DANTE ALIGHIERI (1265-1321)

DANTE ALIGHIERI (1265-1321)

Nasce a Firenze nel 1265. Il padre, che svolgeva una piccola attività di cambiatore e prestatore di denari, vantava ascendenti nobili. Lo stesso Dante, nel Paradiso, fa risalire le sue origini a Cacciaguerra, un trisavolo vissuto nel XII sec., che morì combattendo i musulmani durante la IIa crociata. La famiglia quindi era della piccola nobiltà (le rendite erano derivate anche dal possesso di alcuni terreni e case). Questo permise a Dante di non svolgere alcuna attività lavorativa e di dedicarsi liberamente agli studi e ai divertimenti propri delle persone del suo ceto.

La sua prima formazione intellettuale consiste in studi di grammatica e logica. Studiò retorica con Brunetto Latini e ancora giovanissimo si dedicò alla poesia divenendo amico di Guido Cavalcanti e Lapo Gianni. Le sue Rime furono soprattutto dedicate ad esaltare -secondo la maniera del Dolce Stilnovo- una donna: Beatrice (forse Bice di Folco Portinari), morta nel 1290. Dedicata completamente a lei è anche la Vita Nuova (1293), dopodiché Dante s'orienta verso gli studi filosofici e teologici.

Nel 1295 si iscrive all'Arte dei medici e degli speziali: condizione necessaria, questa, per accedere alle cariche pubbliche, voluta dagli imprenditori e dalla borghesia bancaria e mercantile delle Arti maggiori ("popolo grasso") che si erano coalizzati col ceto più modesto dei lavoranti e degli artigiani ("popolo minuto") per escludere dal potere i nobili ("magnati"), cioè i grandi proprietari terrieri, che rappresentavano l'antica classe dirigente, non iscritta ad alcuna Arte o Corporazione.

Dante, sul piano politico, si schiera con i guelfi (filo-papalini) di parte "bianca", che, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, rivendicavano una certa autonomia dalla politica papale di Bonifacio VIII, che voleva limitare alquanto la grande indipendenza di quasi tutte le città toscane. Acceso partigiano dei Bianchi era Guido Cavalcanti. I Bianchi, cioè i settori più democratici del popolo "grasso" e "minuto", erano in contrasto con i guelfi di parte "nera", capeggiati dai Donati: essi rappresentavano i magnati uniti con la borghesia più benestante. Come tali, essi erano ostili all'espansione dei ceti popolari e, siccome erano politicamente più deboli, rispetto ai Bianchi, cercavano l'appoggio del papato.

Dopo aver fatto parte del Consiglio dei Cento, che aveva funzioni amministrative, Dante viene eletto priore nel 1300. I Priori erano i rappresentanti politici delle Arti più antiche e costituivano una delle magistrature più importanti del Comune di Firenze. Mentre Dante era in carica, la situazione politica di Firenze era caratterizzata da scontri durissimi, anche armati, tra le due fazioni, tanto che, ad un certo punto, i Priori decisero di esiliarne i capi e gli elementi più intolleranti. Dante dovrà acconsentire, con amarezza, al bando dell'amico Cavalcanti.

Intrighi e discordie però continuarono. Bonifacio VIII voleva a tutti i costi che i Neri trionfassero a Firenze. L'occasione si presenta proprio mentre Dante era in missione diplomatica presso la curia pontificia. A Firenze, sotto l'apparenza di paciere, fa il suo ingresso Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello, re di Francia. Le sue reali intenzioni erano quelle di eseguire i disegni del papa e, infatti, dopo aver preso possesso della città con un colpo di stato, impone il governo dei Neri ed esilia tutti i leader dei Bianchi.

Dante apprende a Siena, sulla via del ritorno, che il podestà di Firenze aveva emesso contro di lui una sentenza che prevedeva due anni di confino, l'esclusione a vita dagli uffici pubblici e una pena pecuniaria sotto l'accusa (falsa) di peculato (sottrazione illecita di denaro pubblico). Dante non accettò la condanna, non si presentò a pagare né volle giustificarsi. E così con una seconda sentenza lo si condanna al rogo nel caso in cui entri nel territorio di Firenze. In un primo tempo Dante si unisce, per tentare di rovesciare il governo dei Neri, ad altri esiliati Bianchi e ad alcuni superstiti ghibellini, ma, sconfitto sul piano militare, decide poi di separarsi dai suoi alleati, affrontando definitivamente l'esperienza dell'esilio.

