Inferno: Canto XIX, Papi Simoniaci

Inferno: Canto XIX

O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci

per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.

Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.

O somma sapienza, quanta è l'arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!

Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d'un largo tutti e ciascun era tondo.

Non mi parean men ampi né maggiori
che que' che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d'i battezzatori;

l'un de li quali, ancor non è molt'anni,
rupp'io per un che dentro v'annegava:
e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni.

Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d'un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l'altro dentro stava.

Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.

Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.

"Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti",
diss'io, "e cui più roggia fiamma succia?".

Ed elli a me: "Se tu vuo' ch'i' ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de' suoi torti".

E io: "Tanto m'è bel, quanto a te piace:
tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace".

Allor venimmo in su l'argine quarto:
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.

Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.

"O qual che se' che 'l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa",
comincia' io a dir, "se puoi, fa motto".

Io stava come 'l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto,
richiama lui, per che la morte cessa.

Ed el gridò: "Se' tu già costì ritto,
se' tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.

Se' tu sì tosto di quell'aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a 'nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?".

Tal mi fec'io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch'è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.

Allor Virgilio disse: "Dilli tosto:
"Non son colui, non son colui che credi"";
e io rispuosi come a me fu imposto.

Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: "Dunque che a me richiedi?

Se di saper ch'i' sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch'i' fui vestito del gran manto;

e veramente fui figliuol de l'orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l'avere e qui me misi in borsa.

Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.

Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch'i' credea che tu fossi
allor ch'i' feci 'l sùbito dimando.

Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi
e ch'i' son stato così sottosopra,
ch'el non starà piantato coi piè rossi:

ché dopo lui verrà di più laida opra
di ver' ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.

Novo Iasón sarà, di cui si legge
ne' Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge".

Io non so s'i' mi fui qui troppo folle,
ch'i' pur rispuosi lui a questo metro:
"Deh, or mi dì : quanto tesoro volle

Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non "Viemmi retro".

Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l'anima ria.

Però ti sta, ché tu se' ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.

E se non fosse ch'ancor lo mi vieta
la reverenza delle somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,

io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.

Di voi pastor s'accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l'acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;

quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.

Fatto v'avete Dio d'oro e d'argento;
e che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!".

E mentr'io li cantava cotai note,
o ira o coscienza che 'l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.

I' credo ben ch'al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.

Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s'ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.

Né si stancò d'avermi a sé distretto,
sì men portò sovra 'l colmo de l'arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.

Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.

Indi un altro vallon mi fu scoperto.

O Simon mago, o miseri suoi seguaci,
che le cose di Dio da concedersi ai buoni
come spose, voi rapacemente

adulterate con l'oro o l'argento,
conviene che per voi la tromba suoni,
poiché già siete nella terza bolgia.

Giunti infatti ch'eravamo in quella,
salimmo sulla parte più alta del ponte
che dava a strapiombo sul mezzo della fossa.

O divina sapienza, grande è l'intelletto
che mostri in cielo, in terra e negli inferi
e più che giusta la tua retribuzione!

Io vidi che tutta la valle
era di color del ferro
e piena di tante buche uguali

che non parevano né più piccole né più grandi
di quelle del mio bel san Giovanni
usate dai battezzatori,

una delle quali non molti anni fa
io ruppi non perché fossi un miscredente
ma per salvare uno che annegava.

Fuor della buca emergevano
i piedi e le gambe dei peccatori
fino alla coscia, e il tronco stava dentro.

I piedi dei dannati erano infuocati
e le gambe s'agitavano così forte
ch'avrebbero spezzato i legacci più duri.

Le fiamme salivano dai calcagni
alla punta dei piedi, così come
l'incendiarsi delle cose unte.

E io chiesi a Virgilio: "Chi è quello
che s'agita più degli altri,
quello con la fiamma più rossa?".

E lui rispose: "Se vuoi che ti porti là,
passando per la ripa meno scoscesa,
sarà lui stesso a parlarti delle sue colpe".

