IL GRANDE LENIN

Per un socialismo democratico

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Stato e rivoluzione

Premessa

Come noto, Lenin è stato il più grande interprete dei fondatori del marxismo, Marx ed Engels, anche se ai tempi in cui scriveva questa fama apparteneva a Plechanov in Russia e soprattutto a Kautsky in Germania, il più autorevole esponente della II Internazionale.

La vera importanza di Lenin emerse dopo la rottura con la suddetta Internazionale, seguita dalla rivoluzione d'Ottobre, per la cui realizzazione il libro-opuscolo Stato e rivoluzione, dell'agosto-settembre 1917, contribuì, dal punto di vista dei princìpi generali dell'organizzazione dello Stato e della società civile, in maniera decisiva.

Soltanto dopo la fine della guerra civile e dell'interventismo straniero, cioè con l'introduzione della Nep, poi negata dallo stalinismo, Lenin cominciò a rivedere la fondatezza di alcune sue tesi o almeno i tempi previsti per la loro attuazione.

Ebbene, se c'è però un libro dove la fama di Plechanov e soprattutto quella di Kautsky appaiono in tutta la loro limitatezza, è proprio Stato e rivoluzione, dove il genio interpretativo di Lenin fa emergere in ogni riga del testo l'esigenza di “realizzare” una rivoluzione sulla base dei princìpi di Marx ed Engels, allo scopo di eliminare, in un colpo solo, le ultime tracce del feudalesimo russo e quelle del capitalismo nascente.

È così forte questa esigenza che il libro rimase incompiuto dell'ultimo capitolo, quello sulle rivoluzioni russe del 1905 e del febbraio 1917, proprio perché si era nell'imminenza del fatidico “Ottobre”, e Lenin, in un Poscritto, si diverte a dire che è stato ben contento d'averlo lasciato incompiuto, poiché “è più piacevole e più utile” fare la rivoluzione che parlarne.

Il commento che qui ne daremo non vuole ripercorrere il filo logico di tutti i ragionamenti di Lenin, che spesso s'intrecciano a tal punto con quelli di Marx ed Engels, che è difficile discernerli, ma semplicemente enucleare i passi chiave che possono aiutarci a capire, in maniera sintetica, fin dove è arrivato il marxismo-leninismo, cioè il marxismo più maturo, quello capace di elaborare lo schema per così dire “politico-istituzionale” alternativo al sistema capitalistico.

La grandezza di Lenin stava proprio nel tenere costantemente legate teoria e prassi, nel dimostrare, sulla base di tale legame, le manchevolezze nelle analisi dei teorici e dei politici del marxismo a lui contemporanei e soprattutto nel saper trarre dalle esperienze concrete (la più importante delle quali per lui fu la Comune di Parigi) quegli insegnamenti utili a far progredire la teoria rivoluzionaria. Gli aspetti che di quella rivoluzione gli interessavano erano i seguenti: 1) separazione della Chiesa dallo Stato e dalla scuola; 2) espropriazione delle proprietà ecclesiastiche; 3) abolizione delle sovvenzioni statali alla Chiesa (ivi inclusi gli stipendi statali al clero); 4) l'istruzione popolare gratuita; 5) la soppressione della burocrazia; 6) la sostituzione dell'esercito permanente di professionisti col popolo in armi; 7) il controllo operaio delle imprese; 8) elettività e revocabilità di tutti i funzionari pubblici; 9) stipendi limitati entro una certa soglia (salario di un operaio medio); 10) parità dei diritti degli stranieri; 10) concessione di una paga a ogni vedova; 11) blocco della vendita dei pegni nei Monti di pietà.

Lenin non ha mai rimandato a un futuro indefinito o imprecisato il superamento del capitalismo, ma ha sempre cercato, con grande determinazione, di risolvere nel presente gli antagonismi creati da questo sistema. E in tale ricerca dei mezzi e dei modi egli ha sempre evitato di cadere nei facili estremismi di chi vorrebbe (oggi come allora) “tutto e subito”, preoccupandosi invece di stabilire delle tappe progressive.

In tal senso Stato e rivoluzione non è solo un'ampia critica delle posizioni opportunistiche in seno al marxismo della II Internazionale, ma anche una presa di distanza dalle posizioni anarchiche, ch'erano non meno risolute di quelle marxiste nel volere la fine irrevocabile dello Stato borghese.

Più sopra si è detto che lo stalinismo rimosse con violenza la Nuova Politica Economica voluta da Lenin; in realtà fece di peggio: diede di questo opuscolo di Lenin un'interpretazione riduttiva e per molti versi falsata.

In Questioni del leninismo (Editori Riuniti, Roma 1952), Stalin dà per scontato, peraltro giustamente, che i fondatori del marxismo non potevano assolutamente prevedere il tempo in cui, a rivoluzione compiuta, lo Stato avrebbe dovuto cominciare a estinguersi. Ma in nome di questa preoccupazione anti-dogmatica, Stalin aggiunse poi che le tesi marxiste sullo Stato dovevano in sostanza essere accantonate, risultando praticamente inutili per la situazione contingente della Russia rivoluzionaria, che in quel momento per di più si trovava circondata da paesi capitalistici aggressivi.

Questo lo disse nel 1939, per poter giustificare le repressioni di massa iniziate due anni prima, a loro volta frutto di una tesi, tutta staliniana, secondo cui la lotta di classe si acuisce proprio in rapporto all'edificazione del socialismo. Col che, in un certo senso, si ipostatizzava lo scontro permanente tra le classi, pur nell'ambito del socialismo, e in fondo si finiva col mascherare gli insuccessi che questo sistema registrava dopo la fine della Nep.

Liquidato Engels con molta disinvoltura, che con la sua “astratta” tesi sulla “estinzione dello Stato” non aiutava a interpretare il presente, a Stalin non restava che liquidare il continuatore di quella stessa tesi, e cioè il Lenin di Stato e rivoluzione. E lo fece con astuzia, proponendosi come realizzatore di quel capitolo che Lenin era stato costretto a lasciare incompiuto.

La presunta “eredità teorica” del leninismo da parte dello stalinismo si dipanò, in quell'occasione, nei termini seguenti: 1) dopo la Costituzione del 1936 sarebbe scomparsa ogni repressione statale interna (e invece accadde proprio il contrario); 2) nonostante l'accerchiamento capitalistico (e la vigilia del secondo conflitto mondiale) l'Urss sarebbe passata alla fase superiore del comunismo, grazie alla forza del proprio Stato (cosa che in realtà non avvenne mai, in quanto il “socialismo reale” fu in realtà un sistema repressivo e burocratizzato).

Ciononostante, dal giorno in cui è nato il socialismo scientifico, che è l'analisi dell'inevitabile crollo del capitalismo, da rendere il più possibile indolore con una rivoluzione che ne acceleri il momento, tutta la storia mondiale ruota, ne sia il genere umano consapevole o meno, attorno a questo evento, poiché il socialismo scientifico può in sostanza essere considerato come il primo tentativo di realizzare praticamente un'alternativa non solo al sistema capitalistico, ma anche a tutte le civiltà antagonistiche della storia.

Essendo il primo tentativo, non potevano non essere fatti degli errori, anche gravissimi, da parte dei suoi protagonisti. Questi errori tuttavia non dimostrano la superiorità economica o la giustezza politica del capitalismo, che continua a porsi come sistema di vita le cui contraddizioni vengono pagate soprattutto dai paesi del Terzo Mondo, i quali garantiscono all'occidente la possibilità di vivere un benessere di molto superiore non solo alle sue possibilità ma anche alle sue stesse necessità. Dimostrano soltanto, questi errori, che la strada per arrivare a un socialismo autenticamente democratico è lunga e difficile, per ogni singolo individuo.

Antecedenti

Stato e rivoluzione è stato interrotto da Lenin nel settembre 1917 e stampato a Mosca in novembre, un mese dopo la rivoluzione. In tutta Europa (cioè escludendo i territori coloniali), dopo uno sviluppo relativamente tranquillo, sul piano militare, dal 1871 al 1914, stava imperversando la Grande Guerra e in Russia la rivoluzione del febbraio 1917 aveva deluso enormemente le aspettative di chi voleva la pace e la terra. Lenin aveva già scritto L'imperialismo fase suprema del capitalismo, in cui aveva dimostrato che la guerra mondiale altro non era che una guerra imperialistica tra Stati protagonisti della trasformazione del capitalismo dalla fase concorrenziale a quella monopolistica, e aveva scritto anche le Tesi di Aprile, in cui diceva che tutto il potere politico doveva essere trasferito ai Soviet, la guerra mondiale andava trasformata in guerra civile e la terra confiscata ai latifondisti e redistribuita ai contadini.

