Inferno: Canto II
L'IDEA DI INTERCESSIONE I Lunghissimi i versi del Canto II dell'Inferno, in cui Dante esprime il suo timore d'apparire presuntuoso nel fare un viaggio oltremondano, in virtù del quale dovrà necessariamente incontrarsi con persone già morte, di cui solo dio, nella concezione cristiana, può sapere con certezza il destino. "Io non Enea, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri 'l crede" (vv. 32-3). E' un espediente tattico, utile per anticipare le inevitabili accuse che gli sarebbero state mosse. In realtà egli non vuole togliersi il piacere, ora che è esule, e quindi libero da responsabilità politiche verso i propri avversari, di dire di loro tutto quanto desidera. Avrebbe potuto farlo in maniera meno solenne o meno impegnativa (usando p.es. delle lettere), ma in tal modo non avrebbe potuto soddisfare la sua esigenza di mettersi in mostra, di far vedere e valere il proprio ingegno letterario (non dimentichiamo che mentre scrive l'Inferno è alla ricerca di un'occupazione dignitosa). Insomma ha voluto esagerare, anche perché, lontano dagli impegni stressanti della politica, aveva più tempo per agire come intellettuale, come studioso di "lettere", come poeta di professione. La Commedia è una sorta di diario personale, dedicato, in prevalenza, a recenti vicende politiche, in cui viene usato un registro di altissimo livello, che ha indotto i critici a considerarla un capolavoro della letteratura mondiale di tutti i tempi. Dante sapeva benissimo di cosa sarebbe stato capace. L'Inferno gli doveva servire anche come biglietto da visita per ottenere incarichi prestigiosi nelle varie sedi signorili presso cui avrebbe bussato in qualità di rifugiato politico. Anche il De Vulgari Eloquio, il Convivio e il De Monarchia dovevano servire allo stesso scopo. Ma Dante ad un certo punto s'era reso conto che il meglio di sé riusciva a darlo più nella trattatistica nella poesia, proprio come in gioventù, quando amava gli stilnovisti, i provenzali, i siciliani... O forse aveva capito che questo genere letterario si prestava meglio ad assicurargli quel consenso di cui aveva bisogno in tempi brevi. Di sicuro infatti, usando una forma poetica in lingua volgare, egli avrebbe potuto raggiungere un pubblico più vasto che non scrivendo in latino, un pubblico che non solo avrebbe potuto leggerlo ma anche semplicemente ascoltarlo, apprezzando, di quei versi, una musicalità a dir poco eccezionale. Questa fu davvero un'intuizione geniale, forse la più moderna in assoluto di tutta la sua produzione letteraria, che molti puristi dell'epoca non riuscirono ad apprezzare. Il grande avvenimento della Commedia fu trasversale ai suoi stessi contenuti: la nascita della lingua italiana. Che Dante abbia lavorato molto su questa Cantica, di sicuro la meglio riuscita delle tre, che l'abbia sottoposta a continue revisioni prima di decidersi a pubblicarla, lo si intuisce anche dai versi 37-42, che meritano d'essere riportati, tanto son belli e significativi: E qual è quei che disvuol ciò che volle tal mi fec'io 'n quella oscura costa, In essi dobbiamo scorgere la coscienza travagliata di un onesto intellettuale, che vuole guardare le cose nella maniera più obiettiva possibile. L'Inferno non è la requisitoria di una vittima rancorosa che vuole fare i conti coi suoi persecutori. Dante era un professionista della politica, un vero statista (nell'ambito ovviamente della repubblica comunale medievale), non era un fanatico dell'ideologia, cattolica o laica che fosse. Bonifacio VIII sapeva con quanto scrupolo egli tenesse uniti i motivi etici a quelli politici: per questo dovette raggirarlo usando il massimo dell'astuzia. E i suoi nemici politici, pur di non averlo più tra i piedi, furono costretti a inventarsi le accuse più assurde, pretendendo addirittura, una volta che avesse accettato l'amnistia, che le riconoscesse pubblicamente con umiltà. II Il Canto II è un Canto particolare, sembra una ripetizione del primo. Se Dante all'ultimo minuto l'avesse tolto, lasciando il primo e il terzo intatti, non ci saremmo accorti della sua mancanza. Doveva quindi essere per lui molto importante. La ragione sta nel fatto che in esso ha voluto introdurre un nuovo personaggio, di cui però non parlerà più per due intere Cantiche: Beatrice. Perché chiamarla