L'IDEA DI SPAZIO E TEMPO IN KANT

TEORICI
Politici Economisti Filosofi Teologi Antropologi Pedagogisti Psicologi Sociologi...


L'IDEA DI SPAZIO E TEMPO IN KANT
Critica dell'Estetica trascendentale

L'IDEA DI SPAZIO E TEMPO IN KANT

I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII - IX - X - XI - XII - XIII - XIV - XV - XVI - XVII - XVIII - XIX - XX - XXI - XXII - XXIII - XXIV - XXV - XXVI - XVII

PREMESSA

Dopo essere uscito da una fase scientifica, detta "precritica", Kant arrivò a considerare lo spazio e il tempo due entità metafisiche, appartenenti a un tipo di estetica che non riguardava ovviamente il bello ma l'assoluto sensibile (l'intelligenza dei sensi) e che quindi doveva essere trascendentale. L'estetica trascendentale era per lui la scienza delle cose sensibili intuite o percepite in maniera aprioristica (secondo un processo logico che esclude il valore fondativo degli oggetti e dell'esperienza che se ne può fare), e quindi si trattava di cose (come appunto lo spazio e il tempo) la cui dimostrazione razionale era inoppugnabile, apodittica.

Hegel invece fece un percorso per certi versi opposto: considerò spazio e tempo due entità scientifiche (appartenenti alla meccanica, a sua volta inclusa nella filosofia della natura), dopo essere entrato mani e piedi dentro la metafisica. Ovviamente la sua trattazione delle due entità restava metafisica (lontanissima da una trattazione scientifica vera e propria, come potremmo intenderla oggi), e tuttavia vi è nella sua Enciclopedia una pretesa di obiettività che va ben oltre quella kantiana.

L'uno considerava lo spazio e il tempo come presupposti oggettivi (intuiti sensibilmente, non come un'illuminazione interiore) della conoscenza soggettiva; l'altro come componenti fondamentali della materia, di cui il soggetto stesso è parte. E' un rivolgimento di prospettiva, che da soggettiva diventa appunto oggettiva, pur restando nell'ambito dell'idealismo.

Kant non aveva una definizione oggettiva di "fenomeno", poiché non lo pensava come qualcosa che, pur essendo esterno al soggetto, contribuisse in maniera decisiva al formarsi dell'identità dello stesso soggetto. Per Kant l'io è un già dato, è semmai il fenomeno che deve trovare il significato di sé attraverso la mediazione del soggetto. Questo perché il fenomeno non è che "l'oggetto indeterminato [cioè privo di universalità e necessità] di un'intuizione empirica [non pura o non aprioristica]". Il fenomeno è anzi una forma di disturbo alla coscienza soggettiva, la quale deve trovare in sé il modo di classificarlo o categorizzarlo.

Kant preferiva definire "pure" solo le intuizioni sensibili, non quelle empiriche, proprio perché le considerava meno "inquinate" dalle contraddizioni della realtà. Esattamente il contrario di ciò che di lì a poco dirà Hegel, per il quale erano proprio le contraddizioni a spiegare alla realtà il suo senso ultimo, ch'era poi tutto racchiuso nel processo di tesi-antitesi-sintesi, detto anche "negazione della negazione".

Kant vedeva la realtà come altro da sé; Hegel invece vedeva l'io come parte di un tutto. E' dunque evidente che l'interpretazione ch'essi potevano dare dello spazio e del tempo, doveva essere molto diversa. Non è che Kant rifiutasse il fenomeno come fonte di conoscenza: sono anzi le sensazioni procurate dai fenomeni che producono intuizioni, che poi si devono trasformare in concetti per essere intelligibili. La Critica della ragion pura è stata appunto il tentativo di trasformare in "concetti" le "intuizioni".

Tuttavia, quando Kant parla di intuizioni sensibili, per essere sicuro che siano "pure", cioè universali e necessarie, ne trova soltanto due: quelle del tempo e dello spazio. A lui, propriamente parlando, non interessa esaminare il fenomeno in sé, ma definire le forme astratte e oggettive in cui esso può essere conosciuto. Quindi non è oggettiva la materia in sé, ma la rappresentazione che il soggetto ne dà.

Ora, siccome le sensazioni sono tante e tante le corrispondenti intuizioni, Kant pensa, affinché il soggetto non cada in mille contraddizioni, che vada anzitutto stabilito quale sia il metodo scientifico per definire a priori i limiti della propria conoscenza del mondo. I presupposti oggettivi della conoscenza vengono da lui trovati all'interno dello stesso soggetto, che quindi è destinato a sovrapporsi alla realtà. E qui bisogna fare attenzione a non pensare che si tratti di un soggetto la cui conoscenza si basa sui sensi e che quando questi si sbagliano subentra la correzione della ragione: qui si tratta di un soggetto che per principio guarda con sospetto qualunque informazione gli giunga dai sensi.

La realtà diventa "oggettiva" dopo che sono stati definiti i limiti per poterla conoscere. Se si permettesse alla realtà di parlare al soggetto, secondo propri criteri, questi non avrebbe alcuna possibilità di conoscerla in maniera oggettiva. Quindi per poterla davvero conoscere si deve in un certo senso prescindere dall'evidenza delle sensazioni, poiché queste, pur essendo inevitabili, tendono a generare confusione. Si deve invece cercare di stabilire, prioritariamente, la forma "pura" delle intuizioni in generale, come principi della conoscenza a priori. Ecco perché Kant mette lo spazio e il tempo nell'Estetica trascendentale, proprio perché questa è la scienza di ciò che è sensibile in forma pura e che, sotto questo aspetto, rende ragione delle stesse sensazioni, togliendo a queste la loro soggettività, che è arbitraria.

Non a caso Kant sostiene che, nell'ambito dell'Estetica trascendentale, solo la matematica (aritmetica + geometria) è "scientifica". "Oltre lo spazio non c'è nessun'altra rappresentazione soggettiva che si riferisca a qualcosa di esterno e che possa dirsi a priori oggettiva"(p. 73). Le sensazioni di colori, suoni e calore sono semplici sensazioni empiriche, soggettive, e non intuizioni pure, oggettive, non ci fanno conoscere alcun oggetto a priori.

La sensibilità viene usata da Kant per liberarsi del misticismo delle fede religiosa, ritenuto fenomeno interiore, di coscienza; ma il primato ch'egli concede ai sensi resta circoscritto ad operazioni mentali molto astratte, come appunto quelle che si possono fare applicandosi alla matematica. Il suo non vuole essere un materialismo sensistico, ma un soggettivismo intellettualistico, critico di qualunque filosofia che basa la conoscenza oggettiva sull'esperienza e sui sensi, e critico anche di qualunque teologia che voglia imporre la verità in maniera dogmatica, senza dimostrare razionalmente la scientificità dei propri presupposti gnoseologici.

Con Kant è la scienza esatta (al cui vertice sta la matematica) che vuole darsi delle fondamenta metafisiche. Se fosse esistito oggi, egli probabilmente sarebbe stato un filosofo della scienza.

IL CONCETTO DI SPAZIO

Kant dà quattro motivazioni per definire l'apriorismo dello spazio:

  1. si avverte un effetto degli oggetti su di sé anche quando essi si trovano in spazi differenti da quelli originari, quindi l'idea astratta di spazio precede sicuramente quella concreta dei molteplici spazi. Kant qui non fa esempi, ma è facile pensare a qualunque cosa di "sensibile emotivamente", in grado di suscitare un ricordo. Su questa argomentazione si potrebbe addirittura fondare la psicologia, se per "effetto" intendiamo una sensazione pisco-somatica (benché questo non venga detto da Kant);
  2. sul piano logico è impossibile pensare a un oggetto senza lo spazio che lo contenga, mentre si può facilmente pensare a uno spazio vuoto. Su questa argomentazione si fonda - secondo Kant - la geometria;
  3. uno spazio desunto in maniera pura non può essere la somma di molti spazi, ma solo un tutto unico, che, limitandosi, produce differenti spazi. Su questa argomentazione logica si potrebbe anche fondare l'astronomia, che in fondo non è che una matematica applicata alla fisica (la stessa teoria matematica degli insiemi potrebbe rientrare in tale argomentazione);
  4. sul piano metafisico noi possiamo pensare allo spazio come a una grandezza infinita, che rende possibile un numero infinito di rappresentazioni. La rappresentazione dell'universo ha la connotazione della "infinità" non per un ragionamento logico, ma semplicemente perché non si è in grado di dimostrarne la finitezza.

Kant non vede lo spazio come "attributo della materia" ma come una sostanza a sé, del tutto indipendente da essa. In pratica è come se dicesse: in epoche remote è esistito uno spazio del tutto vuoto, che successivamente si è riempito di materia e quindi di fenomeni, che hanno reso possibili le umane sensazioni e intuizioni.

Dunque al dire di Kant la scienza che meglio di altre è in grado di rappresentare logicamente l'apriorismo dello spazio è la geometria, i cui giudizi sono sì sintetici, in quanto frutto di un calcolo, ma anche aprioristici, in quanto universali e necessari, antecedenti non solo alla comprensione di qualunque fenomeno ma addirittura alla formazione di esso. L'apriorismo dello spazio p.es. è dato dalla tridimensionalità che lo caratterizza e che per la geometria costituisce una conditio sine qua non. Di un qualunque oggetto, nella sua rappresentazione, noi possiamo prescindere dalla sostanza, dalla forza, dalla divisibilità, dal colore ecc., ma non possiamo prescindere né dalla estensione né dalla forma.