L'idea di Stato e rivoluzione era quella di ovviare alla mancanza totale d'aiuto che la sinistra (la socialdemocrazia) occidentale stava dando non solo alla fine immediata della guerra mondiale, ma anche alla trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile all'interno di ogni singolo paese belligerante. Entrambe le condizioni avrebbero aiutato moltissimo lo svolgimento della rivoluzione in Russia.

Alla socialdemocrazia euroccidentale era sfuggito del tutto il fatto che il capitalismo, trasformandosi da sistema concorrenziale a sistema monopolistico, avrebbe acutizzato i conflitti di classe e soprattutto i conflitti tra paesi capitalisti con differenti gradi di sviluppo, portando la tensione a guerre internazionali per la ripartizione del mondo. Viceversa, il miglioramento delle condizioni della classe operaia, anche in seguito allo sfruttamento coloniale, aveva fatto credere in uno sviluppo progressivo, inevitabile, della società capitalistica.

Kautsky, il più grande teorico della II Internazionale (1889-1914), era addirittura convinto che l'imperialismo altro non era che una semplice conquista di territori agricoli extraeuropei, compiuta per di più da un cartello di aziende internazionali che avrebbe non acuito ma attenuato i contrasti nazionali.

A fronte di una situazione del genere Lenin s'era sempre più convinto che la Russia avrebbe potuto realizzare da sola la rivoluzione socialista, senza l'aiuto di alcun movimento progressista europeo, in quel momento guidato da leader opportunisti. Semmai dopo averla fatta si poteva sperare che altri Paesi europei avrebbe potuto seguire l'esempio. Il libro doveva servire proprio per dimostrare che non si poteva sperare in questo aiuto, contrariamente a quanto pensava la maggioranza dei bolscevichi, fermi sulle posizioni classiche del marxismo, secondo cui senza una preventiva o almeno contestuale rivoluzione socialista in Europa occidentale sarebbe stato impossibile per la Russia, il paese più feudale d'Europa, poter realizzare una transizione al socialismo saltando la fase del capitalismo. Il socialismo realizzato sarebbe stato debolissimo nel momento del contrattacco dei paesi capitalisti, che sicuramente avrebbero appoggiato (come poi in effetti avverrà) un'interna controrivoluzione. In fondo l'esperienza della Comune parigina, abbattuta dall'esercito di Thiers, con l'appoggio di Bismarck, era stata molto eloquente.1

D'altra parte le condizioni di un paese travagliato come la Russia, appena uscito dal servaggio, in guerra col Giappone agli inizi del Novecento, privo di una vita politicamente democratica, sconvolto da due rivoluzioni: del 1905 e del febbraio 1917, in mezzo alle quali vi sarà la guerra contro Austria e Germania, stremato da una situazione socio-economica disastrosa, lasciavano poche speranze sulla possibilità di un'evoluzione pacifica dal capitalismo al socialismo.

Già nel primo capitolo di Stato e rivoluzione Lenin si lamenta che la sinistra europea è “marxista” o “socialista” solo sul piano teorico, mentre resta “borghese” o “sciovinista” su quello pratico. È una sinistra che in nome della difesa della propria nazione, ha tradito se stessa, i propri ideali e non ha saputo impedire lo scoppio della guerra.

Detto questo, egli cerca di capire le ragioni di fondo di questo tradimento e del fallimento della II Internazionale e pensa di averle individuate nella diversa concezione che dello Stato hanno i marxisti a lui contemporanei, rispetto a quella che avevano i due fondatori del marxismo. E di tutti i teorici marxisti europei, Kautsky è, secondo Lenin, il più pericoloso, poiché egli, pur avendo capito la vera natura dello Stato, si sarebbe rifiutato di trarne la conseguenza pratica più logica, e cioè che uno Stato del genere non può che essere abbattuto con la forza.

La concezione dello Stato

Il testo marxista da cui Lenin prende le mosse è quello di Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1894), la cui tesi fondamentale per Lenin è la seguente: lo Stato nasce quando lo rende necessario l'inconciliabilità strutturale delle classi antagonistiche. Esso è il modo principale di reprimere o di contenere con la forza le esigenze delle classi subalterne, ponendosi però in maniera illusoria, al di sopra delle parti in lotta, e quindi come una forma di conciliazione interclassista. In tal modo l'oppressione economica viene per così dire istituzionalizzata sotto la parvenza di una legalizzazione giuspolitica.

Se lo Stato non è in grado di reprimere con sicurezza le classi subalterne, significa che queste dispongono di un certo potere politico, praticano una sorta di attiva resistenza allo sfruttamento, sicché in taluni momenti si può anche avere l'impressione che lo Stato eserciti un effettivo ruolo mediatore. A tale proposito Lenin cita il governo di Kerenskij (Engels aveva citato Bismarck, il bonapartismo ecc.) e arriva a dire che queste sono situazioni transitorie, che in genere accadono quando i dirigenti degli operai o dei contadini non sono abbastanza risoluti per porre fine allo sfruttamento e lo Stato non è abbastanza forte per reprimerli.

Stante le cose in questi termini, alla classe oppressa non resta che fare una rivoluzione violenta contro quella che, da posizioni minoritarie, la opprime, impadronendosi dell'apparato statale per volgerlo contro la resistenza degli sfruttatori e distruggere progressivamente tutta la macchina statale, che va sostituita con l'autogoverno delle masse popolari.

La mancata chiarezza su questo punto ha portato – secondo Lenin – al fallimento di tutte le rivoluzioni contadine e operaie, europee e russe, sino all'ultima compiuta dai menscevichi e dai socialisti-rivoluzionari nel febbraio 1917.

Le caratteristiche dello Stato borghese sono elencate a partire dal secondo capitolo, ma non vengono mai approfondite, poiché l'opuscolo voleva essere un pamphlet teorico-politico contro l'opportunismo e il social-sciovinismo dei partiti socialdemocratici della II Internazionale, non un trattato giuridico o storico-politico.

Le caratteristiche principali dello Stato borghese (e dello Stato in generale) sono comunque le seguenti:

1. l'esistenza di confini che delimitano le popolazioni;

2. l'istituzione di un'organizzazione armata (esercito permanente e polizia), separata dalla popolazione, preposta all'ordine pubblico e quindi a gestire la repressione e gli strumenti repressivi: prigioni, istituti di pena ecc. Le forze armate servono anche per conquistare il mondo e spartirselo tra le potenze imperialiste;

3. l'istituzione di una burocrazia separata anch'essa dalla popolazione, ove domina il carrierismo e la possibilità di ottenere privilegi, quindi un ceto corrotto per definizione;

4. allo Stato sono necessarie delle imposte e un debito pubblico, con cui poter corrompere i propri funzionari;

5. la democrazia come miglior involucro politico del capitalismo, quindi suffragio universale come forma principale di illusione con cui il capitale cerca di far credere che per cambiare le cose sia sufficiente cambiare coalizione governativa. In realtà i veri poteri, sotto il capitalismo, non sono quelli politici ma quelli economici, e comunque la corruzione è tale che la politica e gli stessi partiti hanno un ruolo del tutto marginale.

La concezione interclassista, neutrale, che in occidente si coltiva per lo Stato politico, specie nella forma avanzata della repubblica democratica (parlamentare o presidenziale, centrale o federale è irrilevante), fa da pendant alla scarsa determinazione che ha sempre contraddistinto le forze progressiste occidentali nel voler compiere una rivoluzione armata. Questa considerazione non viene fatta da Lenin, ma la si può dedurre dal suo testo e dalle vicende storiche dei secoli XIX e XX dell'Europa occidentale.

Esiste come una sorta d'illusione secondo cui è possibile realizzare un socialismo democratico semplicemente impadronendosi delle leve dello Stato, in forme e modi pacifici, parlamentari. E questo nella convinzione che, una volta ottenuto il comando delle leve statali, sia poi possibile dirigere l'economia, governando democraticamente la società. Si vuol fare questo senza rivoluzione, semplicemente conquistando l'opinione pubblica attraverso la cultura, il parlamentarismo, l'azione sindacale...

