L'omosessualità di Brunetto Latini

L'OMOSESSUALITA' DI BRUNETTO LATINI

Inferno - Canto XV (vv. 13-124)

Maestro Senese, Brunetto (1440-50), codice Yates Thompson, British Library, London
(nota)

Cosa vuol far capire Dante nel Canto XV dell'Inferno, quando incontra il suo maestro di retorica, Brunetto Latini? Prima di rispondere a questa domanda è opportuno fare una breve presentazione del principale personaggio in questione.

Ser Brunetto nasce tra il 1220 e il 1230 dal notaio Bonaccorso Latini, originario della Lastra, presso Firenze, e nipote di Latino Latini, appartenente ad una nobile famiglia toscana. Fu avviato alla carriera notarile. Nel 1254 ricoprì l'incarico di scriba degli Anziani del Comune di Firenze (dettatore di lettere ufficiali).

Si occupò di politica attiva militando nel partito guelfo. Mentre tornava in patria da un’ambasceria presso il re Alfonso X di Castiglia, per richiedere il suo aiuto a favore dei guelfi e per esortarlo a rivendicare la corona imperiale, ebbe notizia della vittoria dei ghibellini nella battaglia di Montaperti (1260), i quali esiliarono da Firenze i guelfi più in vista, tra cui lui; sicché Brunetto si trasferì in Francia, ove compose il Trésor, una vasta enciclopedia nel volgare d'oil (la prima in Europa in questa lingua). Compose anche il Tesoretto, un poemetto didascalico di argomento filosofico, morale e religioso, in versi rimati, in volgare fiorentino e in forma falsamente autobiografica. È ritenuta tra i precursori diretti della Commedia. Latini peraltro identifica il proprio volgare come «italiano», con un anticipo di mezzo secolo sul De vulgari eloquentia.

In Francia dimorò a Montpellier, Arras, Bar-sur-Aube e Parigi, esercitando la professione di notaio, come testimoniano gli atti da lui stesso rogati.

Tornò in patria dopo la battaglia di Benevento, nel 1266, in cui i guelfi di Carlo d'Angiò ebbero la meglio sui ghibellini di Manfredi di Svevia. Nel Comune di Firenze, nel 1273, fu risarcito del torto subito, con il titolo di Segretario del Consiglio della Repubblica. Stimato e onorato dai suoi concittadini, fu ambasciatore, magistrato (cancelliere e notaio), retore e filosofo. Svolse funzioni politiche molto importanti e nel 1275 fu console dell’Arte dei giudici e dei notai. La sua influenza divenne tale che a partire dal 1279 si trova a malapena nella storia di Firenze un avvenimento pubblico importante al quale non abbia preso parte.

Nel 1280 contribuì notevolmente alla riconciliazione temporanea tra guelfi e ghibellini e quattro anni dopo fu membro del Consiglio del podestà, insieme con Guido Cavalcanti e Dino Compagni e presiedette il Congresso dei Sindaci, in cui fu decisa, insieme a Genova e Lucca, la rovina definitiva di Pisa, la cui flotta era appena stata distrutta dai genovesi nella battaglia della Meloria. Era però in buoni rapporti col conte pisano Ugolino della Gherardesca, appena divenuto guelfo.

Nel 1287 fu elevato alla dignità di Priore (uno dei dodici previsti dalla Costituzione del 1282). Nei Consigli generali della Repubblica era uno degli arringatori-oratori più frequentemente designati e forse può essere considerato una delle menti direttive, la più attrezzata ideologicamente, del Comune fiorentino nella seconda metà del Duecento. Favorì anche la guerra contro Arezzo, com’è documentato dalla battaglia di Campaldino, che Firenze, nel 1289, condusse vittoriosa (vi fu presente anche Dante).

Fu maestro di Dante, essendo insegnante di retorica, morale e politica per l’intera città. Dante lo equipara, per l’importanza del suo Tesoretto, a Guittone e a Bonaggiunta. Egli tradusse anche, modernizzandoli, gli scritti retorici di Cicerone.

Morì nel 1293, quando Dante aveva 28 anni ed era noto solo come stilnovista. È sepolto nella Chiesa di Santa Maria Maggiore.