In questa seconda parte della sua vita egli scriverà le sue opere più significative: De vulgari eloquentia, Convivio, De Monarchia, Commedia. Fra il 1304 e il 1308 è ospite presso varie corti d'Italia: Verona, Treviso, Padova..., svolgendo incarichi di vario genere. Nel 1310 spera che con la discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo, imperatore del Sacro romano impero, il papato possa subire una sconfitta, ma l'improvvisa morte dell'imperatore nel 1313 vanifica ogni progetto.

Nel 1315 il governo di Firenze offre a Dante un'amnistia a condizione che si dichiari colpevole: al suo netto rifiuto, Firenze risponde rinnovando, a lui e ai suoi figli, la condanna a morte. Morirà a Ravenna nel 1321.

Breve biografia politica di Dante

Dante rimase guelfo di parte bianca (un cattolico non integralista, come i Neri, ma democratico) praticamente sino al 1302, anno in cui inizia il suo esilio da Firenze. In quell'anno viene condannato al rogo per non aver pagato la penale di 5.000 fiorini comminatagli dai guelfi di parte Nera.

Cercò quindi di avvicinarsi ai ghibellini per cacciare i Neri da Firenze, ma il tentativo, condotto anche militarmente, fu vano. Un secondo, ultimo e inutile tentativo venne condotto nel 1304, sempre in virtù dell'alleanza tra Bianchi e ghibellini.

Quando, alla fine del 1310, l'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo decise di scendere in Italia, per far valere i suoi diritti imperiali, ricevendo subito a Milano la corona ferrea e trovando buona accoglienza da parte dei Comuni, Dante, appoggiando entusiasticamente l'iniziativa (cfr De Monarchia), mostrava d'essere chiaramente un ghibellino.

Ma Arrigo, invece di muovere contro Firenze, si fermò a Pisa (1312) e poi andò a Roma, a farsi confermare imperatore. Parteggiando per i ghibellini nella lotta politica contro i guelfi, fece occupare Roma militarmente, mettendosi in aperto contrasto col re di Napoli Roberto d’Angiò, capo dei guelfi, e con Firenze, loro roccaforte (quest'ultima non riuscì ad espugnarla).

A Roma si fece incoronare da un cardinale, grazie ad una insurrezione popolare. Alleandosi con Venezia e con Federico II d’Aragona, re di Sicilia, tentò di organizzare una spedizione contro Roberto d’Angiò, ma morì improvvisamente per febbri malariche a Buonconvento nel 1313, prima di riuscire a restaurare l’autorità imperiale.

Un anno dopo Dante pubblica l'Inferno e nel 1315 viene di nuovo condannato a morte dal governo fiorentino dei Neri. Si reca dai Polentani di Ravenna intorno al 1318, ove scriverà il Paradiso, e anche lui morirà di malaria, durante una missione diplomatica a Venezia, nel 1321.

IDEOLOGIA E POETICA

Dante era un aristocratico per origine e per educazione. Non aveva alcuna simpatia per la società borghese, della quale disprezzava l'avidità del guadagno, il lusso, la corruzione dei costumi. Si era iscritto a una delle Arti maggiori perché costretto dalla legislazione popolare, altrimenti sarebbe stato escluso da ogni partecipazione autorizzata alla vita pubblica. Dante non vedeva neppure di buon occhio l'immigrazione dei contadini che venivano in città per cercare lavoro. Alla Firenze della fine del XIII sec. egli opponeva la Firenze della prima metà del sec. XII, che era sotto il dominio rigoroso dei nobili.

In teoria quindi egli avrebbe dovuto trovarsi dalla parte dei Neri. Non lo fece semplicemente perché la nobiltà del suo tempo era non meno corrotta della borghesia e perché gli sembrava di poter realizzare meglio il suo ideale di "nobiltà democratica" nel partito dei Bianchi, che in quell'occasione era meno fazioso e più deciso nell'opporsi all'ingerenza del papato. In esilio si staccherà anche dai Bianchi, divenuti non meno faziosi dei Neri, riponendo le sue speranze nell'intervento di Arrigo VII. Crollata quest'ultima illusione, Dante affiderà alla Commedia il compito di contestare lo spirito del suo tempo.

Le Rime: poesie assai varie per contenuto: amicizia tra spiriti eletti, raffinati ragionamenti d'amore, fuga in un mondo ideale, cortigiano, sottratto alla materiale vita quotidiana, ecc. Si ispirano ai provenzali e ai siciliani.

