IL GRANDE LENIN

Per un socialismo democratico

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Le Tesi di Aprile

I

Il millenario impero zarista era giunto al capolinea già nel 1905, quando perse il confronto militare col Giappone e quando, subito dopo, dovette affrontare la prima rivoluzione russa, che vide protagonisti milioni di operai e di contadini.

Un anticipo significativo della debolezza dell'impero si era già visto quando Napoleone, nel 1812, era riuscito col suo esercito a entrare indisturbato a Mosca e a incendiarla. È vero che la sua ritirata fu disastrosa e segnò la fine del suo impero europeo, ma è anche vero che la Russia poté avere la meglio perché dotata di immense risorse umane e materiali; le quali, tuttavia, non furono sufficienti nella guerra di Crimea del 1856 a farla vincere contro Francia e Inghilterra, che poterono far vedere chi comandava davvero in Europa.

La Russia degli zar stava pagando molto cara la sua arretratezza sul piano industriale, anche se la situazione socioeconomica, alla vigilia della guerra, stava migliorando. L'industria aveva un alto grado di concentrazione: il 3,3% delle maggiori aziende raggruppavano il 51% degli operai. Erano cresciute aziende con oltre mille operai: cosa impensabile in occidente. La Russia era già al quinto posto nella produzione industriale mondiale (in quella pesante era anche in grado di superare i paesi capitalisti più avanzati). I monopoli dominavano più di 80 tipi di produzione di beni fondamentali. In campo finanziario sette banche possedevano il 55% del capitale commerciale, ed erano strettamente connesse all'industria. Tuttavia era forte la dipendenza dal capitale estero.

La classe operaia industriale, molto sfruttata, era 1/5 di tutti i proletari (due abitanti su tre erano proletari, urbani e rurali), e semiproletari. I contadini erano 97 milioni, di cui il 12% senza terra, il 16% senza seminati, il 23% senza bestiame e il 30% senza cavalli. Quindi vi era un'enorme differenza tra contadini e proprietari fondiari. Le minoranze nazionali erano particolarmente oppresse.

Francia e Regno Unito, anche se erano molto più piccole dell'immenso impero zarista, mostravano di non avere rivali di sorta a livello mondiale e quindi di poter gestire un impero coloniale non meno vasto dell'impero zarista, ricco di risorse naturali, non condizionato da un rigido clima invernale, tant'è che i russi inizieranno a sfruttare sistematicamente le risorse energetiche del sottosuolo della Siberia solo in epoca staliniana.

La Russia zarista aveva mostrato tutta la propria debolezza non solo nella guerra di Crimea, ma anche e soprattutto nella guerra contro il Giappone, prima potenza asiatica a diventare capitalistica e a battere una potenza europea. Anche quella volta fu una fortuna per la Russia che il Giappone fosse una piccola nazione, non in grado di occupare l'intera Siberia, e più che altro interessato a occupare la Cina e altri territori della costa asiatica del Pacifico. Se al posto del Giappone ci fosse stata una Cina industrializzata, la Siberia sarebbe stata perduta.

La sconfitta col Giappone fu comunque la goccia che fece traboccare il vaso. La popolazione interna all'impero feudale russo non ne poteva più dello zarismo. L'ingresso del capitalismo in Russia, finanziato da inglesi e francesi, non aveva fatto che acuire le contraddizioni sociali. La Russia contadina non era in grado di costituire un'alternativa al capitalismo d'importazione.

Dopo la rivoluzione del 1905, repressa nel sangue, lo zarismo si vide costretto a usare la politica estera per cercare di risolvere i problemi interni, e fu così che entrò nella prima guerra mondiale, a fianco di Regno Unito e Francia, contro altri due imperi feudali, quello austro-ungarico e quello ottomano, che pensava di vincere facilmente; e contro una nuova potenza capitalistica europea, che voleva mettere in discussione la ripartizione mondiale delle colonie: la Prussia, pomposamente autoproclamatasi “impero”.

L'autocrazia zarista era convinta di poter conquistare Costantinopoli, di penetrare in Persia, di strappare all'Austria vasti territori e di poter contrattare con la Germania, a guerra finita, la spartizione della Polonia e di altri territori baltici.

Tuttavia la guerra fu così disastrosa che la borghesia preferì compiere una propria rivoluzione nel febbraio del 1917, nella convinzione di poter continuare la guerra in maniera più intelligente, rimandando la soluzione dei problemi economici interni al momento dei trattati di pace.

I bolscevichi però non le diedero il tempo. Per loro i problemi economici andavano risolti subito e, per poterlo fare, bisognava uscire immediatamente dalla guerra. Ecco perché nel giro di pochi mesi fecero la terza rivoluzione russa, destinata a durare per una settantina d'anni.

II

Il testo che segna l'inizio della rivoluzione d'Ottobre sono le cosiddette Lettere da lontano,1 che Lenin spedì da Zurigo ai suoi compagni di partito agli inizi dell'aprile 1917, alla vigilia del suo rientro in Russia (che fu organizzato dai socialisti svizzeri in modo tale da convincere il governo tedesco a garantire l'extraterritorialità del vagone del treno dei 32 esuli russi, di cui 19 bolscevichi; in cambio il governo chiedeva la scarcerazione di 32 prigionieri tedeschi e austriaci internati in Russia).2 Il testo principale aveva per titolo Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale. Il suo partito era appena uscito dall'illegalità, dopo che per anni bastava esserne iscritti per subire arresti e deportazioni. A Pietrogrado esso aveva circa 16.000 militanti e simpatizzanti. A Mosca invece erano 7.000.

Le Tesi furono esposte non solo ai bolscevichi ma anche ai menscevichi (espressione della piccola-borghesia urbana) e ai socialisti rivoluzionari (espressione della piccola-borghesia rurale) e anche al gruppo attorno a Plechanov (vicino ai menscevichi): tutti le giudicarono un'assurdità, poiché Lenin invocava la guerra civile contro il governo borghese ch'era appena entrato in carica.

Le tre tesi principali erano le seguenti (ma le vedremo meglio più avanti):

  1. il governo provvisorio rappresenta i capitalisti industriali e gli agrari, e non sta affrontando minimamente la questione agraria, né si preoccupa di por fine alla guerra imperialistica, avendo intenzione di annettersi vari territori della Cina, della Turchia, della Persia e della Polonia, così come stabilito dai patti stipulati dallo zar prima di entrare in guerra;

  2. è impossibile por fine alla guerra in maniera democratica, senza abbattere il capitalismo e quindi il governo che lo rappresenta3;

  3. il cosiddetto “difensismo rivoluzionario”, secondo cui la guerra viene fatta esclusivamente per difendere la patria, senza ambizioni di conquiste territoriali, fa il gioco dei capitalisti, i quali, di fatto, non possono rinunciare alle colonie. Una pace democratica, senza rivoluzione, è impossibile.

Era soprattutto l'opposizione socialista ai bolscevichi a temere che una pace unilaterale e la rottura dei trattati segreti con gli anglo-francesi avrebbe comportato due inevitabili conseguente: l'invasione della Russia da parte degli austro-prussiani e il disprezzo in Europa per le idee del socialismo, a motivo del fatto ch'esso sarebbe apparso avverso al patriottismo, cioè alla difesa del territorio nazionale.

Quanto alla questione agraria, la borghesia fruiva di molte ipoteche sulle terre signorili. Confiscarle ai latifondisti, per redistribuirle gratuitamente ai contadini poveri, avrebbe comportato un danno agli interessi della stessa borghesia. In ogni caso di fronte a ogni confisca delle terre, la borghesia agraria o i latifondisti avrebbero preteso una indennità: cosa che i contadini, già rovinati dalla guerra, non avrebbero sicuramente potuto permettersi.

Menscevichi e socialisti-rivoluzionari gestivano i soviet più importanti e appoggiavano il governo provvisorio, ritenuto sufficientemente democratico, in quanto, essendoci la guerra, non poteva usare la violenza contro gli sviluppi della rivoluzione borghese appena compiuta. Tutti davano per assodato che prima di affrontare le questioni sociali ed economiche, si dovesse ottenere la pace da una posizione vincente, anche se i contadini e gli operai si limitavano a dire che la guerra aveva senso sul piano meramente difensivo, non per occupare nuovi territori.

I bolscevichi cominciarono a interessarsi dei soviet dopo la rivoluzione di febbraio. Il ritardo si spiega col fatto che la gran parte di loro era in esilio o in carcere. Essi si rendevano perfettamente conto che sarebbe stato impossibile rovesciare il governo senza prima aver ottenuto la maggioranza nei soviet delle grandi città. Ecco perché Lenin sosteneva la parola d'ordine “tutto il potere ai soviet”: non si accontentava della sostituzione dei ministri borghesi nella compagine governativa con ministri socialisti, ma voleva proprio la sostituzione dell'apparato statale con quello dei soviet. I soviet dovevano essere “complementari” al partito non al governo. In un certo senso non era tanto il partito a prendere il potere, quanto piuttosto il partito insieme ai soviet.