Il Villani sostiene che fu «uomo mondano», e l’aggettivo, quella volta, non aveva una caratterizzazione così neutra come oggi. Quanto meno indicava un certo epicureismo in materia di religione, che s’intravvede anche là dove chiede a Dante «quale fortuna o destino» (v. 46) l’abbia condotto lì. La parola «destino» non può essere equiparata, stricto sensu, a «volontà divina», come molti dantisti fanno, mentre «fortuna» può voler dire «caso».

Di queste ambiguità il testo è pieno. P.es. il v. 81, ove è scritto: «de l’umana natura posto in bando», generalmente viene interpretato nel senso fisico che il Latini, se fosse dipeso da Dante, sarebbe ancora vivo sulla Terra, ma può essere interpretato anche in maniera etica, e cioè ch’egli – sempre se dipendesse da Dante, che qui lo qualifica come suo «maestro intellettuale» – non sarebbe considerato un uomo contronatura. Lo stesso dicasi del v. 114, riferito al prelato che da Firenze fu trasferito a Vicenza: «lasciò li mal protesi nervi», che generalmente viene interpretato nel senso fisico che morì a Vicenza, ma che poteva anche significare la reiterazione della colpa fino alla morte (il «nervo teso male» non sarebbe che un’espressione volgare).

Brunetto Latini era stato sposato, aveva avuto quattro figli e aveva persino condannato la sodomia nel Trésor, e solo di recente s’è scoperta una sua possibile relazione con un certo poeta Bondie Dietaiuti, documentata da alcune poesie di entrambi.

I dantisti son diventati matti nel cercare di capire perché Dante parli di lui, messo tra i violenti contronatura, come di una «cara e buona immagine paterna» (v. 83) e perché tenesse il «capo chino» (v. 44) in segno di riverenza. Perché dunque metterlo all’inferno? Solo per la sua omosessualità? Eppure questa non gli impedì mai di arrivare ai più alti gradi della considerazione pubblica da parte dei fiorentini. Dunque perché non metterlo in purgatorio, se proprio lo si voleva biasimare per motivi etici?

Peraltro per secoli le uniche informazioni sull’omosessualità, o meglio, la bisessualità, del Latini ci sono state fornite dallo stesso Dante. S’essa era un aspetto marginale nella sua vita, perché darle così tanta importanza nella Commedia? Possibile che una questione di natura così privata abbia potuto rivelarsi decisiva, per Dante, al momento di attribuire una collocazione ultramondana al proprio maestro preferito? Perché assumersi una responsabilità così grande, quando in realtà a carico del Latini poteva esserci solo una diceria senza fondamento? E non è forse vero che solo durante l'ultima parte della vita di Dante i Comuni italiani avevano cominciato ad approvare delle leggi che punivano con la morte la sodomia: nella Firenze borghese del Duecento non era ritenuta particolarmente grave, anzi era piuttosto praticata nei rapporti docente/discente. Lo stesso Dante fa dire a Brunetto che i numerosissimi sodomiti della sua schiera, «tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama».

E perché fargli dire delle cose così terribili contro i fiorentini quando forse in vita sua non le disse mai, di sicuro non contro i guelfi, che lo ricoprirono di onori e gli attribuirono gli incarichi più prestigiosi? Perché far parlare il Latini come un proprio alter-ego e poi metterlo tra gli uomini contronatura? Perché farlo parlare dei suoi colleghi di girone come se lui non ne facesse parte? E perché indurlo a dire che tra i sodomiti vi erano tantissimi chierici e famosi intellettuali, quando poi tra quelli citati o non si capisce chi erano (come Prisciano, che forse era magister Prisianus di Bologna oppure il vescovo eretico Priscilliano, del IV sec.: molto improbabile invece il grammatico Prisciano di Cesarea, del VI sec.), o non erano di Firenze (come il giurista Francesco d’Accorso, anch’egli di Bologna, ma forse ateo, non sodomita), o non erano esattamente sodomiti ma mentecatti (come il vescovo Andrea de’ Mozzi)? Sembra che qui Dante ce l’abbia con gli intellettuali in generale, che forse fecero poco per difenderlo quando i guelfi Neri decisero la sua espulsione da Firenze.