Hegel, come noto, contesterà queste affermazioni, sia perché non riteneva la geometria una scienza filosofica, sia perché non riteneva metafisica la visione kantiana dello spazio. Lo stesso Freud, su questo, avrebbe sicuramente potuto contraddire Kant, in quanto nei sogni gli oggetti percepiti in stato di veglia possono essere clamorosamente alterati. E questa cosa si verifica anche negli stati di veglia allucinatori, conseguenti p.es. all'assunzione di sostanze psicotrope, ma riscontrabili anche nelle visioni mistiche di taluni soggetti religiosi patologici.

Il limite fondamentale di Kant sta nell'aver voluto circoscrivere tutte le sue dimostrazioni entro un quadro meramente soggettivo, senza rendersi conto che l'individuo, preso in sé e per sé, non è in grado di garantire alcuna oggettività. D'altra parte egli non vede alcuna intrinseca relazione tra spazio e storia: questa è accidentale rispetto a quello. Kant non è in grado di far coincidere spazio e tempo in maniera tale che da questo nesso possa nascere la storia.

In realtà non gli interessa neanche più di tanto una rappresentazione individuale in senso psicologico dello spazio. E' vero ch'egli parte da qualcosa di sensibile e di intuitivo che, a prima vista, sembra più primordiale della formulazione astratta di un concetto, ma poi è proprio a questa formulazione ch'egli vuole arrivare. Kant non vuole usare la sensibilità e l'intuizione per dire che sono più ancestrali, più primitive e quindi più pure della ragione, ma le vuole usare per arrivare a formulare dei giudizi sintetici a priori, cioè per dire che l'a-priori, unito all'esperienza (che poi in questa Critica coincide col mero conoscere), deve produrre un giudizio universale e necessario, evidente di per sé, un giudizio però che, in fondo, proprio perché l'esperienza è ridotta a un nulla, non è altro che un pre-giudizio.

E' come se egli volesse utilizzare la percezione olistica e rassicurante di un bambino, che nella sua rappresentazione dello spazio non pone differenze di sostanza tra giorno e notte, tra vicino e lontano, tra alto e basso, tra grande e piccolo, proprio perché ancora non è in grado di cogliere logicamente le differenze che lo circondano e che però ha la pretesa di trasformare immediatamente tale istintiva percezione in una rappresentazione intellettualistica della realtà, in cui è l'io stesso che in fondo la ricostruisce in maniera che a lui pare oggettiva, nella convinzione che la logica (usata qui come una bacchetta magica) possa compiere operazioni del genere.

In tale esposizione delle cose non si vede alcuno sforzo dell'individuo di adeguarsi alla realtà, di dialogare con essa, di porle domande sulla sua oggettività vera o presunta, di desumere conoscenze oggettive proprio in virtù di questo rapporto, di capire, con lo strumento della relazione, quali aspetti della realtà siano conformi a natura e quali no.

La realtà è sì un dato ma solo col giudizio sintetico a priori essa diventa intelligibile. E tale giudizio, poiché ha la pretesa di porre le condizioni di un corretto conoscere, è apodittico, dogmatico: Kant infatti dice a più riprese di non essere contrario alla dogmatica ma solo al dogmatismo astratto, fine a se stesso, quello tipico della teologia, che non si avvale di alcuna dimostrazione ma di postulati in cui credere per fede.

Proviamo a spiegare il suo enunciato relativo alla realtà, utilizzando un esempio riportato nella prima edizione della Critica, tolto poi nella seconda. "Il buon sapore d'un vino - scrive Kant - non appartiene alle determinazioni oggettive di esso, ma alla speciale conformazione del senso del soggetto che lo gusta"(p. 73). E ora chiediamoci: il gusto è davvero soggettivo? soltanto soggettivo? O non è forse vero che un buon vino viene meglio apprezzato da una cultura socialmente condivisa? Se un individuo non sa distinguere un vino buono da uno cattivo, non diciamo forse che è un ignorante? Chi mai si sognerebbe di dire che la vera conoscenza del vino è soltanto quella aprioristica, quella che non dipende da alcuna esperienza di questo "nettare degli dèi"? E cosa ci direbbe questa conoscenza? che, essendo esso un liquido e avendo noi sete (e non avendo altro a disposizione), vorremmo poterlo bere? Se, per assurdo, un bambino molto piccolo venisse educato alla filosofia kantiana, dovrebbe essere lasciato libero d'intuire, avendo a disposizione bottiglie contenenti liquidi di vari colori, che solo quella contenente il bianco latte fa bene alla sua salute. Sulla base di questa convinzione, quale genitore gli metterebbe vicino un cremoso ammorbidente per i panni da lavare o uno shampoo neutro, così somigliante al latte materno?

L'intuizione in sé non è mai in grado di far compiere la scelta giusta, a meno che non si basi su una fondata esperienza, ma allora si dovrebbe dire che in un calcolo stretto delle probabilità di rischia molto meno a fidarsi della propria esperienza che non della propria intuizione. Sarebbe poco professionale per un insegnante preferire uno studente che ha intuizioni brillanti non sostenute da uno studio costante, rispetto a uno che, studiando molto, preferisce affidarsi soprattutto alla propria memoria.

ULTERIORI COROLLARI

Kant prosegue la sua analisi del concetto di spazio aggiungendo ulteriori corollari.

  1. Lo spazio non rappresenta una proprietà di qualche cosa in sé o le cose nel loro mutuo rapporto.

Facciamo ora un esempio per dimostrare l'infondatezza di questo enunciato. Quando si cerca un appartamento in cui andare a vivere, ci si informa dei suoi metri quadrati, dopodiché lo si va a vedere di persona. Si guarda la disposizione delle stanze e soprattutto la loro ampiezza, che pur mentalmente già si conosce. Si vuol sperimentare visivamente ch'esse siano spaziose quel tanto che serve per viverci abbastanza comodamente. Tuttavia, ciò che ci appariva "grande" mentre era vuoto, ci appare improvvisamente "piccolo" dopo averlo riempito di mobili. E alla fine siamo quasi pentiti di aver fatto quella scelta. Gli oggetti interni hanno modificato qualitativamente la nostra rappresentazione dello spazio, a dispetto delle nostre conoscenze teoriche della sua metratura e cubatura e persino della nostra percezione visiva, sensoriale, delle singole stanze. L'uso quotidiano di un certo spazio pieno ce lo rende sempre più ristretto. Infatti gli oggetti vanno progressivamente aumentando e anche quando, di punto in bianco, decidiamo di sbarazzarci di quelli che riteniamo obsoleti, dopo un certo tempo ritorna la sensazione di vivere in uno spazio angusto e in fondo insopportabile. Anche noi, come molti altri nella storia, diciamo di aver bisogno di un certo "spazio vitale", naturalmente compiendo azioni che finiscono col minare l'estensione dello spazio altrui.

Questo per dire che quando si entra in uno spazio vuoto, non si può restare indifferenti agli oggetti che via via lo riempiranno. Quando siamo in una stanza con degli oggetti, sono proprio questi, insieme ovviamente allo spazio che li contiene, che ci condizionano e modificano la nostra personalità e persino la nostra percezione delle cose. Noi p.es. siamo soliti tinteggiare di bianco le pareti dei muri interni, perché quando sono sporche è più facile ridipingerle. Ma gli antichi sapevano bene che il colore più riposante per la lettura e la scrittura è il verde chiaro. Se Kant avesse potuto conoscere le moderne teorie dei colori (p.es. la cromoterapia), difficilmente avrebbe sostenuto che nei confronti dello spazio esiste un'intuizione a priori. Il colore incide enormemente sulla percezione dello spazio ed è un'illusione pensare che nelle scuole siano soprattutto i bambini più piccoli, che hanno meno capacità astrattiva, ad aver bisogno di pareti con molti oggetti colorati appesi.

Kant si era semplicemente limitato a dire che se uno guarda la realtà con lenti colorate attribuisce a questa una proprietà che non le appartiene. E non si era però reso conto che questo poteva valere anche in senso contrario, e cioè che la realtà (la cultura dominante di una determinata società) plasma gli individui a seconda del tipo di lente con cui li guarda. Si potrebbero fare decine di esempi per contraddire le teorie kantiane, anche perché la vera oggettività, nella sua filosofia, o si riduce a un nulla (una intuizione a priori) o resta addirittura inconoscibile (la cosa in sé).

Le scelte operate nei confronti dei colori indicano obiettivamente un certo tipo di personalità o di stato d'animo. Se in astratto può essere vero che i colori, i sapori, il gusto sono differenti nei differenti soggetti, questo però non significa che nel concreto, per una determinata popolazione, un certo colore, sapore ecc. non abbia una determinazione oggettiva. I colonialisti europei, al tempo di Kant, non applicavano certo il criterio antropologico della relatività dei costumi. Ancora oggi, nel campo dei sapori, le multinazionali fanno di tutto per imporre al mondo intero un determinato gusto. Se Kant avesse potuto assistere all'uso abnorme della pubblicità, non si sarebbe sognato neanche lontanamente di parlare di "intuizioni pure". Oggi probabilmente non c'è nulla che non sia indotto.

L'organizzazione degli spazi ha p.es. un'incidenza enorme nelle aule scolastiche, ai fini dell'apprendimento e persino del comportamento. Gli stessi alunni demotivati o irrequieti sono facilmente individuabili dal fatto che non riescono ad avere una loro determinata collocazione spaziale, pur nella normale esigenza di cambiare, di tanto in tanto, il loro posto.