Vita Nuova (1292-3): romanzo misto di versi e prosa. Dante narra di aver incontrato per la prima volta Beatrice quand'egli aveva 9 anni (numero simbolico), di averla rivista 9 anni dopo e di essersene innamorato (soprattutto per la sua gentilezza). Ricevutone il saluto, il poeta, secondo le regole dell'amore cortese, cerca di nascondere i suoi sentimenti dietro l'apparente amore per altre donne. Tale comportamento suscita però l'accusa di leggerezza da parte della gente, per cui Beatrice gli nega il saluto. Il poeta allora si accontenta di celebrare nella poesia le virtù di Beatrice, la quale però muore giovanissima. Il dolore del poeta troverà vero conforto nel fatto ch'egli promette a se stesso di non scrivere più nulla su di lei, almeno sino a quando non potrà farlo come lei meritava veramente.

- Come si può notare, l'opera costituisce un'autobiografia giovanile in gran parte ideale, ricca di elementi simbolici, nella quale Dante cerca di offrire una concezione molto spiritualizzata dell'amore. Beatrice infatti viene contemplata come simbolo della perfezione divina, come vertice o somma di tutte le virtù umane. La donna angelicata serve qui a far maturare nel poeta la fede religiosa. Ogni particolare realistico è assente. Con la Vita Nuova si chiude l'esperienza stilnovistica di Dante.

Convivio (1304-7): scritto in esilio, in lingua volgare, quindi con scopi divulgativi tra gli ambienti colti laici. Doveva essere di 15 trattati, ma Dante ne scrisse solo quattro. Aspetti più significativi: 1) esaltazione del volgare scritto; 2) spiegazione che la Bibbia va interpretata secondo 4 sensi: a) letterale (senso comune delle parole), b) allegorico (senso recondito delle parole), c) morale (senso edificante delle parole), d) anagogico (senso mistico delle parole); 3) esalta la filosofia e la natura razionale dell'uomo; 4) afferma che la vera nobiltà deriva non dalla nascita né dalla ricchezza, ma dall'esercizio delle virtù morali; 5) desidera mostrare, con la sua grande cultura, ch'egli è meritevole d'essere richiamato in patria.

De Vulgari Eloquentia (1304): scritto in latino, destinato ai dotti, soprattutto agli ecclesiastici, senza fini divulgativi. Lo scopo è quello di definire una lingua volgare che possa conseguire un'alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle molte parlate regionali e sottraendosi all'egemonia del latino. Secondo Dante gli idiomi in Europa erano tre: germanico, greco e romanzo (quest'ultimo viene suddiviso in tre lingue: OIL, della Francia; OC, della Provenza; Sì, dell'Italia. La lingua del Sì è composta da 14 dialetti). Il latino è considerato come una sorta di "grammatica universale" che permette ai popoli d'intendersi al di sopra degli idiomi particolari.

- Il volgare illustre (scritto) per Dante non può essere il frutto di fattori storico-naturali, in quanto l'Italia, divisa in tanti Stati, non favorisce la formazione di un'unica lingua nazionale. Di conseguenza, il volgare illustre può essere solo una costruzione artificiale di scrittori, poeti ecc., che devono sforzarsi di depurare il loro dialetto da tutte le forme più rozze e provinciali. Quindi non uno ma più volgari illustri dovranno formarsi: sarà poi il tempo a decidere chi di essi dovrà prevalere. Il modello di riferimento per la costruzione della frase doveva restare il latino e al massimo il provenzale (ch'era già illustre). Per Dante il volgare avrebbe dovuto essere, oltre che "illustre", anche "cardinale" (come un cardine attorno al quale devono ruotare le minori parlate locali), "aulico" (degno d'essere ascoltato in una aula o corte regale), "curiale" (adatto all'uso di un'assemblea legislativa). Nella Commedia Dante usa il fiorentino.

