IL GRANDE LENIN

Per un socialismo democratico

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Sulla cooperazione

Lenin cominciò a studiare il problema della cooperazione nel 1918. Fino alla svolta della Nuova Politica Economica, egli ha sempre considerato “utopico” il socialismo cooperativistico. Il limite dell'“utopia” risiedeva – a suo giudizio – nella pretesa di poter realizzare la transizione dal capitalismo al socialismo senza “lotta politica della classe operaia per l'abbattimento del dominio degli sfruttatori” (così nell'art. Sulla cooperazione, scritto per la “Pravda” nel 1923). Lenin non ha mai accettato l'idea di poter utilizzare questa forma di socialismo per spingere le contraddizioni del capitalismo verso una soluzione socialista (che implicasse ovviamente anche la rivoluzione politica). Le energie impiegate per sviluppare la cooperazione in ambito capitalistico sarebbero state inevitabilmente tolte – secondo Lenin – alla causa rivoluzionaria vera e propria. La cooperazione poteva diventare utilissima dopo la rivoluzione, non prima. In caso contrario essa avrebbe finito coll'imborghesirsi, diventando una forma “socializzata” di produzione o di consumo capitalistici.

Negli anni del “comunismo di guerra” Lenin era prevalentemente interessato alle cooperative dei consumatori, che svolgevano la funzione di assicurare la distribuzione dei prodotti alimentari. Peraltro, in quegli anni, il termine “cooperazione” designava, il più delle volte, il sistema territoriale di razionamento (relativamente alla cooperazione massiccia e forzata tipica del “comunismo di guerra”). Mentre la vera cooperazione risiede – come noto – sul principio della partecipazione volontaria.

Lenin, tuttavia, fu sempre contrario all'idea di una cooperazione di produzione forzata nelle campagne. Lo attesta la risoluzione redatta per l'VIII Congresso del partito, relativa all'atteggiamento da tenere verso i contadini medi: “Nell'incoraggiare le cooperative d'ogni tipo, così come le comuni agricole dei contadini medi, i rappresentanti del potere sovietico non devono esercitare alcuna costrizione durante la loro creazione. Soltanto le associazioni dovute alla libera iniziativa dei contadini, hanno un qualche valore”.

Negli anni immediatamente seguenti alla rivoluzione, la cooperazione non veniva identificata col socialismo. Questo era anche il frutto di un condizionamento ideologico. Molti bolscevichi infatti credevano che il comunismo si dovesse costruire velocemente, rifiutando le forme sociali ereditate dal passato. In pratica essi identificavano la statizzazione dei mezzi produttivi e della terra con la loro diretta, immediata, socializzazione.

Fu però la Nep a mettere in discussione questo schematismo. Lenin rivalutò la cooperazione quando s'accorse del fallimento del “comunismo di guerra”, cioè quando costatò che il socialismo non poteva essere imposto in alcun modo, neanche avvalendosi delle situazioni più critiche e drammatiche. Nel suo articolo Sulla cooperazione, egli affermò che “ogni nostro punto di vista sul socialismo è radicalmente mutato”. La cosa – a suo stesso giudizio – dipendeva dal fatto che si era spostato il “centro di gravità” dalla lotta politica per la conquista del potere, alla costruzione pacifica, culturale, del socialismo. Le cooperative, che nella fase politica non erano state considerate utili dal partito, ora, nella fase culturale, diventavano uno strumento fondamentale per la costruzione del socialismo. Pertanto – diceva Lenin – “nelle nostre condizioni, la cooperazione coincide interamente col socialismo”: il socialismo cioè non è che “un regime di cooperatori colti”, ovvero la sua realizzazione in Urss doveva per forza passare per la tappa della cooperazione. Questa tesi non venne capita a sufficienza dai leader del partito.