L'ingenuità della sinistra si manifesta anche nella convinzione che sia sufficiente l'evidenza delle contraddizioni per persuadere l'opinione pubblica a non votare i partiti di destra, ovvero che la propaganda attiva, capillare, non sia un aspetto così importante ai fini del consenso o per prendere decisioni risolute.

La concezione dello Stato come “super partes” viene in occidente dalla religione, cattolica e soprattutto protestante, o comunque da una sua laicizzazione. Qui infatti si è maturata l'idea che lo Stato sia una sorta di personificazione dell'idea assoluta, una divinità secolarizzata, e che il suo cattivo funzionamento non dipenda dalla struttura in sé ma da chi la governa, soprattutto dai politici, più che dagli amministratori. Con una differenza: che mentre il credente cattolico ha sempre visto nel papato un contraltare alla potenza dello Stato, quello protestante invece, avendo privatizzato del tutto l'atteggiamento nei confronti della religione, ha deciso di riporre unicamente nello Stato la tutela dei propri interessi di cittadino, al punto che lo Stato borghese non si fa scrupolo di assumere le vesti di un “papa laico”, specie quando si tratta di compiere guerre contro paesi di religione opposta o che hanno soltanto interessi economici o politici opposti ai suoi.

Si è dunque passati da una forma di culto della personalità concreta (quella che il cattolico ha per il papa) al culto di un'entità astratta (quella che il protestante ha per lo Stato) in cui, in entrambi i casi, si è convinti che la gestione della propria libertà personale sia più garantita in maniera eterodiretta.

L'alternativa della Comune

Per Lenin la Comune di Parigi del 1871 fu l'esperienza più significativa per un'alternativa allo Stato borghese, al punto ch'egli considerava le rivoluzioni russe del 1905 e la prima del 1917 una diretta continuazione di quella esperienza (il testo cui egli fa riferimento è quello di Marx, La guerra civile in Francia). Solo dopo il fallimento di questo tentativo insurrezionale, Marx – dice Lenin – si rese conto che lo Stato borghese non andava semplicemente conquistato dal proletariato, ma addirittura distrutto. La Comune fallì perché non seppe organizzarsi attorno a precisi partiti politici, e perché in sostanza fu un moto spontaneo di plebi urbane e non seppe difendersi con la necessaria risolutezza. Inoltre non riuscì mai a coinvolgere i contadini, che allora erano la grande maggioranza dei lavoratori francesi, anche perché gli operai venivano considerati come “naturali tutori” dei loro interessi.

Tuttavia da quell'esperienza si ricavò la validità dei seguenti princìpi:

1. l'esercito permanente (come ambito di professionisti separato dalla popolazione) va sostituito col proletariato armato;

2. i consiglieri municipali vanno eletti a suffragio universale, sono responsabili del proprio mandato (cioè devono renderne conto ai loro elettori, i quali controllano personalmente l'esecuzione delle leggi: di qui il superamento del regime di divisione dei poteri legislativo ed esecutivo) e sono revocabili in qualunque momento; anche tutti i funzionari amministrativi, i magistrati, la polizia, gli insegnanti ecc. devono sottostare a medesime regole elettive (quindi fine del carrierismo, dei privilegi, delle gerarchie);

3. lo stipendio di un funzionario amministrativo o di un parlamentare deve basarsi, come criterio, sui salari operai;

4. le mansioni del servizio pubblico devono essere operazioni di controllo e di registrazione talmente semplici da essere alla portata della maggioranza della popolazione;

5. la religione va considerata come fatto privato di coscienza, quindi entra in vigore il regime di separazione tra Stato e chiesa (Lenin qui ha sempre precisato che la religione non può essere un affare privato anche nei confronti del partito, poiché questo ha il dovere di combattere l'oscurantismo e il clericalismo);

6. l'organizzazione dell'unità nazionale va garantita da funzionari comunali, in quanto al governo centrale devono rimanere poche importanti funzioni. Le varie Comuni avrebbero eletto la delegazione nazionale di Parigi.

Quest'ultimo punto restò praticamente solo sulla carta nella breve esperienza della Comune, ma anche nell'analisi di Marx e di Lenin non viene trattato più di tanto. Eppure non è di secondaria importanza. Lenin ribadisce che la Comune era contraria al fatto che la nazione fosse rappresentata dal potere statale centrale, ch'era di fatto indipendente e persino superiore alla nazione stessa.

Tuttavia Lenin era contrario al federalismo, perché Proudhon e Bakunin usavano questa ideologia come forma di alternativa allo Stato centralista, senza rendersi conto che di fronte al capitale “centralismo” e “federalismo” sono concetti del tutto relativi. Inoltre nella fase iniziale del socialismo sarebbe stata necessaria una forza centralizzata per reprimere i tentativi controrivoluzionari.

Anche Marx ed Engels erano contrari all'idea di ricreare qualcosa di analogo ai Comuni medievali o di istituire una sorta di federazione di piccoli Stati. La repubblica federale era considerata come una forma di transizione dalla monarchia alla repubblica centralizzata. La repubblica doveva essere unitaria, democratica e centralizzata, poiché questa è la forma di governo borghese che più si avvicina a quella socialista. Storicamente anzi è stata la repubblica centralizzata e non quella federale a dare maggiore libertà alle autonomie locali. E comunque nessun sistema democratico, neppure quello federale, darà mai il socialismo, senza una rivoluzione politica che ponga la minoranza degli sfruttatori alla mercé della maggioranza degli sfruttati.

Lenin non riusciva a capire il motivo per cui andasse salvaguardata la libera municipalità locale come contrappeso a uno Stato centralista che non avrebbe avuto più ragione di sussistere, una volta assicurato il successo della rivoluzione. Se gli operai e i contadini si sanno organizzare nelle Comuni, che sono locali (in Russia erano i Soviet2), la proprietà diventa automaticamente di tutta la nazione: si tratta quindi di una “unione volontaria delle Comuni in nazione”. È quindi sufficiente che il centralismo preveda una larga autonomia amministrativa locale, previa la soppressione della burocrazia e dello Stato politico che comanda dall'alto.

Inutile dire che su questo tema le analisi del marxismo-leninismo sono ancora lontane dall'essere esaurienti, anche perché se c'è stata una cosa che la rivoluzione d'Ottobre, dopo la morte di Lenin, non è riuscita a garantire è stata propria la prosecuzione dell'esperienza dei Soviet.

L'estinzione dello Stato

Chiosando Engels, Lenin è convinto che lo Stato vada sì conquistato per servirsi degli strumenti a sua disposizione contro la resistenza dei capitalisti e degli agrari, i quali devono rinunciare definitivamente all'idea di poter campare di rendita sfruttando il lavoro altrui, ma è necessario far questo avendo come obiettivo finale la progressiva “estinzione” dello Stato.

Cioè il problema non è quello di come sostituire lo Stato borghese con quello proletario, ma quello di porre le condizioni affinché venga meno la necessità di avere un'organizzazione statale. Infatti se la società coincide con lo Stato, questo diventa superfluo: la società si autogoverna. Una volta statalizzata la proprietà dei mezzi produttivi, lo Stato subisce un processo di inevitabile esautoramento di funzioni.

L'estinzione è progressiva e non immediata (come vorrebbero gli anarchici), in quanto la società deve imparare ad autogestirsi, cioè a rinunciare progressivamente alle indicazioni che possono venirle dall'alto, anche perché, prima di abolire lo Stato politico, bisogna abolire le condizioni sociali e culturali che l'hanno generato: l'effetto scomparirà quando scompariranno le cause.

Con la scomparsa progressiva dello Stato, scompare la democrazia formale che lo rappresenta, quella tipicamente parlamentare. Qualunque Stato infatti non può mai essere libero o popolare: sarebbe una contraddizione in termini.3 L'organizzazione dello Stato va sostituita con quella dei Soviet (che sono organizzazioni di lavoratori). Le funzioni politiche dello Stato dovranno trasformarsi, all'inizio, in semplici funzioni amministrative, per poi scomparire anche queste, in quanto l'autogoverno dei Soviet dovrà includere ogni funzione.