De Monarchia (1310-13): scritto in latino, in occasione dell'impresa di Arrigo VII, destinato a un pubblico colto, senza confini di nazionalità. a) Nel Io libro Dante ritiene che la Monarchia del Sacro romano impero sia voluta da Dio: essa non sopprime i vari Stati o monarchie nazionali, comuni, signorie..., perché è come un "superStato" che risolve i conflitti interstatali, impedendo il ricorso alla forza. b) Nel IIo libro afferma che il Sacro romano impero è la continuazione di quello romano, il quale era stato voluto anch'esso da Dio per unificare tutto il mondo civile di allora, permettendo così che si formasse un cristianesimo universale. c) Nel IIIo libro sostiene che papato e impero sono due poteri voluti da Dio ("diarchia"): il primo per le cose spirituali, il secondo per quelle temporali. Non ci deve essere subordinazione dell'uno all'altro, ma coordinazione (teoria dei "due soli" contro la teoria di Bonifacio VIII del "sole-chiesa" e della "luna-impero", che brilla di luce riflessa).

- Qui Dante difende un'istituzione, l'Impero, che ai suoi tempi era già profondamente in crisi, a causa degli emergenti Stati nazionali e del potente sviluppo dei Comuni e delle Signorie.

LA DIVINA COMMEDIA

Date di inizio e di conclusione. L'opinione accolta dai più autorevoli studiosi colloca l'Inferno tra il 1307 e il 1309, subito dopo l'interruzione della stesura del Convivio e del De Vulgari Eloquentia (il Boccaccio afferma che i primi 7 canti sono pre-esilici); il Purgatorio tra il 1310 e il 1313, durante la discesa in Italia di Arrigo VII; il Paradiso dal 1315 al 1321 (divulgato postumo dai figli).

Titolo. Quello esatto è Comedìa: l'appellativo "divina", attribuito dal Boccaccio, è apparso per la prima volta, come parte integrante del titolo, in un'edizione veneziana del 1555.

Stile e Genere letterario. Il titolo si riferisce sia al contenuto del poema, che -come le composizioni narrative di carattere "comico"- ha un principio triste e una fine lieta; sia alla forma, in quanto Dante intendeva comporre il poema nello stile medio o "comico", accessibile a tutti, non nello stile elevato o "tragico" (vedi ad es. l'Eneide), e neppure nello stile "elegiaco", proprio delle composizioni di argomento più familiare. Tuttavia, Dante è un polilinguista, cioè applica ai vari personaggi del poema diverse modalità espressive, utilizzando sia lo stile medio che quello alto.

Lingua. Dante attinge dal dialetto fiorentino, senza adottare come criterio di scelta la letterarietà-nobiltà delle parole, per cui fa posto anche a termini familiari (ad es. dindi) o addirittura popolaresco-scurrili (ad es. puttaneggiare, merdose ecc.). Oltre a ciò usa molti latinismi (p.es. appropinquare), alcuni gallicismi (p.es. masnada), e s'inventa parole nuove (p.es. dismalare). Questo smentisce clamorosamente la soluzione ch'egli prospettò nel De Vulgari Eloquentia, secondo cui gli intellettuali dovevano elaborare un volgare illustre, sopradialettale, aldilà delle parlate regionali. La "smentita" tuttavia è stata una delle più felici della letteratura italiana, sebbene apprezzata tardivamente, in quanto, a partire dal '500, si considerò il volgare illustre del Canzoniere del Petrarca il modello da imitare.

Motivi d'ispirazione. Nel 1304 Dante si stacca dai Bianchi, rinunciando a rientrare in Firenze con la forza delle armi. Giunge a comporre la Commedia quando si accorge che non potevano più bastare un trattato come il Convivio e alcune esortazioni epistolari rivolte a re-imperatori-principi-città per indurre i poteri politici a ridare lustro agli ideali della chiesa e dell'impero. Per farsi ascoltare, Dante fa leva sul suo genio poetico, delineando, con colori molto vivaci e con fare da "profeta biblico", i tratti del male che caratterizzano le istituzioni e i personaggi del suo tempo, nella speranza di poter indurre l'umanità intera a una rigenerazione politica e religiosa.

Fonti d'ispirazione. 1) Letteratura d'oltretomba medievale, ovvero i poemi allegorici detti "Visioni", in cui si rappresentano le pene dei dannati e le beatitudini degli eletti; 2) profezie bibliche che preannunciano eventi buoni o calamità punitive per gli uomini; 3) soprattutto il VI libro dell'Eneide, dove Virgilio rappresenta la discesa di Enea negli Inferi (Ade).

Elementi culturali. Quelli che hanno influenzato il poema sono tratti da: 1) Filosofia di Aristotele, 2) Cosmologia di Tolomeo, 3) Filosofia e Teologia di s. Tommaso d'Aquino, 4) Teologia e Letteratura mistica di s. Bernardo di Chiaravalle e s. Bonaventura, 5) Letteratura classica: Omero, Orazio, Ovidio, Cicerone e soprattutto Virgilio.

