IL GRANDE LENIN

Per un socialismo democratico

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Su Tolstoj

Guardandomi con gli occhi socchiusi, mi domandò:

– Chi in Europa può stargli alla pari?

E si rispose:

– Nessuno.

(M. Gor'kij, Lenin – in riferimento a Tolstoj)

In quei pochi scritti che Lenin indirizzò alla figura di Tolstoj e alla sua opera è riassunto, a grandi linee, l'atteggiamento fondamentale che il leninismo tenne verso il mondo rurale russo, verso la confessione religiosa ortodossa e verso il movimento politico populista: tre realtà la cui attività sociale, culturale e politica fu strettamente intrecciata dal 1861 al 1917.

Il primo scritto è del settembre 1908; gli altri tre, del novembre-dicembre 1910, furono scritti subito dopo la morte del grande romanziere.

Lenin considerava Tolstoj superiore a qualunque altro scrittore russo, e se vogliamo europeo, soprattutto nella descrizione della Russia feudale, contadina, pre-rivoluzionaria, cioè anteriore alla rivoluzione del 1905. Un maestro peraltro che allora era poco conosciuto nell'Europa borghese e persino nella stessa Russia feudale, essendo qui analfabeta la stragrande maggioranza dei contadini.

Lenin diceva che per rendere patrimonio collettivo l'opera di Tolstoj, occorreva proprio quella rivoluzione socialista in cui il grande romanziere non aveva mai creduto.

Da un lato infatti Tolstoj (soprattutto nelle sue ultime opere) esprimeva l'esigenza del mondo contadino di eliminare le ultime vestigia di un feudalesimo obsoleto, senza per questo cadere negli egoismi della società borghese; dall'altro egli rappresentava, per così dire, l'ingenuità, sempre contadina, di ignorare il fatto che dopo la fine del servaggio non ci sarebbe stata – secondo Lenin – alcuna vera democrazia rurale, ma soltanto l'affermazione del capitalismo, e quindi la trasformazione delle comuni agricole (obščine) in aziende borghesi e la netta subordinazione della campagna agli interessi dell'industria.1

Tolstoj insomma ebbe sì il coraggio di negare valore alla proprietà privata della terra, quella dei grandi latifondisti, senza indulgere a quella statale (detta nadel2) e senza fare concessioni di valore a quella capitalistica, e per questa sua intransigenza venne scomunicato dalla chiesa ortodossa russa nel 1901, ma non ebbe mai la chiarezza, la lungimiranza necessaria per indicare una vera, praticabile, alternativa al vecchio feudalesimo che moriva e al giovane capitalismo che voleva sostituirlo, sicché, sfruttando questa sua limitatezza politica, le istituzioni vollero far credere al popolo ch'egli, in punto di morte, si fosse pentito delle sue idee “antifeudali” e “antiborghesi” (ovviamente la stampa liberale preferiva vedere in Tolstoj soltanto un nemico del feudalesimo).

Tutte le sconfitte del mondo rurale nei confronti del feudalesimo vecchio e nuovo e soprattutto nei confronti del capitalismo emergente vennero sfruttate anche da Lenin per sostenere che al feudalesimo non poteva subentrare che il capitalismo. “Il vecchio possesso fondiario deve inevitabilmente essere distrutto nel modo più rapido e implacabile”, scriveva negli articoli citati sopra. E il soggetto di questa distruzione non era per Lenin una democrazia o un socialismo rurale, ma proprio il capitalismo, il cui sviluppo, in assenza di rivoluzione proletaria, era ritenuto inevitabile.

Il capitalismo – scriveva Lenin – è un nemico che il contadino non può affrontare con successo, perché “non lo capisce”: “è un nemico nuovo, invisibile, che viene da qualche parte, dalla città o dall'estero, che abbatte tutti i 'pilastri' del costume delle campagne...”. Lenin aveva piena consapevolezza della rovina disgregatrice del capitalismo proprio perché era vissuto a San Pietroburgo e all'estero, come esule, in molti paesi avanzati dell'Europa occidentale.

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Tra gli anni Ottanta e Novanta in Russia avvenne la crescita del movimento operaio di massa e di quello studentesco, nonché la nascita della socialdemocrazia, il cui pioniere fu Plechanov. Tra gli scrittori che Lenin amava di più vi erano Saltykov-Ščedrin, avverso alle teorie tolstojane, e soprattutto Černyševskij.