Lenin chiarisce bene, contro i riformisti e gli opportunisti, che se si parlasse solo di “estinzione dello Stato”, la rivoluzione (che va compiuta con la forza, in quanto nessuno rinuncia spontaneamente ai propri privilegi, benché non sia esclusa a priori la via pacifica), non si farebbe mai.

Inutile qui ricordare che proprio su questo tema s'è giocato il destino dell'ex “socialismo reale” nell'Europa dell'est. L'identità di Stato e Società non è affatto così sicura o inevitabile dopo la socializzazione dei mezzi produttivi. Esiste sempre il rischio che una classe politica si sostituisca ai capitalisti e che usi lo Stato in luogo delle aziende private.

Sotto lo stalinismo lo Stato sovietico si trasformò in un immenso apparato burocratico-poliziesco, una sorta di unico capitalista nazionale, il cui plusvalore andava direttamente nelle casse del partito comunista, che usava lo Stato come un proprio strumento di controllo e di potere. In cambio di questo sfruttamento di massa, in cui la coercizione extra-economica, cioè il ruolo dell'ideologia e il primato assoluto della politica su tutto erano fondamentali, lo Stato garantiva il minimo vitale quanto a servizi sociali, sanitari, scolastici ecc.

S'è continuato a dire, nell'ambito dello stalinismo, che lo Stato era necessario e anzi andava rafforzato anche dopo la fine della controrivoluzione interna e dell'interventismo straniero; sotto il pretesto che il “socialismo reale” veniva costantemente minacciato da un accerchiamento dei paesi capitalisti, si sono ristrette, anche nel periodo della stagnazione, le fondamentali libertà umane e civili, dando il via a un'escalation militare nucleare priva di sbocchi.

A questo punto ci si può chiedere: esistevano già in Lenin alcune premesse fondamentali che avrebbero potuto portare a un'involuzione staliniana, oppure questa s'è sviluppata in maniera autonoma, tradendo il leninismo? La domanda è importante, perché noi dobbiamo chiederci se le idee di Lenin possono essere continuate in maniera creativa, adeguando il suo pensiero alle mutate condizioni storiche, oppure se le basi teoriche del futuro socialismo democratico debbono essere poste in maniera indipendente dal suo pensiero.

Ebbene, anzitutto qui va detto che gran parte delle tesi di Lenin erano già state elaborate da Marx ed Engels, e che Lenin non fece altro che precisare la corretta interpretazione da darne, per cui, nell'eventualità che si volesse fare a meno di lui, bisognerebbe rinunciare anche all'apporto teorico degli altri due.

In secondo luogo sarebbe assurdo sostenere che un'alternativa alle tesi originali di Lenin debba essere ricercata nei teorici della II Internazionale, poiché in Europa occidentale il socialismo non s'è mai realizzato, non vi è mai stata alcuna rivoluzione che abbia portato alla socializzazione dei mezzi produttivi, della terra ecc. La II Internazionale è fallita nell'imminenza della prima guerra mondiale, non avendo saputo far nulla per impedirla, né, una volta scoppiata, per trasformarla in guerra civile, come chiesero i bolscevichi alla Conferenza socialista di Zimmerwald nel 1915.

Dunque non resta che vedere in quali punti le tesi di Lenin potevano avere uno svolgimento stalinista o se questo svolgimento è avvenuto in maniera del tutto autonoma, poiché è indubbio che Lenin temeva che l'arretratezza socioculturale, tecnico-scientifica del suo paese avrebbe potuto pregiudicare gli esiti di una rivoluzione, la quale, per fronteggiare la concorrenza, la propaganda, il boicottaggio e persino l'intervento armato straniero, avrebbe avuto bisogno di ben altre risorse.

La democrazia

Quali sono i criteri per impedire che una dittatura del proletariato non si trasformi in una dittatura sul proletariato, da parte degli organismi politici che il partito s'è dato per compiere la rivoluzione?

Visto che che lo Stato borghese si è storicamente staccato dalla società civile, opprimendone la parte più debole, pur essendo stato generato da questa stessa società, per quale motivo non dovrebbe essere altrettanto possibile che il partito comunista si stacchi dalla classe operaia che l'ha generato e finisca per dominarla? Quali sono le condizioni perché ciò non avvenga?

L'unica condizione possibile, a rivoluzione attuata, è – a nostro parere – una delimitazione territoriale della democrazia e del socialismo, una sorta di circoscrizione fisica o geografica non eccessivamente ampia, tale da impedire che l'esercizio del potere sfugga a un controllo periodico da parte dei cittadini, i quali devono poter esercitare una democrazia anzitutto diretta e limitativamente delegata (in quest'ultimo caso i delegati devono rendere conto del loro operato e devono poter essere rimossi, in casi previsti dalle leggi, dagli stessi cittadini che li hanno eletti). Se, posta questa condizione, il partito finisce col prevalere sulla classe, allora la responsabilità ricade sulla classe (o meglio, sulla popolazione locale, visto che le classi dovrebbero essere superate).

Se si prescinde da questa condizione, chi potrà mai stabilire il momento in cui è necessario passare dalla dittatura del proletariato al socialismo senza classi?

La conseguenza di questa condizione è che tutte le forme di centralizzazione che fanno capo a organismi concentrati in un unico luogo (p.es. la capitale di una nazione) vanno progressivamente eliminate. Non si può rischiare di abolire lo Stato borghese riproponendolo in forma socialista.

“Stato” vuol dire centralizzazione dei poteri nella capitale della nazione, che coincide, nel capitalismo, con la sede del parlamento, dei ministeri, degli organi di governo e di tutti i partiti politici dell'arco parlamentare: questo non può accadere anche sotto il socialismo.

“Stato” vuol dire “uso strumentale del territorio”, in cui gli organi locali altro non sono che una mera propaggine delle funzioni centrali, in cui ogni realtà locale, anche quella storicamente precedente all'istituzione dello Stato, viene trasformata in un tentacolo funzionale agli interessi dello Stato-piovra. P.es. in Italia i Comuni sono controllati dalle Province e queste dalle Regioni e queste dallo Stato. Si ripete a livello di Enti Locali Territoriali lo stesso meccanismo gerarchico esistente a livello nazionale, in cui lo Stato, peraltro, si serve anche di propri organi periferici, come p.es. le prefetture, le preture ecc. per controllare le realtà locali. Ogni autorità locale, nominata dallo Stato, va dunque sostituita con altre elette dai cittadini in loco, soltanto i quali sono titolati a sostituirla.

Si badi, non è sbagliato il concetto di “centralizzazione”, è sbagliato non limitarsi a una semplice centralizzazione locale-territoriale, in cui i controllori siano costantemente o periodicamente controllati dagli stessi cittadini che eseguono le loro disposizioni, per la cui decisione o formulazione essi hanno attivamente partecipato.

Una democrazia centralizzata a livello nazionale è un non-senso, poiché il limite della democrazia è proprio la possibilità concreta di controllare i controllori e quindi la possibilità di revocarli in tempo reale, in casi di corruzione, inadempienza, incapacità...

L'elezione di un parlamentare infatti è facile ma, in presenza di uno Stato centralista, la sua rimozione è quasi impossibile, non solo perché essa può avvenire solo in occasione di nuove elezioni, ma anche perché la scelta della rosa dei candidati al seggio parlamentare viene fatta esclusivamente dal partito di appartenenza, il quale, se si escludono i momenti della campagna elettorale, si pone in maniera separata dal resto della società. Tant'è che il parlamentare assai raramente rende conto del proprio operato ai cittadini che l'hanno eletto; può essere persino eletto in una circoscrizione scelta dal partito, dove il candidato si presenta per fare una breve campagna elettorale e dove, una volta eletto, non viene mai a rendicontare il proprio operato.

I partiti, gli unici autorizzati a essere presenti in parlamento, non sono un'espressione della volontà dei cittadini, ma solo di loro stessi. Storicamente possono essere nati come frutto di una volontà cittadina, ma nel corso del loro sviluppo questa volontà è stata tanto più negata quanto meno i partiti riuscivano ad essere coerenti coi loro ideali.

Quindi è impensabile che possa esistere un parlamento nazionale che faccia leggi per tutta la nazione. È impensabile che possano esistere dei parlamentari nazionali, il cui mandato non possa essere tenuto sotto controllo: i motivi logistici o geografici non vanno considerati di secondaria importanza.