Non credeva neppure possibile controllare gli atti del governo provvisorio attraverso i soviet, poiché a quest'ultimi il governo non voleva riconoscere alcun potere istituzionale. Inoltre Lenin chiedeva che attraverso i soviet si controllassero tutte le banche, che dovevano essere unificate in un'unica banca centrale, nonché tutte le compagnie assicurative e i maggiori sindacati capitalistici.

I soviet dei deputati degli operai, dei contadini e dei soldati inizialmente erano nati in maniera spontanea durante l'autunno del 1905, nel corso dei grandi scioperi rivoluzionari. La maggior parte dei deputati non apparteneva ad alcun partito. Non esistevano negli altri paesi europei. Era stati soppressi dallo zarismo, ma poi si ricostituirono nel 1917, grazie anche all'ingresso dei soldati.

Col tempo si erano trasformati in forme embrionali di potere statale-popolare (una sorta di governo-ombra). Quando scoppiò la guerra mondiale ripristinarono le istituzioni democratiche distrutte dallo zarismo; organizzavano i sindacati e i comitati di fabbrica; risolvevano i problemi dell'approvvigionamento alimentare per i lavoratori; introducevano d'autorità nelle fabbriche la giornata lavorativa di otto ore e combattevano i capitalisti che sostenevano la serrata; tendevano a pretendere un certo controllo operaio sulle fabbriche; istituivano la milizia operaia e i reparti operai di combattimento; democratizzavano gli zemstvo (organi amministrativi locali), le dume urbane (organi di potere locale), gli organi di giustizia; annullavano le disposizioni anti-democratiche delle autorità municipali e dei supremi capi militari; perquisivano i commissariati di polizia, arrestando chi aveva represso il movimento rivoluzionario; stampavano documenti in proprio. Quando scoppiò la rivoluzione borghese, miravano a tenere il governo provvisorio sotto controllo, in attesa dell'Assemblea Costituente.

Il soviet di Mosca era guidato dai bolscevichi, usciti per la prima volta dalla clandestinità, ed era diventato un organismo di direzione della lotta armata. Invece a Pietroburgo era gestito dai menscevichi e sino alla fine del maggio 1917 era questo l'unico soviet che poteva pretendere di far valere le proprie disposizioni su tutto il territorio russo, anche perché fu proprio grazie a questo soviet che si poté formare il governo provvisorio borghese. Nello stesso maggio fu eletto il primo congresso dei deputati contadini di tutta la Russia e il Comitato esecutivo centrale dei soviet dei contadini. Nel giugno si fece la stessa cosa per i soviet di operai e di soldati. I soldati si erano uniti agli operai a Pietrogrado nel marzo 1917. Praticamente in quel periodo in 393 città e centri minori vi erano 513 soviet, di cui 242 di deputati operai e 116 di deputati soldati.

III

A Pietrogrado si erano legalizzati i comitati dei soldati formatisi spontaneamente, i quali mettevano a disposizione del soviet le armi della circoscrizione militare della città. La cosa venne ben presto imitata da altre città. Di conseguenza il potere del governo provvisorio era sì legale ma non “reale”, in quanto dipendeva dal consenso dei soviet, i quali, in cambio, avevano chiesto l'amnistia per tutti i detenuti politici, la convocazione dell'Assemblea Costituente, la soppressione delle restrizioni nazionali e la realizzazione delle libertà civiche. Tuttavia nessun soviet gestito dai menscevichi chiese la confisca delle terre degli agrari, la pace, la giornata lavorativa di otto ore.

Il governo provvisorio tergiversava alquanto nel concedere tutto quanto gli si chiedeva, preferendo attendere la fine della guerra e la convocazione della Costituente. Peraltro era esplicitamente contrario alla nazionalizzazione dei grandi latifondi, in quanto riteneva che, al massimo, le terre potevano essere concesse in affitto ai contadini nullatenenti.

La tattica del governo provvisorio fu quella di promettere tutto quello che non disturbava troppo gli interessi dei capitalisti e dei grandi proprietari fondiari. Per questa ragione non poteva avere sugli operai la stessa influenza che avevano i soviet, e di questo “dualismo di potere” aveva timore.

Quando Lenin parlò di “repubblica dei soviet operai e contadini”, disse di volersi rifare alla Comune di Parigi del 1871. Disse che voleva escludere il blanquismo e di accettare solo il potere della maggioranza dei lavoratori, pienamente consapevoli dell'esigenza di una transizione socialista. Non voleva fare un colpo di stato, ma ottenere il consenso democratico all'interno dei soviet con un lavoro di spiegazione ragionata, paziente, tenace, che rispondesse ai bisogni concreti delle masse popolari.

Il dualismo di potere andava liquidato in maniera pacifica, dando tutto il potere ai soviet. Nulla obbligava a organizzare una guerra civile, almeno finché il governo non avesse fatto ricorso alla violenza: d'altronde le armi erano già in mano ai soldati e agli operai dei soviet. Il governo provvisorio non poteva fare granché contro i soviet, benché alcuni leader menscevichi e socialisti-rivoluzionari vi facessero parte attivamente. Il governo non riusciva neppure a convincere i capitalisti a comprare le obbligazioni statali; essi infatti, prima di farlo, pretendevano una politica più autoritaria.

I leader dei due partiti suddetti cercarono di rafforzare il governo escludendo che tutti i poteri dovessero passare ai soviet. Al I Congresso dei soviet operai-soldati di tutta la Russia (dal 16 giugno al 7 luglio 1917) la loro maggioranza era schiacciante: 285 i delegati socialisti-rivoluzionari e 248 i menscevichi. Tuttavia durante il Congresso i 105 bolscevichi aumentarono il loro consenso, anche perché lo sciopero generale di mezzo milione di operai a Pietrogrado il 18 giugno, organizzato da loro, ebbe un enorme successo e fu subito imitato in altre città.

Dopo il disastro militare del governo provvisorio, che si vide soffiare la Galizia e la Dobrugia dalle truppe austro-prussiane, i bolscevichi organizzarono il 4 luglio una nuova imponente manifestazione di operai, soldati e marinai a Pietrogrado. Questa volta il governo decise di sparare su di loro, accusando i bolscevichi di disfattismo e di favorire il nemico. I menscevichi e i socialisti rivoluzionari vollero dare tutti i poteri al governo provvisorio, fatto passare come “salvatore” della rivoluzione di febbraio. Il 7 luglio fu spiccato un mandato di cattura contro Lenin. Convinto che al processo l'avrebbero sicuramente condannato, il partito decise di trovargli un rifugio in Finlandia, ove egli scrisse quel capolavoro chiamato Stato e rivoluzione. I distaccamenti operai furono disarmati e alcuni reparti militari spediti al fronte.4

Il generale Kornilov (supremo comandante in capo delle forze armate del governo provvisorio) voleva imporre una dittatura militare, ma il premier Kerenskij, che temeva la reazione delle folle, vi si oppose (accettando soltanto la reintroduzione della pena di morte), sicché Kornilov lo accusò d'essere un nemico del popolo. Tuttavia furono proprio i bolscevichi a fermare definitivamente il generale e a smascherare le ambiguità del governo. La conseguenza fu che gli iscritti al partito bolscevico aumentarono di tre volte, arrivando a 240 mila militanti.

IV

Il VI Congresso del partito bolscevico del 26 luglio (assente Lenin) votò a favore dell'insurrezione armata, ritenendo impossibile il passaggio pacifico del potere ai soviet.

Intanto il 1° settembre la Russia era diventata una repubblica. Il Direttorio era guidato da Kerenskij. I menscevichi e i socialisti rivoluzionari non volevano fare un governo col partito liberista dei cadetti. Lenin dichiarò di essere disposto ad appoggiare un governo composto solo da menscevichi e socialisti rivoluzionari, ma in cambio chiedeva piena libertà di parola e la convocazione immediata dell'Assemblea Costituente. Tuttavia il governo tergiversava: d'altra parte il debito pubblico era enorme, il rublo del tutto svalutato, l'inflazione galoppante, le tasse in continuo aumento, preoccupante la carestia, calante la produzione industriale, disorganizzati i trasporti, l'esercito si univa alle rivendicazioni dei contadini, crescenti le proteste delle nazionalità oppresse dell'ex impero zarista.

