Kant apre una pagina nuova di filosofia

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Kant apre una pagina nuova di filosofia

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Giuseppe Bailone

Gli interessi di Kant sono inizialmente perlopiù naturalistici e scientifici.

Nel 1755 pubblica anonima la Storia universale della natura e del cielo.

È un’opera che, pur condotta secondo i principi newtoniani, presenta una spiegazione sull’origine dell’universo molto originale: mentre Newton, infatti, è convinto che l’ordine del mondo fisico rimandi alla creazione divina, Kant propone l’ipotesi che il sistema celeste sia stato originato dal moto vorticoso di una nebulosa primitiva. Alla paternità kantiana di questa concezione sarà poi aggiunta quella di Laplace, che elabora, in modo del tutto autonomo, nel 1796 un’ipotesi simile.

Nel 1756 scrive la Monadologia physica, in latino. Scrive inoltre di venti e di varie questioni di geografia fisica. Raccoglie tutte le informazioni disponibili sul terribile terremoto di Lisbona del primo novembre 1755 ed elabora una teoria sui terremoti, che, pur in seguito smantellata, rappresenta l’inizio della sismologia scientifica in Germania.

Nel 1759 fa un saggio sul Movimento e la quiete.

Nel 1759 scrive Saggi di talune considerazioni sull’ottimismo, poche pagine che, come ci dice il suo primo biografo Borowski, il vecchio Kant vorrebbe non aver mai scritto e gli chiede di espungere dall’elenco delle sue opere. Scritto sullo sfondo del dibattito filosofico e teologico sviluppatosi in seguito al terremoto di Lisbona, questo saggio propone una visione ottimistica di tipo leibniziano e, come Rousseau scriveva a Voltaire nel 1756, sostiene “che l’intero è l’ottimo, e tutto è buono in rapporto all’intero”.

Kant comincia adesso a orientare sempre più i suoi interessi verso la filosofia.

Nel decennio 1760-70 s’interessa intensamente alla filosofia inglese, in modo particolare al pensiero di Hume, la cui Ricerca sull’intelletto umano è stata tradotta in tedesco nel 1756. Si lascia affascinare da Rousseau, il cui ritratto, appeso sopra la scrivania, è il solo elemento decorativo in casa sua. Risente della pubblicazione nel 1765 dei Nuovi saggi sull’intelletto umano (scritti nel 1703 ma rimasti inediti) di Leibniz che propone alla discussione filosofica un Leibniz molto più complesso di quello della scolastica leibniziana.

Gli scritti di questo periodo “manifestano – scrive Giuseppe Riconda – un pensiero in movimento, un pensiero che si cerca e che appunto in questa ricerca trova la sua espressione, una ricerca che è fatta di colpi di sonda in profondità che sembrano voler mettere in luce le difficoltà di quanto prima sembrava dato quasi per scontato e di apertura a nuovi ambiti problematici prima non toccati più che a semplici sviluppi di pensieri già introdotti”.1

In uno scritto del 1763, L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, parla della metafisica come di “un abisso senza fondo”, di “un oceano tenebroso, senza sponde e senza fari”, e dice che “in una scienza cosiffatta quale è la metafisica c’è un tempo in cui si ardisce spiegare tutto e tutto dimostrare; ce n’è un altro al contrario, in cui soltanto con timore e diffidenza ci si avventura in simili imprese”.2 Cardine dei suoi ragionamenti è in questo scritto la distinzione, stabilita in apertura, del predicato dell’esistenza da tutti gli altri predicati delle cose: mentre questi sono relativi alla cosa di cui son predicati, l’esistenza è la posizione assoluta della cosa in se stessa. L’esistenza non si può dedurre da concetti semplicemente possibili: è un dato d’esperienza. E spiega: “Per esempio, al liocorno di mare spetta l’esistenza, a quello di terra no. Ciò non vuol dir altro che questo: la rappresentazione del liocorno marino è un concetto d’esperienza, cioè è la rappresentazione di una cosa esistente. Per ciò, anche per dimostrare l’esattezza di questa proposizione dell’esistenza di una tal cosa, non si cerca nel concetto del soggetto, poiché in esso si trovano soltanto i predicati della possibilità; ma nell’origine della conoscenza che io ho della cosa. Si dice: l’ho vista, ovvero: l’ho appresa da coloro che l’han vista”.3

Il saggio sostiene che solo l’argomento a contingentia mundi può essere considerato valido per arrivare all’esistenza di Dio.