Un parlamento ha senso solo a livello locale (dai quartieri e rioni fino al consiglio comunale che gestisce la città) e man mano che si sale di livello: provinciale, interprovinciale, regionale, interregionale e nazionale, deve diminuire il potere decisionale e aumentare quello consultivo, oppure quello decisionale deve riguardare soltanto i diretti interessati che fanno proposte e s'impegnano ad applicarle.

La partecipazione diretta alle risoluzioni che devono essere applicate dalle comunità locali, serve perché queste stesse risoluzioni devono poter essere facilmente modificate nel caso in cui mutino le condizioni che le avevano generate. È questo è possibile farlo con tempestività solo a livello locale e solo se questo livello è autonomo.

Il livello nazionale infatti serve soprattutto per raccordare situazioni che richiedono impegni comuni, che oltrepassano le competenze locali-territoriali (si pensi p.es. all'uso di risorse come mari, laghi, fiumi, sottosuolo, strade ecc.), o per sanare situazioni distorte, incapaci di risolvere da sole i propri problemi.

Il livello nazionale è quello spontaneo in cui ci si confronta liberamente sui risultati ottenuti, in cui si registrano i successi e i limiti delle esperienze altrui, in cui si analizzano i bisogni comuni che attendono soddisfazione. Questo livello non può mai imporre direttive ai livelli locali o regionali. Le direttive devono darsele gli stessi cittadini preposti ad applicarle, in un dibattito interno, libero da interferenze esterne.

Questo in tempo di pace. In tempo di guerra il livello nazionale può servire per prendere decisioni comuni contro il nemico esterno. Questo aspetto, che è decisivo, è p.es. mancato alle tribù indiane di tutto il continente americano, nel momento in cui sono state sopraffatte dagli europei.

Il socialismo

La prima fase, quella del socialismo, o fase inferiore del comunismo, che Lenin chiama anche “democrazia primitiva”, prevede uno sviluppo progressivo a tappe, anche sulla base di quanto Marx scrisse nella sua Critica del programma di Gotha:

1. dal prodotto sociale complessivo di tutta la società bisogna detrarre, prima di definire il salario dell'operaio, un fondo di riserva, un fondo per l'allargamento della produzione, un fondo per reintegrare il macchinario consumato ecc., e anche un fondo sociale per le spese di amministrazione, per le scuole, gli ospedali, gli ospizi per i vecchi ecc. In sostanza un fondo per la riproduzione dell'economia e per i servizi sociali, cui oggi vanno aggiunti anche tutti gli aspetti della tutela ambientale (a quei tempi praticamente sconosciuti).

2. Ogni cittadino esegue una certa parte del lavoro socialmente necessario e in cambio ottiene una specie di scontrino con cui può ritirare dai magazzini pubblici degli oggetti di consumo una corrispondente quantità di prodotti, secondo il principio “a uguale quantità di lavoro, uguale quantità di prodotti”. In questa prima fase occorre il più rigoroso controllo della misura del lavoro e del consumo: quindi niente sprechi, inefficienze, lassismi...

3. Nella prima fase del socialismo vale ancora il diritto borghese: la ripartizione dei beni secondo il lavoro, con la differenza che si tratta di una ripartizione “effettiva”, in quanto è finito lo sfruttamento del lavoro altrui.

In realtà la ripartizione andrebbe fatta secondo il “bisogno”, non secondo il “lavoro”, ma questo presuppone un fase superiore del socialismo, in cui si lavori senza la presenza del diritto. Ci vuol tempo perché i cittadini si abituino a non rivendicare un diritto personale, ma a lavorare semplicemente per soddisfare bisogni collettivi.

Il lavoro andrebbe concepito come “primo bisogno vitale”, cioè come una forma di realizzazione di sé e non come una forzatura imposta dalle circostanze, e ognuno dovrebbe poter lavorare secondo le proprie capacità. In realtà dopo la rivoluzione Lenin fu costretto a istituire, nell'ambito lavorativo, il cosiddetto “sistema dei premi”.

4. Deve essere superata la divisione tra lavoro fisico (o manuale) e lavoro intellettuale, e garantita a tutti un'elevata istruzione generale. La realizzazione dei Soviet in sostituzione dello Stato non era – a giudizio di Lenin – cosa semplice, poiché la popolazione russa aveva un livello di conoscenze scientifiche molto basso. Subito dopo la rivoluzione egli infatti si rese conto che nei confronti degli specialisti non era possibile istituire una piena uguaglianza dei salari.

Fin qui Stato e rivoluzione, che, si badi, non è l'unico testo in cui Lenin parla dello Stato.

Superare qualunque forma di divisione

1. Oltre al superamento della divisione tra lavoro intellettuale e manuale, andrebbe posto anche il superamento della divisione tra città e campagna, tra agricoltura e industria, tra artigianato e allevamento, cose che però non appaiono in Stato e rivoluzione, dove l'interesse si concentra sull'industria e la città.

Finché permangono le suddette divisioni è impossibile abolire il denaro, come forma di pagamento e di scambio delle merci. Non possiamo abolire il denaro se prima non vengono superate le differenze di gestione nei rami produttivi. La gestione del territorio va affidata alla comunità locale, all'interno della quale i singoli componenti non possono specializzarsi in alcuna attività, dovendo saper fare di tutto, al fine di poter sostituire chiunque in tempo reale.

La specializzazione in qualche attività può essere conseguita solo nel tempo libero, cioè nel tempo non necessario alla riproduzione della comunità. L'industria, in tal senso, è una forma di specializzazione dell'artigianato, finalizzata a realizzare profitti individuali, di molto superiori alle esigenze vitali e riproduttive del singolo imprenditore e del singolo acquirente. Nell'antichità era lo stesso contadino che svolgeva funzioni artigianali. E quando l'artigiano s'è specializzato, trasferendosi nelle città, la comunità rurale ha subìto un contraccolpo negativo. Una prevalenza della città sulla campagna comporta sempre la sostituzione del baratto con la moneta. E l'uso della moneta porta, prima o poi, alla trasformazione di questa in una fonte d'arricchimento personale.

2. Andrebbe inoltre chiarita bene la differenza tra “proprietà statale” e “proprietà sociale” dei fondamentali mezzi produttivi, poiché nel testo, in sostanza, si equivalgono, benché Lenin sappia bene che lo Stato deve estinguersi, per cui l'equivalenza sembra che valga solo nella fase iniziale della costruzione del socialismo (cosa che poi venne negata – come noto – dallo stalinismo, che statalizzò praticamente tutto).

Dopo aver superato le resistenze degli sfruttatori, la proprietà statale deve tendere progressivamente verso quella sociale, fino a scomparire del tutto. La proprietà sociale non può essere mediata dallo Stato, se non appunto in una primissima fase di realizzazione del socialismo, in una prospettiva di redistribuzione sociale dei mezzi produttivi.

Nell'ambito locale-territoriale va piuttosto affermata l'esigenza della cooperazione tra singoli produttori o tra comunità di produttori, in cui si decide autonomamente come utilizzare una comune strumentazione o comuni risorse. “Socializzare” la proprietà significa che la sua gestione non può essere decisa a livello nazionale, in maniera centralistica, nell'ambito degli organi dirigenziali della capitale (siano essi dello Stato, del governo o del partito). Il livello nazionale altro non è che l'istanza in cui si confrontano periodicamente le realtà locali, per decidere di riequilibrare situazioni che soffrono di disparità dovute a ragioni storico-culturali o economico-ambientali.

3. Gli antichi Romani, non avendo il senso del collettivo, assegnavano determinati lotti di terra ai cosiddetti veterani di guerra. Avevano cioè saputo stabilire il rapporto di sopravvivenza tra il numero dei componenti della famiglia del veterano e la relativa area coltivabile. La centuriazione fu la conseguenza di questa parcellizzazione geometrica della terra. Si può tentare questa strada, una volta nazionalizzata la terra, ma può non essere sufficiente per una vera riforma agraria.