Nella cooperazione – diceva Lenin – “abbiamo trovato il modo di combinare l'interesse commerciale privato, da una parte, con il suo controllo statale, dall'altra, cioè il modo di subordinare l'interesse privato a quello generale”. Già nello scritto del 1918, Sull'infantilismo di sinistra e lo spirito piccolo-borghese, egli aveva sottolineato che l'economia reale del periodo di transizione doveva necessariamente contenere elementi di socialismo e di capitalismo di stato. Questi elementi potevano anche avere degli aspetti in “comune”, in quanto il socialismo non è che “l'assimilazione e l'applicazione, mediante l'avanguardia del proletariato al potere, di ciò che è stato creato dai trust”. Anzi, secondo Lenin, certi processi manageriali e organizzativi della produzione capitalistica avrebbero potuto dimostrare veramente il loro potenziale soltanto sotto il socialismo. In questo stesso scritto, polemizzando coi comunisti di “sinistra”, Lenin era arrivato alla formidabile intuizione – rimasta però quasi suo patrimonio esclusivo – che nessuna “nazionalizzazione” avrebbe potuto portare di per sé alla “socializzazione” dei mezzi produttivi.

Le forme collettive di realizzazione della proprietà presuppongono necessariamente una diversità d'interessi e di metodi, ovvero un sistema sociale ampiamente democratico e pluralistico. Le forze sociali devono cooperare tra loro. Di questo Lenin era perfettamente consapevole. Non a caso nei suoi ultimi interventi (soprattutto nel “testamento politico”) egli mise l'accento sulle questioni della democrazia. Di fatto egli rivalutò la democrazia politica dopo averla vista realizzare sul piano economico, dopo essersi accorto che il centralismo del partito-stato rischiava, concedendo troppo all'autoritarismo, di minare le basi della Nep.

Anzi, la cooperazione, per l'ultimo Lenin, doveva essere una forma di positivo superamento della stessa Nep, poiché questa era stata concepita soltanto come una “concessione al contadino in quanto mercante, al principio del commercio privato”. Attraverso la cooperazione – diceva Lenin – si poteva realizzare “quel grado di coordinazione dell'interesse commerciale privato con la verifica e il controllo da parte dello Stato, quel grado di subordinazione dell'interesse privato all'interesse generale”. Ciò, in sostanza, significava che mentre con la Nep il partito era stato costretto a fare delle “concessioni” al contadino privato, con la cooperazione invece si sarebbe potuti arrivare “automaticamente” al socialismo.

Dov'era il limite di questo ragionamento, che pur in quel periodo superava di gran lunga quelli dei suoi compagni di partito? Nel fatto che si considerava la cooperazione un modo per realizzare al meglio il socialismo di stato e non un modo per superarlo. Per Lenin e per gli altri dirigenti di partito, non era lo Stato a doversi porre al servizio della cooperazione ma il contrario. La cooperazione cioè veniva considerata come un mezzo non come un fine: il fine era lo Stato socialista. L'interesse “generale” per Lenin poteva essere soltanto quello deciso dallo Stato. L'interesse generale della collettività locale era considerato alla stregua di un interesse “particolare”, che andava appunto mediato dalla cooperazione per poter diventare “generale”.

La cooperazione, per Lenin, non era ancora, e giustamente, “la vera costruzione della società socialista”, poiché questa presuppone la fine della legge del valore, del denaro, del mercato, ecc., mentre la cooperazione continua ad avvalersi di queste cose. Sennonché, il rapporto Stato/cooperazione – nell'ottica di Lenin – doveva avvenire unicamente dall'alto al basso, per ritornare poi in alto. Lo Stato finanziava ciò che poteva incrementare i suoi poteri e solo il partito-stato avrebbe potuto stabilire quando la costruzione del socialismo sarebbe stata compiuta.

Nella seconda parte dell'art. Sulla cooperazione, Lenin specifica che esistevano in Urss diverse forme d'imprese produttive: 1) quelle capitalistiche private (sotto controllo statale e senza proprietà terriera), 2) quelle di tipo socialista conseguente (dove tutto è statalizzato), 3) quelle cooperativistiche (che erano collettive e non private come le prime, ma socialiste come le seconde, poiché terra e mezzi produttivi erano statali). Per Lenin dunque le cooperative erano tanto più socialiste quanto più assomigliavano alle aziende statali. Il carattere del “socialismo” era dato anzitutto dal monopolio statale della terra e dei mezzi produttivi, nonché dalla gestione collettiva dell'economia. Lo Stato non lasciava alla società il compito di decidere quale fisionomia dare al futuro socialismo.