Nella Notizia sull’indirizzo delle sue lezioni del 1766, si legge la celebre ammonizione di tipo socratico: “Lo studente che apprende non deve imparare la filosofia, ma a filosofare”; e al metodo dogmatico occorre sostituire il metodo zetetico (dal verbo greco che indica l’andar cercando), del dubbio e della ricerca libera.

Nel 1766 pubblica anonimo i Sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, un testo molto singolare. In esso Kant, sollecitato da molti suoi amici e, in particolare, da una giovane donna dell’alta società, si occupa di una questione di cui si parlava molto a Königsberg: le facoltà divinatorie di un ingegnere minerario e scienziato svedese, Emanuel Swedenborg, che, convertitosi allo spiritismo, sosteneva di avere rapporti con gli spiriti d’oltretomba e aveva pubblicato un ponderoso libro sul loro mondo, che Kant si procura a carissimo prezzo per poter dire la sua a ragion veduta. Ne nasce un testo tra il serio e il faceto, in cui Kant, prendendo di mira il visionario svedese, si pronuncia sulla metafisica allora in auge e sui suoi limiti, e anticipa tesi che diventeranno centrali nel sistema della sua maturità filosofica. Nel suo attacco alla metafisica accademica e dogmatica, non risparmia neppure autorità metafisiche famose come Wolff e Crusius, le cui idee sarebbero di natura non meno visionaria di quelle di Swedenborg.

“Aristotele – scrive Kant – dice in qualche luogo: «Vegliando abbiamo un mondo comune, ma sognando ciascuno ha il suo mondo».4 Mi pare che si potrebbe benissimo invertire l’ultima proposizione e dire: se di diversi uomini ciascuno ha il suo mondo proprio, è da supporre che essi sognino. Su queste basi, se noi consideriamo quei fabbricanti di castelli in aria, ciascuno dei quali costruisce a sé un mondo del proprio pensiero e lo abita tranquillamente escludendone gli altri – quelli per esempio che abitano l’ordine delle cose come lo ha fabbricato Wolff con poco materiale di esperienza, ma con abbondanza di concetti surrettizi, o quelli che abitano i mondi tratti dal niente da Crusius grazie al potere magico di qualche sentenza sul pensabile e l’impensabile – attenderemo con pazienza, date le contraddizioni delle loro visioni, che questi signori abbiano finito di sognare. E quando finalmente, a Dio piacendo, essi saranno completamente svegli, quando cioè apriranno gli occhi a uno sguardo che non escluda l’accordo con altri intelletti umani, allora nessuno di loro vedrà cosa che non possa ugualmente apparire manifesta e certa a chiunque altro, grazie alla luce delle loro prove, e i filosofi abiteranno nello stesso tempo un mondo in comune, qual è quello che già da tempo occupano i matematici; e questo importante avvenimento non può differirsi più a lungo, se è da credere a certi segni e presagi che sono già comparsi da qualche tempo sull’orizzonte delle scienze”.5

Nelle ultime pagine del saggio aggiunge: “La metafisica della quale la sorte ha voluto che m’innamorassi – quantunque possa vantarmi di esserne stato ricambiato solo con rari segni di favore – presenta due vantaggi. Il primo è di appagare le questioni sollevate dallo spirito indagatore, quando ricerca con la ragione le proprietà recondite delle cose. Ma qui il risultato inganna troppo spesso la speranza e anche questa volta è sfuggito alle nostre avide mani.