Forse è meglio (ma su questo dovrebbero decidere gli stessi interessati) che i singoli appezzamenti vengano gestiti da un collettivo, almeno in determinate mansioni. Il collettivo infatti fa risparmiare sul costo delle attrezzature, sul tempo per le irrigazioni, le potature, la manutenzione dei fossati, la raccolta dei frutti ecc. Il collettivo permette di superare i limiti produttivi che può avere una singola famiglia, anche rispetto a un'altra famiglia, allargata quanto si voglia, oppure qiei limiti che può avere un pezzo di terra rispetto a un altro (si pensi solo alle diverse composizioni chimico-organiche che determinano la scelta di questa o quella coltura). Non si deve optare per il collettivo solo nei casi di povertà economica, ma anche nei casi di relativa agiatezza.

4. La regola fondamentale di un socialismo democratico, a rivoluzione avvenuta, non può essere soltanto quella secondo cui “a uguale lavoro, uguale prodotto del lavoro”, per cui “chi non lavora non mangia”, né può bastare quella secondo cui “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno”, ma a queste regole occorre aggiungerne un'altra, non meno importante: “si consuma ciò che si produce e si scambia solo il superfluo”. Tale principio ha una funzione pedagogica, poiché aiuta a capire meglio la fatica che occorre per produrre ciò che ci dà da vivere.

Per evitare che questo principio si trasformi in una condanna a morte nei confronti di chi non ha sufficienti risorse umane o materiali, occorre affermare il principio della responsabilità collettiva o della cooperazione. Se uno non può produrre una determinata cosa perché non ne ha le capacità o le risorse naturali, può comunque fruirne all'interno di un collettivo, ma proprio perché all'interno di questa struttura egli può rendersi conto di persona del tempo che occorre per produrla, del dispendio di energia fisica e intellettuale, del quantitativo di materiali necessari alla sua realizzazione ecc.

In ogni caso un collettivo dovrebbe poter mettere chiunque, su richiesta, in grado di accedere alle conoscenze, alle risorse, ai materiali occorrenti per produrre una determinata cosa. In un collettivo non solo esiste la proprietà comune dei mezzi produttivi, ma anche la proprietà comune delle conoscenze, delle abilità, che si tramandano ovviamente in maniera orale o scritta, osservando l'esperienza. Si noti che proprio la necessità di una osservazione diretta o personale delle cose rende la trasmissione orale di gran lunga superiore a quella scritta.

5. L'alternativa al capitalismo non è semplicemente un socialismo senza capitalisti né latifondisti. Un socialismo ove permanga il primato della città sulla campagna, del valore di scambio su quello d'uso, del mercato sull'autoconsumo, dell'industria sull'agricoltura ecc., è un socialismo che, quanto alla propria interna democraticità, non offre alcuna garanzia di sviluppo.

Noi non ci rendiamo sufficientemente conto che qualunque progresso realizzato in direzione del risparmio di tempo, di energia, di forza fisica o intellettuale, al fine di ottenere maggiori comodità o certezze sul futuro o maggiori assicurazioni sul benessere materiale, è in realtà un regresso verso la conservazione dei valori umani fondamentali.

Le difficoltà della vita vengono accettate meglio se persistono i valori umani e questi valori resistono meglio se permangono le difficoltà della vita. Non è che si debba vivere necessariamente nelle ristrettezze; semplicemente si deve vivere in maniera conforme alle esigenze della natura, e tutto quanto va oltre è artificioso e quindi nocivo all'identità umana.

La natura e non la storia è l'unica maestra di vita che abbiamo. Le sue incertezze, i suoi imprevisti, la sua indocilità vanno considerati come aspetti “normali” del vivere quotidiano. In fondo è ampiamente dimostrato che i problemi sociali delle civiltà antagonistiche sono infinitamente superiori a quelli che s'incontrano in un ambiente naturale.

Tutte le rivoluzioni sociali hanno sempre cercato di dare una risposta agli antagonismi di tipo antropico, senza mai rivolgersi a soluzioni di tipo naturale, quelle che si trovano in un rapporto diretto con le risorse della natura. (Rapporto “diretto”, cioè non mediato dal macchinismo, da quella sorta di strumentazione tecnica il cui riciclo naturale supera di molto l'esistenza delle generazioni che la usano).

Prospettive

La spinta propulsiva alla rivoluzione socialista in occidente s'è esaurita con la fine degli anni Settanta. La rassegnazione a vivere sotto il capitalismo ha trovato ulteriore conferma col crollo del “socialismo reale”, che è come imploso, riscoprendo improvvisamente il valore della libertà, della democrazia, della responsabilità personale e mettendo in discussione l'equazione di “proprietà statale” e “proprietà sociale”, l'identità di “Stato” e “società civile” (o “nazione”), il primato indiscusso della politica sull'etica, dell'ideologia sulla scienza e via dicendo.

Con la fine del socialismo amministrato, burocratico e autoritario non si è però arrivati a una vera alternativa al capitalismo, che infatti sembra dominare incontrastato in quasi tutto il mondo, facendosi largo anche negli ex paesi del “socialismo reale”.

Oggi il capitalismo tiene ancora in stato di soggezione l'intero Terzo Mondo, che rappresenta l'80% dell'umanità. Al momento solo la Cina è in grado di contrastare lo strapotere economico dell'occidente, ma solo perché, pur dichiarandosi “comunista” sul piano politico, usa gli stessi strumenti del capitalismo sul piano sociale, con uno sfruttamento tale della propria manodopera che in occidente si poteva riscontrare dagli albori del capitalismo sino alla fine dell'Ottocento, e che ora si ritrova più che altro nelle aree degradate del Terzo Mondo.

In questo momento l'occidente è compatto contro non solo il proprio proletariato, ma anche contro il proletariato di tutto il mondo, e la sinistra progressista occidentale non è in grado di ostacolare efficacemente la forza delle multinazionali, anche perché non riesce a muoversi su scala internazionale, che è appunto quella del capitalismo contemporaneo.

Il baricentro della resistenza proletaria si va spostando verso il Terzo Mondo, dove più forti sono le contraddizioni e dove ogni forma di crisi, di dissesto finanziario e di reazione popolare a questi disastri può avere ripercussioni fortemente negative anche sull'occidente, che investe capitali finanziari in quei paesi per sfruttarne le risorse umane e materiali.

Tuttavia è assai improbabile che risulti efficace una qualunque rivendicazione proletaria che non tenga conto della lezione dei tre classici del marxismo: Marx, Engels e Lenin. Cioè non è possibile immaginare una qualunque alternativa al capitalismo che non si ponga sulla linea di quei protagonisti e non ne prosegua la direzione adeguando i principi teorici alle mutate vicende storiche.

È assurdo sostenere che la rivoluzione bolscevica non andava fatta perché i tempi non erano ancora sufficientemente “maturi”, o perché non si era ancora sviluppato adeguatamente il capitalismo. Il fatto che il cosiddetto “socialismo reale” sia fallito non dimostra che avesse torto Lenin, ma che il socialismo va continuamente reinventato. Lo stalinismo ne fece invece un dogma.

Certamente Lenin sperava che l'esempio russo venisse prontamente imitato dal proletariato dell'Europa occidentale. Ma non si può sostenere che siccome questa “emulazione” non si verificò, l'esperienza bolscevica andava smantellata, in quanto sarebbe stato impossibile reggere il confronto con le più potenti nazioni capitalistiche del mondo. Né si può sostenere che Lenin avesse subordinato il successo della propria rivoluzione all'atteggiamento che avrebbero potuto o dovuto avere i leader dei partiti socialisti europei.

Lenin capì una cosa che sfuggì non solo a tutti i leader della II Internazionale ma anche a molti compagni di partito, rimasti fermi agli schemi politici elaborati nella prima rivoluzione russa: la borghesia russa poteva essere facilmente rovesciata proprio perché debolissima, collusa con lo zarismo e per nulla rivoluzionaria. Se non si fosse approfittato di quel momento, il capitalismo sarebbe durato dei secoli.

La questione operaia

Il proletariato come soggetto rivoluzionario venne scelto sin dall'inizio dal marxismo per tre ragioni:

1. sociale: l'operaio era assolutamente nullatenente, quindi più disposto di altri lavoratori ad agire in maniera risoluta, nella convinzione di non aver nulla da perdere;

2. culturale: a causa di questa condizione priva di speranza, esso era molto meno disposto a credere nelle illusioni della religione;

3. logistica: la classe operaia, essendo concentrata nelle aziende, si organizza più facilmente delle altre classi disperse sul territorio o che lavorano in maniera individuale.