E io: "A me sta bene quanto piace a te,
sei tu la guida e dal tuo volere
non m'allontano, anche se sai cosa desidero".

Allora ci recammo sul quarto argine
e, svoltati a sinistra, discendemmo
nel fondo sforacchiato e infido.

Virgilio infatti mi reggeva sulla sua anca
e mi depose soltanto quando arrivò
alla buca di quello che s'agitava convulso.

E io provai a chiedergli: "O anima triste,
che stai così stranamente sottosopra,
dimmi qualcosa, se puoi".

Me ne stavo come un frate che confessa
l'assassino a pagamento, da questi chiamato
per ritardare il momento dell'esecuzione.

E quello gridò: "Sei già arrivato Bonifacio?
Sei già arrivato all'orlo della mia buca?
Non t'aspettavo così presto!

Ti sei già saziato di quelle ricchezze
per le quali non temesti d'ingannare
la tua sposa (chiesa) e di farne scempio?".

Io rimasi attonito, come chi
non sa come reagire
udendo una risposta insensata.

Allora Virgilio mi disse di rispondergli così:
"Non sono io, non sono chi tu pensi",
e io feci proprio ciò che m'aveva chiesto.

Al che i piedi di quello s'agitarono ancor più,
poi, sospirando e gemendo, mi disse:
"E allora che vuoi da me?

Se ti preme davvero sapere chi sono,
tanto che sei corso giù per la ripa,
ebbene, tu sappia ch'io son stato papa,

e fui uno della famiglia Orsini,
che per arricchire i suoi parenti
misi in borsa lassù gli averi e qui me stesso.

Sotto di me vi sono altri papi
che mi anticiparono nella simonia
stretti tra le fessure della pietra.

E anch'io finirò come loro
appena arriverà chi credevo fossi tu,
quando, precipitoso, ti feci la domanda.

Ma t'assicuro che il tempo
in cui starò capovolto
sarà maggiore di quello di Bonifacio.

Dopo di lui infatti ne verrà presto uno peggiore,
un pastore occidentale senza alcuna legge,
che ricoprirà me e Bonifacio.

Per aver la carica sarà servo di Filippo il Bello,
al pari dell'empio Giasone, che nei Maccabei
comprò la sua dal re Antioco Epifane".

Forse io fui un po' insolente
quando gli risposi chiedendogli:
"Quanto denaro volle Gesù Cristo

da Pietro, prima di affidargli
le chiavi del regno dei cieli?
Non gli chiese soltanto di seguirlo?

Né Pietro né gli apostoli
pretesero da Mattia oro o argento
quando la sorte lo scelse per sostituire Giuda.

Perciò stai pur lì a espiare la colpa
e conserva pure il maltolto
che ti fece ardito contro Carlo d'Angiò.

E se non mi frenasse la riverenza
per la carica che tu tenesti
nella vita lieta del mondo,

userei parole ancor più dure,
giacché la vostra avarizia tutti scandalizza,
calpestando i buoni ed esaltando i malvagi.

Di voi pastori parlò il quarto evangelista,
quando gli fu mostrata in visione la donna
che, seduta sulle acque, trescava coi re,

quella che nacque con sette teste
ed ebbe vigore da dieci corna,
almeno finché i papi si mantennero virtuosi.

Vi siete fatti dell'oro e dell'argento un idolo
come gli ebrei, che però ne adoravano uno
e non cento come voi.

Ah Costantino, di quanto male fosti madre,
non per la tua conversione, ma per quella dote
che da te ottenne papa Silvestro".

E mentre io gli cantavo questa musica,
il dannato scalciava con entrambi i piedi
o per rabbia o per i rimorsi della coscienza.

Invece il suono delle mie parole veritiere
fu ben gradito a Virgilio,
rimasto ad ascoltarle con soddisfazione.

Infatti mi prese di nuovo con le sue braccia
e, dopo avermi sollevato sopra il suo petto,
risalì il sentiero per il quale era disceso.

Né si stancò di tenermi ben stretto a sé,
anzi, mi portò sopra la sommità dell'arco
che fa da ponte tra il quarto e il quinto argine.