subito in causa? Non sarebbe bastato che Virgilio spiegasse a Dante, alla fine della seconda Cantica, il motivo per cui non poteva accompagnarlo in paradiso, chiarendogli anche il vero motivo (l'istanza di Beatrice, che poi, vedremo, non era solo sua) per il quale lui era stato indotto a soccorrerlo nei pressi della selva oscura, quand'era alle prese con la lupa famelica? Che cosa sarebbe cambiato se Virgilio avesse evitato di dire subito a Dante tutta la verità circa il suo atteggiamento benevolo e premuroso nei suoi confronti? Cioè se gli avesse detto, una volta giunti in cima al monte del purgatorio, che non aveva deciso di aiutarlo e di fargli da guida spontaneamente ma su richiesta di Beatrice e che comunque l'aveva accettato ben volentieri, il lettore avrebbe avuto di Virgilio un'impressione negativa? così negativa da pensare ch'egli non meritava il paradiso non solo in quanto "pagano" ma anche in quanto persona non limpidissima? Questa cosa è molto dubbia. Dante non avrebbe mai permesso a Virgilio di fare brutte figure, anzi il fatto stesso di non poterlo mettere in paradiso sembra seccargli alquanto. Ma allora, se Virgilio sapeva che Dante lo considerava il suo poeta preferito e che di lui aveva una gran stima sotto ogni punto di vista, che bisogno aveva di agire dietro richiesta di Beatrice? E' impossibile per un critico non accorgersi che proprio la richiesta d'intervenire, da parte di Beatrice, rende in qualche modo poco spontaneo l'agire di Virgilio, poco sentita la sua premura per Dante. Lo stava aiutando solo per fare un favore a Beatrice, alla quale peraltro, in virtù delle gerarchie ultraterrene, non avrebbe potuto rifiutare alcunché, oppure pensava davvero di compiere un atto di generosità, nella piena libertà della propria coscienza? Introducendo così inaspettatamente la figura di Beatrice, Dante crea per così dire una situazione incresciosa: il giudizio che il lettore s'era fatto di Virgilio nel Canto I inevitabilmente muta. Ma c'è dell'altro e di teologicamente più grave, almeno da un punto di vista cattolico. Il più grande poeta latino, il vero maestro di Dante, l'esempio umano da imitare, costretto dalla chiesa romana a stare nel limbo, riesce a parlare con la cristiana Beatrice, riconoscendola in tutto il suo splendore, agendo come un perfetto cristiano: dunque che assurdità non poter mettere in paradiso un poeta come lui, che può comportarsi da cristiano quanto vuole ma resta sempre un "pagano", ancorché non per sua colpa, visto che era nato prima di Cristo. La domanda insomma non è oziosa: non bastavano le motivazioni di Virgilio per spiegare l'aiuto che gli aveva prestato nella selva oscura e che voleva continuare a prestargli fino alla cima del monte purgatorio? Perché aggiungervi anche quelle di Beatrice, le quali, peraltro, essendo lei già in paradiso, inevitabilmente finiscono col ridurre di valore quelle del pagano Virgilio, costretto dalla teologia a stare nel limbo. Dante non può non essersi reso conto di questo, altrimenti non avrebbe fatto dire a Beatrice un elogio, all'indirizzo di Virgilio, paragonabile solo a quello che l'umanità intera riserberà allo stesso Dante (vv. 58-60). III Dante ha chiamato in causa Beatrice per mostrare che la sua intenzione di scrivere la Commedia non era politica ma poetica. Egli è sì un esiliato per motivi politici, ma non vuole apparire fanatico di alcunché, non desidera diventare martire per un ideale: la sua aspirazione è soltanto quella di vivere una vita dignitosa lontano dalla sua patria prediletta. Ecco perché mette subito le mani avanti: sarà duro coi suoi avversari d'un tempo, ma gli si conceda l'asprezza in nome dell'arte. Che i critici non esagerino a contestargli i contenuti dell'opera, poiché in fondo si tratta soltanto di una finzione poetica, in cui è normale che l'autore, già da molti riconosciuto essere un grande, si prenda qualche licenza di troppo, come p.es. quella di mettere all'Inferno pontefici come Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V... L'entrata in scena di Beatrice, all'inizio di questa Cantica, è dunque solo un espediente. In realtà il poema non è paragonabile neanche lontanamente ai sonetti giovanili, per quanto proprio nel Canto II vi sia una ripresa dei temi stilnovistici. E' vero, anche qui una