KANT E LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA E DEL GIUDIZIO

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IMMANUEL KANT (1724-1804)

IMMANUEL KANT (1724-1804)

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LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA

La CRP risponde all'interrogativo sulle possibilità della conoscenza e ne stabilisce l'ambito. Ma l'uomo non solo conosce, ma anche agisce, ed è in ordine al suo comportamento che si rende necessaria un'altra sfera di indagine filosofica che stabilisca delle norme di comportamento: questa è la Critica della ragion pratica (CRP). Ne deriva che il sapere filosofico kantiano si articola attorno a due punti fondamentali: il fatto della scienza e quello della morale. Le dottrine etiche tradizionali stabilivano il fondamento delle norme etiche sulla conoscenza, sulla volontà di Dio, sul sentimento, ecc.; in Kant, invece, la norma morale è frutto della decisione immediata dell'uomo. La morale, infatti, nonostante derivi dalla conoscenza, nasce dalla condizione dell'uomo in quanto uomo, che produce le norme di comportamento al di fuori della causalità deterministica del mondo sensibile. Non si tratta quindi di ragione empirica, condizionata dai fenomeni, ma di ragione incondizionata, che nella assoluta libertà stabilisce le norme di comportamento. L'uomo è concepito come soggetto morale che agisce con libera volontà. La ragione pratica riesce inoltre a dare consistenza a quelle idee trascendentali che la ragione teoretica riconosceva solo come apparenze problematiche.

La ragione è qui detta "pratica" perché non riguarda più la conoscenza in quanto tale, ma l'azione o, almeno, la conoscenza per l'azione, cioè i principi a priori della vita morale.

Materia e forma della vita morale

Anche la moralità, come la conoscenza, è fondata da una sintesi a priori. Esiste da una parte la "materia", che è data dagli impulsi, inclinazioni, esigenze pratiche, ecc. le quali, lasciate a sé seguono il criterio del piacere e del dolore. Esiste, d'altra parte, il principio della moralità (la "forma"), la categoria etica a priori che organizza e dà a tutti questi impulsi ed esigenze pratiche la forma della moralità, che sarebbe evidentemente vuota se non si applicasse alla materia, ai dati della sensibilità. Ma in che cosa consiste tale forma?

L'imperativo categorico: forma di moralità

E' quella che Kant chiama "imperativo categorico".

Due sono le specie di imperativi: l'imperativo ipotetico e quello categorico.

Il primo esprime un comando condizionato: cioè, ammesso che si voglia ottenere un dato risultato, si deve fare una data azione.

Il secondo, al contrario esprime un comando assoluto al quale, in quanto esseri morali, non si può sfuggire. Adempie dunque alle condizioni delle forme a priori: è cioè, universale (perché vale per ogni essere razionale e vale sempre) e necessario (perché deve essere osservato incondizionatamente). L'imperativo categorico è quindi pura forma. Come tale non dice nulla di concreto, non obbliga di per sé a nulla. Tuttavia obbliga: tutta la sua natura è nel "Tu devi", cioè nell'obbligazione. La legge morale comanda non ciò che si deve volere, bensì come si deve volere quel che si vuole: ordina dunque non il contenuto, ma la forma del volere. La volizione di questa forma è ciò che rende moralmente buono il nostro volere.

Caratteristiche dell'imperativo categorico

Da quanto detto, ci si rende conto che per Kant la legge morale è caratterizzata dall'assolutezza, dal formalismo e dall'autonomia.

Assolutezza: La morale kantiana si esprime con l'imperativo categorico che non accetta un "se", come quello ipotetico e quindi non cede alle inclinazioni e agli interessi personali. Kant polemizzò con Hume orientato alla morale dell'inclinazione e del sentimento, e con le conclusioni morali dell'Illuminismo, che sosteneva la norma etica del piacere e dell'utile. La morale kantiana è invece la morale del dovere. Rigorismo etico, dunque.

Formalismo: La legge morale deve rifiutare qualsiasi contenuto che farebbe ricadere l'azione umana nel soggettivismo. Il motto kantiano è la legge per la legge, il dovere per il dovere. E' quindi la forma e non il contenuto che costituisce il motivo della determinazione della volontà.