Qui mi depose delicatamente,
essendo lo scoglio così ripido e disagevole,
che sarebbe stato ostico persino alle capre.

E fu da lì che notai una nuova bolgia.

Ascolta la lettura del canto (mp3)


DANTE E I PAPI SIMONIACI

Nel XIX Canto dell'Inferno Dante tratta il tema della simonia, cioè della colpa di quanti erano dediti alla compravendita di cariche ecclesiastiche (vescovo, cardinale ecc.) o di beni spirituali (p.es. il perdono dei peccati o vendita di indulgenze).

Oggi questo genere di peccatori li avremmo messi tra i corrotti e corruttori, ma Dante doveva organizzare la distribuzione delle colpe e delle pene secondo la casistica tradizionale del suo tempo. Dev'essere stata per lui una grande soddisfazione mettere nella terza bolgia infernale delle personalità di spicco come i pontefici romani, il cui rappresentante qui non mostra alcun pentimento di ciò che ha fatto in vita, giustificandosi anzi col dire che la simonia, ben prima di lui, era stata praticata da altri papi e dopo di lui ve ne sarà uno che farà addirittura dello Stato della chiesa un feudo francese.

I tre papi dal poeta molto detestati: Niccolò III, Bonifacio VIII e Clemente V, vengono condannati a vivere a testa in giù, sprofondando sempre più in basso, avendo vissuto la loro vita religiosa in maniera capovolta, cioè dedicandola prevalentemente agli affari, loro che avrebbero dovuto dare l'esempio di un'alta spiritualità.

Dante esprime un giudizio molto severo nei confronti di questi papi, eppure sembra che pecchi di superficialità. A ben guardare, infatti, il papato del suo tempo era particolarmente corrotto non tanto perché caratterizzato, soggettivamente, da aspetti comportamentali che di "cristiano" non avevano nulla, quanto perché era stato proprio un certo modo d'intendere il cristianesimo che nel corso dei secoli aveva portato a quelle degenerazioni. Quei papi avrebbero dovuto essere condannati non tanto o non solo per la loro simonia, quanto per il loro fanatismo ideologico e soprattutto per la loro sfrenata ambizione politica, conformemente a un'immagine di chiesa mondana che da molto tempo s'era voluta.

L'idea di teocrazia cattolico-romana nacque ufficialmente con la riforma gregoriana, ma le sue basi storiche vennero poste con l'incoronazione abusiva di Carlo Magno a imperatore del sacro romano impero, basi che a loro volta poggiavano su altre di tipo amministrativo e giurisdizionale, che vedevano la chiesa romana costantemente in conflitto col basileus bizantino e con gli altri patriarchi della cristianità ortodossa.

Dante riassume un intero processo storico che portò la chiesa romana ad affermare in maniera sempre più scomposta il proprio fondamentalismo politico-religioso, in una semplice accusa di simonia, per quanto detta in toni molto veementi. Era inevitabile cadere nel moralismo. Ci si può chiedere infatti che giudizio egli avrebbe dato della sua chiesa se non ci fossero stati papi simoniaci? O forse Dante con questo Canto vuol farci capire che in una chiesa di potere dovevano doveva prima o poi apparire dei papi simoniaci? E' vero, ma perché considerare la simonia più grave della persecuzione degli eretici, delle crociate, dell'inquisizione e di tutti gli altri delitti politici? Quanti papi si resero responsabili di reati del genere senza essere affatto simoniaci? P.es. un papa come Gregorio VII, fautore di una delle peggiori ideologie politiche cristiane, era umanamente irreprensibile. E perché forse Innocenzo III fu mai accusato di simonia? Eppure il suo pontificato fu uno dei più intolleranti.