SCHEMA GENERALE DELL'OPERA

- La Commedia è un poema didattico-allegorico, avendo per soggetto lo stato delle anime dopo la morte e per fine la felicità degli uomini. Il poema descrive la storia fantastica di un viaggio che Dante compie a 35 anni per i tre regni dell'aldilà (secondo la concezione medievale), sotto la guida di Virgilio (Inferno e Purgatorio), Beatrice (Paradiso) e s. Bernardo (Empireo). La data d'inizio di questo viaggio -che dura la settimana di pasqua- è la notte del 7 aprile 1300, l'anno del grande Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII.

- Il poema si compone di tre Cantiche (Inferno-Purgatorio-Paradiso), articolate in 100 canti: 33 canti per ogni Cantica, più uno introduttivo al poema, posto nella prima Cantica.

- La forma metrica usata è la terzina di endecasillabi a rime alternate: cosa che produce un forte effetto di concatenazione.

- In questo schema si riscontra la tendenza alla simmetria, per lo più fondata sui numeri 3 e 9 (ad es. la terzina, 9 cerchi dell'Inferno, delle sezioni del Purgatorio, dei cieli del Paradiso, ecc.). Le tre Cantiche si chiudono con la parola "stelle".

STRUTTURA ARCHITETTONICA E COSMOLOGICA

- Dante riprende dalla cultura del suo tempo la concezione geocentrica dell'universo, cioè la cosmologia aristotelico-tolemaica, secondo cui la terra è immobile al centro dell'universo e tutto ruota attorno ad essa. La terra sarebbe circondata da 10 cieli concentrici, di cui quello esterno (Empireo) è immobile, perché sede di Dio, mentre gli altri 9 ruotano ognuno secondo un proprio moto. Di questi 9 cieli, 7 appartengono ai pianeti (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno), uno alle stelle fisse e l'ultimo (Primo mobile) dà inizio al movimento universale. Tutti questi cieli sono mossi dall'attività di 9 schiere di angeli, disposte gerarchicamente, che, ricevendo l'impulso da Dio (Motore immobile), lo distribuiscono per le sfere.

- Sulla terra, sede dell'uomo, piovono dall'alto le influenze celesti, mentre dal basso, dall'interno della terra dove dimora, sale l'influsso di Satana-Lucifero, il quale, cacciato dai cieli per la sua superbia e precipitato sulla terra, ha formato una specie di voragine il cui apice è al centro del globo.

- La terra è divisa in due emisferi, detti Boreale o della terra (a nord, abitato) e Australe o dell'acqua (a sud, disabitato): quindi la terra, in un certo senso, galleggia sull'acqua. E' l'emisfero Boreale che si è formato a causa della caduta di Lucifero, che ha sospinto una parte enorme della massa interna della terra verso l'emisfero opposto. La terra emersa ha formato la montagna del Purgatorio, dove le anime di tutti gli uomini sono state accolte per purificarsi. La vetta di questo monte altissimo, sottratta ad ogni fenomeno naturale, costituisce il paradiso terrestre, già sede delle prime creature umane: si tratta di una meravigliosa foresta con al centro l'albero della scienza del bene e del male. Anche il Purgatorio ha la forma regolare di una scalinata circolare, che si slancia verso l'alto per 7 ripiani sempre più piccoli, detti gironi o cornici.

- L'emisfero Boreale ha per confini il Gange ad oriente, le Colonne d'Ercole (lo stretto di Gibilterra) a occidente. Al centro c'è Gerusalemme. L'Inferno si apre nell'emisfero Boreale, sotto Gerusalemme, come un anfiteatro a forma di cono rovesciato, con una ciclopica gradinata circolare, che via via si restringe e i cui enormi gradini sono i 9 cerchi degli inferi.

- Il viaggio dantesco poggia quindi su un paradosso apparente: la discesa nell'inferno è in realtà la salita verso il purgatorio e il paradiso. L'asse che sale dall'inferno al paradiso congiunge idealmente l'albero di Adamo con l'albero della croce (posto sul Golgota, a Gerusalemme), passando per il centro della terra, dove è confitto per l'eternità Satana. Dante, in sostanza, colloca lungo una stessa linea di sviluppo l'origine del male (Lucifero), il peccato originale (l'albero della conoscenza), la redenzione di Cristo (Gerusalemme), l'effetto del male (inferno), l'effetto della redenzione (purgatorio e paradiso).