Autonomia della legge morale: Qualsiasi fine estrinseco alla legge morale stessa (cioè al dovere), anche il fine più nobile, snaturerebbe la morale. Di conseguenza sono escluse tutte le morali in qualche modo "eteronome". Kant stabilisce una tabella di sei morali eteronome: esse sono tali perché basate sull'educazione (Montaigne), sul governo civile (Mandeville), sul sentimento fisico (Epicuro), sul sentimento morale (Hutcheson), sulla perfezione della natura (Wolff, Stoici), sulla volontà di Dio (teologia in genere).

Le tre formule dell'imperativo categorico

L'imperativo categorico non è altro che l'obbligazione assoluta che la ragione ci fa di agire "razionalmente". Ora "agire razionalmente" significa essenzialmente tre cose: agire universalmente, considerare ogni uomo come essere razionale, considerare la ragione come fonte della legge. Kant esprime queste tre esigenze nelle tre formule dell'imperativo categorico:

- Agisci in modo che tu possa volere che la massima della tua azione divenga universale. La ragione, infatti, in quanto tale è universale, e niente può dirsi razionale se non travalica gli interessi del singolo per porsi come norma che valga per tutti e per sempre.

- Agisci in modo da trattare l'uomo, così in te come negli altri, sempre anche come fine e non mai solo come mezzo. L'uomo in quanto tale è ragione; lo strumentalizzare la ragione (cioè l'uomo) degraderebbe la stessa morale a mezzo, rendendo l'azione immorale.

- Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale. Questa formula è il riconoscimento dell'autonomia della morale: è la volontà (cioè: la retta ragione) che diviene la "legislatrice universale". In questo modo l'uomo si eleva a quel "regno dei fini" che non è se non una "unione sistematica di esseri ragionevoli", della quale ogni membro è legislatore e suddito: legislatore in quanto incarna la ragione universale; suddito in quanto è un essere particolare.

I postulati della "ragione pratica"

La vita morale non sarebbe sufficientemente fondata senza tre postulati che ci inseriscono nel mondo noumenico precluso alle possibilità della "ragione pura".

Postulato è per Kant una proposizione teoretica, ma come tale non dimostrabile, in quanto inerisce inseparabilmente ad una legge pratica che vale incondizionatamente a priori. La volontà, determinata da questa legge, esige queste condizioni necessarie all'osservanza dei propri precetti. Questi postulati non sono dogmi teorici, ma presupposizioni necessarie dal punto di vista pratico: perciò non ampliano la conoscenza speculativa, ma conferiscono realtà oggettiva alle idee della ragione speculativa in generale (attraverso il loro rapporto con ciò che è pratico), giustificandole come concetti di cui essa non potrebbe neppure pretendere di affermare la possibilità".

I tre postulati sono:

1) la libertà (e quindi l'anima)
2) l'immortalità dell'anima
3) l'esistenza di Dio

1) La libertà. Già nella CRP c'era un accenno all'"io legislatore", da cui la Dialettica trascendentale trae l'illusione di un'anima. La ragione pratica ora la esige come presupposto. Sarebbe infatti impossibile l'obbligazione se non esistesse la libertà. E la libertà non è che la rivelazione di un mondo sovrasensibile, di un noumeno, di una sostanza spirituale, la quale è per ciò stesso interamente indipendente dalla legge naturale dei fenomeni, cioè dalla legge della causalità. La ragione pratica per se stessa e senza alcuna intesa preventiva con la ragione teoretica, accorda realtà ad un oggetto sovrasensibile, cioè alla libertà (sebbene solo come a un concetto pratico e per l'uso pratico) e quindi conferma con un fatto ciò che la poteva solo essere pensato.

2) L'immortalità dell'anima. Per capire questo postulato è necessario rifarsi al concetto kantiano di virtù, di felicità, di sommo bene. La virtù, dice Kant, è il bene supremo; tuttavia, per essere tale deve essere unita alla felicità. Ora, poiché nel mondo felicità e infelicità dipendono da cause naturali e non sono commisurate ai meriti e demeriti, deve esistere un'altra vita dove la felicità sia necessariamente connessa con la virtù.

Inoltre: la natura razionale invita l'uomo ad una perfetta conformazione della volontà alla legge morale; tale conformazione è ciò che chiamiamo "santità". Tale perfezione è però irraggiungibile attualmente e potrà essere trovata solo in un "progresso infinito" verso quella compiuta conformazione. Ma questo progresso infinito è possibile solo sotto il presupposto d'una "persistenza infinita, come personalità" dello stesso essere razionale (ciò che si dice "immortalità dell'anima").

