo furono riprese da Albert Kalthoff e Arthur Drews.

16 Secondo C. H. A. Drews invece (che faceva parte della scuola mitologistica) era stato il mito a creare la figura storica del Cristo. Su questo concordavano D. Robertson, A. Kalthoff e A. Niemoyewski.

17 Non furono pochi i cosiddetti “modernisti” a pensarla come Loisy: tra i maggiori cultori del cristianesimo primitivo, George Tyrrell (perseguitato da papa Pio X ed espulso dai gesuiti), Henri Bremond (abbandonò i gesuiti e fu sospeso a divinis), Ernesto Buonaiuti (sacerdote cattolico scomunicato e privato della cattedra universitaria), Salvatore Minocchi (sospeso a divinis), Joseph Turmel (scomunicato e interdetto dall'insegnamento), Umberto Fracassini (destituito sia dall'incarico di rettore che da quello di professore di Sacra scrittura), Giovanni Genocchi (interrogato dal Sant'Uffizio, fu poi spedito in Sudamerica per un certo tempo). Tuttavia, se con loro fu chiara la differenza tra Gesù e la Chiesa, non si può dire che, sul piano esegetico, fecero significativi passi avanti rispetto alla teologia liberale.

18 Su questo punto l'anti-Schweitzer (cioè l'anti-apocalittico) fu M. J. Borg, Conflict, Holiness, and Politics in the Teachings of Jesus (Mellen Poetry Press 1984, ristampato nel 1998 da Bloomsbury T&T Clark).

19 Come si può facilmente notare Kähler negava nettamente che i vangeli fossero nati con intenti mistificatori verso il Gesù storico. Egli voleva porre gli esegeti davanti a un'alternativa radicale: o Gesù non è mai esistito, e allora è inutile discutere sulle motivazioni per cui gli evangelisti han voluto far credere il contrario; oppure, se è esistito, non era molto diverso da ciò che i vangeli dicono. Abbastanza ingenuamente egli poneva il problema nei seguenti termini: finché non abbiamo prove concrete, fattuali, che dimostrano la tendenziosità dei vangeli, noi dobbiamo considerarli autentici. I sospetti maturati da Reimarus ad oggi possono portare soltanto alla fine della religione cristiana. Da notare che sulla base di questa tesi si era costretti a considerare la tradizione sinottica superiore a quella giovannea, proprio perché quest'ultima veniva giudicata troppo teologicamente elaborata, quando invece il vangelo originario di Giovanni era nato contro i Sinottici.

20 Di Käsemann bisognerebbe leggersi anche Prospettive paoline, ed. Paideia, Brescia 1972; L'appello alla libertà: indagine polemica sul Nuovo Testamento, ed. Claudiana, Torino 1972; L'enigma del quarto Vangelo Giovanni: una comunità in conflitto con il cattolicesimo nascente?, ed. Claudiana, Torino 1977.

21 Sul titolo di “messia” vorremmo fare questa precisazione. È noto che il cristianesimo primitivo non aveva molta difficoltà a chiamare Gesù con questo titolo politico-eversivo. Il che può apparire strano. Si può tuttavia pensare che, siccome il cristianesimo petro-paolino aveva già rinunciato all'idea di un Cristo politico, l'uso di quel “titolo” poteva essere inteso in chiave polemica nei confronti del giudaismo, che dichiarava (e lo fa ancora oggi) d'essere in attesa di un messia liberatore. L'idea di “messia” che avevano i cristiani era completamente condizionata dall'idea petrina di “resurrezione” e soprattutto da quella paolina di “figliolanza divina”, con la quale non ci si riferiva più a un liberatore nazionale di uno specifico popolo oppresso, ma semplicemente, soprattutto dopo la catastrofe del 70, a un redentore dell'intera umanità, schiava del peccato originale. La realizzazione dell'idea di un messia anche liberatore (sempre dell'intera umanità) è stata rimandata alla fine dei tempi, quando avverrà il giudizio universale.

22 Un riassunto delle sue tesi si può trovare in un testo curato da J. H. Charlesworth, L'ebraicità di Gesù, ed. Claudiana, Torino 2002. Di Charlesworth bisognerebbe leggersi anche Gesù nel giudaismo del suo tempo alla luce delle più recenti scoperte, ed. Claudiana, Torino 1994.

23 Su questo argomento bisogna leggersi L. Baeck, Il Vangelo: un documento ebraico, ed. Giuntina, Firenze 2004; E. Zolli, Il Nazareno, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2009; Robert E. Van Voorst, Gesù nelle fonti extrabibliche. Le antiche testimonianze sul maestro di Galilea, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2004.