donna angelicata pare musa ispiratrice, ma tutto finisce lì: le terzine avranno aspetti altamente drammatici, con marcati accenti di natura etica e politica e purtroppo con molti appesantimenti di natura teologica. E' da escludere che Dante fosse così superstizioso da chiedere l'intercessione mistica di Beatrice per la stesura della Commedia. Certamente prima di sposarsi con Gemma Donati, nel 1285, egli era stato innamorato di lei, ma non l'avrebbe mai trasformata in una semi-divinità o in una santa se non ne avesse avuto bisogno, e ora che si muove in chiave poetica il bisogno può anche essere soddisfatto. Dante era sì un poeta ma anche incredibilmente razionale: è difficile pensare che in questa Cantica vi sia anche la più piccola cosa lasciata al caso. Il fatto stesso che già nel prologo dell'Inferno egli faccia dire a Beatrice che tutti in cielo sanno del suo viaggio, è difficile non pensare che qui vi sia una forma di spavalderia. Come Marx con la Sinistra hegeliana nell'Ideologia tedesca, Dante avrà bisogno di regolare i suoi conti, proprio partendo dal presupposto di aver avuto ragione e di continuare ad averla anche dopo le sue vicende politiche. Questo per dire che sarebbe stato sciocco non far capire subito ch'egli aveva dalla sua la forza del cielo, la giustizia "cattolica", quella vera, non quella pontificia. Anche questa è stata una trovata geniale: proprio mentre fa credere al lettore ch'egli non aveva il coraggio di compiere il tragitto oltremondano, perché si sentiva debole, sfiduciato e in fondo colpevole, al punto che aveva bisogno di un aiuto esterno, gli fa anche capire che questo aiuto non gli viene soltanto dal limbo ma addirittura dal paradiso, cioè sia sul piano umano che religioso, entrambi strettamente connessi a quello politico. Che cosa tuttavia avrebbe detto la moglie di Dante al leggere che non lei, ma la donna che lui avrebbe voluto amare da giovane sarebbe stata protagonista indiscussa di un'intera Cantica, fonte addirittura di un rapporto privilegiato, esclusivo, con lui, al punto che gli avrebbe permesso di accedere sino ai cerchi più alti del paradiso? Non può aver fatto piacere né a Gemma né ai suoi figli tutto questo trasporto amoroso che l'uno e l'altra poeticamente provano (anche se nella vita reale non fu reciproco), questo particolarissimo interesse di una donna angelicata e beatificata, senza che ce ne fosse una valida ragione, per il suo conterraneo. Non si preoccupa Dante di rischiare di far credere che lui, già sposato con Gemma sin dal 1285, rimpiangeva la sua passione d'amorosi sensi per Bice Portinari, nata nel 1266 da un ricco banchiere e andata in sposa, appena adolescente, a un altro ricco banchiere, Simone De' Bardi, e morta giovanissima nel 1290, probabilmente di parto? Non gli era bastato dedicare un intero poema, Vita Nova, alla fiamma del suo cuore appena due-tre anni dopo la morte di lei, senza mai invece dedicare neppure una riga, in tutta la sua vita, alla madre dei suoi cinque figli, che li allevò sino a quando essi furono in grado di raggiungerlo a Verona? Sì se ne preoccupa e lo dimostrerà più avanti, quando farà dire a Beatrice che in realtà essa stessa si muove dietro richiesta di una santa molto più importante di lei, la martire siracusana Lucia, patrona della vista, che sarebbe stata molto cara a Dante. Anche questo però è un espediente che la coscienza cattolica impone a quella laica, entrambe conviventi nella stessa persona del poeta. Egli sa bene di non poter chiamare in causa il matrimonio combinato che lo costrinse a sposare Gemma, né può, tanto meno, prendere a pretesto della sua passione per Beatrice il fatto che Gemma fosse strettamente imparentata col suo peggior nemico politico, Corso Donati, il principale artefice del suo esilio. IV Torniamo ora al rapporto tra i due intercessori a favore di Dante: Beatrice e Virgilio. I versi 73-74: "Quando sarò dinanzi al segnor mio, / di te mi loderò sovente a lui", paiono alquanto infelici. Beatrice infatti sembra voler proporre a Virgilio una forma di baratto: "tu aiuta Dante a superare le sue prove e a fargli fare indenne il viaggio e io dirò una buona parola su di te a chi mi comanda". Uno scambio di favori che mal si addice a un'anima pura e innocente come quella di Beatrice. Peraltro cosa sarebbe