Ter frustra comprensa manus effugit imago

Par levibus ventis volucrique simillima somno.6

L’altro vantaggio è più conforme alla natura dell’intelletto umano e consiste nel vedere se il problema si riferisca a ciò che possiamo sapere e quale rapporto abbia la questione con i concetti dell’esperienza, sui quali deve sempre fondarsi ogni nostro giudizio. Sotto quest’aspetto la metafisica è la scienza dei limiti della ragione umana, e siccome un piccolo paese ha sempre molti confini e in generale gli preme di più in questo caso conoscere e fissare bene i suoi possessi che non andar fuori alla cieca in cerca di conquiste, così questa utilità della predetta scienza è la più sconosciuta come la più importante e viene raggiunta soltanto tardi e dopo una lunga esperienza”.7

Kant individua qui due tipi molto diversi di metafisica:

  • uno, con la pretesa di affrontare le questioni più profonde, ci chiude in visioni private che aprono battaglie senza fine;
  • l’altro, praticabile con lo stesso rigore dei ragionamenti matematici e fisici, è la scienza dei limiti della ragione e del suo ambito di validità.

Il primo tipo di metafisica, come Kant chiarirà sempre meglio, può avere una sua legittimità se si limita a essere oggetto di fede razionale e, senza pretendere di fondare la morale, accetta di fondarsi essa stessa su questa. Infatti, Kant, proprio nell’ultima pagina di questo saggio satirico, sostiene già chiaramente le tesi delle pagine conclusive tanto della Critica della ragion pura che della Critica della ragion pratica: la fede nell’immortalità dell’anima non può fondare la morale, mentre può, invece, essere fondata da questa.

“Come? Non è bene esser virtuoso se non per il fatto che vi è un altro mondo, o non è vero piuttosto che le azioni saranno un giorno compensate perché erano per se stesse buone e virtuose? Il cuore dell’uomo non contiene dei precetti morali immediati, e si deve, per condurlo conformemente al suo destino, far leva sulla rappresentazione di un altro mondo? Può chiamarsi onesto, può chiamarsi virtuoso chi si abbandonerebbe volentieri ai suoi vizi se non lo spaventasse un castigo futuro, e non si dovrà piuttosto dire che egli teme certo di fare il male, ma nutre una disposizione viziosa nel suo cuore, che egli ama il vantaggio delle azioni che hanno l’apparenza della virtù, ma odia la virtù in se stessa? E infatti l’esperienza insegna che molti, i quali credono e sono convinti dell’esistenza di un mondo futuro, dati tuttavia al vizio e alla bassezza, pensano soltanto al mezzo di sfuggire astutamente alle conseguenze temibili dell’avvenire; ma non vi è mai stata anima bennata che abbia potuto sopportare il pensiero che con la morte tutto vada alla fine e il cui nobile sentire non si sia innalzato alla speranza dell’avvenire. Perciò sembra più conforme alla natura umana ed alla purezza del costume fondare l’attesa del mondo futuro sui sentimenti di un’anima ben costumata, che il fondare al contrario la sua buona condotta sulla speranza dell’altro mondo. Tale è anche la fede morale, la cui semplicità può essere al di sopra di tutte le sottigliezze del ragionamento e che unica e sola conviene all’uomo in tutte le condizioni, perché lo conduce senza rigiri al suo vero scopo. Lasciamo dunque alla speculazione e alla sollecitudine di teste sfaccendate tutte le rumorose dottrine su oggetti così remoti. Esse ci sono in realtà indifferenti e l’apparenza fugace delle ragioni pro e contro può forse decidere della approvazione delle scuole, ma difficilmente della sorte futura degli onesti. La ragione umana non è fornita di ali siffatte da poter fendere le alte nubi che velano ai nostri occhi i segreti dell’altro mondo, e ai curiosi che sono così smaniosi di indagarli si può dare la risposta semplice, ma molto naturale, che la cosa più prudente è di rassegnarsi ad aver pazienza finché non arrivino là. Ma siccome la nostra sorte nel mondo futuro può benissimo dipendere dal come abbiamo tenuto il nostro posto qua, concludo con le parole che Voltaire fa dire al suo onesto Candido, dopo molte discussioni inutili: «Pensiamo ai nostri affari, andiamo in giardino e lavoriamo!»”.8

Nel 1770 Kant diventa professore ordinario di logica e metafisica. Per l’occasione scrive e discute in latino la De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, che propone, come segnala il titolo, la distinzione tra la conoscenza sensibile e quella intellettuale.