3) L'esistenza di Dio. Essa è basata essenzialmente su due motivi:

- La corrispondenza della felicità alla virtù. Il mondo fenomenico nel suo meccanismo causale è cieco alle esigenze spirituali: ci vuole un Essere sovrasensibile che sia il garante di una giustizia.

- La stessa vita morale rimanda, per altro verso, a Dio: non nel senso che la legge morale e la sua obbligatorietà si basi su Dio, ma nel senso che Dio è basato, cioè è rivelato, dalla legge morale. Non dobbiamo considerare certe azioni come doverose perché sono precetti di Dio, ma dobbiamo considerarle come precetti di Dio perché sono interiormente doverose.

Valore dei postulati della ragion pratica

1) Essi sono noumeni, cioè rivelazioni del mondo sovrasensibile, delle "cose in sé". Anche se non li possiamo del tutto comprendere, ne possiamo e dobbiamo ammettere l'esistenza.

2) Sono esigiti dalla ragion pratica. La ragion pratica ha assolutamente bisogno della loro esistenza per assicurare la possibilità del suo oggetto che è dal punto di vista pratico assolutamente necessario.

3) Di conseguenza, la loro validità non può essere estesa all'ambito teoretico: essi non sono un'estensione della conoscenza, che autorizzi a fare delle idee della ragione un uso positivo.

La religione

A più riprese Kant introduce il discorso della religione. Lo abbiamo già visto nella Dialettica trascendentale (illusorietà dell'idea di Dio), nella CRP (postulato dell'esistenza di Dio)

e ne parlerà più volte nella Critica del Giudizio. Kant, inoltre dedicò anche una sua opera particolare a questo tema, cioè la famosa La religione nei limiti della ragione (1793).

Bisogna anzitutto ricordare che riguardo alla religione Kant inverte i termini tradizionali: è la religione che si basa sulla morale e non viceversa. La religione è infatti la legge che è in noi, in quanto riceve autorità da un Legislatore e Giudice: è la morale applicata alla conoscenza di Dio. Se la religione non è integrata dalla morale, essa non è che implorazione dei favori celesti. Kant tende quindi ad identificare religione e morale, ad assorbire la prima nella seconda.

Il suo discorso parte dall'analisi di ciò che gli chiama "il male radicale" che è nell'uomo e che, praticamente, consiste nel fatto che l'uomo può allontanarsi ed effettivamente si allontana dalla legge morale. Che ciò avvenga facilmente è un dato: per cui "l'uomo è cattivo". Quale ne sia la causa immediata e poi la causa ultima Kant discute e ricerca, ma non giunge ad una soluzione. Esclude che il male radicale possa identificarsi totalmente con la sensibilità, in quanto le inclinazioni sensibili non cadono direttamente sotto la responsabilità umana, mentre ci cade la volontà cattiva. Né, tanto meno, il male radicale può dipendere dalla ragione; ammettendo ciò si ammetterebbe un assurdo: che la fonte della moralità possa, in quanto tale, divenire fonte di immoralità. Immediatamente Kant fa allora risalire il male radicale ad una non meglio definita "fragilità" della natura umana; remotamente non sa trovarne una base; e lo vede simbolicamente adombrato nel "peccato originale" del dogma cristiano. Sta di fatto che l'opera dell'uomo morale consiste nella lotta contro questo male radicale, che diviene quindi lotta di liberazione e quindi, ancora, attualizzazione di libertà.

Tutti gli uomini di buona volontà, cioè tutti coloro che si adoperano in questa opera di liberazione, formano la comunità invisibile degli spiriti, cioè la "Chiesa invisibile". Questa è la vera religione, la religione naturale, "fede religiosa pura".

Tuttavia Kant ammette anche una religione rivelata, una "Chiesa visibile": gli uomini concretamente considerati hanno bisogno di una voce e di una organizzazione esterne che impongano loro dei doveri. Qual è la differenza tra religione naturale e religione rivelata?

In quella naturale riconosco qualcosa prima come mio dovere e poi come comando divino, in quella rivelata riconosco qualcosa prima come comando divino e poi come mio dovere. Ad ogni modo, per avere autentica religione si deve sempre giungere (attraverso una delle due forme di religione) alla fede razionale, cioè alla morale razionale. Le verie religioni rivelate, quindi, non sono altro che mezzi, vie all'autentica religione. (La religione nei limiti della pura ragione). Se il cristianesimo è per Kant la religione superiore, lo è solo perché può essere ricondotto completamente alla pura morale.