LA DIVINA COMMEDIA (La trama)

Canto introduttivo

Dante, smarritosi in una selva oscura o foresta (simbolo di una vita peccaminosa), vi incontra Virgilio (simbolo della ragione umana) che, inviato in suo soccorso da Beatrice (simbolo della grazia divina e della teologia), gli fa notare come sia impossibile superare, solo con le proprie forze, gli ostacoli che chiudono l'uscita della foresta per attraversare i tre regni oltremondani. Gli ostacoli sono tre: lonza (lussuria), leone (superbia) e lupa (avarizia o cupidigia). E' appunto con l'aiuto di Virgilio che Dante riesce a entrare nell'inferno.

INFERNO

Dopo aver incontrato nell'Antinferno gli ignavi, cioè coloro che hanno accettato passivamente le sventure politiche, Dante entra nel Limbo, il I cerchio ove risiedono i morti senza battesimo e i grandi spiriti dell'antichità (tra cui lo stesso Virgilio), vissuti prima della predicazione di Cristo. I cerchi dal II al V comprendono coloro che peccarono per incontinenza (lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi, accidiosi). Col VI cerchio si entra nel cuore dell'inferno: gli eretici. Da notare che i peccatori sono tanto più in basso quanto maggiori sono state le loro colpe. Le pene sono proporzionate alle colpe e assegnate con un riferimento simbolico, di contrasto o somiglianza con la natura delle stesse colpe (legge del contrappasso).

Il VII cerchio, suddiviso in tre gironi, racchiude i violenti:

  • contro il prossimo e i beni altrui (omicidi, predoni),
  • contro se stessi e i propri beni (suicidi, scialacquatori),
  • contro Dio, la natura e l'arte (bestemmiatori, sodomiti, usurai).

L'VIII cerchio è dedicato ai fraudolenti; il IX riguarda i traditori (di parenti, della propria città o partito politico, degli ospiti o benefattori).

L'inferno si chiude con la visione mostruosa di Lucifero, che tiene nelle sue tre bocche quelli che Dante considera i più grandi traditori della storia: Giuda, Bruto e Cassio. In definitiva, tutti i peccatori dell'inferno, distribuiti in 9 cerchi concentrici, si suddividono -secondo la concezione morale di Aristotele, che Dante riprende- in tre grandi gruppi: incontinenti, violenti, fraudolenti.

PURGATORIO

Dante e Virgilio escono dall'inferno e si ritrovano nell'Antipurgatorio, ove Catone l'Uticense vigila sulle anime di quei peccatori scomunicati o che si sono pentiti solo in fin di vita, o che, se monarchi e signori, si mostrarono negligenti verso i loro sudditi: essi dovranno attendere a lungo la desiderata espiazione.

Il purgatorio vero e proprio inizia con la prima delle 7 cornici, nelle quali i peccatori sono suddivisi sulla base dei 7 vizi capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia e prodigalità, gola e lussuria.

In ogni cornice, oltre alle pene fisiche, i penitenti sono sottoposti anche allo stimolo morale degli "esempi" (avvenimenti della storia religiosa o del mondo classico, scolpiti nella roccia, oppure pronunciati dalle stesse anime o da angeli) che ricordano loro la gravità della colpa commessa e i meriti della virtù opposta. Nel purgatorio le pene non sono eterne ma temporanee.

Giunti sulla vetta del monte, nel paradiso terrestre (simbolo dell'innocenza), Virgilio scompare. Dante incontra Beatrice, che lo fa immergere in due fiumi: in uno per fargli dimenticare le colpe commesse, nell'altro per fargli ricordare le buone azioni compiute. Dopodiché Dante è pronto per salire in cielo.

PARADISO

E' diviso in 9 cieli concentrici. I beati sono distribuiti secondo il principio degli influssi celesti: prima vengono gli spiriti difettivi (soggetti alla Luna), poi quelli attivi (soggetti a Mercurio, Venere, Sole, Marte e Giove), infine i contemplativi (soggetti a Saturno).

Nel I cielo (Luna) appaiono gli spiriti difettivi, cioè coloro che, cedendo alla violenza altrui, vennero meno ai voti monastici (castità, povertà, obbedienza).