Quale corruzione è più grave per le sorti della democrazia? Quella in ambito politico o economico? Quale riesce a ingannare meglio le masse? Dante qui appare così ingenuo da far discendere l'origine della corruzione economica non ad un'azione del papato (o a una serie di azioni ripetute nel tempo), ma ad un'iniziativa personale che l'imperatore Costantino fece sul letto di morte, quella secondo cui la parte occidentale del nuovo impero romano-cristiano avrebbe dovuto essere ereditata dal papato. Qui ovviamente non si può rimproverargli d'aver creduta vera una cosa falsa (la cui falsità verrà dimostrata solo ai tempi di Lorenzo Valla); però non ci si può esimere dal fargli osservare come l'idea di avere un proprio potere politico ed economico venne tenacemente perseguita dal papato sin dal momento in cui erano cessate le persecuzioni romane, distinguendosi, in questo, dall'atteggiamento degli altri patriarchi dell'ecumene cristiano, che non misero mai in discussione la diarchia dei poteri. Tanti intellettuali del Medioevo pagarono in varie maniera questa evidente consapevolezza storica (il maggiore dei quali fu probabilmente Marsilio da Padova).

Dante ha scelto di mettere in questa bolgia non dei semplici sacerdoti, ma addirittura tre papi, lasciando intendere che ne fossero molti di più. Un attivista politico come lui, di idee non integralistiche, non avrebbe dovuto considerare la simonia un semplice peccato individuale, visto e considerato che l'ambito in cui essa si manifestava era caratterizzato, in maniera abusiva, da una pretesa teocratica universale. Dante è incorso in una svista di non poco conto. E' difficile pensare, esaminando le cose obiettivamente, che simoniaci di tal fatta meritassero d'essere considerati meno peccatori degli indovini, dei barattieri, degli ipocriti, dei ladri, dei consiglieri fraudolenti, dei seminatori di discordie e dei falsari, come invece appare nel suo Inferno.

Da un lato egli s'è lasciato condizionare, senza esservi obbligato, dalla cultura teologica dominante nell'attribuzione di colpe e pene; dall'altro però non ha resistito alla tentazione di sfogare tutto il suo risentimento, tutto il suo livore di cattolico democratico, costretto all'esilio dai papisti di Firenze. Si ha addirittura l'impressione ch'egli sia convinto che l'asprezza nei toni usata in questo Canto sia sufficiente a colmare il gap tra il dovere attribuire una pena lieve in rapporto a quella di altri condannati all'inferno, e il desiderio di prendersi una rivincita politica, seppur qui solo poeticamente, sui suoi peggiori nemici.

Ma il risultato finale resta inadeguato, non tanto ovviamente sul piano artistico, che qui è fuori discussione, anche se il meglio di sé come poeta Dante quando tratta temi di carattere personale, quanto proprio su quello politico. Condannandoli solo per simonia, egli finisce col legittimare proprio il potere temporale della chiesa. Cioè riducendo la realtà di detto potere alla sola questione del mercanteggiamento del sacro, egli finisce col giustificare quella medesima realtà quando la simonia non è presente, quando i pontefici agiscono non per un fine privato ma per uno pubblico e generale, quella appunto della chiesa che vuol dare alla propria religiosità una veste politica di mero potere.

Insomma quello che maggiormente dà fastidio in questo Canto è l'atteggiamento beffardo, quasi giullaresco del poeta, che pare voglia approfittare della situazione per vendicarsi, con le proprie invettive, dei torti subiti quando svolgeva politica attiva. Dante era un fervente cattolico, ma non integrista e fanatico, in quanto era sempre stato favorevole alla diarchia dei poteri istituzionali. Il fatto ch'egli affronti in maniera del tutto riduttiva la critica della chiesa romana, è ben visibile anche in questo suo modo di schernire il potere. Osserva divertito la fiamma che succhia i piedi di Niccolò III, ascolta compiaciuto il piangere di lui, si pone nell'atteggiamento di un confessore intento ad ascoltare i peccati di un papa, gode della reazione scomposta del dannato quando questi si rende conto che Dante non è Bonifacio VIII, lo irride nella sua mortificazione e trova persino in Virgilio un compiaciuto complice.