LA CRITICA DEL GIUDIZIO (CRG)

Oltre l'esame della "ragion pura" (attività teorica, intelletto) e della "ragion pratica" (attività pratica, volontà), Kant introduce l'esame di una nuova facoltà: il sentimento.

Shaftesbury, Hume, Rousseau e in genere gli empiristi e i Moralisti del '700 avevano portato la questione alla ribalta. Kant l'accetta e vede nel sentimento la facoltà intermedia tra l'attività teoretica e quella pratica. La prima ha come scopo la conoscenza; la seconda l'azione morale. Il sentimento dovrebbe congiungere entrambe le attività.

La finalità, categoria del sentimento

Facoltà propria del sentimento è il giudizio, evidentemente inteso in modo differente dal giudizio della "ragion pura". Là si trattava di "giudizio determinante", qui si tratta di "giudizio riflettente". Giudizio in generale è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nel generale. Se è dato il generale (la regola, il principio, la legge) il giudizio cha a questo sussume il particolare è "determinante". Se è dato invece soltanto il particolare, il giudizio che deve trovare il generale è semplicemente "riflettente" (CRG).

Giudizio determinante" si ha quando la "materia" è immediatamente sottoposta ad una "forma" (categoria a priori), che la organizza in modo meccanico ed oggettivo secondo schemi prestabiliti.

Giudizio riflettente si ha invece quando il sentimento, trovandosi di fronte ad una molteplicità di fatti o elementi particolari, sente il bisogno di vederli raccolti in unità. Quando questa unità è realizzata, si ha un senso di soddisfazione. Tale bisogno e soddisfazione derivano dal fatto che il sentimento manifesta un'esigenza "noumenica", sovrasensibile che gli è propria e che sente appagata quando la riscontra attuata nel mondo sensibile.

Ridurre la molteplicità ad unità, il disordine ad ordine è proprio della finalità. La finalità è la categoria del sentimento.

E' chiaro che questa "unità", questo bisogno di "unificazione" non sono altro che la stessa esigenza che si veniva manifestando nelle idee della "ragion pura": l'idea del mondo, dell'anima e di Dio. Tuttavia, mancava ancora un termine intermedio che permettesse di soddisfare tale esigenza. Ora "la facoltà del giudizio [...] fornisce nel concetto della finalità della natura il concetto intermediario tra la natura e la libertà, che rende possibile il passaggio dalla ragione teoretica pura alla ragione pratica pura, dalla necessità -secondo leggi- della prima al fine ultimo della seconda; per questo mezzo viene riconosciuta la possibilità del fine ultimo, che solo nella natura e d'accordo con le sue leggi può diventare reale" (CRG, introduz.).

Ma come media il giudizio riflettente tra necessità meccanicistica e libertà? Attraverso, appunto, la categoria della "finalità", la quale rimanda ad una libertà coordinatrice, ad una Mente ordinatrice che riunisce armonicamente il molteplice della natura. Ma di tale fine, di tale Mente non abbiamo conoscenza oggettiva: essa è soltanto il correlato esterno di una nostra esigenza interiore verso l'armonia e la finalizzazione. Infatti osserva Kant: "Che cosa prova alla fine la teleologia più perfetta? Prova essa forse l'esistenza di un essere intelligente supremo? No; essa non prova altro se non che noi, secondao la natura delle nostre facoltà conoscitive e cioè mediante il collegamento dell'esperienza con i principi supremi della ragione, non possiamo assolutamente farci un concetto della possibilità di questo mondo, se non pensando ad una causa suprema che agisce secondo fini. Non possiamo perciò dimostrare oggettivamente la proposizione: "esiste un essere originario intelligente"; ma solo soggettivamente per l'uso del nostro giudizio nella sua riflessione sopra i fini della natura, che non possono essere pensati secondo alcun altro principio che quello della causalità intenzionale d'una causa suprema che agisce secondo fini. Non possiamo perciò dimostrare oggettivamente la proposizione: "esiste un essere originario intelligente"; ma solo soggettivamente per l'uso del nostro giudizio nella sua riflessione sopra i fini della natura, che non possono essere pensati secondo alcun altro principio che quello della causalità intenzionale d'una causa suprema" (CRG). Si rimane quindi nell'ambito della soggettività e questo in sostanza perché non osserviamo propriamente i fini come vere intenzionalità della natura, ma aggiungiamo questo concetto col pensiero, quando riflettiamo sopra i suoi prodotti come un filo conduttore per il giudizio, essi non ci sono dati dagli oggetti". (CRG).