24 Si noti che la riscoperta del giudaismo rabbinico e farisaico è presente anche nel testo di J. Neusner, Il giudaismo nella testimonianza della Mishnah (EDB, Bologna 1995). Ma per capire bene l'influenza del giudaismo sul N.T. bisognerebbe leggere i testi di Bruce Chilton, assai poco tradotto in italiano, in particolare quello pubblicato insieme a Craig A. Evans, Jesus in Context: Temple, Purity and Restoration (Leiden, New York: Brill, 1997). Di rilievo anche il testo di S. Ben-Chorin, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, ed. Morcelliana, Brescia 1985.

25 Ci piace qui ricordare, anche se deceduto nel 1971, Samuel G. F. Brandon, cui siamo particolarmente debitori: Gesù e gli Zeloti, ed. Rizzoli, Milano 1983, ristampato da Pgreco nel 2014 insieme a Processo a Gesù. Zelota, sedizioso e sovversivo nel 2015.

26Su questo argomento bisogna leggersi Gesù e i messia di Israele. Il messianismo giudaico e gli inizi della cristologia, a cura di A. Guida - M. Vitelli, ed. Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2006; G. Boccaccini, I giudaismi del Secondo Tempio. Da Ezechiele a Daniele, ed. Morcelliana, Brescia 2008; G. Boccaccini - P. Stefani, Dallo stesso grembo. Le origini del cristianesimo e del giudaismo rabbinico, ed. Edb, Bologna 2012; P. Sacchi, L'apocalittica giudaica e la sua storia, ed. Paideia, Brescia 1990; Id., Gesù e la sua gente, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2003; Id., Storia del Secondo Tempio, ed. Sei, Torino 2002.

27 Peraltro gli esegeti son sempre lì a lagnarsi che Gesù Cristo non abbia scritto una sola parola e non s'accorgono ch'egli ci ha lasciato molto di più: il suo corpo impresso nella Sindone, che sulla sua identità ci dice molto di più di tutti i vangeli messi insieme. D'altra parte gli esegeti sono intellettuali cattedratici: non possono mettere sullo stesso piano un papiro con un lenzuolo. E così, mentre la Sindone la reputano di dubbia provenienza, sono invece disposti ad attribuire grande importanza a papiri e pergamene solo perché questi presentano una “scrittura”. Piuttosto che considerare la Sindone il documento più autentico di tutto il Nuovo Testamento, si sentono più legati a testi scritti da persone anonime, facenti parte di comunità non ben identificate, le cui fonti tendenziose sono state sottoposte a continue revisioni. Le versioni definitive che abbiamo, spesso non collimano tra loro, sono infarcite di miti e leggende, e soprattutto risultano di molto posteriori ai fatti che raccontano.

28 Cfr “Scienze sociali e ricerca sul Gesù storico”, in Il nuovo Gesù storico, cit.

29 Ida Magli, Gesù di Nazareth, ed. Rizzoli, Milano 2004.

30 L'opera fondamentale di K. Kautsky, L'origine del cristianesimo, ed. Samonà e Savelli, Roma 1970.

31 La scienza storica, ed. Laterza, Bari 1974, p. 30.

32 La conoscenza storica, ed. Il Mulino, Bologna 1975, p. 232.

33 Metodologia della ricerca storica, ed. Il Mulino, Bologna 1975, p. 509.

34 Se si porta alle conseguenze più logiche questa impostazione delle cose, si arriva abbastanza facilmente all'ateismo, in quanto un essere umano a immagine della divinità, rende quest'ultima non così decisiva ai fini della identità umana.

35 James D. G. Dunn si chiede, esaminando le tesi del Cristo politicizzato di Richard A. Horsley, se “sia stato capace di evitare l'errore di quei vecchi liberali che proiettavano su Gesù le loro proprie priorità dipingendolo come riformatore sociale” (Gli albori del cristianesimo, vol. I, ed. Paideia, Brescia 2006, p. 74). Dicendo questo però non s'accorge di non essere riuscito a evitare l'errore di parlare di “proiezione” ogniqualvolta un esegeta dipinge Gesù in maniera non conforme alla rappresentazione che ne danno i vangeli. Chissà poi perché si parla di “proiezione” soprattutto quando ci si raffigura il Cristo come un soggetto politico-rivoluzionario. La “proiezione” esiste ovunque, anche da parte degli evangelisti o della teologia petro-paolina.


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