È una novità importante, una rottura con la filosofia di Wolff e con la tradizione filosofica leibniziana, incardinata sull’idea della continuità tra i due tipi di conoscenza, distinguibili solo per il diverso grado di coscienza, oscura e confusa a livello della sensibilità, chiara e distinta a livello intellettuale.

Nei Sogni di un visionario aveva già sostenuto che la conoscenza intellettuale non sempre è esente da oscurità e confusione, mentre la scienza matematica prova che la conoscenza sensibile non sempre è oscura e confusa.

La matematica e certa metafisica provano, cioè, che ci possono essere oggetti sensibili molto chiari e oggetti intellettuali del tutto confusi.

Kant torna alla distinzione antica, illustrata nel mito platonico della caverna.

“La sensorialità è la recettività del soggetto, mediante la quale è possibile che lo stato autorappresentativo del soggetto sia affetto in un modo determinato dalla presenza di un oggetto. L’intelligenza (razionalità) è la facoltà del soggetto mediante cui questo riesce a rappresentare le cose che non possono arrivare a colpire i sensi per qualità loro. Oggetto della sensibilità è il sensibile; ciò che invece non comprende null’altro che ciò che si deve conoscere mediante l’intelletto è intelligibile. Nelle scuole degli Antichi il primo si chiamava fenomeno, il secondo noumeno. La cognizione è sensitiva per quanto è soggetta alle leggi della sensibilità; per quanto sottostà alle leggi dell’intelligenza è invece intellettuale cioè razionale”.

È sbagliato vedere nella sensibilità un pensiero confuso e nel pensiero una sensazione portata all’evidenza: “Male si spiega il sensitivo come un conosciuto piuttosto confusamente e l’intellettuale come qualcosa di cui si ha una cognizione distinta. Queste sono, infatti, soltanto differenze logiche che assolutamente non toccano i dati, presupposti da ogni comparazione logica. I dati sensitivi possono per l’appunto essere distinti e quelli intellettuali invece sommamente confusi. Osserviamo il primo fatto nella geometria, che è il prototipo della cognizione sensitiva, e il secondo nella metafisica che è l’organo di tutta l’area intellettuale: è palese quanto questa si dia da fare per disperdere le nebbie della confusione che offuscano l’intelletto comune, quantunque non sempre con lo stesso fortunato successo che accompagna l’operazione nel precedente caso della geometria. Non di meno ciascuna di queste cognizioni conserva il segno della sua stirpe, sì che le une, per quanto distinte siano, si chiamano – per via della loro origine – sensitive, le altre, per quanto confuse, rimangono pur sempre intellettuali: è il caso per esempio dei concetti morali, che sono conosciuti non per via di esperienze ma per opera del puro intelletto come tale. Temo però che l’illustre Wolff, per il fatto di ritenere meramente logico il discriminante tra fatti sensitivi e fatti intellettuali, abbia completamente abolito l’istituzione antica nobilissima di distinguere tra la natura specifica dei fenomeni e dei noumeni, con gran danno per la filosofia e abbia distratto il più delle volte l’attenzione dall’indagine su questi temi a minuzie logiche”.9

In Kant, come in Platone, ci sono due mondi, quello delle cose quali appaiono ai nostri sensi, e quello delle cose in se, che cerchiamo di conoscere con l’intelletto. I fenomeni sono “rappresentazioni delle cose come appaiono”, i noumeni sono “rappresentazioni delle cose come sono”.

L’idea della radicale discontinuità di sensibilità e intelletto, destinata a diventare un punto fermo del pensiero kantiano successivo, si accompagna ad altre due idee nuove di Kant, anch’esse destinate a diventare dei pilastri importanti nella costruzione del suo nuovo sistema: si tratta dell’idea della natura soggettiva, ma universale, dello spazio e del tempo, e di quella della natura puramente razionale della moralità.