L'interpretazione teleologica della natura, pur non essendo quindi oggettiva è però almeno normativa (termine già usato da Kant a proposito delle idee della ragion pura e dei postulati di quella pratica), cioè può valere come "metodo", come principio ermeneutico per spiegare i fenomeni.

Giudizio teleologico e giudizio estetico

Duplice è il giudizio di finalità: giudizio teleologico e giudizio estetico.

Per il giudizio teleologico la finalità è considerata nell'oggetto stesso; si considera, cioè, l'armonia delle parti col tutto nell'oggetto, non in quanto riferita a noi.

Per il giudizio estetico o di gusto, invece, l'armonia dell'oggetto viene considerata in quanto correlata al soggetto (ciò ci fa chiamare "bello" l'oggetto).

Il giudizio di gusto e l'Estetica

Il giudizio estetico è dato dal considerare l'oggetto in rapporto armonico con il soggetto, in modo che dinanzi ad un oggetto acquistiamo coscienza del libero gioco delle nostre facoltà.

Esso non ci dà nessuna conoscenza dell'oggetto, perché la rappresentazione che ne fa è completamente riferita al soggetto e quel che se ne ricava è solo la forma finale nella determinazione delle facoltà rappresentative che a quell'oggetto si rivolgono.. Il giudizio estetico, quindi, si esprime non a livello di concetti, ma di sentimenti, i soli che possano avvertire l'"armonia del gioco delle facoltà dell'animo".

Il sentimento del bello o piacere estetico o giudizio di gusto deve avere certe caratteristiche per essere tale. Kant ne enumera quattro:

- Bello è ciò che piace senza interesse. Di conseguenza il piacere estetico è puramente contemplativo e si disinteressa dell'esistenza stessa dell'oggetto che suscita in noi il sentimento.

- Bello è ciò che piace universalmente. Se il bello non attiene a nessun interesse particolare, esso contiene in sé il principio di un piacere universale.

- Bello è ciò che piace necessariamente, cioè il bello non può lasciare indifferenti, non pu non piacere. Questo richiede però una educazione al gusto estetico.

- Bello è ciò che piace senza concetto (o per la sola forma). Non è, in altre parole, il contenuto della cosa che mi interessa, ma solo l'armonica disposizione delle parti nel tutto (=forma), che causa poi in me il libero ed armonico gioco delle facoltà. E' la coscienza di tale libero gioco che mi dà il piacere estetico.

Per questo giudico "bello" l'oggetto che mi permette tale gioco.

Il giudizio teleologico: il finalismo nella natura e nella storia

Il giudizio teleologico considera la finalità nell'oggetto in un modo più "oggettivo" di quanto non avvenga nel giudizio estetico.

I motivi che inducono Kant a supporre un finalismo nella natura sono essenzialmente due: uno è dato dalla possibilità di spiegare la libertà; l'altro dall'insufficienza del meccanicismo a spiegare la natura stessa.

La possibilità di spiegare la libertà. La natura è il regno della necessità e del determinismo meccanicistico. Sul piano fenomenico, della ragion pura, questo è un dato accertato e risaputo. Tuttavia l'azione dell'uomo, in quanto soggetto di libertà, non può esplicarsi che nel mondo sensibile: il regno dei fenomeni è il campo di azione di questo noumeno che è il soggetto morale. Se l'agire morale dell'uomo è possibile, è segno che le leggi di necessità presenti nel mondo fisico sono tali da potersi accordare con la nostra libertà: sono, quindi, finalizzate.

Insufficienza del meccanicismo. Ma Kant va ancora più oltre. IL meccanicismo non è tale da poter spiegare totalmente ed in modo soddisfacente la stessa realtà fenomenica. Il meccanicismo lega un fatto ad un altro con una catena ferrea di cause ed effetti. Ma tale catena non spiega se stessa: da una parte, infatti, resta incompiuta (non ha né un inizio ragionevole né una fine; cfr. la 3a antinomia della Dialettica trascendentale); dall'altra ogni catena causale è separata dalle altre. In altri termini, il meccanicismo fallisce nell'intento di unificare tutti i fenomeni: un aggregato di parti non potrà mai costituire un tutto armonico ed organico: è necessaria al contrario, un'Intelligenza che unifichi le parti in un tutto secondo una prospettiva finalistica. Kant non vuole cedere né al puro meccanicismo che porta in ultima analisi all'"animismo", a supporre "potenze occulte" nella natura; né alla pura spiegazione teleologica, che facilmente degenera nel misticismo, ma vuole cercare una conciliazione di entrambi in un ambito soprasensibile.