In un medesimo spazio si possono avere percezioni, sensazioni, intuizioni tra loro molto diverse. Certamente in ognuno di noi alberga una rappresentazione aprioristica dello spazio, ma è così remota nella nostra coscienza, è così inconscia che ci è assai poco utile riguardo alla formulazione di giudizi obiettivi sulla realtà. Quando gli indiani passarono dalle praterie alle riserve dovettero avere immediatamente una percezione angosciante di finitudine, anche nel caso in cui dette riserve fossero state di molto più grandi (o molto meno affollate) dei nostri quartieri residenziali.

E' difficile pensare che possa venir fuori un giudizio universalmente valido e necessario da una mera percezione dello spazio. Hegel si astenne dal sostenere una pretesa del genere. Se prima di entrare in un ascensore o in un mezzo di trasporto pubblico, uno facesse un breve calcolo mentale di tipo geometrico, al fine di assicurarsi psicologicamente che lo spazio a sua disposizione è sufficiente per non fargli venire degli attacchi di panico, dovrebbe entrarvi tranquillamente (stando alle tesi di Kant); invece non lo farà neanche osservando che lo spazio è di molto superiore alle sue esigenze.

Lo spazio è un concetto assolutamente relativo, e non solo perché nell'universo si può viaggiare alla velocità della luce o perché quando si è all'interno di un treno e si osserva dal finestrino quello adiacente, non si capisce quale dei due stia partendo, ma anche perché quando c'è di mezzo l'essere umano, bisogna tener conto di fattori che vanno ben al di là dei meri effetti ottici. Fare shopping in un piccolo negozio è infinitamente meno stancante che in un supermarket, ove pur si può trovare di tutto e a prezzi migliori. Certo, il tempo che si passa in un supermarket può essere molto più lungo, ma è anche vero che i momenti di relax che ci possiamo concedere, mangiando o bevendo qualcosa in un tavolino, non sono sufficienti a toglierci il senso di stanchezza e affaticamento ch'esso ci trasmette.

Il fatto però che uno spazio sia relativo non significa che possiamo immaginarcelo senza oggetti dentro. Uno spazio senza oggetti o è un luogo di tortura o non è che un oggetto dentro un altro spazio.

Per certi versi sono le nostre percezioni interne che danno allo spazio determinate caratteristiche. Questo poi senza considerare che, nell'ambito del business, la disposizione degli oggetti nello spazio è di fondamentale importanza. Un acquirente kantiano, se si lasciasse determinare unicamente dalle proprie intuizioni aprioristiche dello spazio, dovrebbe acquistare i prodotti collocati più in alto negli scaffali (poiché così la psicologia vuole, essendo i più facili da vedere e da prendere e quindi quelli che promettono di guadagnare più tempo nel fare shopping). E' solo l'esperienza che ci dice che quelli negli scaffali più in basso sono i meno reclamizzati, e quindi i meno costosi e spesso addirittura i più genuini. Ma, si sa, Kant odiava la psicologia, per quanto il suo modo di conoscere la realtà, basato sulle intuizioni pure, fosse in un certo senso vicino a quello psicologico degli adolescenti, che ancora non sanno che nella società in cui vivono esistono tanti manipolatori delle menti, pagati per rendere indotta anche l'intuizione più istintiva, capaci di rendere impure anche le più innocenti intenzioni.

Insomma l'essere umano sembra essere fatto per spazi quotidiani che non possono essere né troppo grandi né troppo piccoli, né troppo deserti né troppo sovraffollati: non deve sentirsi né schiacciato né sperduto. Gli alpinisti p.es. hanno un concetto di spazio completamente diverso da quello dei cittadini urbanizzati. Per loro tutto è "prigione", anche una città grandissima o una villa enorme. Quando scalano le montagne è come se dovessero conquistare una bellissima donna che vuole prima saggiare le loro capacità. E quando raggiungono la vetta, questa, per loro, è come un plateau orgasmico, dopodiché si attrezzano per tornare a valle, senza pensare minimamente di star lì oltre il necessario.

Gli alpinisti hanno un senso dello spazio assoluto, come i marinai quando, per giorni e giorni, vedono solo acqua e cominciano a chiedere a "Colombo" di tornare indietro, perché, pur amando l'acqua, pur sentendosi più soddisfatti in questo elemento che non sulla terra, dopo un certo periodo di tempo, cominciano ad angosciarsi e non vedono loro di gridare "terra, terra!", per poter rivivere qualcosa che sia loro più familiare.

Viceversa l'astronauta, che, pur avendo lo stesso desiderio di rimpatrio, sa di non poterlo soddisfare, si limita a riempire il suo spazio, del tutto artificiale, con oggetti che gli ricordano lo spazio terrestre e che può liberamente usare nei pochi momenti in cui non lavora. Gli astronauti sono quelli che soffrono di più la solitudine, per questo il loro tempo libero è ridotto al minimo. Si può anche impazzire pensando di dover vivere in uno spazio completamente diverso da quello che ci è stato assegnato dalla natura o dalle circostanze della vita, come in genere accade agli animali in gabbia, che smettono di riprodursi e che assumono comportamenti stressati.

Il secondo corollario posto da Kant è ancora più ambiguo.

  1. Lo spazio non è che la forma di tutti i fenomeni dei sensi esterni.

Dire questo, senza parlare contemporaneamente del tempo, ha poco senso. Separare lo spazio dal tempo può essere fatto in modo convenzionale, per fare operazioni di calcolo, ma nella realtà questo è impossibile. Noi siamo fatti di spazio-tempo e anche la natura che ci circonda e la materia che ci costituisce. E' impossibile stabilire una precisa distinzione tra senso interno e senso esterno, proprio perché nessuno può separare lo spazio dal suo tempo e il tempo dal suo spazio.

Il fatto che Kant non abbia saputo cogliere questa inscindibile unità, ha comportato inevitabilmente la caduta in affermazioni di tipo mistico, come quella ove dice che "la forma di tutti i fenomeni ci viene data dallo spirito, prima di tutte le effettive percezioni"(p. 72).

Ciò che non funziona nei ragionamenti di Kant è la distinzione formale tra spazio e oggetti. Se allo spazio si tolgono gli oggetti non si ha affatto un'intuizione "pura" dello spazio, poiché, in tal caso, si fa soltanto del misticismo (al massimo in chiave laica); tra gli oggetti vi siamo anche noi, inevitabilmente, e noi, se ci pensiamo soli nello spazio, siamo comunque un oggetto che pensa al suo interno, sicché, per definirci "puri", non possiamo prescindere da noi stessi (e poi perché, pensando a noi stessi, dovremmo considerarci "impuri"? per quale ragione la "purezza" sta al di là dell'esperienza?). Viceversa, nel caso in cui fossimo esterni a questo spazio, noi non potremmo averne alcuna conoscenza, a meno che non fossimo stati noi stessi a crearlo, come una sorta di divinità che vive in un proprio spazio del tutto inaccessibile agli oggetti non umani o non naturali: una divinità che riserva a questi oggetti uno spazio del tutto diverso. Un'ipotesi, questa, che, facendo coincidere immediatamente la perfetta coscienza con la perfetta esperienza, sarebbe ancora più mistica dell'altra.

La verità è che non esiste spazio senza materia e che noi stessi apparteniamo a questa materia. Una rappresentazione "pura" dello spazio è equivalente a una rappresentazione "pura" di una coscienza senza alcuna esperienza. Neppure un neonato potrebbe avere una "coscienza" del genere, poiché questa gli si sviluppa in una fase successiva all'istinto. E' in un certo senso infantile sostenere che lo spazio esiste solo quando riusciamo a percepirlo, ed è in un altro senso fantascientifico affermare che il vero spazio è soltanto quello privo di oggetti.

Indubbiamente Kant era partito col piede giusto quando diceva di voler usare la realtà per opporsi alle speculazioni teologiche che subordinavano l'uomo e la stessa realtà a dio, ma poi, quando ha fatto dell'individuo isolato la prima e unica risorsa per conoscere qualunque cosa, sia dentro che fuori di sé, è ricaduto, inevitabilmente, nelle secche del misticismo, teorizzando una facoltà di giudizio che, in definitiva, non ha nulla di obiettivo.

Il Kant "critico", avendo voluto applicare i principi della matematica alla filosofia, s'è trovato ad essere meno scientifico di quello "pre-critico", al punto che la sua massima più famosa e che si trova come epitaffio sulla sua tomba: "Il cielo stellato sopra di me e la coscienza morale dentro di me", sarebbe stato meglio scriverla così: "Il cielo buio attorno a me e la più pura incoscienza dentro di me".

PRIME CONCLUSIONI

Kant poteva risparmiarsi la fatica di scrivere un volume di oltre 800 pagine in ottavo per dire che, in ultima istanza, della cosa in sé di qualunque oggetto noi non sapremo mai nulla, semplicemente perché la cosa in sé è inconoscibile.

Egli si lamentava che i giudizi analitici a priori non davano ulteriori conoscenze, oltre quelle già note. Ma i suoi giudizi sintetici a priori ne danno così poca che se avesse dedicato l'Estetica trascendentale all'intuizione non intellettuale ma artistica, quella sorta di illuminazione interiore che di tanto in tanto ispira chi si dedica all'arte, avrebbe probabilmente scritto un capolavoro, come fece Kierkegaard con Enten-Eller, e forse non avrebbe avuto bisogno di scrivere la Critica del giudizio.

Invece ha voluto strafare, illudendosi di poter trarre qualcosa di "sintetico" da una realtà che in fondo non è che una mera rappresentazione soggettiva, che pretende d'essere oggettiva solo per il livello speculativo che offre. Kant voleva vedere nella realtà il proprio io privo di contraddizioni e di condizionamenti. Non si rendeva conto che se un qualunque Robinson avesse potuto formulare dei giudizi sintetici a priori, questi sarebbero stati i più fantastici del mondo, specie se, mettendocisi a guardare il mare, si fosse rimasti in attesa che qualcuno spuntasse all'improvviso dall'orizzonte.