cambiato per il destino di Virgilio? Avrebbe forse ottenuto uno sconto della pena del limbo, dove non c'è "né dolore né felicità" (v. 52), dove cioè le anime vivono in una condizione non molto diversa da quella di un automa meccanico, abituato soltanto, non avendo personalità, a eseguire ordini che provengono dal suo artefice. Chi mai sono questi soggetti ambigui? Dei burattini nelle mani di dio? Intuendo i problemi che poteva creare l'improvvisa mediazione di Beatrice, Dante si sente costretto a far dire a Virgilio due cose quanto meno iperboliche: 1. Beatrice rappresenta quella virtù umana che sull'intero pianeta Terra è la cosa più grande di tutte; 2. egli non ha bisogno di obbedire a un ordine quando questo coincide perfettamente col proprio desiderio (vv. 76-81). Si rendeva conto Dante d'aver dato di Virgilio una rappresentazione del tutto incompatibile con la sua presenza nel limbo? Sì, se ne rendeva conto e infatti a partire dal verso 82 inizia a fare una cosa che ci lascia quanto meno sconcertati. In maniera mirabile, come solo un genio dell'arte può fare, egli sta per smentire la sua adesione all'ideologia cattolico-romana proprio mentre ne fa l'apologia. Infatti alla domanda, tra il curioso e l'imbarazzante, che Virgilio pone sul motivo per cui Beatrice non abbia disdegnato di scendere sino al limbo per parlare con lui, lei risponde, serafica, negando valore al manicheismo della chiesa romana, sempre preoccupata di dividere gli uomini in fedeli e infedeli, facendo scoppiare continue tensioni politiche e guerre di religione, lei risponde: "Bisogna temere solo quelle cose che hanno il potere di fare del male"(vv. 88-9). Che in altre parole voleva dire che non esistono cose in sé pure, innocenti, perfette, che per definizione, in maniera ipostatizzata, fanno solo del bene. Tutto è relativo. E' dunque assurdo il principio extra ecclesiam nulla salus. Qui Dante diventa un campione di laicità. Chi può stabilire a priori quali cose possono fare del male e quali no? E' mai esistito un apriorismo del genere? Ora però bisogna stare attenti a quanto Beatrice dice al verso 91, poiché bisogna capire se si è rimasti ancora entro i limiti epistemologici della laicità o se invece si è sconfinati verso una concezione religiosa della realtà. Questo è molto importante, sia perché in Dante convivono due forme di consapevolezza, una umana l'altra religiosa, sia perché egli non è libero di dire quel che pensa, a causa dei pesanti condizionamenti dell'ambiente, che lo costringono a vivere da esule, andando a elemosinare una stima, una considerazione che come intellettuale di valore gli dovrebbe invece spettare di diritto. Beatrice sostiene che l'impassibilità le impedisce di corrompersi quando viene a contatto con le miserie degli uomini. E, per evitare di far credere che si tratti d'indifferenza, precisa ch'essa le è stata concessa da dio. Dunque - ci si può chiedere - questa apatheia può essere vissuta solo in forma religiosa o possiede anche degli addentellati in ambito laico? Dante la attribuisce a Beatrice e questa al suo Dio. Perché Dante non la attribuisce a se stesso, visto che, parlandone in termini così lusinghieri, sicuramente essa apparteneva anche al suo modo di fare? Proprio con questa impassibilità aveva superato lo scoglio della prima prova, la selva oscura; perché mai non avrebbe potuto superare lo scoglio della seconda prova, quella delle tre fiere? La risposta è molto semplice: un uomo sconfitto sul piano politico e per giunta in crisi su quello religioso a che titolo potrebbe sostenere di possedere una virtù che gli avrebbe permesso di restare se stesso in mezzo a tanta corruzione? L'unica certezza su cui può far leva è quella della morale interiore, quella della coscienza personale, che però non può esibire come prova. Lui sa di essere stato un integerrimo statista, ma quanti pubblicamente ancora lo accusano (e la sentenza capitale è persino ricaduta sui figli) sostengono il contrario e nessuno è in grado di smentirli, nessuno si arrischiò mai a difendere la causa di Dante contro il partito guelfo dei Neri (Firenze riabiliterà Dante a 700 anni dall'esilio!). Dev'essere stato abbastanza imbarazzante, per lui, dover attribuire a Beatrice una virtù ch'egli stesso sapeva bene di possedere: l'impassibilità al peggior