Non solo, ma come lo Stato andava considerato superiore alla società civile, così la classe operaia andava considerata superiore a quella contadina, poiché i partiti operai rivoluzionari avevano conquistato il potere, mentre quelli tradizionalmente contadini non vi erano riusciti. Era dunque il partito-stato che, in nome del proletariato industriale, deteneva il monopolio dei mezzi produttivi, mediante il quale esso avrebbe consolidato l'alleanza operaio-contadina. In questa visione delle cose non c'è mai stato un rapporto paritetico tra operai e contadini. E inevitabilmente la superiorità politico-organizzativa dimostrata dal proletariato industriale nel corso della rivoluzione (la quale pur ottenne vasti appoggi dal mondo contadino) avrebbe rischiato, in ogni momento, d'essere ipostatizzata nel periodo post-rivoluzionario.

Probabilmente la scoperta più sensazionale che fece Lenin all'inizio degli anni Venti (testimoniata non solo dall'art. Sulla cooperazione, ma anche da quello contro il menscevico N. Sukhanov, Sulla nostra rivoluzione), è l'importanza fondamentale della “cultura”, una volta compiuta la rivoluzione politica. Contro Sukhanov, Lenin difende la legittimità dell'Ottobre, dicendo che non si può aspettare che le masse abbiano un'elevata cultura prima di decidersi per la rivoluzione. Le rivoluzioni, infatti, scoppiano quando ve n'è la necessità, con o senza cultura di massa. Peraltro, afferma con acume Lenin: 1) non si può stabilire a priori il grado esatto di cultura, necessario a giustificare una rivoluzione (esso peraltro varia da nazione e nazione), e 2) è certamente indice di cultura volersi liberare con decisione degli sfruttatori, permettendo così a tutti di accedere alla cultura e al benessere.

In sostanza Lenin sosteneva che né Sukhanov né alcun altro aveva il diritto di contestare la legittimità dell'Ottobre, facendo leva sul basso livello culturale dei rivoluzionari russi. La legittimità dell'Ottobre stava unicamente nel fatto che la rivoluzione fu un movimento di vaste masse popolari e non un colpo di stato di pochi estremisti. Che poi i bolscevichi abbiano dato più peso alla politica che alla cultura, ciò andava considerato – diceva Lenin – come una mera contingenza storica, non come una legge del marxismo.

Lenin era disposto ad accettare delle contestazioni sul piano del merito, non su quello della legittimità. In effetti, nel tentativo di dare un risvolto democratico al processo post-rivoluzionario, egli riconosceva che il partito aveva commesso molti errori dovuti all'ingenuità, all'infantilismo di sinistra, alla fretta del “tutto e subito”. D'altra parte se l'Urss stava diventando totalitaria, ciò non dipendeva solo da cause interne, ma anche dall'ostilità dell'Occidente capitalistico, che cercò immediatamente di rovesciare il nuovo potere in modo economico e militare. Lo sviluppo privilegiato dell'industria pesante fu determinato anche dalla paura di dover soccombere a un nuovo attacco dell'imperialismo. Lenin si rendeva perfettamente conto che il socialismo avrebbe potuto sopravvivere, sul piano economico, solo a tre condizioni: 1) sostenere l'azienda agricola individuale-familiare, 2) sviluppare la cooperazione a tutti i livelli, 3) risparmiare le risorse per sviluppare la grande industria, parallelamente a quella leggera (al fine di poter offrire delle merci ai contadini in cambio del grano).