Nell'ambito del criticismo kantiano la differenza tra un bambino e un adulto che nel deserto hanno un miraggio, è che il primo, mosso dall'istinto, giudica vera una cosa senza sapere che potrebbe essere falsa, mentre il secondo, dopo aver cercato di capire le mille possibilità in cui quella cosa potrebbe essere falsa, alla fine preferisce credere che sia vera, perché non può accettare l'idea che, dopo tanto ragionare, quella cosa sia del tutto falsa. Diventa quasi una questione di orgoglio personale: Kant era convinto che dopo di lui nessuno avrebbe scritto un'altra Critica aggiungendo qualcosa di fondamentale alla sua. Lui si aspettava soltanto delle conferme esemplificative. Ma non ne avrà, almeno non sul piano della gnoseologia.

IL CONCETTO DI TEMPO

Ora vediamo come Kant tratta l'altro grande tema dell'Estetica trascendentale: il tempo, cioè come dimostra che è una realtà a-priori.

  1. Nessuno - egli afferma - può pensare a un "prima" e a un "dopo" se non accetta l'idea che esiste una realtà, il tempo, che gli permette di farlo.

E' vero, indubbiamente, e tuttavia non è meno istintivo il fatto - anzi certamente lo è di più - che quando in un determinato momento ci si trova psicologicamente soddisfatti, non si avverte lo scorrere del tempo. Se tempo e spazio coincidono in un senso esistenziale, per quale motivo la metafisica non dovrebbe tener conto della psicologia?

Difficilmente Kant avrebbe ammesso che un soggetto in uno stato di grazia o di beatitudine o di estasi o di pace interiore o di personale illuminazione, è in grado di fermare il tempo, o comunque di non rendersi conto che esiste un "già" e un "non ancora". Quante volte la letteratura mistica ci ha presentato soggetti del genere, che alla domanda "per quanto tempo" avevano vissuto in quella condizione, rispondevano, immancabilmente, con un mesto "non ricordo"?

Si obietterà che anche il tempo mistico ha comunque un proprio decorso, una durata determinata. Tuttavia la percezione che noi abbiamo del tempo è assolutamente relativa allo spazio in cui lo viviamo e soprattutto al modo in cui lo viviamo. Uno spazio angusto rende il tempo più lungo, a meno che il soggetto non cerchi dentro di sé la realizzazione di se stesso, ma è dubbio che senza un rapporto con la realtà esterna, uno possa realizzarsi. Nessuno nasce Robinson.

  1. Senza tempo non esistono i fenomeni; senza fenomeni invece il tempo sussiste tranquillamente.

Questo modo di vedere le cose è abbastanza curioso. Kant dà l'impressione di non avere alcuna concezione della storia, o di voler applicare ad essa delle categorie che al massimo potrebbero andar bene per una scienza esatta, ma sarebbe meglio dire per una speculazione meramente astratta.

Chi mai ha detto che nell'universo infinito esiste solo una forma di tempo? Persino i mesi che occorrono a un essere umano per nascere non sono tassativi. Esiste davvero il tempo nell'universo o è solo una convenzione che ci siamo dati? Cioè non è forse esso stesso un fenomeno che l'uomo si è dato in rapporto all'eternità? A che serve un tempo senza fenomeni? Anzi, com'è possibile pensare a un tempo senza alcun fenomeno? Il fatto stesso di pensarlo non è già di per sé un fenomeno? Come si può pensare a qualcosa che non ha odore, sapore, colore, temperatura, forma, sostanza...? Anche se questa cosa, per ipotesi, esistesse in qualche luogo dell'universo, e io potessi pensarla solo in maniera astratta, senza riferimenti ad alcuna concretezza materiale, a che servirebbe? Come posso pensare a qualcosa che rende possibile ogni oggetto e ogni fenomeno, incluso me stesso, senza che io ne faccia parte? Nessuno può pensare al tempo come se non ci fosse o come se non avesse lo spazio come propria dimensione fondamentale. Non è forse una tautologia dire che il tempo non può essere soppresso, visto e considerato che quest'azione richiederebbe "un certo tempo" (per quanto infinitesimale possa essere)?

E' molto strano che Kant, con le basi scientifiche di cui era dotato, dica che si può avere la percezione di qualcosa che in natura - stando almeno a come ne parla lui - non potrebbe esistere, almeno non secondo i criteri di osservazione che sulla terra ci contraddistinguono e di cui non possiamo certo fare a meno. Perché p.es. non pensare che anche l'acqua abbia qualcosa di aprioristico come il tempo? Il corpo di un neonato è costituito dal 77% di acqua. Dunque per quale ragione la realtà del tempo va considerata più originaria di questa sostanza? Se io non mi posso pensare senz'acqua, perché non posso dichiarare che acqua e tempo coesistono dall'eternità?

E che dire del fuoco? Qui non abbiamo bisogno di scomodare Eraclito per sapere che ognuno di noi può bruciare di una passione interiore per questo o quel motivo. Dunque anche il fuoco, come l'acqua e il tempo, può a giusto titolo essere considerato primordiale per ogni essere umano. E così l'aria, la terra... Questa cosa non era forse già stata capita dai primissimi filosofi greci?

Noi potremmo addirittura dire che la stessa coscienza di tutto ciò è ancestrale come l'acqua il fuoco l'aria il tempo... Gli esseri umani hanno un certo margine di coscienza sin dalla nascita, che poi possono sviluppare, volendo, fino a vette eccelse. L'elefante più vecchio morirà col suo istinto, la cui natura fa comunque parte dell'universo, come appunto l'acqua il fuoco il tempo..., da tempi immemorabili; un istinto di cui s'è servito per vivere e riprodursi, proteggendo la sua prole. L'istinto di riproduzione non è forse antico quanto il tempo? Certo, se non ci fosse il tempo non avrebbe senso riprodursi. Ma perché farlo all'infinito? Per quale ragione la natura ci induce continuamente a cercare la riproduzione?

Perché non poter pensare che il tempo sia qualcosa di assolutamente inseparabile dalla materia che lo compone? La psicologia dice che esiste almeno un momento in cui ogni persona al mondo, con assoluta certezza, non può avere un'esatta percezione del tempo. Infatti, nel sogno si compiono azioni che nella realtà sarebbero impossibili, proprio perché mentre dormiamo saltano completamente le coordinate di spazio e tempo (p.es. la forza della gravità sembra non esistere e anche la materia è soggetta a continue deformazioni). Tutto viene ricostruito arbitrariamente dai nostri desideri inconsci, e se ci risvegliamo frastornati o addirittura angosciati, ci fa piacere che qualcuno, vicino a noi, ci rassicuri dicendo: "Non è successo niente, stavi solo sognando". Se abbiamo fatto un sogno in cui la vivibilità del nostro consueto spazio e tempo era completamente sconvolta, il risveglio in una situazione contestuale a noi nota ci consola enormemente, anche se ricordiamo piacevolmente i sogni in cui potevamo volare o avere superpoteri.

Dunque le nozioni e le relazioni di spazio e tempo sono molto relative. Esiste una "corrispondenza d'amorosi sensi" tra soggetto e spazio-tempo, sino al punto in cui (e non per una consapevolezza intellettuale, ma per un'esperienza interiore, impalpabile) non si è più in grado di distinguere tra io e non-io. Quindi non è proprio vero - come sostiene Kant - che "il tempo non può essere soppresso". Il tempo in realtà può essere percepito come non esistente, se il soggetto è in grado d'identificarcisi. Nel sogno lo si fa inconsciamente, ma ciò avviene solo per poter capire che potremmo farlo anche consapevolmente.

  1. Il tempo ha una sola dimensione - dice Kant - e i diversi tempi non sono insieme ma successivi (come diversi spazi non sono successivi ma insieme).

In effetti che il tempo sia irreversibile pare indubbio. Ma è altrettanto vero che non può essere rappresentato da una linea retta, uniforme, costante. Nel tempo le cose si ripetono - anche questo è assodato -, benché non nella stessa maniera. Si ripetono in forme e modi diversi, ma sostanzialmente simili. E' come se la natura volesse dirci che siamo sì infiniti, ma non così tanto da poter violare le leggi dell'infinità, che sono poi quelle che chiedono all'essere di essere se stesso. Identità e Differenza possono avere relazioni infinite, ma a condizione di non negarsi reciprocamente, o che una delle due non neghi l'altra.

Il tempo è dunque una linea che ha un movimento rotatorio, ma non circolare, proprio perché nulla può ripetersi in maniera identica (la simmetria perfetta non esiste nell'universo). Il tempo ha un movimento elicoidale, come se fosse una spirale in cui il punto d'inizio e di fine coincidono. Quando si diventa vecchi si torna ad essere bambini, in un processo che è infinito, poiché ogni esperienza ha un inizio e una fine, ed è cosa, questa, che non riguarda solo i singoli individui ma le intere civiltà.

Il punto è che noi non siamo mai esattamente uguali a noi stessi. Questo però non dovrebbe spaventarci, né farci dire - come vuole Kant - che l'esperienza non può darci "né universalità rigorosa, né certezza apodittica"(p. 75). A darci queste cose è proprio l'infinita manifestazione delle forme della libertà.

  1. Il tempo - dice Kant - non è un concetto universale ma una forma pura dell'intuizione sensibile, che lo percepisce come un insieme.