male che possa rovinare un politico, la corruzione. Tanto più ch'egli aveva sviluppato quella virtù in un ambiente dove le passioni furenti e persino omicide si svolgevano tra opposte fazioni che si dicevano ispirate a valori cristiani. Il fatto dunque ch'egli faccia dire a Beatrice che l'impassibilità le era stata concessa per grazia divina va colto non come una forma di esaltazione delle virtù cristiane, ma come una forma di ripiego cui egli si sente obbligato a causa di circostanze politiche troppo sfavorevoli per poter mostrare che la virtù egli la possedeva senza riferimenti religiosi. In altre parole, se Dante avesse potuto riscattarsi grazie alla revanche dei Bianchi sui Neri, con o senza l'aiuto di Arrigo VII, molto probabilmente egli avrebbe fatto di tutto, una volta ripristinata la legalità, per evitare che si ordinassero esecuzioni esemplari a carico dei filopapisti. Lui stesso, personalmente, aveva già dimostrato la sua capacità di equidistanza quando aveva espulso dalla città i capi di entrambi i partiti politici: Guido Cavalcanti e Corso Donati. Ora invece, non potendosi difendere come vorrebbe e sentendosi politicamente sconfitto e religiosamente in crisi di coscienza, non può fare altro che attribuire alla cristiana ma ingenua Beatrice quanto lui, umanamente e laicamente, aveva maturato per conto proprio, specie nel duro tirocinio della politica attiva. In altre condizioni si sarebbe limitato a chiedere "assistenza", per così dire, al solo Virgilio, almeno sino alla vetta del paradiso, visto che solo fin qui quegli avrebbe potuto accompagnarlo. E forse l'avrebbe fatto senza essere motivato da chissà quali angosce, ma semplicemente per avere un amico con cui fare un viaggio particolare, una guida già esperta di oltretomba. Altri visionari della tradizione cristiana, rapiti in estasi, non avevano avvertito la necessità di essere accompagnati da qualcuno. Il fatto è che Dante doveva porsi il problema di come rifarsi una credibilità agli occhi del nuovo potere istituzionale con cui era venuto in contatto, il quale era sicuramente a conoscenza delle accuse mosse a quel "ghibellin fuggiasco". L'atteggiamento di profonda umiltà che Dante manifesta in questa Cantica non doveva essere molto diverso da quello che le circostanze gli imponevano se voleva continuare a sopravvivere. V Ora però deve parlare di Lucia. Deve farlo perché avendo già esaltato Beatrice in gioventù, non può di nuova osannarla, e in una maniera così sublime, senza destare il sospetto che il suo matrimonio con Gemma (che nella Commedia non viene mai citata) fosse stato una cosa abbastanza formale; deve fare in modo che il suo rapporto ideale con Beatrice venga in qualche modo ridimensionato, altrimenti egli passerà alla storia come un uomo che sul piano dei sentimenti amorosi ha soltanto vissuto di rimpianti. Beatrice ci tiene subito a precisare che non era intervenuta perché "innamorata" di colui che la cantava nei sonetti d'un tempo, ma perché dall'alto Lucia gliela aveva chiesto. Ha eseguito un ordine e lo aveva fatto molto volentieri proprio perché le era "devoto": "Or ha bisogno il tuo fedele / di te". E' facile notare come, tutto sommato, Virgilio sta a Beatrice come Beatrice sta a Lucia. Si ripetono meccanismi gerarchici di potere, utili a sottrarre Dante dalle accuse di ateismo e di libero amore. Chiunque al suo posto, in una situazione normale, sul piano emotivo, si sarebbe risparmiato d'introdurre subito in scena un personaggio così poco neutrale come Beatrice, così compromettente: gli sarebbe bastato Virgilio, ed eventualmente, al momento di salire in paradiso, Beatrice avrebbe potuto venirgli incontro spontaneamente, senza preavviso, per fargli un bel regalo con la sua presenza, rievocando i tempi passati. Con la sua regia invece Dante ha fatto capire che tutto era già stato preordinato e che egli quindi aveva potuto accettare l'interessamento di Beatrice senza preoccuparsi eccessivamente di quel che avrebbero potuto dire i critici, coloro che sapevano del suo matrimonio con Germma Donati. La stessa Gemma (che ricordiamo morì intorno al 1332) se avesse letto questa Cantica come avrebbe potuto rimanerci? Come avrebbe potuto giudicare l'idea di chiamare in causa Lucia per attenuare il rischio d'interpretare il pronto intervento