Lenin si convinse che quello era il momento buono per agire in maniera eversiva. Se non l'avessero fatto, i bolscevichi sarebbero stati sterminati dal governo in carica; inoltre le folle sarebbero rimaste profondamente deluse, in quanto si aspettavano che lo slogan “tutto il potere ai soviet” trovasse concreta applicazione. Le condizioni oggettive, per lui, c'erano: si trattava soltanto di mostrare il grado di affidabilità di quelle soggettive. Gli unici due contrari all'insurrezione furono Zinoviev e Kamenev, che volevano aspettare la convocazione della Costituente (19 erano a favore e 4 si astennero).

I due suddetti bolscevichi tradirono la decisione dell'insurrezione, scrivendo il 18 ottobre su un giornale menscevico che il partito si stava preparando a un intervento immediato. A quel punto però era impossibile tornare indietro. Kamenev fu dimesso dal CC e ad entrambi fu impedito di esprimersi contro la linea del partito. Lo stesso Trotsky voleva compiere l'insurrezione soltanto dopo la convocazione del II Congresso dei soviet.

Il comitato militare rivoluzionario stabilito presso il soviet di Pietrogrado poteva contare su 12.000 guardie rosse e su alcune navi da guerra. Nel giro di due settimane i bolscevichi organizzarono un esercito operaio che arrivava sino a 40.000 uomini. Il governo provvisorio, che disponeva in quel momento di soli 300 cosacchi e di 700 allievi della Scuola ufficiali e un battaglione di amazzoni contadine, prese delle misure per scongiurare il pericolo. L'insurrezione avvenne il 25 ottobre (secondo il calendario giuliano). I bolscevichi occuparono, senza incontrare resistenza, le poste, le stazioni, le centrali elettriche e telefoniche... Il governo fu totalmente isolato. Occuparono anche la Banca di Stato e le redazioni dei giornali. In una sola giornata quasi tutta Pietrogrado era nelle loro mani. Restava solo il Palazzo d'Inverno.

Al II Congresso dei soviet di tutta la Russia (25-27 ottobre) vi erano 390 delegati bolscevichi, 160 socialisti rivoluzionari, 72 menscevichi, 14 menscevichi internazionalisti. Siccome i menscevichi, i socialisti rivoluzionari di destra e i bundisti non volevano che la maggioranza fosse su posizioni bolsceviche, abbandonarono la seduta. Nel momento in cui il Congresso stava svolgendo i suoi lavori, avvenne l'occupazione del Palazzo d'Inverno. Kerenskij era già fuggito la mattina del 25 su un'auto con bandiera americana. In seguito tutti i suoi tentativi di riprendere il potere fallirono miseramente.

Il 26 ottobre il Congresso discusse le questioni della pace e della terra. Si approvò il Decreto sulla pace, con cui il potere operaio-contadino si dichiarava deciso a firmare subito una pace senza annessioni né riparazioni. Fu approvato all'unanimità. Il 27 fu approvato il Decreto sulla terra, che liquidava la proprietà privata e proclamava la terra patrimonio nazionale, proibendo il lavoro salariato in agricoltura. Ognuno aveva il diritto alla terra, fosse anche una singola famiglia di agricoltori: 150 milioni di ettari passarono in proprietà ai contadini, senza alcun riscatto o indennizzo (la ripartizione sarebbe avvenuta tramite i soviet di villaggio). Il Decreto era stato fatto sulla base del programma dei socialisti rivoluzionari. Ci fu un solo voto contrario e 8 astenuti. Il II Congresso dei contadini russi (26 novembre 1917), gestito da 81 socialisti rivoluzionari di sinistra e da 20 bolscevichi, diede fiducia al governo sovietico.

Venne poi il momento di convocare la Costituente, nel cui valore i bolscevichi credevano poco, in quanto il massimo possibile, in quel momento, era già stato ottenuto. Su questo però bisogna spendere qualche parola in più, anche perché non c'è manuale scolastico di storia che non giudichi negativamente la decisione di Lenin di chiudere l'Assemblea Costituente. Nessuno storico borghese o socialista riformista vuol tener conto delle motivazioni, pubblicate sulla “Pravda” del 26 dicembre 1917, con cui si spiegò quella decisione. Eppure esse sono molto puntuali e condivisibili, e non è possibile certo sostenere che, così facendo, Lenin aveva posto le basi per il futuro successo dello stalinismo. Altre giustificazioni si trovano nel libro La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky.

La preparazione alle elezioni per questa Assemblea, ivi inclusa la legge elettorale per convocarla, erano state decise mentre era ancora in vita il governo provvisorio di Kerenskij, primo ministro ad interim. Ma quando si decise di convocarla, l'insurrezione bolscevica era già stata fatta (25 ottobre 1917).

Pur sapendo bene che i cadetti, i socialisti rivoluzionari, i menscevichi e tutti i controrivoluzionari speravano di potersene servire per abbattere il potere sovietico, il governo rivoluzionario decise ugualmente di convocarla, ritenendo che il popolo, sulla base della propria esperienza, si sarebbe convinto da solo dell'inconciliabilità dell'Assemblea col potere sovietico.

Le elezioni ebbero luogo sulla base delle liste dei candidati già compilate sotto il governo provvisorio. In quel periodo nelle campagne una parte considerevole di contadini credeva ancora ai socialisti rivoluzionari, e questi non si erano ancora scissi in una destra conservatrice e in una sinistra favorevole alla rivoluzione. Alle elezioni si presentarono quattro liste prevalenti: bolscevichi, menscevichi, cadetti e socialisti rivoluzionari, più altre componenti.

Le elezioni si svolsero a suffragio universale, ma ciò non evitò un forte astensionismo e non mancarono brogli e falsificazioni: i voti risultarono inferiori al 50% degli aventi diritto. Nell'esito prevalsero i socialisti rivoluzionari col 58%, seguirono i bolscevichi col 25%, i cadetti a quota 14% e infine i menscevichi col 4%. Dei 715 deputati eletti 370 erano socialisti rivoluzionari, 175 bolscevichi, 40 socialisti rivoluzionari di sinistra (corrente fuoriuscita dai socialisti rivoluzionari), 16 menscevichi, 17 cadetti, 86 rappresentanti di gruppi nazionali.

La rilevanza politica dei socialisti rivoluzionari va ricercata nel loro controllo dei soviet dei contadini nelle campagne. I bolscevichi raggiungevano invece nelle grandi città e al fronte (in comitati militari rivoluzionari) risultati fino al 40%, mentre si consolidava la loro fiducia nel soviet di Pietroburgo (di cui presidente era Trockij, menscevico, poi bolscevico dal luglio 1917), raggiungendo picchi di consenso fino al 60%.

I risultati non corrispondevano più ai radicali mutamenti avvenuti nell'ottobre-novembre 1917. Lenin infatti aveva detto non solo che una Repubblica dei soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini era una forma di istituzione democratica di tipo più elevato di quella della Repubblica borghese avente una propria Assemblea Costituente, dovendo i soviet garantire una democrazia diretta, al fine di superare lo Stato borghese tradizionale, ma aveva anche detto che un'Assemblea del genere non poteva più corrispondere alla volontà popolare, e questo per almeno tre ragioni: la prima era che la rivoluzione, nei mesi di novembre e dicembre, aveva già rinnovato tutti i vecchi organi politici e militari superiori, per cui lo schieramento delle forze di classe non era più lo stesso; la seconda la offrivano gli stessi socialisti rivoluzionari, i quali si erano scissi dopo le elezioni dei candidati e prima della convocazione dell'Assemblea; la terza la offrivano i reazionari che volevano, con l'uso delle armi, riportare la Russia al capitalismo, contro i quali l'Assemblea Costituente non avrebbe potuto far nulla.

Il 5 gennaio 1918 si era ufficializzata in via definitiva l'apertura dell'Assemblea (da notare che il 1° gennaio Lenin aveva subìto un attentato mentre era in macchina con la sorella M. Uljanova e il rivoluzionario svizzero F. Platten, rimanendo illeso fortunosamente).

Il giorno stesso dell'apertura dell'Assemblea vi fu un'insurrezione armata dei socialisti rivoluzionari di destra e del sindaco della città di Pietrogrado, Schreider. La rivolta era stata organizzata dal partito cadetto, il quale svolgeva la funzione di stato maggiore politico di tutte le organizzazioni controrivoluzionarie di Kaledin, di Dutov e dei nazionalisti ucraini. Non a caso perorava la parola d'ordine “Tutto il potere all'Assemblea Costituente”. Esso era forte della potenza economica della borghesia, si era politicamente addestrato nell'ambito della monarchia zarista ed era legato ai quadri dell'apparato statale. Per tutta la guerra civile il soprannome di “cadetto” verrà dato ai partigiani di Krasnov, Denikin, Kolčak e Wrangel.