Sempre relativamente al tema della cultura, Lenin era dell'avviso che per formare e sviluppare la cooperazione occorreva istruire i contadini circa i suoi vantaggi, creando un “commerciante intelligente e colto” (alla maniera europea, non asiatica). “Nelle nostre condizioni” – diceva Lenin – il sistema del socialismo è quello dei “cooperatori colti”. La cultura era l'unico mezzo a disposizione, poiché la cooperazione aveva senso solo in quanto fenomeno volontario. Dato il basso livello di cultura del suo Paese, Lenin prevedeva di poter realizzare gli obiettivi nell'arco di “uno o due decenni, se tutto andava per il meglio”. In realtà, egli sapeva che sarebbe occorsa un'intera epoca storica, però aveva fiducia che il socialismo avrebbe potuto accelerare i tempi.

Lenin non considerava anomalo il fatto che in Russia “il rivolgimento politico e sociale avesse preceduto quello culturale”. Anzi, forse con eccessiva sicurezza, sosteneva che il contrario era “teoria da pedanti”, in quanto con tutti i suoi rivolgimenti “culturali”, l'Europa occidentale, di fatto, non era mai giunta a porre le premesse politiche per l'edificazione del socialismo. Su questo era impossibile dargli torto. Lenin concentrò tutta la sua attenzione e tutte le sue energie verso un unico obiettivo: portare al potere un partito e una classe rivoluzionari. La scienza ch'egli doveva necessariamente privilegiare era quella della politica. Solo dopo la rivoluzione si poteva pensare al “pacifico lavoro organizzativo culturale”. In questo senso il gramscismo può validamente rappresentare una variante significativa del leninismo, poiché esso ha la pretesa di partire proprio dall'esperienza socioculturale per rovesciare politicamente il sistema borghese. L'importante, naturalmente, è che a questo obiettivo ci si arrivi, altrimenti la ricerca delle mediazioni e dei compromessi rischierà di vanificare la qualità dell'opposizione. Lenin, in fondo, non ha mai avuto torto nel ritenere impossibile costruire il socialismo senza conquista politica del potere da parte delle classi oppresse.

Bisogna dunque riprendere le sue idee economiche sulla cooperazione e politiche sulla democrazia, ma a un livello superiore, tenendo conto degli sviluppi storici. Infatti, anche se per molti aspetti tragica, la storia non può essere trascorsa invano, come se nulla fosse. L'aggancio al passato non può mai avvenire sic et simpliciter. Ad es. l'idea che le cooperative diventano “socialiste” solo perché edificate su un terreno nazionalizzato, usando mezzi produttivi statali, è decisamente superata. D'altro canto Lenin aveva già superato l'idea che le cooperative potevano essere utilizzate dal punto di vista meramente tattico, ai fini della costruzione del socialismo.

A causa del fatto che nella sua concezione politica del “centralismo democratico”, la democrazia si trovava spesso sacrificata al centralismo, Lenin non arrivò a comprendere adeguatamente l'idea che doveva essere lo Stato socialista a porsi al servizio della cooperazione socializzata e non il contrario. A suo parere doveva piuttosto essere lo Stato, che, guidato dal partito politico, avrebbe dovuto gestire dall'alto il processo di socializzazione progressiva della produzione e della distribuzione. Esso avrebbe cominciato a estinguersi soltanto quando tutto sarebbe stato socializzato per iniziativa del vertice.

Questa tesi in sé non sarebbe stata del tutto sbagliata, se Lenin avesse accettato l'idea che il modo di socializzare la società doveva essere un compito da svolgersi liberamente, lasciando cioè libera la società di capire i vantaggi del socialismo. Senza questa fondamentale libertà (ovviamente possibile quando la stragrande maggioranza dei cittadini rivendica la fine della proprietà privata dei mezzi produttivi), è destino che, nella dialettica tra centralismo e democrazia, il centralismo, in ultima istanza, abbia sempre la meglio, proprio perché non emerge mai con nettezza la convinzione che il centralismo ha senso solo in quanto è funzione della democrazia.