di Beatrice come un segno di qualcosa che andava oltre la semplice amicizia? Sia come sia la parte riguardante Lucia appare posticcia, ridondante e tutto sommato poco significativa nell'economia del Canto, ch'era partito in modo drammatico e finisce quasi in modo teurgico. In pratica egli ha fatto in modo di attribuire molta più volontà redentiva a Lucia che non a Beatrice. Lo ha fatto proprio per salvare le apparenze, cioè per non far vedere ch'egli in realtà avrebbe voluto amare la "donna sua", che "tanto gentile e tanto onesta" appariva, e che non poteva essere scordata neppure dopo i tanti anni di matrimonio con Gemma (che pur dopo l'esilio probabilmente Dante non rivide più). Non solo, ma c'è anche qualcosa di melodrammatico che rende tutta la scena inerente alla santa siracusana molto artificiosa. Infatti sembra che solo in virtù della intercessione di lei, egli avrebbe potuto salvarsi dall'ira divina (vv. 94-6). Era così preoccupante la situazione di Dante? Apparentemente sembra di sì. Infatti qui si vuol far credere che non sarà grazie al pagano Virgilio né all'amata Beatrice che riuscirà a vincere le tentazioni, ma solo grazie all'intercessione di una santa, per quanto introdotta da Beatrice, nel suo discorso riportato da Virgilio, senza neppure una valida spiegazione, senza una motivazione convincente. Dante era senza dubbio un uomo probo e onesto, che non si meritava l'esilio e le accuse infamanti dei suoi avversari politici e tanto meno le condanne capitali, a lui e ai figli; ma era anche un uomo estremamente intelligente, avveduto, in grado di capire a cosa sarebbe andato incontro, da posizioni di debolezza, quali inevitabilmente sono quelle di un esiliato, se avesse usato espressioni che avrebbero potuto suscitare sospetti e malignità, in rapporto alle idee dominanti dell'epoca. Mettere politicamente alcuni papi all'inferno sarebbe stato più facile da accettare, in quel clima infuocato di battaglie politiche, che non contraddire i dogmi della chiesa o prestare il fianco a possibili critiche su comportamenti di tipo morale. Dante qui ha bisogno di apparire come un buon cattolico, vittima più che altro di circostanze a lui avverse, incapace di reagire con la dovuta risolutezza, che ora ha bisogno di affidarsi a chi ha più potere di lui. Così facendo non potranno rimproverarlo di aver apprezzato eccessivamente un poeta pagano, né di aver desiderato la donna altrui. Anzi quest'ultima viene per un momento dipinta come una che non s'accorge delle effettive difficoltà del suo cantore e ha bisogno che gliele ricordi Lucia. Sembra essergli quasi indifferente, quasi irriconoscente del fatto che grazie a lei Dante diventò il "sommo poeta" e sembra addirittura preferirgli la compagnia di Rachele, seconda moglie di Giacobbe. Sembra ma non è così. Rachele in realtà è il "doppio" di Beatrice, personifica ciò che Dante avrebbe voluto avere: un'altra donna al posto della moglie. Lui in un certo senso si identifica con Giacobbe, che appena vide Rachele al pozzo la baciò e pianse di commozione, innamorandosene perdutamente. E ancor più s'identifica con Giacobbe quando al momento di sposare Rachele, il padre di questa lo ingannò, dandole in moglie la sorella di lei, Lia, dallo "sguardo spento"(Gn 29,17). A Giacobbe ci vollero altri sette anni di duro lavoro prima di sposare anche Rachele, a Dante ci volle l'esilio prima di cantarla per la seconda volta. Assolutamente esagerato è quanto Dante fa dire a Virgilio che non solo Lucia e Beatrice erano disposte ad aiutarlo ma persino la Vergine Maria. Sono dunque tre le donne che vogliono la sua salvezza. Impossibile qui non constatare come Dante non volesse mostrare quanto poco era debitore nei confronti degli uomini cattolici come lui. L'unico uomo che si prende cura di lui è un pagano (come il centurione che riconoscerà la divinità al Cristo crocifisso) e, quanto ai cristiani, ci sono solo tre donne, come quelle che piangono ai piedi della croce la fine del messia. Scheda su Dante Alighieri - De Vulgari Eloquentia - Paolo e Francesca - Il conte Ugolino - I papi simoniaci - Casella - Selva oscura - Dante e Ulisse - Ignavi - Ciacco - Avari e prodighi - Filippo Argenti - Farinata - Vita Nuova Fonti Opere di Dante Alighieri
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