Nelle campagne, dopo la sconfitta del populismo, all'inizio del XX sec., si sviluppò il movimento dei socialisti-rivoluzionari, che in parte ereditò le idee del populismo, in parte le sviluppò in direzione del socialismo agrario, puntando sulla valorizzazione dell'obščina (piccola azienda agricola). Questo partito non era alieno all'uso di metodi terroristici, tuttavia era convinto che nelle campagne si potesse realizzare il socialismo saltando la fase del capitalismo. E con questa convinzione favorì la rivoluzione del 1905.

Forse, sino ad un certo punto, Lenin aveva sperato che il populismo, pur non comprendendo la natura economica dello sfruttamento capitalistico, la sua inevitabile e progressiva diffusione in tutta la Russia, quindi anche nelle campagne, avesse forza sufficiente per indignarsi di fronte alle conseguenze di tale “marcia trionfale” verso la devastazione dei rapporti sociali, al punto di accettare l'idea della necessità di una rivoluzione politica generale.

Ma il fallimento della resistenza contadina portò Lenin a ritenere che questo settore sociale fosse troppo influenzato dall'ideologia religiosa per poter condurre con successo una battaglia politica contro l'oppressione zarista e borghese.

Nella rivoluzione del 1905 i socialisti-rivoluzionari chiedevano la liquidazione della proprietà terriera dei pomeščik. Fu nel corso di questa rivoluzione che cominciarono a sorgere i primi “soviet”, grazie all'impegno di menscevichi, socialisti-rivoluzionari e anarco-sindacalisti. Erano un'alternativa alla Duma di Stato, un parlamento dai poteri inconsistenti.

I soviet di operai (poi di soldati e contadini) erano all'inizio organi di lotta per la contrattazione sindacale e in occasione degli scioperi di massa; in seguito si trasformarono in forme embrionali del potere popolare, in organi di direzione della lotta armata: disponevano di una milizia operaia e stampavano proprie pubblicazioni.

La rivoluzione del 1905 fallì, secondo Lenin, per mancanza di organizzazione, sia da parte contadina che da parte operaia, e soprattutto perché questi due movimenti furono incapaci di un'azione comune. “Solo una minoranza di contadini – scrive Lenin – ha realmente combattuto, organizzandosi in qualche modo per questo scopo, e una parte molto esigua ha persino impugnato le armi... Ma la maggior parte dei contadini ha pianto e pregato, ha sentenziato e sognato, ha scritto suppliche e inviato 'intercessori', operando in tutto secondo lo spirito di Tolstoj!”. Una minoranza ha seguito il proletariato rivoluzionario, la maggioranza invece è rimasta abbacinata dalle promesse degli intellettuali liberal-borghesi (i cadetti).

La conseguenza del fallimento fu a favore del capitalismo agrario. Infatti nel 1906 la Duma emanò un decreto che permetteva ai contadini di uscire dall'obščina e di diventare proprietari terrieri borghesi, acquistando individualmente le stesse terre dell'obščina. Questo provvedimento fu accettato dai socialisti-rivoluzionari.

Così tra il 1906 e il 1910 oltre 2,5 milioni di contadini, rimasti senza terra perché impossibilitati ad acquistarla, e quindi a trasformarsi in kulaki, furono trasferiti in Siberia e in terre non russe (da notare che tra il 1861 e il 1905 erano già stati due milioni a subire lo stesso trattamento e sarà proprio a questo fenomeno che successivamente si farà risalire la causa dei conflitti interetnici, interregionali, nell'impero zarista e poi nello Stato sovietico).3

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La teoria tolstojana della “non resistenza al male” (il perfezionamento morale individuale) fu elaborata dopo la sconfitta del movimento populista negli anni Ottanta, cioè dopo che l'assassinio dello zar Alessandro II (1818-81) non portò che a una reazione particolarmente dura delle forze governative.