D'altra parte le rivoluzioni contadine o non avevano mai portato a una vera riforma agraria che spezzasse il latifondo e ponesse fine una volta per tutte al servaggio e al clericalismo, oppure erano state tradite da quella classe, la borghesia, alla cui rivoluzione antifeudale i contadini avevano partecipato.

La scelta del proletariato da parte del marxismo fu una scelta conseguente ai tanti fallimenti del mondo rurale. Lenin eredita questa scelta, ma, avendo a che fare con un paese i cui lavoratori, nella stragrande maggioranza, erano contadini, chiese a quest'ultimi di collaborare alla rivoluzione, alla gestione dei Soviet, alla difesa della patria, concedendo loro, col Decreto sulla terra, quanto nessuna rivoluzione borghese era mai riuscita a fare. E l'enorme massa rurale della Russia, nella fase iniziale della rivoluzione, s'impegnò attivamente nella guerra civile, per eliminare i grandi proprietari fondiari, e nella guerra contro le potenze occidentali che cercarono di occupare il nuovo Stato socialista.

Nel periodo del comunismo di guerra (controrivoluzione interna e interventismo straniero) i contadini accettarono, in nome della difesa della patria e della rivoluzione, di sottostare agli espropri forzosi dei raccolti per sfamare i soldati e gli operai, ma, cessato il pericolo, cominciarono a rivendicare maggiore autonomia. Ciò che soprattutto non sopportavano era l'obbligo di cedere allo Stato, a prezzi politici, la maggior parte dei loro raccolti.

Nel 1921 Lenin elaborò delle tesi che prevedevano la transizione dalla politica del “comunismo di guerra” alla Nuova Politica Economica (Nep). I punti fondamentali erano i seguenti:

1. soddisfare le esigenze dei contadini, sostituendo le requisizioni (il prelievo delle eccedenze) con un'imposta in natura (cioè in grano), che poi diventerà in denaro, pagato il quale, il contadino poteva liberamente vendere i suoi prodotti sul mercato locale;

2. approvare il principio secondo cui il tasso d'imposta doveva essere fissato secondo l'impegno dell'agricoltore, ovvero doveva diminuire se l'impegno aumentava;

3. estendere la libertà per l'agricoltore di utilizzare le eccedenze rimanenti nel circuito economico locale, a condizione che l'imposta fosse versata rapidamente e completamente.

Lenin morì nel 1924 e la Nep nella seconda metà degli anni Venti era già entrata in crisi, poiché i 100 milioni di contadini davano molto di più di quanto ricevevano e soprattutto non riuscivano ad ottenere dall'industria alcun vantaggio tecnologico, essendo questa ancora molto arretrata: i contadini, a differenza degli operai che, pur essendo, attraverso lo Stato, proprietari delle loro fabbriche, dovevano accontentarsi del minimo, sapevano bene che un'estensione delle libertà della Nep avrebbe permesso loro di vivere un maggior benessere, se solo il governo in carica li avesse ascoltati.

La decisione che invece prese lo stalinismo (ma il trotskysmo non avrebbe saputo fare di meglio) fu quella di puntare tutto sull'industria, per non veder compromessi gli esiti della rivoluzione e per sostenere l'idea che il socialismo avrebbe potuto svilupparsi anche senza l'appoggio delle forze occidentali, praticamente “in un solo paese”. Conseguenza di ciò fu la “collettivizzazione forzata”, cioè l'obbligo per i contadini di sacrificarsi per far decollare definitivamente la rivoluzione industriale. Il prezzo di questa decisione fu per le loro sorti assolutamente tragico, non solo per i milioni di morti e di deportati, ma anche perché essi diventarono in sostanza dei salariati agricoli alle dipendenze dello Stato. Ancora una volta i contadini si sentirono traditi, ma questa volta dalla classe rivoluzionaria per eccellenza: il proletariato industriale.

Questa, grosso modo, la storia dei rapporti tra operai e contadini nella Russia bolscevica, entrambi traditi, se vogliamo, dal partito che li aveva portati a governare.

Stando le cose in questi termini ha ancora senso parlare del proletariato industriale come di una classe rivoluzionaria? In Che fare? Lenin aveva detto che gli operai in sé non sono rivoluzionari, ma tradunionisti, in quanto si limitano alle rivendicazioni salariali, e la coscienza rivoluzionaria può maturare in loro solo se “dall'esterno” interviene chi sa guardare le cose nella loro complessità e globalità, quindi un intellettuale, ovviamente organico a un partito. Tant'è che tutta l'esperienza del marxismo occidentale (a partire da Marx ed Engels sino al crollo della II Internazionale) fu il fallimento dell'idea che una rivoluzione potesse compiersi spontaneamente da parte del proletariato industriale, senza l'aiuto di un vero partito d'avanguardia, capace di tattica, strategia, agitazione, propaganda e soprattutto capace di analisi critica sulla necessità della transizione al socialismo. Si era talmente convinti del valore di questo spontaneismo che non si ritenne neppure indispensabile un'alleanza col mondo rurale.

Tuttavia lo stesso Lenin ha sempre ribadito che il proletariato industriale andava considerato come la guida della rivoluzione, in cui i contadini altro non erano che degli alleati.

Lo stesso Lenin aveva inoltre già notato che nei paesi più avanzati d'Europa una parte della classe operaia, quella delle industrie strategiche per il capitale, beneficiando di trattamenti di favore, rispetto ad altri settori operai, si stava lentamente imborghesendo, favorita in questo dall'azione dei sindacati e dei partiti riformisti. Gli imprenditori, grazie soprattutto allo sfruttamento coloniale, si stavano creando nei loro paesi una sorta di “aristocrazia operaia”.

Che senso aveva, in questi termini, parlare ancora di transizione inevitabile dal capitalismo al socialismo? Che senso aveva sostenere che un'evoluzione pacifica verso il socialismo avrebbe potuto essere concepita solo nei paesi che godevano già di ampie libertà? Il marxismo occidentale stava sottovalutando l'apporto decisivo delle risorse coloniali ai fini della scelta “riformista” di tutte le forze progressiste del mondo occidentale.

Queste risorse, umane e materiali, erano ormai diventate parte integrante del livello di benessere dei paesi occidentali, per cui ad esse non si sarebbe mai rinunciato, a costo di passare dalla democrazia alla dittatura e dalla dittatura alla guerra mondiale.

Ecco perché non è più possibile parlare di un “ruolo guida” del proletariato industriale, ai fini della rivoluzione socialista, rispetto ad altre tipologie di lavoratori, che vanno individuate anche nei paesi soggetti a sfruttamento coloniale e neocoloniale. Anche il leninismo, in tal senso, va emendato.

Tutti i lavoratori, siano essi coltivatori della terra, artigiani, allevatori, pescatori, montanari, operai, intellettuali, impiegati, piccolo-borghesi, di ogni parte del mondo, devono sentirsi alla pari. Non si può ipostatizzare in modo aprioristico la prevalenza di una categoria specifica di lavoratori. Anzi, in questo momento la situazione più grave è vissuta proprio dal proletariato e sottoproletariato del Terzo Mondo, allo sfruttamento del quale resta legato persino il benessere di tutti i lavoratori dei paesi capitalisti mondiali.

Occorre semplicemente che il partito indichi con precisione gli obiettivi che vuole conseguire, rinunciando all'idea di dichiararsi a favore di una categoria di lavoratori piuttosto che di un'altra: i lavoratori si selezioneranno da soli di fronte alla capacità che il partito avrà di mantener fede ai propri impegni, cioè si selezioneranno da soli nel momento in cui dovranno dimostrare le qualità necessarie a compiere una rivoluzione.

In fondo un partito comunista, quando parla di socializzazione dei mezzi produttivi, a nient'altro si riferisce che a quelli che assicurano la sopravvivenza della popolazione, cioè a quei mezzi che, a causa della loro progressiva concentrazione e monopolizzazione, la minacciano gravemente. Questa idea può essere facilmente compresa anche da chi non lavora in un'azienda capitalistica. Va socializzata quella proprietà che permette di realizzare ingenti profitti solo a pochi dirigenti e manager, lasciando a livello di sussistenza proprio i lavoratori che producono ricchezza.