L'atteggiamento controrivoluzionario della maggioranza si manifestò sin dalla prima seduta, quando essa si rifiutò di discutere la Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato, cioè dell'atto costituzionale più importante dello Stato sovietico, già promulgato il 3 gennaio dal Cec panrusso dei soviet, che esplicitava gli scopi principali del potere sovietico: l'eliminazione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo; la rimozione delle cause della divisione in classi della società; l'edificazione di una società socialista. Anzi, l'Assemblea volle addirittura proclamare se stessa quale unica autorità suprema di tutta Russia, non riconoscendo il potere dei soviet dei lavoratori (operai, contadini e soldati).

I bolscevichi e i socialisti rivoluzionari di sinistra5 chiesero all'Assemblea di ratificare tutti gli atti e i decreti emessi dai Commissari del popolo (bolscevichi) riguardo al Decreto sulla terra per la distribuzione delle terre ai contadini, l'apertura immediata di trattative per una pace con i paesi belligeranti, la completa separazione tra Stato e chiesa, l'introduzione del matrimonio civile con uguali diritti per entrambi i coniugi, il libero divorzio, totale parità di diritti della donna rispetto all'uomo, l'introduzione della giornata lavorativa di otto ore, l'abbattimento delle differenze di trattamento fra soldati e ufficiali nell'esercito, le nazionalizzazioni dell'economia e della finanza.

L'area di destra dell'Assemblea (partito cadetto e parte dei menscevichi) e i socialisti rivoluzionari di destra rifiutarono la richiesta, sicché in segno di protesta i bolscevichi abbandonarono l'aula. Era quindi evidente che la stessa esistenza dell'Assemblea era in contraddizione con gli obiettivi e i compiti della rivoluzione socialista.

Fu in quel momento che i socialisti rivoluzionari di sinistra proposero di discutere la risoluzione del governo sovietico riguardante la politica di pace con gli altri paesi europei (Lenin infatti aveva pubblicato i trattati segreti del governo zarista e aveva intenzione di concludere immediatamente la pace con la Germania, oltre che con gli altri paesi europei, senza annessioni né indennità). Quando la destra rifiutò di discutere anche questa proposta, perché intenzionata a proseguire la guerra, i socialisti di sinistra decisero di comportarsi come i bolscevichi e abbandonare la sala. L'Assemblea non era neppure disposta ad accettare nuove elezioni per i propri candidati né il diritto del popolo ad eleggere nuovi deputati in qualsiasi momento.

Nella notte tra il 6 e il 7 gennaio il Comitato Esecutivo centrale panrusso (VCIK), il cui presidente era Sverdlov, decretò a maggioranza lo scioglimento dell'Assemblea Costituente, e come alternativa ad essa convocò, il 10 gennaio, a Pietrogrado, il III Congresso panrusso dei deputati operai e soldati (delegati di 370 soviet e di 116 comitati militari) e, il 13 gennaio, il III Congresso panrusso dei deputati contadini (delegati di 340 soviet provinciali, distrettuali e di 129 comitati militari). Questi due Congressi, unificati, approvarono il pieno scioglimento dell'Assemblea costituente e la Dichiarazione dei diritti dei lavoratori (che costituì il fondamento della prima Costituzione sovietica), nonché la relazione di Lenin sull'attività del governo sovietico e la relazione del presidente Sverdlov, e anche la risoluzione di Stalin sulle istituzioni federative della Repubblica russa.

Già al II Congresso panrusso dei soviet (tenuto a Pietrogrado proprio mentre scoppiava la rivoluzione d'ottobre) si era garantita a tutte le nazionalità piena parità di diritti tra loro, libero consenso alla federazione e diritto all'autodeterminazione, fino alla possibilità di creare uno Stato indipendente (cosa che fecero la Finlandia e altre nazionalità)6. Si erano aboliti tutti i privilegi nazionali e religiosi. Insomma si era posta fine alla politica imperialistica di oppressione dei popoli condotta dallo zarismo. A capo del Commissariato del popolo per le questioni delle nazionalità fu posto Stalin, che però, dopo la morte di Lenin, si rimangiò tutte le concessioni fatte.7

Si denunciarono anche tutti i trattati segreti stipulati dal governo zarista prima dell'entrata in guerra e accettati dal governo borghese provvisorio.

V

Le Tesi di Aprile (racchiuse nel suddetto opuscolo Lettere da lontano) sono documenti fondamentali per capire la notevole perspicacia e lungimiranza tattica e strategica di un grande rivoluzionario. Non solo tra lui e i politici della borghesia vi era un abisso, ma spesso la distanza era forte anche tra lui e i suoi stessi compagni di partito, i quali pensavano che il lungo esilio avesse fatto perdere a Lenin il polso della situazione.

L'opuscolo è suddiviso nella seguente maniera: Cinque lettere (di cui l'ultima solo abbozzata); una bozza delle Tesi di Aprile, suddivise in 7 punti; l'articolo pubblicato sulla “Pravda il 20 aprile 197, contenente le suddette Tesi (divise questa volta in 10 punti): Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale; un lungo articolo sulla tattica, scritto per far comprendere meglio il significato delle Tesi.

Ora prendiamo in esame il “decalogo” delle suddette Tesi.

1) La Russia, alleata con gli anglo-francesi, era in guerra contro gli austro-tedeschi. Lenin era contrario alla guerra in quanto la riteneva frutto di esigenze imperialistiche (spartirsi le colonie, smembrare l'impero ottomano ecc.), in cui Francia, Inghilterra e Germania (le nazioni europee più avanzate) avrebbero fatto la parte del leone. Egli avrebbe voluto che la guerra mondiale si trasformasse in ogni paese belligerante, e quindi anche in Russia, in tante guerre civili, mediante cui il proletariato agricolo e industriale abbattesse tutti i rispettivi governi.

Senonché la cosa era più facile a dirsi che a farsi. I russi non volevano darla vinta ai tedeschi e temevano che con una guerra civile interna avrebbero permesso alla Germania di occupare facilmente il loro immenso territorio. Ecco dunque la prima proposta di Lenin: si può accettare il “difensismo rivoluzionario”, cioè una difesa patriottica dei propri confini statali soltanto sulla base di tre condizioni: a) il potere politico-governativo va gestito dal proletariato rurale e industriale, senza compromessi con la borghesia e coi latifondisti, proprio perché la guerra, al momento, serve unicamente ai loro interessi; b) si deve rinunciare a qualunque annessione da parte della Russia (p.es. nei confronti della Polonia o dell'impero ottomano), nel senso che la continuazione della guerra al massimo può servire per difendere i confini, ma non senza prima aver reso pubblici i trattati segreti firmati dallo zar Nicola II insieme alle principali potenze europee; c) occorre rompere con tutti gli interessi materiali dei capitalisti, in quanto il vero nemico non è più l'autocrazia zarista, sostenuta dai latifondisti e dalla Chiesa, bensì la grande borghesia, industriale, commerciale e finanziaria, sostenuta da inglesi e francesi, intenzionati a fare affari con la Russia capitalistica.

Lenin era consapevole che il passaggio dal feudalesimo agrario al capitalismo industriale era da tempo avvenuto, in maniera irreversibile, nelle grandi città della Russia, la prima delle quali era San Pietroburgo. Voleva semplicemente impedire che tale evoluzione si diffondesse in tutto il paese, per cui proponeva una transizione immediata al socialismo, il quale, nell'utilizzare l'industrializzazione occidentale, non avrebbe avuto bisogno di ripercorrere tutte le dolorose tappe sociali.

Secondo lui era fondamentale far capire queste cose ai militari impegnati sul fronte, tramite una propaganda “curata, ostinata, paziente”. Ciò in quanto non sarebbe stata possibile alcuna pace democratica senza prima aver abbattuto il capitalismo russo: il legame tra capitale e guerra imperialistica non era incidentale ma strutturale. Una tesi, questa, che faceva saltare tutte le idee astratte relative al patriottismo.

2) Secondo Lenin la rivoluzione borghese compiuta contro lo zarismo andava considerata come un primo passo, destinato a essere superato da un secondo, ben più importante: quello della rivoluzione proletaria. Detto altrimenti: la rivoluzione antizarista era stata gestita dalla borghesia solo per “l'insufficiente grado di coscienza e di organizzazione del proletariato”, non tanto per meriti propri.

Questo suo modo di ragionare spiazzava gli stessi marxisti, i quali, generalmente, erano convinti che prima di passare al socialismo fosse necessario un certo tempo, quello necessario a sviluppare materialmente la società borghese. Come si poteva creare il socialismo senza una adeguata base tecnico-materiale estesa a tutta la nazione? Senza tale presupposto si rischiava di edificare soltanto un “socialismo della miseria”, che sicuramente non sarebbe stato accettato da una popolazione già povera ed affamata. I marxisti erano convinti di questo anche perché la classe sociale cui facevano riferimento era priva di cultura, era incapace di gestire dei processi industriali avanzati, nonché uno Stato efficiente.