Lenin capì i grandi limiti della “non violenza tolstojana” soprattutto l'indomani del fallimento della rivoluzione del 1905, quella rivoluzione cui il romanziere non aveva voluto partecipare in alcun modo. Il tolstojsmo gli appariva come una forma di “anarchismo cristiano”, cioè l'indeterminatezza fatta a regola, che si rivela in tutta la sua inconsistenza e pericolosità proprio nei momenti cruciali in cui più si richiede un'azione risoluta.4

Lenin aveva già superato i limiti ideologici del populismo, analizzando in vari testi la natura del capitalismo in Russia, ma con gli articoli su Tolstoj si allontanò dal populismo a tutti i livelli, incluso quello etico. Dopo il 1905 fu durissimo col romanziere, poiché riteneva la sua ideologia responsabile del fallimento della rivoluzione: Tolstoj non avrebbe fatto altro che predicare “una nuova religione epurata per le masse oppresse”.

Lenin naturalmente non predicava la violenza a tutti i costi, né la violenza terroristica o quella fine a se stessa. Per capire i suoi articoli su Tolstoj bisogna collocarli nel tempo. La rivoluzione del 1905 era fallita a causa di un'ideologia pacifista e riformista che non veniva predicata solo da Tolstoj, ma anche da tutta la chiesa cristiana e dai liberali: un'ideologia che apparteneva alla maggioranza della popolazione, di origine contadina, che si era decisa a compiere la rivoluzione dopo aver rinunciato a credere che lo zar fosse imparziale e che la riforma del 1861 fosse stata boicottata solo dalla resistenza degli agrari, senza il concorso delle forze governative.

Il fallimento della rivoluzione del 1905, che Lenin definì “prova generale” di una successiva rivoluzione proletaria, portò alla convinzione che l'oppressore, posto di fronte al principio della assoluta non violenza, non avrebbe mai scelto di abdicare al proprio ruolo egemonico e di rinunciare spontaneamente a quella proprietà che gli assicurava posizioni di ingiustificato privilegio.

La “non violenza” poteva quindi avere un valore come “principio teorico”, astratto, ma non poteva essere assunta come metodo politico assoluto, proprio perché essa trovava la sua ragion d'essere, la sua applicabilità, solo in relazione a determinate circostanze, in assenza delle quali diventava inevitabile agire di conseguenza.

Violenza e non violenza sono concetti relativi, il cui significato si può chiarire solo in rapporto a circostanze concrete. È sbagliato delineare una filosofia dell'assoluta non violenza, poiché in tal caso facilmente si rischia, in maniera oggettiva, cioè contro le migliori intenzioni soggettive, di trovarsi complici o collusi con la violenza usata dalle classi egemoni. Si può quindi essere assolutamente non violenti per motivi personali, ma ciò non può impedire di considerare che i meccanismi oggettivi dello sfruttamento sociale sono tutt'altro che “non violenti”.

Non a caso i governi oppressivi, di tanto in tanto, predicano la violenza contro nemici “fasulli”, tatticamente inventati per distogliere le organizzazioni più critiche e le stesse masse dal problema di come risolvere gli interni conflitti di classe. S'inventano dei nemici “esterni” perché ci si rende conto che la predicazione della non violenza (delegata a organi religiosi o da questi culturalmente influenzati) ad un certo punto non convince più nessuno. Ingiustizia e non violenza o violenza contro un nemico esterno (esterno p.es. a una nazione, o comunque estraneo ai gruppi socioculturali dominanti) coesistono in chi detiene le leve del potere oppressivo.

Se l'oppresso crede all'idea che l'uso della violenza contraddica gli scopi per cui si lotta, di questo l'oppressore non può che rallegrarsi. Questa la conseguenza dei ragionamenti di Lenin, il quale aveva chiarissima la convinzione che se da un lato è vero che la democrazia non può sussistere con la violenza in generale, dall'altro è anche vero che una rivoluzione incapace di difendersi non vale nulla, per quanto non si possa mai, in nome di una pur legittima difesa, tollerare un uso arbitrario della violenza.

Lenin maturò queste certezze proprio riflettendo su Tolstoj e sul fallimento della rivoluzione contadina del 1905. Egli inoltre si persuase che i contadini avrebbero potuto saltare la fase del capitalismo soltanto unendosi agli operai in una rivoluzione comune. Voleva che la direzione della rivoluzione proletaria spettasse agli operai, poiché temeva che i contadini, proprietari di un pezzo di terra, si trasformassero in borghesi. Solo i salariati, industriali o agricoli, gli davano sicurezza.