Ciò che maggiormente fa sospettare a Kant un finalismo nella natura è l'esame degli organismi viventi. Questi non sono semplicemente macchine, aggregati di parti giustapposte: in essi le parti sono coordinate per una funzione, cioè un fine. Ma, affinché ciò avvenga, è necessaria un'intelligenza che organizzi le parti in vista del tutto e in vista del fine.

L'uomo e il regno della storia

L'uomo costituisce il fine ultimo della natura. Ma, detto che il fine della natura è l'uomo, non è ancora detto quale sia il fine dell'uomo. Kant intanto esclude che sia la felicità ed enumera vari motivi per i quali pensare che l'uomo sia fatto per la felicità risulta assurdo:

- sono tante e così diverse le concezioni della felicità, che la natura stenterebbe ad accordarsi ad un concetto così vario ed oscillante;

- c'è una contraddizione insanabile tra l'incontentabilità della natura umana e la felicità intesa come appagamento pieno;

- l'uomo non è prediletto dalla natura, in modo tale da essere preservato da ogni pena ed indirizzato alla felicità piena, anzi sembra invece che la natura lo voglia più infelice degli altri esseri.

Nel medesimo tempo, tuttavia, certamente la natura ha privilegiato l'uomo rispetto a tutti gli esseri di una facoltà superiore: la ragione. Sarà quindi nello sviluppo della ragione il fine "lo scopo finale" dell'uomo. Con questa affermazione Kant si ricollega a tutta la tradizione intellettualistica, specialmente greca e conclude in consonanza con tutto il suo sistema e con tutta l'ispirazione dell'illuminismo: la ragione è il bene supremo.

L'uomo è sì il fine ultimo della natura, ma questo solo a condizione che egli sappia e voglia dare alla natura e a se stesso, un fine tale, sufficiente per se stesso e indipendente dalla natura, tale quindi da essere uno "scopo finale", il quale tuttavia non può trovarsi nella natura. Lo svilupparsi secondo ragione implica nell'uomo due modi di essere: quello che egli chiama "cultura" e quello che gli chiama "abilità".

L'abilità è il progresso tecnico (Zivilisation), che permette all'uomo di liberasi dai condizionamenti materiali e di usufruire e godere di migliori condizioni di vita. Questa abilità, però, può essere sia una causa di degradazione, portando ad un culto del benessere, sia essere preparazione all'autentica vita morale e quindi al dominio della ragione.

Resta dunque come fine autentico la "cultura" (Kultur), che si identifica con il progresso morale, la promozione nell'uomo delle libere intenzioni morali.

Anche il fine della società non potrà essere visto se non in funzione del progresso morale dell'umanità. Fine della società sarà dunque la promozione della "cultura". Ora ciò non è possibile, per Kant, se non sviluppando i rapporti interpersonali e le relazioni tra gli stati.

All'interno dello Stato la migliore forma di governo è quella repubblicana, quella forma cioè nella quale si costituisce una potestà legale che tenda a porre sul piano della giustizia le relazioni dei singoli e quindi a promuoverne la libertà. A questa forma non si giunge senza lunghi e dolorosi contrasti. Ma l'antagonismo è per Kant la legge del progresso storico: senza lotta nulla si ottiene e c'è inoltre una provvidenza storica che dal male degli uomini sa trarre il bene generale.

Sul piano delle relazioni tra gli stati l'ideale kantiano è quello di una federazione universale, in cui la tutela della sicurezza e del diritto di ciascun stato non sia demandata all'arbitrio e alla forza del singolo stato, ma alla decisione della società dei popoli.

La molla che spinge le nazioni ad aderire a questo ideale sovranazionale è per Kant la guerra. Infatti, pur essendo in se stessa una umana follia, la saggezza suprema la preordina a fondamento della futura unità dei popoli.

Angelo Papi - Contatto

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Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 06-09-2015