Lenin invece la pensava diversamente. Riteneva più semplice il passaggio al socialismo partendo da un capitalismo embrionale che non da uno molto sviluppato. Avendo vissuto buona parte della sua vita come esule in Europa, sapeva bene quanta capacità avesse la cultura borghese a condizionare la coscienza proletaria. Non a caso tutti i maggiori partiti socialisti avevano tradito il proletariato votando a favore dei crediti di guerra, che sarebbero serviti a far scoppiare il conflitto mondiale. Ecco perché diceva che se in Europa occidentale poteva essere più facile gestire economicamente il socialismo, dato il livello molto alto di capacità manageriale, era però quasi impossibile realizzare la transizione, in quanto la stragrande maggioranza dei dirigenti di sinistra aveva una mentalità più riformistica che rivoluzionaria.

In effetti, una volta compiuta la rivoluzione d'Ottobre, Lenin sperò sino all'ultimo che, per spirito di emulazione, la cosa si ripetesse anche in occidente, almeno in Germania. Questo perché temeva che le potenze europee avrebbero potuto coalizzarsi contro i bolscevichi al potere, come poi appunto faranno nel periodo dell'interventismo straniero, appena finita la guerra. Sperava che una eventualità del genere venisse scongiurata dal proletariato occidentale, il quale, vedendo che in un paese arretrato come la Russia gli operai agricoli e industriali erano andati al potere, si sarebbe chiesto perché non farlo anche nei paesi europei più sviluppati.

Oltre a ciò Lenin era convinto che la transizione in Russia sarebbe stata facilitata dal fatto che la borghesia, per imporsi con più facilità e per continuare la guerra, aveva concesso ampia libertà alla popolazione. Bisognava approfittare non solo di questo, ma anche del risveglio, politicamente forte, delle masse, conseguente al fatto che sin dal 1905 (cioè dalla prima rivoluzione russa, contemporanea alla inaspettata sconfitta militare nella guerra navale contro il Giappone) si stava lottando contro l'iniquità, l'inefficienza e le vessazioni delle istituzioni di potere.

3) Questo terzo punto è abbastanza sconcertante e Lenin sarà costretto a riprenderlo in quello successivo. I bolscevichi dovevano rifiutare qualunque rapporto col governo provvisorio della borghesia, quello che aveva definitivamente abbattuto lo zarismo.

In quel frangente, considerando che i bolscevichi erano ancora – come dice lui stesso – “un'esigua minoranza”, sarebbe stato naturale aspettarsi la disponibilità a un'intesa, a un compromesso coi partiti di governo. Invece Lenin lo esclude a priori, e sostanzialmente per due ragioni: a) è convinto che la borghesia voglia continuare al guerra per annettersi territori altrui, per cui non vede alcuna differenza rispetto allo zarismo, e quindi non crede alle promesse del governo provvisorio relative a una pace equa e democratica; b) ritiene del tutto illusorio pensare che un governo borghese come quello provvisorio, del tutto favorevole al capitalismo, possa essere contrario all'imperialismo. Riteneva cioè molto ingenuo credere che in Russia il governo borghese potesse essere più democratico dei governi euroccidentali che avevano fatto scoppiare la guerra. Se la Russia appariva più democratica, era solo per un fatto contingente: era appena stato abbattuto lo zarismo e la borghesia aveva bisogno del consenso delle masse per continuare la guerra.

4) Come già detto, Lenin non si nascondeva il fatto che nella maggioranza dei soviet dei deputati operai chi deteneva il potere non erano certo i bolscevichi, quanto piuttosto “gli elementi opportunisti piccolo-borghesi” (menscevichi e socialisti rivoluzionari), soggetti all'influenza della borghesia e in grado di condizionare il proletariato agrario e industriale.

Tuttavia, se col governo provvisorio era intransigente, non voleva affatto esserlo anche con questi soviet, proprio perché li riteneva “l'unica forma possibile di governo rivoluzionario”. Su questo era esplicito. Lenin era a favore della democrazia diretta, autogestita delle masse popolari anticapitalistiche. Si trattava soltanto di far capire a tali masse, “in modo paziente, sistematico, perseverante” (cioè non terroristico), che la tattica scelta a favore della piccola borghesia era sbagliata. Le masse, infatti, dovevano arrivare a capire che non era il caso di trattare col governo provvisorio, bensì di espropriarlo di tutti i poteri. I bolscevichi propagandavano “la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai soviet dei deputati operai”.

“Democrazia diretta”, in sostanza, voleva dire che le masse dovevano essere in grado di “liberarsi dei loro errori sulla base dell'esperienza”. Non dovevano aspettarsi un leader carismatico. In pratica – se non interpretiamo male queste importanti parole – Lenin stava attribuendo al popolo il diritto ad autogovernarsi, cioè il diritto-dovere di uscire dalla tutela dei politici di professione, quelli che gestiscono il potere non in nome del popolo, ma in nome proprio, e che trasformano la sovranità popolare in una democrazia meramente delegata, parlamentare, del tutto indiretta.

5) L'idea di democrazia diretta (che dopo la rivoluzione verrà completamente dimenticata, a causa dello stalinismo imperante) viene chiarita, in questo punto, in maniera esplicita. “Niente repubblica parlamentare, ma repubblica dei soviet di deputati degli operai, dei salariati agricoli e dei contadini di tutto il paese, dal basso in alto”.

Idee di questo genere non si sentivano dai tempi di Rousseau, il teorico della piccola borghesia e dei giacobini. Nessun partito socialista europeo aveva mai messo in dubbio la legittimità e persino la necessità del parlamento del proprio paese e quindi la imprescindibilità di una democrazia rappresentativa. Nessun partito credeva che, nell'ambito di uno Stato nazionale, fosse possibile una democrazia diretta, da gestirsi a livello locale-regionale. Gli stessi partiti di sinistra della Russia, quelli che gestivano i soviet, erano convinti che questi organismi, una volta conclusa la guerra e consolidato il potere democratico-borghese, avrebbero dovuto sciogliersi, in quanto tutto il rapporto con le istituzioni sarebbe stato gestito a livello parlamentare-nazionale mediante organi statali.

Lenin, invece, stava dicendo delle cose a dir poco sconvolgenti. Non solo voleva eliminare il parlamento, ma anche la polizia, l'esercito e i funzionari amministrativi dei Ministeri statali. Voleva che tutte queste strutture, funzioni, cariche venissero gestite direttamente dai soviet. Egli stava già pensando non solo a come sostituire il governo, ma anche a come sostituire tutte le principali funzioni dello Stato con quelle dei soviet. Era un discorso assolutamente inedito. Lo slogan “Tutto il potere dei soviet” tutti pensavano che dovesse essere inteso in maniera provocatoria, per far capire che il governo era inutile e che la popolazione poteva tranquillamente sostituirlo, ma nessuno avrebbe mai tratto la conseguenza che la democrazia diretta, localmente autogestita, avrebbe dovuto rimpiazzare quella statale centralizzata. Il superamento definitivo dello Stato veniva rimandato a data da destinarsi: prima del comunismo bisognava pensare a realizzare il socialismo.

Qualunque partito socialista europeo avrebbe obiettato che i tempi, per una transizione del genere, non erano assolutamente maturi. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di abbattere le istituzioni statali per sostituirle con quelle popolari. Sarebbe stata una teoria folle. Tutti erano convinti che lo Stato andasse sì occupato, ma solo per gestire meglio, in senso democratico, la società. Soltanto quando tutta la società si fosse davvero democratizzata (in senso socioeconomico), sarebbe giunto il momento di prevedere una progressiva (non subitanea) “estinzione dello Stato”.

Purtroppo Lenin non poté procedere a una effettiva realizzazione della democrazia diretta per almeno due ragioni: a) dal momento della rivoluzione sin quasi al primo attacco cerebrale fu enormemente impegnato a combattere la controrivoluzione interna e l'interventismo straniero; b) dal 1922 al 1924 venne tenuto emarginato (se non addirittura tradito) da molti compagni di partito, i quali non avevano il senso della democrazia diretta.

D'altra parte gli stessi fondatori del socialismo scientifico non avevano mai parlato di “democrazia diretta”, meno che mai di abolizione dello Stato subito dopo aver compiuto la rivoluzione politica. Lenin era così convinto dell'importanza di tale democrazia che arrivò a dire un'altra cosa senza precedenti (l'unico precedente era costituito dalla Comune di Parigi, che però durò un mese): tutti i funzionari dovevano essere “eleggibili e revocabili in qualsiasi momento” (erano da vietarsi quindi le nomine dall'alto), e nessun funzionario poteva pretendere uno stipendio “superiore al salario medio di un buon operaio”.