Sulla natura della morale Kant scrive: “La filosofia morale, in quanto ci fornisce i primi principi del discernimento, non si conosce se non mediante il puro intelletto e appartiene di per sé alla filosofia pura: c’è quindi ben ragione di biasimare Epicuro che ridusse i criteri della filosofia morale al senso del piacere o di tedio e con lui certi novatori che l’hanno in qualche modo seguito alla lontana, come Shaftesbury e i suoi seguaci”.10

Sullo spazio Kant aveva già espresso una concezione originale due anni prima in Sul primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio. In questo scritto, contro la concezione leibniziana che lo spazio consista solo “nei rapporti esterni delle parti di materia che si trovano una accanto all’altra”, Kant sostiene che lo spazio ha una realtà indipendente dalla materia ed è il fondamento della sua possibilità come della possibilità nostra di rappresentarci i corpi.

Nella dissertazione del 1770, lo spazio perde del tutto il carattere di realtà esterna, che ancora mantiene in questo scritto del 1768, e si riduce a condizione formale nostra di rappresentarci i corpi.

Il concetto di spazio non viene astratto da sensazioni esterne. […] Lo spazio non è qualcosa di oggettivo e avente un contenuto come le cose: non è sostanza, né accidente, né relazione; è qualcosa bensì di soggettivo e di ideale, procedente dalla natura della mente secondo una legge fissa, una specie di schema destinato a coordinare soggettivamente tutto ciò che comunque è sentito. Di coloro che difendono la realtà dello spazio alcuni se lo immaginano come un ricettacolo assoluto e immenso di tutte le cose possibili – tesi che al seguito degli Inglesi lusinga la maggior parte dei geometri – altri sostengono che lo spazio è la relazione delle cose esistenti presa in se stessa, che a dire il vero una volta tolte via le cose risulta evanescente e non sensibile se non dentro fatti attualmente presenti, come asseriscono seguendo Leibniz i più dei nostri compaesani. Quanto alla prima escogitazione – del tutto immotivata – di mettere insieme infinite relazioni autentiche senza enti in reciproco rapporto siamo in pieno mondo delle favole. Cadono d’altra parte in un errore ancora peggiore coloro che declinano nella seconda opinione. Mentre i primi infatti non si mettono in urto che con certi concetti di ragione – cioè i noumeni – d’altro canto estremamente nascosti all’intelletto (quali ad esempio le questioni del mondo spirituale, dell’onnipresenza ecc.), i secondi si mettono in scoperto contrasto con i fenomeni stessi e con la più sicura interprete di tutti i fenomeni, con la geometria. A prescindere dal palese circolo vizioso in cui finiscono fatalmente per intrappolarsi nel definire lo spazio, essi strappano giù la geometria dall’apice della certezza e la respingono nel ruolo di quelle scienze i cui principi sono empirici. Infatti se tutte le proprietà dello spazio non fossero che mutuate per esperienza dalle relazioni esterne, agli assiomi della geometria non competerebbe che una universalità comparativa, quale quella che si acquista per induzione: vale a dire coestesa alla osservazione; non avrebbero altra necessità che quella alle leggi di natura già assodate né precisione che non sia arbitrariamente convenuta; e si potrebbe anche sperare, come accade nell’ambito empirico, di giungere una volta o l’altra a scoprire uno spazio dotato di proprietà primitive diverse, magari bilineo rettilineo”.11