Un canto così politicamente angusto non meritava d'essere esaltato dai critici per il suo carattere ironico e sarcastico. Il male della chiesa romana non stava semplicemente nell'avarizia. Anzi, proprio questo modo di condannarla alle pene dell'inferno, scaricando su singoli uomini di potere le colpe di una tendenza storica del cattolicesimo romano, è atteggiamento fin troppo "cattolico" per costituire una valida alternativa al feudalesimo teocratico allora dominante. Questo è un modo per non voler fare i conti con la storia, tant'è che lo stesso Dante ha sempre tenuto nei confronti della carica istituzionale del papato un atteggiamento più che riguardoso, almeno finché rimase a Firenze. Persino nel Purgatorio (XX, 86-90) considera l'offesa subita da Bonifacio ad Anagni come rivolta a Cristo in persona.

Peraltro dei tre papi in questione Dante ha voluto sbeffeggiare quello meno fanaticamente esaltato e certamente non quello più disposto a lasciarsi strumentalizzare dal potere cesaropapista di un sovrano straniero, come risulta da queste tre brevi biografie politiche dei papi in oggetto.

Niccolò III (1277-1280)

Prima di diventare papa era stato inquisitore generale. Apparteneva a una nobile famiglia romana: gli Orsini. Quando divenne papa ridimensionò subito le mire espansionistiche degli Angioini in Italia, dove nel Mezzogiorno (esclusa la Sicilia, da dove erano stati cacciati) erano già ampiamente presenti. Tolse anzi a Carlo d'Angiò il vicariato della Toscana, per darlo all'imperatore Rodolfo d'Asburgo, dal quale in cambio ricevette la Romagna, la Pentapoli, la Marca d'Ancona, Camerino, i ducati di Spoleto e Bertinoro.

Impedì sempre a Carlo di riottenere il titolo di senatore, anzi dispose che la nomina dei senatori in Roma doveva essere regolata dal pontefice, salvo il diritto elettorale dei cittadini. I laici non avevano però alcun potere né per la nomina del papa né per quella dei cardinali. Dispose anche che tutte le cariche di senatore, capitano del popolo e patrizio dovessero spettare a cittadini romani per la durata di un anno. In tal modo rafforzò enormemente le ambizioni delle famiglie romane più influenti: Orsini, Colonna e Savelli.

Impedì anche a Carlo d'Angiò di attaccare dall'Italia l'impero bizantino, anche se non fece nulla per ostacolare le sue trame in Epiro e Tessaglia contro il basileus Michele VIII.

Oltre che spendere somme enormi per ristrutturare vari edifici ecclesiastici, praticò uno sfrenato nepotismo, che utilizzò anche in chiave politica, per avere cioè uno staff di fidatissimi collaboratori in funzione anti-francese e, nel contempo, per eliminare ogni più piccolo residuo di democrazia nell'attività della chiesa e nell'amministrazione della città di Roma, tant'è che Bonifacio VIII arriverà alla farneticante conclusione secondo cui il pontefice andava considerato non solo come vicario di Cristo ma anche di Dio.

L'aspetto della simonia, in un papa di questo genere, fu forse quello meno grave. In realtà egli fece di tutto per costituire un forte Stato della chiesa che impedisse a chiunque di creare l'unità nazionale. E' vero che si oppose agli angioini, ma non pensò mai di realizzare un'intesa coi maggiori principi italiani per cacciarli da tutta la penisola. Il suo principale punto di riferimento fu sempre l'imperatore tedesco, dal quale aveva preteso vasti territori per fortificare il proprio Stato pontificio. Egli era ancora convinto di poter utilizzare gli angioini come vassalli nel Mezzogiorno italiano.

Bonifacio VIII (1294-1303)

Probabilmente fece eliminare papa Celestino V, dopo averlo fatto incarcerare. Ottenne la carica per simonia, in un conclave brevissimo.

Riportò a Roma la residenza papale che gli angioini avevano trasferito a Napoli, proprio per sottrarla al loro influsso. Cercò in cambio di restituire loro la Sicilia, ma i siciliani non glielo permisero, preferendo come loro sovrano un aragonese.