Brunetto qui parla come se sapesse tutto di Dante, delle sue peregrinazioni da esule, del mancato riconoscimento del suo ingegno letterario, delle vicissitudini avute e che avrà coi guelfi Bianchi e Neri. Sembra parlare come uno che vuol stare al di sopra delle parti, preoccupato soltanto di veder affermato il grandissimo talento del suo discepolo preferito. Rinnega persino la sua militanza politica tra le schiere dei guelfi. È come se Dante volesse far capire che di tutti quelli che l’hanno difeso nel momento peggiore della sua vita (e tra questi Brunetto non poteva esserci perché già morto), l’unico su cui avrebbe voluto fare affidamento era un «sodomita».

In questo Canto sembra essere molto forte l’amarezza di Dante, che non poteva non ricordare il suo passato rapporto di discepolo di un grande maestro di retorica e che si meraviglia di trovarlo lì, in un girone che per un cattolico doveva essere considerato particolarmente disdicevole. Forse è proprio questo lato intellettuale e non sessuale della faccenda che lo ha indotto a comportarsi così duramente nei confronti di questo personaggio, benché nel Canto gli riserbi parole di grande elogio e delicatezza.

E questo forse spiega il motivo per cui Dante abbia deciso di non metterlo in purgatorio, dove, nel Canto XXVI, ci mostra una schiera di sodomiti e una di lussuriosi «ermafroditi» (cioè eterosessuali) alle soglie ormai del paradiso terrestre. Nel Purgatorio la sodomia è considerata alla stregua della lussuria o della pratica eterosessuale svincolata dal matrimonio e, se pure nell’ambito del matrimonio, dalla procreazione.

Brunetto Latini viene condannato da Dante non perché sodomita e neppure, ovviamente, perché intellettuale, ma perché «intellettuale egocentrico», preoccupato solo di esaltare l’ingegno letterario, proprio e del suo discepolo prediletto, capace solo di recriminare, d’inveire contro i suoi concittadini, ma che alla resa dei conti si era rivelato opportunista come tutti gli altri, amante del potere, incapace di far trionfare la giustizia, come invece Dante pensa che avrebbe saputo fare se fosse stato al posto del suo maestro.

Su questo «egocentrismo» bisogna spendere altre parole, partendo da un’altra espressione oscura del Canto, che i dantisti hanno variamente interpretato: «Bene ascolta chi la nota» (v. 99), cioè «è buon ascoltatore chi imprime nella memoria ciò che ascolta». Virgilio proferisce questa che sembra una massima, dopo che Dante ha detto una cosa molto importante, e cioè che non si sarebbe lasciato guastare la coscienza né a motivo dell’esilio, né accettando vergognosi compromessi con chi gliel’aveva comminato (vv. 91-93).

L’interpretazione prevalente di questi versi vede Virgilio pronto a lodare Dante per il suo proposito di registrare nella mente la profezia di Brunetto, così da non lasciarsi cogliere impreparato dagli avvenimenti, e in ogni caso egli deve attendere che sia Beatrice a spiegargli il senso di questa e altre profezie sul suo destino.

In realtà l’elogio di Virgilio è anche un rimprovero nei confronti di Brunetto, che avrebbe dovuto «prendere nota», quand’era in vita, di una sapienza del genere (lui che nel Tesoretto biasimava espressamente la sodomia, cfr cap. 12, La penitenza, vv. 2873-2889). Virgilio sembra essersi seccato di tutta la prosopopea di Brunetto (il quale peraltro aveva fatto capire al suo discepolo che non aveva bisogno di avere altro maestro che se stesso), e vorrebbe che Dante riprendesse il suo cammino. Invece Dante vuol continuare a interrogarlo, chiedendogli chi sono i suoi compagni di girone.

Cerchiamo di capir bene questo passaggio, perché fondamentale per individuare il vero motivo (quello esistenziale) per cui Dante ha voluto mettere Brunetto Latini all’inferno, che non può essere quello della sodomia: questa infatti è solo una motivazione formale, eticamente dovuta, in coerenza alla teologia cattolica.

Brunetto Latini è in realtà colpevole di altre cose: 1. è ingrato nei confronti dei concittadini fiorentini, lui che ha avuto onori e riconoscimenti come nessun altro nel Duecento; 2. l’odio nei confronti dei fiorentini gli ha palesemente rovinato la coscienza, essendo egli incapace di guardare le cose obiettivamente; 3. giustifica la propria omosessualità dicendo che nella sua schiera vi sono alti prelati e intellettuali di spicco.