Nel II cielo (Mercurio) gli spiriti attivi, cioè coloro che operarono il bene per ottenere onore e gloria.

Nel III cielo (Venere), gli spiriti amanti, cioè coloro che, soggetti all'influsso amoroso di Venere, seppero renderlo degno del paradiso.

Nel IV cielo (Sole), gli spiriti sapienti, cioè coloro che si dedicarono agli studi teologici e filosofici.

Nel V cielo (Marte) gli spiriti militanti, cioè coloro che combatterono per la fede.

Nel VI cielo (Giove) gli spiriti giusti, cioè coloro che praticarono la giustizia.

Nel VII cielo (Saturno) gli spiriti contemplativi, cioè coloro che si dedicarono alla vita mistica.

Nell'VIII cielo (Stelle fisse) appare il trionfo di Cristo: qui Dante viene interrogato da s. Pietro, s. Giacomo e s. Giovanni sulle tre virtù teologali (fede-speranza-carità).

Nel IX cielo (Primo Mobile) appare la visione degli angeli trionfanti, divisi in 9 gerarchie (Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini e Serafini): ogni gerarchia è a capo di un cielo. Essi sono intorno alla infinita luce di Dio.

Infine vi è l'Empireo, la vera sede dei beati, disposti in forma di "candida rosa" intorno alla Vergine (essi erano apparsi a Dante di cielo in cielo solo perché la sua ascesa doveva essere graduale, ma nel paradiso non vige il concetto di gradualità e limitazione presente nell'inferno e nel purgatorio, in quanto sarebbe in antitesi con la beatitudine, che comporta assenza di ogni limite). Qui Dante, aiutato da s. Bernardo di Chiaravalle, con l'intercessione della Vergine, perviene alla visione beatifica di Dio, in cui riesce -per un istante- ad appagare ogni suo desiderio di conoscenza.

UNA CRITICA AL DE VULGARI ELOQUENTIA

La cosa più curiosa di questo trattato è che Dante, per fare l'apologia del volgare illustre, sceglie l'antivolgare per eccellenza: il latino. La motivazione è ch'egli intende rivolgersi ai "letterati".

Dunque, il volgare parlato da operai, artigiani, contadini, commercianti… può trovare per Dante una legittimazione all'esistenza letteraria solo se viene sanzionato da quel ceto di intellettuali che quando scrive usa il latino proprio per tenersi lontano dal popolo! E non si può neppure dire che Dante sia stato il primo a comprendere l'importanza di mettere per iscritto gli idiomi popolari… Prima di lui altri intellettuali si erano cimentati nell'impresa: si pensi a Francesco d'Assisi, Jacopone da Todi, la scuola siciliana, Guittone d'Arezzo, gli stessi stilnovisti cui lui apparteneva.

Alcuni critici hanno giustificato la scelta del latino dicendo che Dante, in realtà, era incerto su quale tipo di volgare chiedere agli intellettuali di usare per poter scrivere di alta poesia; egli cioè non si pose il problema dell'unificazione linguistica degli italiani.

Ma questa interpretazione è alquanto riduttiva. Dante infatti non era solo un letterato, ma anche un politico e se, come politico, aspirava all'unificazione territoriale sotto l'egida imperiale (l'unica che secondo lui permettesse di superare gli antagonismi fra le Signorie), era davvero impossibile che non avvertisse, come letterato, il problema dell'unificazione linguistica (che il latino da tempo non era più in grado di garantire, se non appunto a livello di ceti intellettuali molto ristretti).

Un'altra cosa curiosa del trattato è che da un lato Dante vuol far l'apologia del volgare illustre (con cui sostituire il latino), dall'altro sottopone a critica serrata tutti i volgare della penisola, senza salvarne alcuno in particolare. Cioè invece di mostrare agli intellettuali i meriti, i pregi di questo e quel volgare, li squalifica en bloc, mettendo una seria ipoteca sull'utilità del trattato stesso. Persino il toscano (cioè la sua stessa lingua, quella che aveva usato per cantare le lodi di Beatrice) viene definita col termine di turpiloquium. Dunque perché atteggiamenti così contraddittori?

Qui si ha l'impressione che Dante misurasse il valore di tutti i volgari italiani col metro del proprio volgare. Egli infatti riteneva sì il toscano un turpiloquium, ma da esso ovviamente escludeva la produzione letteraria degli stilnovisti e, in particolare, la propria (anche se poi si cela dietro la falsa modestia di non citarsi mai per nome).