Sul tempo Kant scrive: “L’idea di tempo non nasce dai sensi, ma è da essi supposta. I fatti che toccano i sensi – siano essi simultanei o tra loro successivi – non possono essere rappresentati che tramite l’idea di tempo; neppure la successione genera il concetto del tempo. Non si può quindi definire correttamente la nozione di tempo, in quanto acquisita per via d’esperienza, come la serie degli enti attuali esistenti l’uno dopo l’altro. Non comprendo, infatti, che cosa significhi il vocabolo dopo, se non ho già il concetto di tempo: giacché sono l’uno dopo l’altro appunto gli enti che esistono nel medesimo tempo. […] L’idea di tempo è dunque un’intuizione; e, poiché viene concepita anteriormente ad ogni sensazione come condizione delle relazioni che s’incontrano nei sensibili, è un’intuizione non sensoriale ma pura. […] Il tempo è un quanto continuo ed è il principio delle leggi del continuo nelle mutazioni dell’universo. Il continuo è, infatti, un quanto che non consta di semplici. E poiché mediante il tempo non sono pensate che relazioni senza che siano dati degli enti in relazione tra loro, nel tempo – come quantità – c’è una composizione che fa sì che non rimanga nulla qualora si pensi di toglierla completamente. Ora un composto, di cui non rimanga assolutamente nulla, una volta tolta ogni composizione, non consta di parti semplici. Quindi ecc… Pertanto una qualsivoglia parte del tempo è tempo; ed i semplici che ci sono nel tempo, ossia i momenti, non sono parti del tempo ma termini, tra i quali è disteso il tempo. […] Il tempo non è nulla di oggettivo e non è una cosa: non è né sostanza, né accidente, né relazione, è bensì condizione soggettiva – che la natura della mente umana rende necessaria – in forza della quale il soggetto deve coordinarsi i sensibili – quali che siano – secondo una legge ben definita: è inoltre intuizione pura”.12

Spazio e tempo sono forme soggettive della nostra sensibilità e gli oggetti spazio-temporali non sono cose in sé, noumeni, bensì fenomeni, cioè cose per noi, quali ci appaiono a causa di queste forme soggettive della sensibilità.

I fenomeni sono caratterizzati dall’essere nel tempo e dall’occupare uno spazio perché noi, soggetti sensibili, li sentiamo nel flusso continuo della nostra esperienza e li collochiamo prima durante o dopo in questo fluire e diamo loro una posizione relativa a tutte le altre cose che ci si presentano come esterne, supponendo lo spazio come luogo della loro esistenza. Lo spazio e il tempo delle cose non sono pertanto oggettivi, esterni: ce li mettiamo noi come condizioni formali dell’esperienza, e lo facciamo in base a delle funzioni formali universali, proprie cioè di tutti gli uomini.

Lo spazio e il tempo sono intuizioni (cioè sensazioni) pure (perché sono la condizione formale di tutte le sensazioni possibili e non sono sensazioni concrete) e non concetti.

La scienza si occupa dei fenomeni, la metafisica, quella tradizionale, delle cose in sé, dei noumeni.

Nel 1770 Kant pensa ancora che esistano concetti non condizionati dallo spazio e dal tempo e che sia quindi possibile una metafisica su cui fondare una teoria morale universale. Seguono undici anni di riflessione intensa e silenziosa, di lavorio sulle nuove idee, nel corso dei quali maturano una posizione sempre più critica nei confronti della metafisica tradizionale e l’idea che la morale sia autonoma e del tutto indipendente dalla metafisica.

Torino 26 gennaio 2015

NOTE

1 Giuseppe Riconda, Invito al pensiero di Kant, Mursia 1987, p. 31.
2 Kant, L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, Prefazione, in Kant, Scritti precritici, Laterza 1990, pp. 105-6.
3 Ib. pp. 113-4.
4 L’affermazione è in realtà di Eraclito, citata da Plutarco (Diels fr. 89).
5 Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, BUR 2001, pp. 128-9.
6 Virgilio, Eneide, II, 793: “Tre volte invano afferrata l’immagine sfuggì dalle mani, pari ai lievi venti, molto simile ad alato sogno”. Il verso prima in Virgilio dice di un triplice ma vano tentativo di Enea di gettare le braccia al collo del padre.
7 Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, BUR 2001, pp. 158-9.
8 Ib. pp. 164-5.
9 Kant, Scritti precritici, Laterza 1990, pp. 427, 430 e 431.
10 Ib. p. 432.
11 Ib. pp. 440-42.
12 Ib. pp. 435-8.

ANNO ACCADEMICO 2014-15 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 19 gennaio 2015

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 06-09-2015