Il difetto principale delle sue teorie stava nel fatto di voler realizzare il socialismo adottando la stessa rivoluzione tecnico-scientifica del capitalismo. Ma questo è un altro discorso, che coinvolge gli stessi classici del marxismo.


1 La fine “giuridica” del servaggio si ebbe nel 1861. I feudatari (detti pomeščik, perché nobili “imborghesiti”) non potevano più disporre della “persona” dei contadini, cioè venderli, regalarli o immischiarsi nelle loro faccende familiari. Dal canto loro i contadini avevano ottenuto il diritto di acquistare a proprio nome beni immobili, di esercitare attività commerciali o industriali, di agire in giudizio. Tutti diritti più teorici che effettivi. La proprietà della terra infatti restava sempre in mano agli agrari. Ai contadini veniva concessa in uso privato una determinata estensione di terra coltivabile, in cambio della quale dovevano comunque assolvere ad obbligazioni gravose (barščina e obrok, in occidente dette corvées). Solo dopo la stipulazione con l'agrario del contratto di riscatto della terra, i contadini potevano diventarne proprietari. Ma il contratto aveva bisogno dell'approvazione del latifondista, che poteva ritardarlo ad libitum. Sicché ancora 20 anni dopo la riforma del 1861 quasi 1/7 degli ex-servi della gleba erano ancora tali: cioè contadini che, pur essendo giuridicamente liberi, socialmente erano strozzati da affitti capestro. Non solo ma gli agrari tendevano a impedire ai contadini di comprarsi le terre migliori: a tale scopo era sufficiente imporre delle condizioni di riscatto molto onerose; lo erano così tanto che lo Stato dovette intervenire a più riprese nel concedere prestiti ai contadini, fatto salvo l'obbligo di restituirli con gli interessi entro 49 anni. Tali indennità di riscatto verranno cancellate solo con la rivoluzione del 1905-1907. Chi riuscì a comprarsi delle terre e a metterle a profitto (col commercio e l'usura più che con mezzi capitalistici avanzati) prese il nome di kulak. Negli anni Novanta 30.000 grandi proprietari possedevano 70 milioni di desjatine di terra (1 desjatine=1,0925 ha), mentre 10,5 milioni di aziende contadine ne possedevano 75 milioni. Tutte le aziende dei pomeščik producevano per il mercato, molto meno quelle dei contadini.

2 Molti contadini lavoravano sui vecchi nadel feudali, di proprietà statale, da cui, nel 1861, anno dell'abolizione del servaggio, erano stati stralciati appezzamenti in favore dei latifondisti (gli unici in grado di acquistarli). In tal modo le terre comuni erano diventate private. I contadini vi continuavano a lavorare come prima, ma in condizioni peggiori, perché costretti a oneri più pesanti, nei cui confronti non potevano contare sui mezzi di lavoro, che restavano sempre molto arretrati. Questi contadini, di fronte alla penetrazione del capitalismo nelle campagne, si trasformarono ben presto in braccianti agricoli o operai industriali, totalmente privi di terra. Il numero degli operai di fabbrica raddoppiò tra il 1865 e il 1890. All'inizio del 1900 la consistenza del movimento operaio russo ammontava a 22 milioni di persone (ivi inclusi i nuclei familiari dei lavoratori), pari al 18% della popolazione totale.

3 Tra il 1907 e il 1910 dei 9,5 milioni di contadini che possedevano terre su base comunitaria, circa 2,5 milioni riuscirono ad ottenere un titolo di proprietà personale, ma di questi contadini oltre un milione fu costretto a rivenderlo, per incapacità o impossibilità a gestire in maniera borghese la propria terra. Infatti, là dove era maggiore la concentrazione di terre dei pomeščik e dei kulaki, lì i contadini meno agiati ebbero scarsissime possibilità di affermarsi. Tra il 1900 e il 1914 i contadini rovinati si trasferirono nelle città, che videro aumentare di tre volte la loro popolazione.

4 Tolstoj diede comunque un grande contributo alla diffusione della cultura e dell'alfabetizzazione di massa, attraverso l'organizzazione delle scuole popolari, di cui però Lenin non parla.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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