Cercò d'impedire a qualunque figura laica d'imporre tasse agli ecclesiastici, senza il consenso del papato. L'unico sovrano a opporsi fu Filippo il Bello, che vietò a chierici e laici l'esportazione di oro, argento e preziosi, e proibendo altresì agli stranieri la residenza nel proprio regno, onde impedire che la curia romana potesse inviare i propri legati per la riscossione dei tributi. Il papa fu costretto a fare un'eccezione con Filippo il Bello, il quale, in cambio, revocò i propri editti restrittivi. Il papa si rese ben presto conto che il sovrano francese non poteva essere trattato come un angioino.

A Roma il papa incontrò una forte resistenza da parte di molti esponenti della nobiltà locale (soprattutto i Colonna), ma anche da parte degli Spirituali francescani (capeggiati da Jacopone da Todi). I due cardinali Colonna furono destituiti e scomunicati e i loro beni confiscati; anche Jacopone fu scomunicato e imprigionato.

Bonifacio indisse un anno santo nella sua città, con tanto di indulgenza plenaria, per incamerare proventi finanziari.

Il suo torto principale non fu tanto la simonia quanto il fatto che pretendeva, con fare autoritario, di detenere nelle sue mani sia il potere temporale che quello spirituale, senza rendersi conto della potenza politica, economica e militare delle nuove nazioni borghesi, la più importante delle quali era la Francia.

Anche Filippo il Bello non riconosceva nessuno al di sopra di sé, tanto che nel suo regno si considerava una sorta di imperatore. Questo atteggiamento, che lo portava ad agire in maniera molto disinvolta nei confronti delle finanze ecclesiastiche francesi, aveva indispettito particolarmente papa Bonifacio, che pretendeva, da parte del sovrano, un atto di esplicita sottomissione.

Di fronte al rischio d'essere scomunicato, Filippo convocò a Parigi un concilio con l'intenzione di accusare il papa d'essere eretico, simoniaco e d'aver ottenuto la carica in maniera illegittima. Mandò dunque la milizia in Italia con l'intenzione di arrestarlo e di condurlo a Parigi. Ad Anagni infatti il papa fu catturato, ma la folla reagì ai francesi, rimettendolo in libertà. Morirà tuttavia di lì a poco.

Clemente V (1305-1314)

Fu eletto nella maniera più fraudolenta, convincendo il sovrano Filippo il Bello che, in cambio, avrebbe concesso tutte le decime del reame per un quinquennio. E così fece.

Fu lui a spostare la sede pontificia in Francia (Lione, Cluny, Bordeaux, Poitiers e infine Avignone). Lo Stato della chiesa divenne una sorta di feudo francese. Egli si convinse che per conservare un'Italia divisa, in cui lo Stato della chiesa potesse continuare a sussistere come tale, nonostante la sua intrinseca debolezza, la soluzione migliore sarebbe stata quella di appoggiare lo Stato emergente più forte: la Francia (dopo il 1492 il papato farà analoghe considerazioni, pensando però di rivolgersi alla Spagna).

In seno al collegio cardinalizio nominò nove cardinali di origine francese, in modo d'avere sempre la maggioranza assoluta.

Tolse la scomunica a quanti avevano oltraggiato Bonifacio VIII ad Anagni. Reintegrò nella loro dignità i corrotti cardinali Giacomo e Pietro Colonna.

Abolì, su richiesta di Filippo il Bello che voleva appropriarsi dei loro beni, l'ordine dei Templari, divenuto una notevole potenza finanziaria, e non fece nulla per impedire le esecuzioni capitali.

Si oppose al tentativo del sovrano Enrico VII di ripristinare l'autorità imperiale in un'Italia in preda all'anarchia, e anzi nominò Roberto d'Angiò vicario imperiale in Italia e senatore di Roma.

Tolse Ferrara ai veneziani, aggiungendola allo Stato della chiesa, sempre sottoposto a duro fiscalismo.

Praticò in maniera sfacciata il nepotismo.

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Aggiornamento: 10-02-2019