Si è in errore pensando che Dante qui voglia rievocare il magistero morale e civile del Latini. In realtà gli riconosce soltanto la grandezza dell’ingegno intellettuale, quello di un uomo di ampia cultura, il quale, infatti, alla fine del Canto, chiede di essere ricordato per la sua importante enciclopedia (il Trésor), che sicuramente era già conosciutissima, mentre Dante, subito dopo questa richiesta, lo fa invece correre in maniera ridicola, come un podista che deve raggiungere la sua squadra per non essere severamente punito.

Qui insomma è evidente che, secondo Dante, non è l’ingegno intellettuale o la cultura in generale che fa «grande» una persona, ma solo la sua rettitudine morale. La personalità di Brunetto appare, in effetti, un po’ immatura, quella di uno che non ha ancora risolto i suoi problemi esistenziali, quelli da adolescente: per tutto il Canto non ha fatto altro che condannare i propri concittadini, senza rendersi conto che, nel migliore dei casi, lui non era stato certo migliore di loro, almeno non sul piano etico.

Dal testo infatti non si ha modo di capire che l’omosessualità del Latini fosse vissuta diversamente da quella dei suoi compagni di girone. Semplicemente sembra che qui egli faccia la parte della «vittima», dell’incompreso da parte di una comunità d’incompetenti, di rozzi illetterati, ma anche d’ingrati, di maligni (v. 61), di ciechi, avari, invidiosi, superbi (v. 67-8), bestie (v. 73), malvagi (v. 78), lerci (v. 108). È impressionate l’elenco degli aggettivi usati per squalificare i propri concittadini che lo stimarono sin all’ultimo giorno della sua morte.

Insomma si ha l’impressione che Dante non metta anzitutto all’inferno Brunetto per la sua omosessualità (anzi, sotto questo aspetto, avrebbe potuto tranquillamente non farlo, visto che questo suo orientamento sessuale era cosa privata), quanto piuttosto perché egli aveva vissuto uno stile di vita in una forma di astiosità irragionevole, di esagerato egocentrismo, che l’aveva indotto a logorarsi l’animo, a privarsi di una certa rettitudine morale. Nel Canto Brunetto si preoccupa di dare molti buoni consigli al suo discepolo prediletto, ma il primo a non metterli in pratica fu proprio lui.

Per descriverlo così, Dante doveva conoscerlo molto bene, anche perché ha voluto prendersi la responsabilità di tramandarci del suo maestro di retorica il ricordo di un dannato, la cui omosessualità – vista la meraviglia dimostrata al vederlo in quel girone – non doveva essere di dominio pubblico quando lui era in vita.

D’altra parte la sua conoscenza dell’omosessualità non è affatto banale, anzi è ben visibile sin dall’inizio del Canto, là dove descrive il modo in cui i dannati lo guardavano camminare a fianco di Virgilio, nell’oscurità. Li scrutavano con occhi fissi, ambigui, quasi ammiccanti e uno di loro, appunto Brunetto, con una certa invadenza, che avrebbe potuto impaurire Dante (a causa del volto deformato dal fuoco) o indispettire Virgilio (a causa di questa confidenza inaspettata, non richiesta), prese il lembo della veste di Dante, allungò il suo braccio verso di lui, prima ancora d’aspettare d’essere riconosciuto.

Da notare che Dante, nonostante tutto ciò, nonostante la deformità di quello, la sua bruttezza esteriore, gli riconosce l’identità e, in questa, un dramma interiore; non se ne discosta con disgusto: ha pietà di un uomo che gli fa orrore, con cui non aveva avuto rapporti erotici, né liberi e spontanei né contro la propria volontà, come alcuni dantisti omosessuali sostengono, altrimenti o non l'avrebbe messo all'inferno (ma nel purgatorio, insieme ad altri sodomiti), oppure non avrebbe certo usato parole tanto riguardose nei suoi confronti. In questo sta la grande diversità morale tra i due.

Nota

Brunetto è ritratto giovane e biondo nel momento del riconoscimento, ed è vecchio e barbuto mentre discorre con Dante.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019