Lenin di fatto pensava che il centralismo fosse di per sé capace di democrazia o che la democrazia fosse un'esperienza che il centralismo del partito-Stato avrebbe dovuto consegnare alla società. Quand'egli s'accorgeva che il centralismo tendeva a prevaricare, perdendo il contatto con le masse, abusando dei mezzi coercitivi ed amministrativi, l'accortezza di promuovere subito le esigenze della democrazia gli impediva di peggiorare la situazione. Ma questa era una sua caratteristica personale, non una strategia costante del partito. Ecco perché morto Lenin, il centralismo prese subito il sopravvento. Anche Stalin e Trotsky tendevano al centralismo, anche se le antipatie personali tra i due e le tendenze ultra-autoritarie di Stalin fecero passare Trotsky per un fautore della democrazia.

Lenin aveva posto alcune basi della futura democrazia socialista, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, anche se i suoi compagni di partito non le misero in pratica. In teoria si sarebbe potuto andare avanti anche senza di lui: lo dimostra il fatto che la perestrojka è nata nell'ambito del Pcus e che diversi tentativi in direzione della democrazia economica e quindi politica sono stati fatti in Urss prima del 1985. Il passaggio tuttavia dal socialismo centralizzato a quello democratico non è cosa che si possa compiere facilmente: lo hanno dimostrato i fatti dell'agosto 1991 accaduti in Urss.

Oggi una sana democrazia vorrebbe che fosse il partito a mettersi al servizio del popolo e non viceversa. Il partito “guida” il popolo finché il popolo non è in grado di “autoguidarsi”, e tanto prima il popolo vi riuscirà quanto più saprà tenere sotto controllo il potere delegato e rappresentativo del partito. Il centralismo dev'essere al servizio della democrazia in qualunque momento, anche in quelli più critici, che minacciano la riuscita di una rivoluzione, la realtà del socialismo. Il centralismo, senza la democrazia, è da subito una forma di autoritarismo, e nulla può giustificare la sospensione della democrazia per poter salvare la stessa democrazia. Una democrazia può essere salvata solo da se stessa, e il centralismo che pretende di farlo al suo posto, eo ipso la nega. Il primato politico spetta sempre e comunque alla democrazia. Il valore del centralismo è soltanto organizzativo. Peraltro le funzioni del centralismo devono diminuire (in quantità e qualità) in maniera inversamente proporzionale alla distanza degli organi centrali dagli ambiti delle realtà locali, le quali vanno gestite con la pienezza dei poteri e non sulla base d'un mandato ricevuto dall'alto. Quanto più il “centralismo” è lontano dalle masse tanto meno potere deve disporre, semplicemente perché sarebbe molto difficile controllarlo. Centralismo, partito, Stato e istituzioni devono tutti essere al servizio della società, nel comune destino di estinguersi progressivamente in virtù del socialismo democratico.

Nell'Urss della perestrojka si andò affermando, in sede economica, che le cooperative non dovevano essere in funzione dello Stato, ma il contrario; che proprio lo sviluppo della cooperazione (su basi volontarie) poteva comportare l'estinzione graduale dello Stato e la piena autonomia locale; che una cooperativa è “socialista” se applica metodi socialisti e persegue finalità socialiste, volontariamente e consapevolmente, non tanto se la terra e i mezzi produttivi sono di proprietà statale. La statizzazione dev'essere in funzione della socializzazione, altrimenti il socialismo diventa autoritario e burocratico.

Non solo, ma la perestrojka è stata anche in grado di scoprire che un piano dall'alto non può mai essere realizzato e se lo è (quando le cifre non sono truccate), i suoi indici sono sempre inferiori a quelli che si sarebbero potuti realizzare con una serie di piani locali o decentrati. Il piano infatti ha senso solo a livello locale. Esso può essere impostato e realizzato solo dalle persone che conoscono adeguatamente un determinato territorio e le sue risorse, nonché le potenzialità intrinseche a una determinata attività produttiva. Esso può essere rispettato solo dalle stesse persone che lo hanno impostato e che sanno in anticipo di quali vantaggi potranno beneficiare. Gli abusi non possono essere limitati ope legis. La possibilità dell'abuso (speculazione, furto, aggiotaggio, ecc.) non può mai essere evitata a priori. Allorquando l'abuso si manifesta, i cittadini, se resi responsabili a livello locale, sapranno presto individuarlo e superarlo.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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