Ogni rappresentante democratico doveva quindi rendicontare periodicamente al soviet che l'aveva eletto. Il concetto borghese di essere presente in parlamento “senza vincolo di mandato” diventava assurdo. Anzi, il potere legislativo ed esecutivo finivano col coincidere.

Qui Lenin – bisogna ammetterlo – non era chiarissimo quando affermava di non volere una “repubblica parlamentare”. Sicuramente non voleva uno Stato centralizzato, se non per esigenze contingenti, di tipo soprattutto difensivo. In ogni caso uno Stato centralista non avrebbe dovuto essere come quello zarista né come quello borghese. E neppure ha mai sostenuto che uno Stato federale fosse di per sé migliore di uno centralizzato. Il federalismo lo vedeva bene nel rapporto paritetico tra le varie etnie e nazionalità dell'ex impero zarista. Anche il fatto che non volesse un parlamento nazionale non si trova nei suoi scritti. Per lui era sufficiente che i votanti e quindi gli eletti svolgessero un lavoro produttivo e che appartenessero a un organismo politicamente qualificato a livello locale.

Semmai ci si può chiedere: Lenin voleva che le realtà locali-regionali si gestissero da sole, senza un parlamento nazionale che dettasse delle direttive valide per tutte le realtà locali, oppure riteneva imprescindibile un parlamento del genere, ovviamente sempre che fosse espressione sintetica di tutti i soviet locali-regionali? In ogni caso che poteri poteva avere un parlamento del genere? Doveva essere una struttura quotidianamente presente o da convocarsi solo in caso di necessità? Doveva avere una semplice funzione di indirizzo generale e di coordinamento o proprio di gestione e di organizzazione dell'intera società? In ultima istanza, erano i poteri dei soviet a gestire autonomamente i bisogni locali-regionali, oppure, per poterlo fare, dovevano prima sottostare a direttive piovute dall'alto, o comunque dovevano prima confrontarsi tra di loro in un parlamento nazionale?

Lenin stava indubbiamente pensando a una riedizione, riveduta e corretta, della Comune di Parigi, poiché altri esempi rivoluzionari a disposizione non ne aveva (a parte, quello, molto meno significativo sul piano politico-amministrativo, della rivoluzione russa del 1905). Quando scrive Stato e rivoluzione nel 1917 ha in mente soltanto quella Comune, che aveva studiato in maniera dettagliata e a cui rimproverava di essere stata “troppo lenta nell'instaurare il socialismo”.

Voleva rifarsi alla Comune non per negare la necessità di uno Stato, come facevano gli anarchici, ma per affermare un tipo di Stato in cui gli organi di potere, la polizia, l'esercito, la burocrazia non fossero dei corpi separati e quindi contrapposti al popolo. Non voleva uno “Stato” in senso proprio, ma una sorta di involucro politico provvisorio, che favorisse l'autogoverno dei produttori associati, i quali, col tempo, non avrebbero più avuto bisogno di alcuno Stato. D'altra parte senza uno Stato democratico il socialismo avrebbe rischiato di soccombere alla controrivoluzione borghese, che poteva sempre ricevere ogni forma di aiuto dai grandi capitalisti europei.

Ma quando sarebbe giunto il momento di pensare a una progressiva eliminazione dello Stato? Non era forse sufficiente la fine della guerra, della guerra civile, della controrivoluzione...? Cos'altro si doveva aspettare? La fine del capitalismo mondiale? Si doveva forse sostenere, come fece lo stalinismo, che fino a quando esiste il capitalismo è impossibile costruire il socialismo senza la presenza dello Stato? Dunque le premesse politiche del socialismo democratico erano strettamente dipendenti da quanto accadeva fuori della Russia? Ma i comunisti non avevano forse il dovere di dimostrare da subito, al mondo intero, come si può costruire una alternativa radicale anche a uno Stato centralizzato? Non sarebbero forse stati più credibili?

In altri scritti Lenin aveva parlato di “dittatura del proletariato”, ma solo in riferimento alla possibile resistenza della borghesia alla espropriazione dei mezzi produttivi. Vinta la reazione, non avrebbe avuto più senso continuare a parlare di “dittatura”. Socialismo e democrazia avrebbero dovuto marciare di pari passo, per il bene di entrambi: l'uno doveva presupporre l'altra.

Lenin però non sembrava sufficientemente convinto che i vari soviet locali-regionali avessero in sé la forza per vincere la reazione borghese; anzi, temeva che proprio dalle campagne gli agricoltori proprietari avrebbero potuto far rinascere il capitalismo. Forse per questo voleva tenere in piedi uno Stato centralizzato, limitandosi a dire che la democraticità di tale Stato sarebbe stata garantita dagli stessi soviet, i quali, a questo punto, andavano considerati come organi permanenti.

In effetti, finché un parlamentare o un funzionario statale viene eletto dal popolo, ed è costretto a rendicontare a quest'ultimo il proprio operato, rischiando d'essere immediatamente rimosso e sostituito nel caso in cui non si sia dimostrato all'altezza del compito ricevuto, la democrazia è salva. Più la democrazia si consolida, più facile sarà la realizzazione del socialismo, una volta posta la socializzazione dei mezzi produttivi. E viceversa, ovviamente.

Lenin non si era mai nascosto il problema di come eliminare progressivamente lo Stato, senza permettere alla borghesia di riprendersi il potere. Non riuscì però a dare una soluzione definitiva a questo problema, proprio perché non ne ebbe il tempo sufficiente, e i suoi compagni di partito erano ben lungi dall'essere capaci di proseguire le sue riflessioni teoriche. Ecco perché continuò a temere seriamente che senza una guida politica centralizzata, la rivoluzione sarebbe durata molto poco.

6) Il programma agrario viene delineato in questo punto, ed è piuttosto categorico, anche perché doveva servire come base economica per realizzare il socialismo. Infatti, quando parla di economia, sembra che egli abbia in mente solo due settori: l'agricoltura e le banche. Forse al punto 8 ha in mente anche l'industria, visto che parla di “produzione sociale”. Oppure qui non ha parlato esplicitamente di industria in quanto riteneva che i bolscevichi, anzi l'intera nazionale, conoscessero già la sua posizione in merito. Non è da escludere che in queste Tesi egli abbia voluto proporre al suo partito soltanto ciò che sarebbe apparso di inedito. Non a caso, in campo economico, la maggior parte delle parole le spende per l'agricoltura, l'ambito privilegiato per l'ideologia politica dei socialisti rivoluzionari, eredi del populismo ottocentesco.

Anzitutto egli chiede di “confiscare tutte le grandi proprietà fondiarie”, e senza aggiungere le parole (tipiche dello zarismo e dei governi borghesi) “previo indennizzo”. Semplicemente vuole che le grandi proprietà rurali non siano più in mani di singoli individui o famiglie o comunità ecclesiastiche. Non vuole “eliminare” una classe sociale (come farà Stalin coi kulaki), ma vuole “espropriarla” dei beni che le permettono di sfruttare il lavoro altrui. Quando, subito dopo, scrive che tutte le terre del paese vanno “nazionalizzate”, non ha in mente solo la semplice confisca materiale dei grandi latifondi, laici e religiosi, ma anche la gestione economica vera e propria di tutte le terre. Si noti che parla di “nazionalizzazione”, non di “statalizzazione”. La differenza è dovuta al fatto che tutti i contadini devono possedere la terra, non che devono lavorarla come se fossero alle dipendenze dello Stato.

Poi aggiunge – come se in quel momento parlasse di una cosa del tutto inesistente – che occorre “costituire i soviet di deputati dei contadini poveri”. Lenin ha in mente varie categorie di lavoratori agricoli, diverse tipologie di proprietari, fino ai mezzadri, i braccianti, i nullatenenti. I soviet, infatti, erano una realtà prevalentemente urbana, gestita anzitutto dagli operai industrializzati e dai militari, anche se ad essi facevano riferimento gli agricoltori. Tuttavia, per quanto riguarda quest'ultimi, sembra ch'egli proponga la costituzione di soviet differenti: gli uni per i contadini proprietari; gli altri per quelli salariati o poveri. Si ha addirittura l'impressione che stia chiedendo una gestione della terra del tutto separata da quella dell'industria; tant'è che nei soviet agrari non è prevista la presenza degli operai urbani: sono soviet da istituire esclusivamente nelle campagne, nei villaggi rurali...

Lenin rifiuta anche l'idea di “municipalizzare” la terra, cioè di gestirla attraverso un ente locale, come p.es. poteva essere il Comune o il Distretto. Vuole che siano gli stessi lavoratori agricoli a farlo. E, concretamente, l'unica indicazione che dà è quella di costituire delle comunità che gestiscono da 100 a 300 ettari circa di terra comune.