Probabilmente il trattato non era rivolto, in astratto, al ceto degli intellettuali, ma, in concreto, a qualche corte principesca che, politicamente forte, sapesse poi far valere su un territorio abbastanza grande, il più grande possibile, la superiorità del volgare letterario di Dante. "La bilancia capace di soppesare [le azioni da compiere] -egli afferma- si trova d'abitudine [???] solo nelle curie più eccelse".

A suo giudizio, infatti, occorreva scegliere un volgare piuttosto che un altro rispettando le condizioni "politiche" della "curialità" e "aulicità".

Dante mescolava di continuo i piani "letterario" e "politico", oppure li distingueva tenendoli però sempre ben presenti nell'economia delle sue trattazioni. Qui abbiamo a che fare con un genio letterario di altissimo livello (cosciente di esserlo), politicamente su posizioni tardo-feudali, cioè lontano dalla sensibilità borghese emergente. L'animo di Dante è terribilmente aristocratico.

A causa delle esigenze democratiche del suo tempo egli non poteva sostenere che il suo volgare letterario era il migliore di tutti (a causa dei risentimenti personali dovuti all'esilio egli non volle neppure sostenere che il fiorentino era il migliore di tutti: qui il Machiavelli ha perfettamente ragione); tuttavia, egli, in nome del suo idealismo aristocratico, pretende che l'unificazione linguistica avvenga con mezzi politici (cosa che poi in effetti avverrà più di mezzo millennio dopo).

In sostanza, Dante, in quest'opera, non sembra voler discutere con gli intellettuali su quale volgare meriti l'onore di sedersi sul trono delle letterarietà; si chiede soltanto in che modo sia possibile che il volgare illustre usato dagli stilnovisti e, in particolare, da lui, possa sedere su questo trono, visto e considerato che sul piano politico non esiste alcuna condizione per poterlo permettere. Mancando tali condizioni, un'opera come il De Vulgari non poteva che essere interrotta.

Il trattato quindi si presta a varie interpretazioni, avendo come background l'ambiguità fondamentale di un autore che è politicamente anacronistico rispetto al suo tempo, ma letterariamente di molto più avanti. In Dante, in un certo senso, vengono riflesse le contraddizioni anche di quegli intellettuali che pur essendo politicamente più moderni di lui, non seppero mai cercare con le masse un rapporto organico.

Molti critici ritengono che Dante cercasse un volgare italiano come principio ideale, senza riscontri storici. Cioè la sua intenzione non era propriamente quella di vedere nel fiorentino la lingua che la futura nazione avrebbe dovuto usare. Il volgare illustre da lui cercato viene trovato solo in parte in molti dialetti e integralmente in nessuno, proprio perché la sua lingua ideale, "quintessenza del volgare in sé", non esisteva che nella sua mente.

Qui ci si può chiedere: può il pensiero di una persona essere interpretato sulla base di quello che la stessa persona vuol far credere? E se si sostenesse la tesi opposta, cioè che Dante sottopose a critica tutti i volgari perché in realtà voleva perorare sola la causa del proprio, chi potrebbe negarla con prove indiscutibili? Se il tentativo di Arrigo VII avesse avuto successo, Dante, che si accinse addirittura a scrivere il De Monarchia, non l'avrebbe forse interpellato, come politico e letterato, chiedendogli di diffondere per tutta la nazione il volgare fiorentino? Non fece forse la stessa cosa il Manzoni coi Savoia, lui che non era neppure toscano?

Ma supponendo anche che Dante cercasse una "lingua pura", che andasse al di là delle parlate locali stricto sensu, per lui tutte difettose in questa o quella parte, non lo si dovrebbe forse criticare sempre di astratto idealismo? Può forse trovare una qualche legittimazione l'estrapolare arbitrariamente il volgare illustre dalle tante parlate locali, quando proprio i "difetti" di una qualunque lingua sono le condizioni fondamentali che ne sanciscono la storicità?

Quando Dante esordisce nel trattato dicendo che "cercheremo [tra il vulgare italico] quale sia la più colta e illustre loquela in Italia", non è forse già partito col piede sbagliato? Un volgare avrebbe potuto diventare "nazionale" solo perché considerato "illustre" dagli intellettuali, non perché ritenuto unanimemente più "popolare"? Avrebbe dovuto dunque essere il popolo a prendere atto di una decisione presa a tavolino da una ristretta cerchia di persone?

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019