Questo lo dice non solo contro gli storici che relativizzano la concezione del tempo e che si danno tempi diversi per classificare i periodi storici e che pensano di poter trovare un tempo unico sommando i suoi diversi segmenti, come se si potesse arrivare all'insieme partendo dai dettagli. Kant p.es. avrebbe escluso a priori la possibilità, per un detective, di trovare un assassino partendo da un semplice esame degli indizi. Tale operazione non avrebbe potuto essere che conseguente a una preliminare intuizione su chi poteva essere l'assassino o sulla base di quale movente egli era diventato tale.

Kant tuttavia non ce l'ha solo con la storiografia che storicizza il tempo o che temporalizza i fatti storici, nella convinzione di poter trovare una linea assoluta del tempo (che si svolge per gradi successivi). Ce l'ha anche coi teologi, che parlano di eternità e che considerano il tempo storico un suo sottoprodotto.

Senonché Kant, pur partito da giuste motivazioni, finisce col negare alla visione laica dell'universo il diritto di dotarsi di una concezione autonoma dell'eternità del tempo. Infatti, se si circoscrivono il tempo e lo spazio all'interno della mera intuizione sensibile, non si può avere di essi un concetto che vada oltre questa stessa intuizione. Non si può contestare la metafisica religiosa opponendo soltanto una cognizione la più possibile "scientifica" dell'universo: bisogna servirsi anche di una concezione filosofica di tipo ateistico.

Se tempo e spazio hanno la proprietà di essere eterni e infiniti, non esiste alcun dio. Certo, non è possibile intuire sensibilmente queste loro caratteristiche, però si può ipotizzare che se esse sono proprietà dello spazio e del tempo, non ha senso (in quanto superfluo) ammettere l'esistenza di qualcosa che le supera. Noi possiamo soltanto intuire che al di fuori dello spazio e del tempo, ovvero dell'illimitato e dell'eterno, non può esistere qualcosa che vada oltre.

Spazio e tempo sono proprietà di una materia che non è mai iniziata e mai finirà, la cui rappresentazione più adeguata, più vicina alla sua essenza, è l'essere umano, il cui elemento fondamentale, che lo distingue da qualunque altra cosa nell'universo, è la libertà di coscienza.

  1. L'infinità del tempo unico è a fondamento delle quantità determinate di tempo, scrive Kant. Quella infinità può essere solo intuita, mentre queste quantità possono essere comprese in maniera concettuale.

Il che, in altre parole, vorrebbe dire: quando il soggetto pensa all'assoluto, intuisce; quando pensa al relativo, concettualizza. Sul fenomeno si può ragionare, sul noumeno no. Quindi neppure sullo spazio e sul tempo si può ragionare, poiché essi possono non contenere alcun oggetto.

La cosa singolare, in questo ragionamento, è che Kant basa i concetti su intuizioni indimostrabili, le quali, infatti, di fronte al noumeno, tacciono. L'in sé resta inconoscibile: l'io può al massimo intuirlo, ma non rappresentarselo, a meno che non voglia cadere nel ridicolo o nell'arbitrario. Sicché il misticismo cacciato dalla porta, rientra dalla finestra.

Rebus sic stantibus, com'è possibile "fare scienza"? L'unica certezza che si può avere è quella della profonda limitazione del sapere. Un soggetto kantiano non dovrebbe mettersi a "pensare", dovrebbe limitarsi a "contemplare" il cielo stellato.

E in ogni caso, anche a prescindere da tutto ciò, resta quanto meno antistoricistico sostenere che l'individuo non possa fare del proprio tempo relativo (determinato dallo spazio, storicamente dato) un qualcosa di assoluto. Assoluto e relativo sono concetti in rapporto continuo tra loro e, a seconda del punto di vista con cui vengono guardati, a volte prevale l'uno e a volte l'altro. Il tempo che si vive nel presente, in un dato luogo, è relativo nei confronti del passato e del futuro, ma è assoluto nel momento in cui lo si vive, proprio perché non ce ne sono altri.

Uno non può continuamente pensare a quel che sarebbe potuto diventare se avesse avuto altre opportunità o condizioni di vita. Il tempo va vissuto anche come un assoluto, poiché è la condizione in cui mettere alla prova la propria libertà di coscienza. Per essere se stessi non c'è bisogno di vivere in un altro tempo e in un altro luogo.

AGGIUNTE ALLA SECONDA EDIZIONE

Nella seconda edizione Kant aggiunge un paragrafo dedicato al movimento del tempo. Qui egli dà una definizione non proprio esatta del mutamento delle cose: un oggetto subisce una mutazione, ovvero si trasforma, quando gli opposti vi convergono. E ciò non avviene in sincronia, ma secondo appunto una sequenza temporale. I predicati contraddittori - osserva Kant - non possono coesistere, ma solo unirsi tramite successione.

Questa è una caratteristica del suo pensiero, non riuscire a vedere le cose nella loro simultaneità. La contraddizione è un disturbo, che impedisce una corretta intuizione a priori, che vuole essere priva di postulati religiosi, benché non priva di postulati in generale. Semplicemente l'uomo si sostituisce a dio e cerca di comportarsi come se lo fosse, almeno per quanto riguarda le intuizioni interiori, che per essere vere, autentiche, devono essere totalmente esenti dalle contraddizioni della società. Kant dice di voler partire dalla realtà (non dalla divinità) ma di essa vede solo quello che gli pare. Svolge la parte di un individuo isolato che applica alla realtà i suoi criteri soggettivi d'interpretazione; criteri che vuol far passare per apodittici proprio in quanto elaborati molto analiticamente, come nessun altro filosofo del suo tempo riuscì a fare, certamente non al di fuori della Germania, la quale, quanto a speculazione filosofica, non era seconda a nessuno.

I tre corollari del § 6 ribadiscono concetti già espressi.

1. Il tempo non è così oggettivo da essere indipendente dalla rappresentazione che ne possiamo avere. Esso è soltanto la condizione soggettiva che permette le intuizioni a priori, non permea di sé la realtà. Il tempo può essere soltanto "sentito", non "definito", non è una figura, non ha un luogo, non è palpabile, al massimo può essere rappresentato con analogie di tipo simbolico, come p.es. la linea del tempo.

Se si chiedesse a Kant di definire l'essenza di un fenomeno in relazione al tempo in cui è accaduto, egli risponderebbe che non si può parlare di "fenomeno" se prima non ci si chiarisce sulla definizione di "tempo", e poiché il tempo non può essere interpretato, ma solo intuito, ergo il fenomeno non può sottostare a una categorizzazione obiettiva.

Noi possiamo soltanto argomentare che un determinato fenomeno è avvenuto in una porzione di tempo e in un segmento di spazio, Ma in sé il fenomeno non può darci alcuna cognizione scientifica di se stesso. La scienza non può essere data da fenomeni contraddittori - sottolinea Kant -, ma solo da una coscienza pura che ne preceda il formarsi e l'evolversi.

E con ciò il discorso è chiuso, sul piano teoretico generale; al massimo di può disquisire sul comportamento morale che si deve tenere in maniera conseguente a questa visione delle cose.

L'unica differenza di principio che Kant è disposto ad ammettere è quella secondo cui lo spazio si riferisce a rappresentazioni esterne, in quanto, in un certo qual modo, può essere visto; il tempo invece appartiene alla sensibilità interiore dell'anima umana, ed è pertanto qualcosa di più importante dello spazio. Infatti Kant assegna allo spazio la matematica, per poterlo interpretare; al tempo invece deve assegnare la propria metafisica. Il fatto di assegnare allo spazio i soli fenomeni esterni, appartiene al suo modo riduttivo di vedere le cose.

Kant è un idealista persino nella differenza, quanto meno astrusa, che pone tra spazio e tempo. Vuol dare a tutti i costi una priorità al tempo, senza voler ammettere che tra loro, pur nella diversità delle funzioni, esiste corrispondenza o equivalenza. Non ci si può rappresentare lo spazio senza il tempo e viceversa. Interno ed esterno coincidono. Almeno in stato di veglia, direbbero gli psicologi. Mentre dormiamo, infatti, la loro fusione avviene secondo forme e modi del tutto imprevedibili, a testimonianza che non siamo fatti solo di spazio e di tempo, ma anche di energia (o di desideri) e naturalmente di coscienza. Non è curioso che quando nel sogno tentiamo di fare cose sconvenienti, la coscienza interviene per impedircelo? Non avremmo forse tutto il tempo e lo spazio necessari? Come si può avere intuizione solo del tempo e dello spazio e non anche del loro contenuto? Nel sogno il tempo e lo spazio sembrano essere a nostra completa disposizione, ma nella realtà essi esistono indipendentemente dalla coscienza che ne abbiamo. Anzi sono proprio loro che scansionano e delimitano il nostro modo di essere e di esistere, come se, in definitiva, dovessimo noi adeguare la coscienza alla loro realtà, diventando con essa un tutt'uno.

Kant invece ritiene che il tempo non esista neppure al di fuori del soggetto che lo pensa, come se non fossero proprio il tempo e lo spazio a rendere contestuale l'essere all'esserci. Qui ovviamente non si contesta il fatto che Kant ponga il soggetto al centro dell'universo, né che lo trasformi in una sorta di "essere divino" (poiché è giusto pensare che se dio non esiste l'uomo è dio di se stesso); si contesta piuttosto il fatto che si possa far questo indipendentemente dalle condizioni oggettive che determinano il soggetto, che è, in quanto tale, ente di natura.