Il punto fondamentale è proprio questo: Lenin non vuole redistribuire la terra alle singole famiglie contadine, per farle diventare dei piccoli proprietari agrari; ma vuole che si formino delle comunità in grado di gestire centinaia di ettari sotto il controllo dei soviet dei loro delegati, opportunamente costituiti. Sta pensando a qualcosa che in quel momento, dai tempi dell'abolizione del servaggio, non è mai esistito o comunque non esisteva più, anche se, a dir il vero, sembra fare riferimento a un progetto di legge agraria presentato dai trudoviki (socialisti agrari capeggiati da Kerenskij) alla prima Duma nel giugno del 1906 e mai realizzato.8 Di sicuro Lenin riteneva impossibile la conquista (o almeno la conservazione) del potere politico da parte della classe operaia senza l'appoggio dei contadini poveri, quelli privi di proprietà, come appunto i salariati e i manovali stagionali.

D'altra parte la stessa realtà dei soviet urbani era piuttosto recente: i primi erano nati durante la rivoluzione del 1905. Erano delle realtà politiche del tutto diverse dai Consigli comunali. Il primo Congresso di tutti i soviet urbani è del giugno 1917.

7) Lenin voleva la “fusione immediata di tutte le banche del paese in un'unica banca nazionale”. Con una banca del genere, controllata dallo Stato operaio, il capitalismo industriale avrebbe ricevuto un colpo mortale, in quanto le aziende private non avrebbero potuto vivere senza il credito bancario. Il sistema veniva completamente rovesciato: le aziende non erano più libere di agire in autonomia, rivaleggiando tra loro e sfruttando gli operai a piacimento, fatta salva la contrattazione sindacale. Il potere politico non era più tenuto a rispettare i desiderata dei capitalisti. Ovviamente la fusione di tutte le banche andava considerata come un primo “passo” verso il socialismo, in quanto il comunismo vero e proprio non avrebbe dovuto avere alcuna “banca”.

Ci si può chiedere perché questo “sistema capovolto” sia fallito, cioè perché il socialismo statale, amministrato dall'alto, non costituisca una realtà alternativa al capitalismo privato, ma solo l'altra faccia della stessa medaglia. Quale medaglia? Quella del dominio sulle masse lavoratrici. In occidente ciò avviene in nome del profitto economico. In Russia avvenne per mezzo dell'ideologia politica di un partito facente le funzioni dello Stato.

Sotto lo stalinismo lo Stato sovietico si era sostituito agli imprenditori privati, ma il popolo continuava a restare sottomesso. Il plusvalore veniva estorto dai politici e dai funzionari amministrativi, che lo destinavano in parte ai servizi sociali, in parte agli armamenti, in parte ai servizi segreti, in parte a sostenere i partiti comunisti esteri... I lavoratori del cosiddetto “socialismo reale” non avevano gli standard vitali dei loro colleghi occidentali, e si chiedevano che senso avesse un “socialismo della miseria”. Non volevano credere che il benessere occidentale dipende, in prevalenza, dallo sfruttamento delle colonie (il cosiddetto “Terzo mondo”). Pensavano che dipendesse anche dal maggior livello di autonomia economica, di iniziativa privata, di libertà d'impresa, e così, all'inizio degli anni Novanta distrussero non solo gli aspetti negativi del socialismo da caserma, ma persino l'idea di socialismo democratico. Trasformarono il socialismo statale in un capitalismo monopolistico di stato (dopo la parentesi scriteriata del capitalismo selvaggio al tempo di Boris El'cin, che portò la nazione alla bancarotta). La Russia confidò nel fatto ch'era un paese dalle enormi riserve energetiche. Si convinse di potersi arricchire grazie a queste riserve; altro non aveva da esportare, se non le armi. La Russia non è mai stata in grado di competere con gli standard dell'industria leggera del mondo occidentale.

Riuscirà mai questo immenso paese a riprendersi dopo 70 anni di stalinismo, che ha comportato decine di milioni di morti, la fine di ogni creatività intellettuale, artistica, di ogni ricerca scientifica a scopi civili, la coartazione del pensiero e della libertà di coscienza? Tornerà mai questo paese a credere di nuovo in un'idea di socialismo, decisamente più democratica di quello del passato?

8) Forse sarebbe stato meglio limitarsi a un obiettivo minimo (ancorché inaccettabile per qualunque sistema capitalistico), lasciando che solo le circostanze, col tempo, decidessero gli ulteriori sviluppi dell'idea di socialismo. Lo stesso Lenin l'aveva fatto capire: “Il nostro compito immediato non è l''instaurazione' del socialismo, ma, per ora, soltanto il passaggio al controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei soviet dei deputati operai”.

Si noti che qui Lenin sta parlando di “controllo”, da parte degli operai, della produzione industriale. Non ritiene che tale “controllo” sia sufficiente per definire il carattere del socialismo. Eppure lo Stato socialista, fino al crollo del 1991, fece proprio questo. La differenza tra il programma di queste Tesi di Aprile e quello del socialismo statale stava unicamente nel fatto che nel programma leniniano il controllo doveva essere gestito dai “soviet dei deputati operai”, quindi sostanzialmente a livello territoriale (locale-regionale). In tal senso è assai dubbio che Lenin avrebbe ritenuto più avanzato di tale controllo quello centralizzato e pianificato dall'alto da parte dei Ministeri statali del lavoro. Infatti la storia ha dimostrato che questo tipo di “controllo” era ancora più lontano dall'idea di socialismo democratico. Quindi che cosa aveva in mente Lenin quando diceva che un controllo della produzione da parte di un soviet operaio locale-regionale non era ancora una forma vera e propria di socialismo, ma solo la sua premessa?

Sul piano del controllo della produzione sociale che cosa avrebbe potuto dare una maggiore caratterizzazione socialistica a quella esercitata dal soviet dei deputati operai? Su questo aspetto le circostanze storiche non diedero tempo a Lenin di formulare delle idee “chiare e distinte”. Egli infatti fu costretto a teorizzare il “comunismo di guerra” per fronteggiare la controrivoluzione interna e l'interventismo straniero, cui seguì la Nuova Politica Economica, per dare respiro alla classe contadina, prostrata dalla guerra civile e dalle esigenze dello Stato.

Con la NEP si introdussero elementi di capitalismo privato nell'ambito del socialismo agrario: un provvedimento che molti bolscevichi videro come un passo indietro, e che infatti col sorgere dello stalinismo, schematico e unilaterale per definizione, fu revocato, a tutto vantaggio della collettivizzazione forzata e della eliminazione dei kulaki.

Dunque che tipo di socialismo democratico aveva in mente Lenin sul piano economico? Di sicuro non uno che fosse un ritorno al capitalismo, né una concessione alle esigenze borghesi dei contadini proprietari terrieri. La NEP era stata scelta soltanto come soluzione di ripiego, per non avere i contadini contrari alla rivoluzione?

9) In questo punto Lenin chiede di modificare il programma del partito relativamente alla questione dell'imperialismo e della guerra mondiale. In che senso? Al partito era già chiaro che l'imperialismo era la fase suprema del capitalismo e che la I guerra mondiale era una guerra di rapina per la spartizione delle colonie.

Qui tuttavia non sta parlando di “ideologia politica”, bensì di “programma del partito”. Sta cioè chiedendo – e lo farà al Congresso – di fare anzitutto la rivoluzione interna contro il capitalismo sostenuto dal governo provvisorio. Senza questa rivoluzione sarebbe stato impossibile – secondo lui – por fine alla guerra mondiale; e questo perché, nonostante il governo affermi di volerla continuare solo per difendere il paese e non per conquistare territori altrui, non ci si può fidare delle dichiarazione dei politici borghesi. L'imperialismo è un'esigenza del capitalismo e la guerra serve appunto a soddisfarla. Quindi non era possibile fare alcuna concessione al governo provvisorio.

In definitiva il partito bolscevico doveva cambiare atteggiamento anche nei confronti dello Stato. All'ordine del giorno ci sarebbe stata soltanto la trasformazione dello Stato borghese in un qualcosa di analogo alla Comune di Parigi, dove la modalità principale della politica doveva essere la “democrazia diretta”, quella che impone un controllo costante sull'operato dei delegati, l'obbligo della loro rendicontazione agli elettori e il riconoscimento a quest'ultimi del potere di revoca immediata dei propri rappresentanti in caso di abuso di potere o di inefficienza amministrativa.