Se davvero potesse esistere un "soggetto kantiano", null'altro esisterebbe che lui stesso e ciò ch'egli stesso è in grado di conoscere e di produrre, ma a quel punto che senso avrebbe che un soggetto del genere non possa conoscere "la cosa in sé"? Tutto verrebbe ridotto a un nulla per permettere all'io di fare chiarezza dentro di sé, e questi si scoprirebbe completamente vuoto, incapace persino di conoscere se stesso. Neppure il feto, che pur brancola in un ventre buio e acquoso, potrebbe sentirsi più solo di un soggetto kantiano.

Un feto infatti si guarda bene dal recidere il cordone ombelicale: non lo farebbe neppure se potesse, poiché, pur sentendosi limitato nei movimenti, l'istinto gli dice che quella "cosa in sé" è la chiave di volta della sua esistenza. Un feto "intellettuale" non può non sapere che la propria facoltà intuitiva, che è primordiale, va posta in rapporto a una certa dipendenza dalla materia che lo circonda. Il feto non avverte più quella dipendenza soltanto quando il ventre non è più in grado di contenerlo, e tuttavia, una volta uscito, s'accorgerà presto di dover vivere una nuova dipendenza, in altre forme e modi.

Anche nel caso in cui questo processo di trasformazione si ripetesse dopo la nostra morte, l'aumentata autoconsapevolezza non implicherà affatto un'attenuazione della dipendenza dalle caratteristiche della materia. Anzi, "crescere" significa appunto capire in maniera progressiva come questa dipendenza possa essere vissuta nel miglior modo possibile, nel rispetto della libertà di coscienza. Un'acquisizione, questa, che uno certo non può maturare individualmente, nel chiuso della propria interiorità, senza rapporti oggettivi coll'esterno.

In astratto si potrebbe anche sostenere che il tempo esiste solo in quanto il soggetto riesce a percepirlo, ma chi potrebbe mai dire che noi esistiamo senza percepire lo scorrere del tempo? E' impossibile non rendersi conto ch'esso ci determina in maniera assoluta per una serie di ragioni: viviamo in un pianeta che ci obbliga a dividere l'anno in 365 giorni e ogni giorno in 24 ore e ogni ora in 60 minuti; la nostra esistenza è soggetta a morire; esiste una ciclicità nelle manifestazioni dei fenomeni, per quanto in forme e modi non esattamente uguali. E così via.

Gli animali non pensano al tempo che scorre, eppure istintivamente sanno quant'è il loro tempo. Se il felino, quando s'apposta, non facesse un calcolo di quanto tempo gli occorre per catturare una preda, morirebbe di fame. Anche il serpente non può non sapere entro quanto tempo il suo veleno avrà effetto. Nessuno insegna agli animali ad usare il tempo nel migliore dei modi: lo sanno dalla nascita. Semmai è l'essere umano che deve imparare ad adeguarsi ai ritmi del tempo e a non stressarsi quando pensa di averne troppo poco o a non annoiarsi quando invece pensa di averne troppo.

Kant probabilmente voleva negare l'assolutezza al tempo per non ricadere nella dogmatica religiosa, che divideva tempo da eternità, considerando solo quest'ultima una prerogativa della divinità. Ma così facendo ha reso assoluto l'io relativizzando la materia. Il che è un controsenso: non si può essere assoluti in uno spazio-tempo relativi. Noi siamo assoluti proprio in quanto la coscienza che ci contraddistingue nell'universo è co-eterna alla materia di cui l'universo stesso è composto. Ridurre la materia a una percezione dell'io è quanto meno infantile. Per negare dio Kant non aveva bisogno di sostituirlo con l'io; era sufficiente che attribuisse alla materia le sue stesse caratteristiche; la divinità dell'uomo sarebbe stata una inevitabile conseguenza.

Al momento infatti la materia offre maggiori garanzie di infinità ed eternità che non l'essere umano, il quale può pensare all'assoluto solo per mezzo della propria coscienza. Anche perché l'intuizione di cui parla Kant è pur sempre qualcosa di "sensibile"; non è un'ispirazione divina, un'illuminazione interiore, un rapimento mistico. A che pro ammettere la sensibilità, le cui modificazioni dipendono inevitabilmente dalla materia, quando poi le si impedisce d'avere un rapporto strutturale, organico, con questa stessa materia?

Il ragionamento fatto da Kant è in definitiva abbastanza curioso: da un lato sostiene che l'intuizione è sempre sensibile, poiché il soggetto è inevitabilmente condizionato dalla realtà esterna; dall'altro però nega che questa realtà (ivi inclusi il tempo e lo spazio che la determinano) abbia un'autonomia assoluta rispetto alla percezione del soggetto. Sicché alla fine, pur riconoscendo alla realtà, obtorto collo, una certa esistenza, Kant le nega l'indipendenza dal soggetto e la trasforma in ciò che questi è in grado di percepire di essa.

Il criticismo kantiano, anche prescindendo dalle assurdità dette sul noumeno, è agli antipodi di quello marxiano, per il quale il soggetto è determinato dai rapporti produttivi della realtà, per quanto con la coscienza possa elevarsi sopra di essi. E' singolare come, di fronte all'incapacità di modificare una realtà contraddittoria (a causa dei conflitti di classe), uno dica che la coscienza ha un primato sostanziale sulla realtà, al punto che di quest'ultima può anche fare a meno; l'altro invece il contrario: la coscienza è soltanto un riflesso, che non può cambiare se non cambia la realtà. Entrambi sono "critici", ma uno della sovrastruttura religiosa del sistema capitalistico, l'altro della struttura economica dello stesso sistema. L'uno vede la libertà nello stabilire scientificamente, a priori, i limiti della conoscenza; l'altro invece nel delineare le successive determinazioni quantitative che porteranno necessariamente il sistema sociale a passare dal capitalismo al socialismo. Due intellettuali tedeschi su due versanti opposti, entrambi incapaci di organizzare politicamente il soggetto in funzione rivoluzionaria.

L'errore principale di Kant è stato quello di aver avuto la pretesa di poter stabilire una conoscenza oggettiva della realtà a partire dal soggetto in sé e per sé. Come minimo, infatti, avrebbe dovuto porre la relazione paritetica "io-tu". C'è, per questa ragione, della supponenza un po' fastidiosa nel suo pensiero metafisico, che si riscontra p.es. là dove dice che "se si toglie dal tempo la condizione speciale della nostra sensibilità, sparisce anche il concetto di tempo: esso non appartiene agli oggetti stessi, ma semplicemente al soggetto che li intuisce"(p. 80). Una tesi, questa, che avrebbe senso solo se fosse stato il soggetto stesso a creare lo spazio e il tempo nonché la materia dell'universo, la quale invece ci precede proprio nello spazio e nel tempo, pur essendo nella nostra coscienza il segreto della sua intelligenza.

In realtà Kant non avrebbe ragione neppure se gli scienziati e i filosofi riuscissero a dimostrare che all'origine dello spazio e del tempo vi è la coscienza umana, poiché si scoprirebbe che questa è fatta proprio di spazio e tempo e quindi di materia eterna e infinita, da cui essa non può in alcun modo prescindere. La materia è oggettiva a prescindere dal soggetto che la percepisce, anche se il soggetto, conformandosi ad essa in maniera naturale, cioè rispettandone le leggi, può pervenire alla medesima oggettività.

Kant invece vede la realtà come un ostacolo alla propria esigenza di scientificità e la tiene il più possibile lontana da sé, temendo di restarne influenzato. "Il tempo non è reale come oggetto, ma come la rappresentazione di me stesso come oggetto"(p. 80). Sembra qui delineato un film di fantascienza, in cui tutto è possibile: dalle bilocazioni agli ologrammi, dai viaggi a ritroso agli spostamenti intergalattici. Tutto diventa relativo alla percezione del soggetto, tutto diventa possibile alla coscienza che pensa.

Se davvero questo fosse possibile nella dimensione terrena, perché non credere vere anche le percezioni di un allucinato, di uno psicolabile, di chiunque non abbia un'adeguata consapevolezza della realtà? Qui vien quasi la tentazione di paragonare Kant a quel Cristo evangelico che continuamente diceva: "Non è ancora giunta la mia ora". Quello però era un Cristo che veniva fatto parlare dai redattori col senno mistico del poi.

Intristisce vedere un grande filosofo come Kant abbracciare, seppur in forma laicizzata, la causa del misticismo in nome delle proprie tesi aprioristiche. E cosa pensare quando scrive che del fattore tempo "resta la sua realtà empirica come condizione di tutte le nostre esperienze"(p. 80)? Quali esperienze potrà mai "condizionare" il tempo se la realtà empirica viene ridotta a mera percezione? Forse lo sviluppo dei denti o dei peli della barba o l'esperienza della calvizie? Quali esperienze significative potranno mai dire al soggetto kantiano che il tempo ha una proprietà empirica su di lui? Per un soggetto così isolato, così solipsistico, esiste davvero un qualche criterio per stabilire la differenza tra realtà e irrealtà? Come si può giudicare "reale" solo ciò che non può "condizionare"? Non facendo alcuna critica della realtà sociale, ma soltanto della rappresentazione che se ne può avere, è come se ci si fosse messi a guardare un'eclissi con un vetrino affumicato.

Se il tempo non è una determinazione inerente oggettivamente alle cose, perché queste muoiono e si trasformano in altre cose? Nella concezione kantiana del tempo potrebbe sì esserci una hegeliana negazione della negazione, ma non secondo il processo di tesi-antitesi-sintesi (considerando l'antitesi come un qualcosa di altro da sé); la negazione kantiana avviene all'interno della stessa tesi non tanto per un rapporto dialettico con l'antitesi, quanto perché essa subisce delle modifiche a prescindere dalla volontà soggettiva, cosa per cui il soggetto cerca di reagire come meglio può; infatti, ad un certo punto, come per un processo interno di autorigenerazione, la tesi si riprende e torna ad essere quel che era all'inizio. Il prodotto finito non è qualcosa di molto diverso da quello originario.