Lo Stato-Comune, per Lenin, si doveva fondare sui soviet operai, contadini e militari. In tal senso egli vuole emendare il “programma minimo” del partito, che considera superato. Stava già pensando all'insurrezione armata, anche se non è così ingenuo da rivelare al nemico le proprie intenzioni. Che ci stia pensando l'attesta però anche il fatto che vuole cambiare il nome al partito, da socialdemocratico a comunista, in quanto la socialdemocrazia europea ha dimostrato di non essere in grado di compiere alcuna rivoluzione, almeno non in virtù dei dirigenti opportunisti che la dirigono. Ha capito che per compiere la rivoluzione non può utilizzare alcun esempio dall'Europa occidentale, salvo quello della Comune di Parigi.

10) Ecco perché all'ultimo punto chiede di istituire una III Internazionale, con cui sostituire la seconda, irrimediabilmente compromessa coi governi borghesi delle rispettive nazioni, avendo votato i crediti di guerra ed essendosi rifiutata di trasformare la guerra imperialistica in guerra civile contro il capitalismo interno ai propri paesi.

Lenin accusava soprattutto i dirigenti della II Internazionale di aver tradito il concetto di “internazionalismo proletario”, quello per cui il proletariato di una nazione dovrebbe rifiutarsi di far la guerra al proletariato di un'altra nazione. Chiama questi traditori col termine “socialsciovinisti”, cioè socialisti a parole e nazionalisti borghesi nei fatti (altrimenti detti “difensisti”), in quanto, dietro le astratte parole della difesa della patria dal nemico esterno, mandano a morire milioni di operai e di contadini.

Perché Lenin considerava già superata la rivoluzione democratico-borghese, che pur era avvenuta nel febbraio-marzo 1917, cioè solo un mese prima che scrivesse queste lettere? Una valutazione del genere non poteva non apparire sconcertante ai marxisti di qualunque partito europeo.

Il fatto è che Lenin era convinto che la borghesia fosse andata al potere solo per l'immaturità politica delle masse, raggirate dai menscevichi e dai socialisti rivoluzionari, due partiti della piccola borghesia, urbana il primo, rurale il secondo. E che la borghesia al potere avesse instaurato un potere del tutto incapace di vera democrazia, era dimostrato proprio dal fatto che essa voleva continuare la guerra e rimandare la riforma agraria alla convocazione dell'Assemblea Costituente, cioè dopo la fine della guerra. La borghesia s'era decisa a rovesciare lo zarismo perché alla fine di febbraio i lavoratori di Pietrogrado avevano organizzato uno sciopero imponente servendosi proprio dei soviet operai, cui si erano uniti i soldati e i contadini, per cui la borghesia ebbe letteralmente paura di questa nuova forza eversiva.

Non solo, ma Lenin non voleva neppure un “governo operaio”, composto di soli operai (come chiedevano Parvus e Trotsky9), ma proprio un governo dei soviet dei deputati degli operai, dei salariati agricoli, dei soldati e dei contadini piccolo-borghesi, ch'erano la stragrande maggioranza del paese, e che costituivano la forza più rappresentativa nei soviet.

Nella lettera intitolata “Valutazione del momento attuale” Lenin afferma espressamente che pretendere un “governo operaio”, escludendo il movimento contadino e piccolo-borghese, sarebbe una forma di avventurismo blanquista: cosa, peraltro, che si rifiutò di fare anche nell'esperienza della Comune di Parigi, dove si preferì il governo della maggioranza. Un governo puramente “operaio” sarebbe una forma di idealismo infantile e inevitabilmente autoritario, in quanto privo di vero consenso popolare.

Lenin invece preferiva servirsi degli strumenti della persuasione ragionata all'interno dei soviet, in rapporto ai bisogni pratici delle masse. Non voleva il governo di una minoranza, poiché sapeva bene che, una volta ottenuto il potere, sarebbe stato molto difficile conservarlo; né voleva una soluzione di tipo anarchico, quella che esclude una transizione al socialismo attraverso lo strumento dello Stato. Certo, una transizione statalistica non avrebbe dovuto avere un esercito permanente separato dal popolo o una polizia opposta al popolo o una burocrazia al di sopra del popolo. Anche l'anarchia, per lui, era una forma di ingenuo idealismo, poiché essa sacrificava, sull'altare dell'obiettivo finale, l'esigenza di trovare degli strumenti idonei e fattibili, per poterlo realizzare.

Lenin aveva questo di peculiare, che raramente s'incontra nei leader di partito: era convinto che i veri comunisti avrebbero potuto essere solo quelli privi di tutto, cioè appunto i “proletari”, gli operai padroni solo della propria forza lavorativa. Non disdegnava un'intesa con gli elementi piccolo-borghesi, ma li riteneva una classe incerta, influenzabile dall'ideologia della grande e media borghesia (così come lo era la cosiddetta “aristocrazia operaia”, cioè gli operai più qualificati, che ricevevano salari maggiori). Preferiva i nullatenenti, proprio perché sapeva che non avevano nulla da perdere il giorno in cui avesse chiesto loro di compiere l'insurrezione armata contro i capitalisti e i grandi latifondisti. E anche se gli operai possono essere analfabeti, lui non ne faceva un problema insormontabile: lo si poteva risolvere con l'istruzione popolare di partito, coi dibattiti politici e sindacali, con la propaganda, con l'affronto dei problemi concreti... Lenin chiedeva ai bolscevichi di partecipare al parlamento borghese portando avanti idee comuniste, ma lui preferiva lottare in maniera extraparlamentare, accettando tutti i rischi, i pericoli, le difficoltà della clandestinità o dell'esilio. Nella storia non s'incontrano tanto facilmente personaggi del genere.


1 In lingua italiana le Lettere da lontano (Editori Riuniti, Roma 1975) includono anche le Tesi di Aprile.

2 Lenin rientrò a Pietrogrado il 3 aprile ed espose le Tesi ai compagni il giorno dopo.

3 Una tesi, questa, non condivisa da Stalin e Kamenev, più propensi a una linea collaborazionistica col governo, tant'è che i bolscevichi si stavano riconciliando coi menscevichi, soprattutto sulle posizioni del difensismo e delle funzioni complementari tra soviet e governo. Kamenev aveva addirittura censurato le lettere che Lenin aveva inviato alla “Pravda” dalla Svizzera: sostituire in tempi brevi polizia, esercito e burocrazia gli pareva una follia. Praticamente Lenin aveva capito, dall'esilio, che la classe operaia bolscevica era più rivoluzionaria dei propri dirigenti, a partire dal Comitato di Vyborg (uno dei bastioni proletari di Pietrogrado), dai marinai di Kronstadt e dalle cellule interne all'esercito. Quando pubblicò le Tesi il 7 aprile sulla “Pravda”, in calce Stalin e Kamenev avevano posto una nota con cui si dissociavano dalle sue posizioni.

4 Il motivo per cui il governo provvisorio ci mise alcuni mesi prima di capire che Lenin era molto pericoloso fu dovuto a una serie di motivazioni: con la guerra in corso, che aveva già comportato 1,5 milioni di morti, 2 milioni di feriti o mutilati e 3 milioni di prigionieri di guerra, non era possibile essere troppo autoritari; i bolscevichi inoltre erano una minoranza nei soviet e nel paese; infine le idee di Lenin apparivano come una forma di propaganda elettorale, non applicabili alla realtà.

5 La corrente politica dei socialisti rivoluzionari di sinistra, proprio nei giorni della convocazione dell'Assemblea, aveva deciso di unirsi ai bolscevichi: scelta che portò all'unione tra il Comitato esecutivo dei Soviet contadini (socialista rivoluzionario di sinistra) e il Comitato esecutivo dei Soviet degli operai e dei soldati (bolscevico), dando vita a quello che viene conosciuto come Comitato esecutivo centrale panrusso (VCIK).

6 In particolare fu riconosciuta l'indipendenza, oltre alla Finlandia, all'Ucraina, alla Polonia, all'emirato di Bukharà e al canato di Khivà, nonché l'Autodeterminazione dei popoli dell'Armenia turca. Gli oggetti antichi e le opere d'arte sottratti dallo zarismo alla Polonia furono ad essa restituiti.

7 Non dimentichiamo che Stalin non solo eliminò centinaia di migliaia di oppositori politici, ma anche il 50% dei quadri dell'Armata Rossa (35.000 ufficiali) e 600.000 iscritti al partito, determinando in Hitler la convinzione che il momento migliore per attaccare l'Urss era proprio dopo la fine delle “grandi purghe”.

8 Dopo la rivoluzione del febbraio 1917 il partito laburista dei trudoviki si alleò coi socialisti-rivoluzionari e sostenne il governo provvisorio di Kerenskij, ma dopo la rivoluzione d'ottobre prese una posizione anti-bolscevica e presto si disintegrò.

9 Da notare che il gruppo di Trotsky si unì al partito bolscevico solo nel luglio 1917.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Il grande Lenin


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