Con questo processo pseudo-dialettico, in cui la scienza è divenuta padrona del tempo, ci si potrebbero fare dei film di fantascienza, in cui gli attori che invecchiano o s'ammalano gravemente o subiscono incidenti gravissimi o muoiono in battaglia, vengono sottoposti a uno speciale trattamento, grazie al quale recuperano tutte le loro funzionalità, restando sempre se stessi; nel peggiore dei casi si creano strutture in cui i protagonisti possono essere facilmente clonati, al fine di sostituire immediatamente quelli deceduti.

Se una spia filosoficamente kantiana fosse stata al servizio di Napoleone e gli agenti del controspionaggio prussiano l'avessero catturata, rinchiudendola in una stanza con la luce sempre accesa, col proposito di svegliarla a ogni tentativo di addormentarsi, che cosa si sarebbe scoperto? Se il tempo è solo una percezione del soggetto, una tortura come questa non sarebbe servita a nulla. Se il tempo non è oggettivo, una spia kantiana può restare sveglia quanto le pare. Semmai saranno i torturatori ad aver bisogno di darsi i turni. E se anche nei momenti di pausa lei riuscisse in qualche modo a schiacciare un pisolino, al risveglio non avrebbe neppure bisogno di chiedere l'ora, visto che l'abitudine, maturata col tempo, le permette di sfruttare il proprio orologio interno.

I PARAGRAFI 7 e 8

[A]

Obiezioni di questo genere dovevano essere state fatte a Kant già al momento della prima edizione dell'opera, in quanto i paragrafi 7 e 8 (Chiarimenti e Osservazioni generali sull'Estetica trascendentale) ne rappresentano visibilmente una replica.

La filosofia di Kant, che tanto ricorda la Meditazione V di Cartesio, dove il concetto di "esistenza" non ha alcuna sostanza in sé, è in realtà, sul piano gnoseologico, una sorta di matematica tradotta in metafisica. Non ha nulla della fisica, poiché questa esamina i corpi in movimento. Nell'ambito dell'Estetica trascendentale esistono soltanto due categorie statiche, fossilizzate in maniera astratta, totalmente prive di contenuto: lo spazio e  il tempo. Realtà vuote, come solo un filosofo può immaginare.

Nella sua filosofia non c'è un vero contatto con la realtà, esattamente come nella sua etica non c'è un vero contatto con la persona. E' tutta una costruzione artificiale ch'egli s'è dato per appagare se stesso, in cui, prima ancora di porsi le domande di fronte a uno specchio, si stabiliscono le giuste risposte.

Kant può essere immaginato come un funambolo che ha di fronte a sé una corda da attraversare con sotto un pauroso vuoto. Lui osserva l'altro capo della corda e intuisce che può farcela, poiché ha la percezione esatta dei limiti spazio-temporali all'interno dei quali può muoversi, e siccome è convinto di questo, resta fermo a contemplare la situazione, sino al punto in cui decide di tornare indietro, pago d'avercela fatta.

Il vero motivo per cui Kant disse che dopo la sua Critica non ve ne sarebbe stata un'altra, dipese proprio dal fatto ch'egli riteneva la materia (e quindi il tempo e lo spazio) del tutto insussistente a prescindere dalla percezione che il soggetto ne può avere. La filosofia, in un certo senso, avrebbe dovuto finire con lui.

Non aveva però fatto i conti con Hegel, che pose davvero le basi dell'idealismo oggettivo e storicistico, mettendo nel dimenticatoio il criticismo kantiano. Lo stesso Hegel, tuttavia, disse che con lui la filosofia difficilmente avrebbe potuto aggiungere qualcosa di significativo sul piano logico e metafisico, e in effetti fu così, ma solo perché Marx ed Engels dissero che tutta la filosofia non era altro che un modo di guardare la realtà a testa in giù, mentre il vero problema era quello di trasformarla in maniera rivoluzionaria, partendo non dalle contraddizioni gnoseologiche ma da quelle sociali.

A volte stupisce che un filosofo di grande spessore come Kant, amante della classicità greca, per la quale la curiosità, la meraviglia, la contemplazione della natura, dell'universo, erano cose fondamentali, da porre addirittura alla base del corretto ragionamento, arrivi a dire che "quel che ci possa essere negli oggetti in sé e separati dalla ricettività dei nostri sensi ci rimane interamente ignoto. Noi non conosciamo se non il nostro modo di percepirli"(p. 83).

Un atteggiamento del genere ricorda da vicino quello della fiaba della volpe e l'uva o quello del bambino che invece di nascondersi per non farsi trovare dagli altri, chiude semplicemente gli occhi. La natura in sé non posso conoscerla, quindi non esiste o comunque non esiste per me. Se questo fosse vero, la ricerca scientifica, dopo Kant, si sarebbe dovuta bloccare di colpo. L'unica scienza che avrebbe potuto continuare a svilupparsi sarebbe stata la matematica: un'enorme soddisfazione per le conoscenze in generale!

[B]

L'ultimo paragrafo, l'ottavo, merita d'essere analizzato perché vuol porsi come sintesi generale del contenuto dell'Estetica trascendentale.

Le due affermazioni principali sono una contro i teologi: "ogni nostra intuizione non è se non la rappresentazione di un fenomeno"(p. 83), quindi è da escludere che uno possa avere la rappresentazione di qualcosa di sovrannaturale; l'altra invece è contro chiunque creda nell'oggettività della materia e della realtà in generale: "le cose che noi intuiamo non sono in se stesse quello per cui noi le intuiamo"(ib.), nel senso che "quel che ci possa essere negli oggetti in sé e separati dalla ricettività dei nostri sensi ci rimane interamente ignoto"(ib.). Il che, in altre parole, vuol dire che la realtà è inconoscibile come essenza (o sostanza). "Noi non conosciamo se non il nostro modo di percepirla"(ib.).

Quindi da un lato Kant dice che dio non esiste e dall'altro che senza il soggetto che pensa o intuisce o sente, non esisterebbe neppure la natura, in quanto se essa ha un significato in sé, non è per l'uomo. La morte di dio ha comportato la morte della materia (o comunque del suo significato).

Sembra qui di assistere a una crisi religiosa di stampo adolescenziale. Non si crede più in un'illusione collettiva e ci si rinchiude nel proprio isolamento. Il mondo non ritrova il significato di sé, dopo essersi liberato dalle proprie incrostazioni religiose, ma sparisce qua talis dalla percezione del soggetto, che in ultima istanza se lo ricostruisce a livello intellettuale (esaltando lo strumento dell'intuizione) sulla base dei propri interessi. Il criticismo naufraga nell'idealismo soggettivo, che rischia continuamente di essere sballottato tra il misticismo laicizzato di Scilla e l'irrazionalismo tendenziale di Cariddi.

Kant avrebbe almeno potuto risparmiarsi d'essere così categorico nel sostenere che la materia non potrà mai essere conosciuta nella sua essenza. Dire che la realtà è inconoscibile e dire che la sua conoscenza non può mai essere assoluta, sono due cose completamente diverse. Alla conoscenza assoluta ci si può arrivare per gradi successivi, ma nel frattempo occorre affermare almeno la differenza tra conoscenza soggettiva e oggettiva, altrimenti non vi potrà mai essere alcun progresso scientifico. Se la conoscenza non potesse mai essere neppure oggettiva, non si capisce perché dovrebbe esserlo quella, che pur si definisce preliminare a ogni forma di gnoseologia, dello stesso Kant.

Un qualunque criticismo soggettivistico dovrebbe anzitutto porre i limiti epistemologici in cui muoversi, i primi dei quali non possono non essere quelli sulla parzialità di qualunque osservazione individuale. A meno che uno non si concentri sugli aspetti empirici della realtà e cerchi di trovare in essi quelle leggi che possono rendere la realtà a misura d'uomo, priva di contraddizioni antagonistiche. In tal modo il confronto diventa non sui massimi sistemi dell'universo, ma, concretamente, sulle caratteristiche dei fenomeni.

[Kant e Leibniz]

Sul piano strettamente metafisico Kant potrebbe avere una qualche ragione se avesse almeno fatto una distinzione tra materia e fenomeno. Cioè, considerando che le conoscenze dell'uomo sulla materia dell'universo sono ancora molto modeste, a nessuno sarebbe parso scandaloso se egli avesse osservato che la materia in sé ci resta in gran parte sconosciuta. Ovviamente avrebbe dovuto aggiungere che la materia a nostra disposizione, quella di cui è composta il nostro pianeta, possiamo progressivamente conoscerla in maniera oggettiva, applicandoci a studiarla assiduamente.

In ogni caso tale distinzione non sarebbe stata ancora sufficiente per fare uscire Kant dalle sabbie mobili in cui si era infilato. Infatti, anche se avesse detto che la materia dell'universo attende d'essere progressivamente conosciuta dall'uomo, avrebbe poi dovuto aggiungere che nei confronti dei fenomeni umani la conoscenza non può mai sostenere di non essere in grado d'interpretarli. Una posizione così agnostica e sospensiva nei confronti della storicità di questi fenomeni fa perdere alla critica kantiana della religione una vera legittimazione. Rinunciando a interpretare la realtà fenomenica del suo tempo, Kant, naturalmente senza volerlo, poiché egli in coscienza era assai poco credente, faceva soltanto, con la Critica, un grande favore all'interpretazione ufficiale che ne davano lo Stato prussiano e la Chiesa di stato, per quanto - è bene ammetterlo - la sua opera demolitoria della dogmatica teologica un certo fastidio lo diede, se è vero che, dopo aver accettato la carriera universitaria, per poterla conservare egli si preoccupò di distogliere l'attenzione dagli elementi eversivi della sua Critica, dicendo esplicitamente, nella seconda edizione, ch'essa si poneva come obiettivo il superamento della metafisica di Leibniz e del suo principale divulgatore in Germania, Wolff, i quali sostenevano che dai sensi si poteva ottenere al massimo una conoscenza "confusa".

Davvero Kant pensava che la chiesa luterana avrebbe creduto a questo puerile diversivo? Un filosofo illuminato, accademico già ben noto, scrive una poderosa Critica semplicemente per dimostrare che dai sensi non si può ottenere neppure una conoscenza "confusa"? E allora perché chiamare "sensibile" l'organo per eccellenza dell'Estetica trascendentale? Non è singolare dire che l'essere umano è dotato di sensi che continuamente lo ingannano?

Esattamente come Leibniz, Kant non riteneva possibile una conoscenza "scientifica" attraverso i sensi. Solo che, a differenza di Leibniz, non ne aveva tratto la conclusione che il soggetto, per poter conoscere adeguatamente, dovesse dipendere da qualcosa a lui esterno. Leibniz infatti, pur essendo un matematico, sul piano metafisico era una sorta di filosofo della religione cristiana: le sue "monadi" salgono a dio; egli inoltre ammette l'esistenza di una vera e propria "città di dio", composta di spiriti che trovano in dio il loro supremo principio; inevitabilmente finisce coll'accettare la prova ontologica (anselmiana) dell'esistenza di dio e afferma persino che le cose contingenti hanno la loro ragion d'essere in dio (molto divertente era inoltre la sua concezione di finalismo dell'universo, secondo cui dio opera seguendo il principio del "meglio").

Ovviamente queste e altre cose di Leibniz, Kant non avrebbe mai potuto accettarle, proprio perché la sua posizione, almeno nella prima Critica, se svolta in maniera conseguente, rinunciando all'insulsaggine del noumeno, portava dritta all'ateismo (o quanto meno all'agnosticismo, se si voleva invece conservare il noumeno). Tuttavia, e questo va detto a scanso di equivoci, tra la monade leibniziana e l'io intuisco kantiano non vi sono affatto delle differenze sostanziali. Infatti, se si eliminano le mistiche amenità di Leibniz, la monade, in ultima istanza, non avrebbe alcuna difficoltà a comportarsi in maniera kantiana. E' vero che Leibniz, non potendo puntare troppo sui sensi, aveva finito col rifarsi sull'inconscio, ma è anche vero che i sensi su cui Kant diceva di voler premettere le conoscenze basilari non avevano alcunché di veramente "sensibile". L'intuizione era "sensibile" per modo di dire.

Kant in realtà non avrebbe mai dato alcuna validità alla "teoria del riflesso", in riferimento non a dio ma alla materia come realtà esterna. L'unica vera "sensibilità" per lui restava tutta interiore e connessa anzitutto alla facoltà dell'intuizione intellettuale.

Ora però leggiamo come Kant difende le sue tesi al cospetto di quelle di Leibniz e Wolff.

  1. I sensi non servono a nulla ai fini della conoscenza certa.
  2. Se non esistesse l'intuizione sensibile, non esisterebbero neppure gli oggetti.
  3. Gli oggetti o fenomeni si possono conoscere empiricamente attraverso i sensi, ma tale conoscenza non dà in ultima istanza alcuna garanzia di veridicità.
  4. L'intuizione sensibile serve per porre le condizioni di una conoscenza certa degli oggetti, che prescinde dagli oggetti stessi e che quindi si pone a priori.
  5. Da questa conoscenza bisogna però escludere quella della loro sostanza, che resta inconoscibile.
  6. Dunque qualunque conoscenza che cerchi in dio la spiegazione delle cose, non ha senso, poiché dio non è oggetto di esperienza sensibile (in altre parti della Critica Kant dimostrerà che tutte le prove relative all'esistenza di dio sono tautologiche, in quanto danno per scontata l'esistenza di ciò che dovrebbero dimostrare).
  7. Nessuna esperienza, di nessun fenomeno, può contenere aspetti di necessità e universalità.

Insomma Kant da un lato ha la pretesa d'aver fondato l'ateismo, in quanto nega valore a qualunque entità extrasensibile; dall'altro però, rinchiudendo il soggetto nell'ambito dell'intuizione, offre delle basi fragilissime al proprio ateismo, in quanto la materia viene posta sullo stesso piano della divinità, nel senso che come non esiste questa, così non esiste quella, e se per caso dovesse esistere, il soggetto non ne saprebbe nulla.

Il kantiano è come uno che deve bonificare un campo disseminato di mine antiuomo. Intuisce quale può essere il percorso giusto, ma esplode sull'ultima mina, proprio perché si è fidato solo della propria intuizione, che, per sentirsi certa, preferiva basarsi su leggi universalmente valide. "La nostra Estetica trascendentale è... tanto sicura e indubitabile, quanto mai si può richiedere che sia una teoria che deve servire di organo"(p. 86).

Una teoria che pretende di navigare sugli oceani e che poi fa affogare il timoniere in un bicchier d'acqua; una teoria che squalifica l'esperienza, negandole una necessità e universalità oggettive, che speranza può avere di porsi in maniera assoluta? Se si pretende una teoria del genere, a prescindere da qualunque esperienza, non si sta forse facendo del misticismo? Dunque, davvero Kant ha superato Leibniz?

Quello che più stupisce in un filosofo così intellettualmente dotato come lui è il fatto di non essersi reso conto che la migliore intuizione è proprio quella che si basa sull'esperienza. Egli ha voluto cercare a tutti i costi l'assoluto, senza considerare che l'unica strada percorribile per arrivarci è proprio quella dell'esperienza: prescindendo da questa, alla fine non restano che illusioni, mere rappresentazioni immaginarie.

Kant ha nettamente equivocato sulla differenza tra "oggettivo" e "assoluto": un'esperienza può essere oggettiva senza essere assoluta, può cioè rivendicare maggiore "oggettività" di altre esperienze, senza per questo pretendere di porsi in maniera dogmatica. Infatti ogni esperienza è caratterizzata da contraddizioni irrisolte e la "soggettività" di un'esperienza sta proprio nel fatto di avere maggiori contraddizioni irrisolte rispetto ad altre. E' una questione di "quantità", che può essere affrontata solo con un giudizio obiettivo sulla realtà. Questo significa che alla verità assoluta ci si può arrivare soltanto per "gradi", per tappe successive. Se un'esperienza pretende l'assolutezza - come in genere avviene nelle dittature - non avrebbe nulla di "oggettivo" o comunque lo perderebbe, diventando qualcosa di assolutamente arbitrario.

Conclusione

Anche i punti II, III e IV del § 8 sono stati aggiunti nella seconda edizione della Critica. A leggerli vengono in mente le scatole cinesi: se ne apre una e se ne trova un'altra più piccola, e così sino all'ultima. E ogni volta ci si chiede quale sia la cosa in sé, il noumeno di ogni scatola; un noumeno sempre più piccolo, fin quasi a scomparire del tutto.

Davvero Kant credeva al noumeno o lo usava soltanto per tener calme le coscienze fanatiche e integraliste? E, se ci credeva, possibile che non avesse capito che il noumeno delle scatole cinesi sta proprio nel loro gioco a incastro? Perché immaginarsi qualcosa di "assoluto" che spieghi in maniera "assoluta" il significato delle cose? Quale sforzo conoscitivo farebbe l'uomo di fronte a qualcosa che si autospiega in maniera esauriente? Che senso ha negare il dio teologico per riaffermarlo in maniera filosofica?

Se anche Kant non credeva nel noumeno e ne avesse parlato solo per accontentare gli avversari e l'inevitabile censura, resta il fatto ch'egli attribuisce un'importanza spropositata alla facoltà intuitiva e rappresentativa del soggetto privo d'esperienza. L'intuizione diventa in sostanza la rappresentazione che l'io fa di se stesso. "La coscienza di se stesso (appercezione) è la semplice rappresentazione dell'Io; e, se tutto il molteplice nel soggetto ci fosse dato da essa spontaneamente, l'intuizione interna sarebbe intellettuale"(p. 89).

Il fatto è però che tale intuizione, essendo l'esperienza delle cose esterne ridotta al minimo, di "sensibile" ha davvero poco. E' come se Kant dicesse a un bambino piccolo: "Se vuoi essere te stesso, sii te stesso, pensa a quello che sei e non permettere che la realtà esterna ti influenzi". Se davvero Kant trovasse un bambino così intelligente da capire le sue sagge parole, dovrebbe però aspettarsi una risposta di livello analogo: "Se tu mi dai questo consiglio, fai già parte della mia realtà esterna. O devo forse pensare che non sei tu che parli, ma è la mia coscienza che si riflette in te?".

Dunque che cos'è per Kant la coscienza di sé? Davvero l'autocoscienza è data soltanto da un automovimento dello spirito che alberga in ogni essere umano? Neppure lui è convinto di poter dare una risposta esauriente a questa domanda. Infatti nelle ultime righe dell'Estetica trascendentale si sente indotto ad affermare che nessun essere umano, così fragile e dipendente, può arrivare a tanto. Questa forma di autoconsapevolezza è prerogativa soltanto dell'Essere supremo.

Nota

Le pagine citate sono tratte dall'edizione della Laterza del 1975.

Fonti

Download

SitiWeb


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 06-09-2015