L'importante è che i lavoratori siano consapevoli dell'impossibilità di poter creare “isole di socialismo” all'interno di una società capitalistica, rinunciando cioè a compiere la premessa politica fondamentale per una qualunque esperienza di socialismo: la rivoluzione armata contro la ristretta minoranza che sfrutta la grande maggioranza. Su questo il socialismo “scientifico” o “rivoluzionario” avrà sempre mille ragioni su quello “utopistico” o “riformistico”.

Oggi inoltre è impensabile che una qualunque rivoluzione socialista non metta all'ordine del giorno la regolazione dei rapporti di dipendenza che l'occidente ha creato nei confronti del Terzo Mondo. Le economie di molti paesi neocoloniali sono strettamente vincolate alle esigenze dei paesi capitalisti. Questo senza considerare che il capitalismo come fenomeno mondiale (il cosiddetto “globalismo”) oggi ha ben poche scrupoli quando si tratta di risparmiare sui costi di gestione, a delocalizzare le proprie attività economiche nei paesi del Terzo Mondo. Nei confronti di un fenomeno del genere, che si va progressivamente generalizzando, la sinistra s'è trovata del tutto impreparata, incapace com'è di affrontare in maniera internazionale le disfunzioni di questo sistema economico.

La questione ambientale

Democrazia e socialismo devono essere compatibili con l'ambientalismo, poiché le esigenze di giustizia e di libertà degli uomini non sempre coincidono con quelle riproduttive della natura. Questo aspetto è del tutto assente in Stato e rivoluzione, come lo è nei classici del marxismo.

Occorre rivedere profondamente l'idea di poter utilizzare, sic et simpliciter, le conquiste tecno-scientifiche dell'occidente in un contesto di socialismo democratico. La stessa idea di comunismo non necessariamente si deve sposare con quella del macchinismo, dell'automazione e della robotica.

Un'autentica democrazia non può ereditare le conseguenze della rivoluzione industriale e delle scoperte tecnico-scientifiche realizzate in occidente, come se si trattassero di cose neutrali, la cui ricaduta sulle condizioni umane e naturali dipende dall'uso che se ne fa.

L'idea di voler competere col capitalismo sul piano tecnico-scientifico e quindi produttivo, cercando di realizzare un'industrializzazione a tappe inevitabilmente forzate, che fosse analoga e anzi superiore a quella occidentale, non ha prodotto che guasti nell'ambito dell'ex-“socialismo reale”. Non solo perché si è devastata la natura, non meno d'altra parte che in occidente, salvo che qui gli imprenditori possono utilizzare anche i lontani paesi del Terzo Mondo per le loro industrie più nocive e pericolose; ma anche perché un'industria meramente statalizzata non ha fatto che produrre inefficienze a non finire.

Non ci si è voluti rendere conto che la rivoluzione industriale dell'occidente e la stessa rivoluzione tecnico-scientifica sono state il risultato di un percorso culturale molto individualistico, fortemente antagonistico nei confronti delle risorse umane e naturali, che non può essere ereditato così com'è, semplicemente socializzando la produzione e la proprietà dei mezzi produttivi.

L'industrializzazione ha fatto progressivamente scomparire l'artigianato e la piccola azienda contadina, ha persino mandato in rovina o ridotto di molto l'autonomia delle piccole e medie aziende capitalistiche (soprattutto nella fase monopolistica), ha ridotto di tantissimo il lavoro disponibile, facendo arricchire un numero infimo di persone sulle spalle di una grande maggioranza. È stato un errore voler collegare il concetto di “forze produttive” al primato dell'industria.

Il lavoro come “prima esigenza vitale” vuol semplicemente dire che occorre lavorare spontaneamente per una gratificazione personale, valorizzando le proprie abilità, attitudini, interessi, inclinazioni..., nella convinzione di compiere una mansione (e in fondo anche una “missione”) per il bene comune, ma ciò lascia impregiudicati i mezzi e i modi con cui e in cui lo si può fare. Solo il tempo potrà deciderli, anche se sin da adesso noi sappiamo che tali mezzi e modi devono essere compatibili con le esigenze riproduttive della natura, le quali sono non meno vitali della nostra esigenza di lavorare spontaneamente, senza una costrizione imposta dall'esterno, che non sia appunto quella della nostra riproducibilità.

È molto probabile che in questa riscoperta delle priorità della natura, le antiche culture di origine africana, asiatica o americana abbiano da insegnarci qualcosa di più significativo che non la cultura scientista e tecnopratica dei paesi capitalisti avanzati.

L'economia che deve vivere la società deve essere la più naturale possibile, non solo per agevolare i processi riproduttivi della natura, ma anche perché la società deve assicurare a se stessa che l'intervento dell'uomo sulla natura e sullo stesso uomo non si trasformi in qualcosa di artificiale, che pregiudichi appunto la naturalezza dei rapporti umani.

Il progresso di un collettivo non può essere misurato sulla base del livello tecnologico e questo livello non raggiunge il massimo quando i processi lavorativi sono del tutto automatizzati. Una meccanizzazione integrale del lavoro e della vita in generale comporterebbe rischi colossali anche in una società socialista, poiché si formerebbe uno strato di professionisti, nei campi più avanzati della scienza, che, a fronte di ingenti stipendi, potrebbe permettere alle leve del potere politico un controllo pressoché totale sulla popolazione.

Un perfezionamento eccessivo degli strumenti di lavoro porta l'uomo comune a non saperli padroneggiare minimamente. Più la tecnica si perfeziona (per esigenze che in fondo sono estranee alla riproduzione naturale) e più dipendente diventa l'uomo da cose artificiali.

Ridurre al minimo il lavoro fisico, concentrandosi su quello intellettuale e creativo, è un errore madornale, che già oggi si cerca di compensare con molto tempo da dedicare all'attività ginnica.

Ipotizzare una società futura in cui si ha molto tempo libero da dedicare ai propri interessi, affinché i lavori più pesanti, più nocivi o pericolosi vengano fatti da robot del tutto automatizzati, in un contesto di benessere assicurato per tutti, superiore alle normali esigenze, significa immaginarsi uno scenario da film di fantascienza.

Capitalismo e socialismo, sotto questo aspetto, si sono comportati in maniera analoga, anche se in forme diverse: nel capitalismo l'economia domina la politica, nel socialismo si vorrebbe fare il contrario.

Desiderare un progresso che liberi dai limiti imposti dalle risorse naturali, creando addirittura nuovi materiali, inesistenti in natura (si pensi solo alle materie plastiche e alle resine sintetiche, che sono le più comuni) è cosa contraria a ogni forma di progresso che sia veramente “umano” e “naturale”. E il futuro non promette niente di buono, perché con le biotecnologie e l'ingegneria genetica si creeranno problemi tali per la cui soluzione occorreranno tempi astronomici, come già ne occorrono adesso con le conseguenze relative al nucleare.

La questione femminile

In Stato e rivoluzione non appare la questione femminile, anche se Lenin, citando il passo di Marx relativo alla necessità di elaborare un diritto disuguale, che tenga conto delle diversità reali dell'esistenza, delle condizioni di vita ecc., ha in un certo senso posto le basi per l'affronto di una questione del genere.

La famiglia borghese, che ha sostituito quella patriarcale, oggi è al capolinea. Per almeno due ragioni:

1. è troppo debole nel confronto con le contraddizioni della società;

2. non è in grado di garantire la riproduzione fisica della società.

I valori dominanti oggi sono quelli veicolati dai mass-media, non più quelli trasmessi dalla famiglia. Famiglia e scuola hanno interagito sul piano dei valori sino agli anni della contestazione, poi è maturata una generazione (quella degli anni 1968-76) i cui valori erano distanti sia da quelli della famiglia che da quelli della scuola.

Questi valori hanno prodotto leggi come quelle sul divorzio, sull'aborto ecc., hanno garantito maggiore uguaglianza dei sessi, ma non hanno cambiato le regole fondamentali del sistema, il quale, infatti, agli inizi degli anni Ottanta ha ripreso a imporsi, considerando come un dato acquisito l'aumento del tasso di laicizzazione e di emancipazione sessuale conseguente a quelle battaglie.

Il risultato finale è stato che, mentre prima del '68 scuola e famiglia vivevano su valori ereditati dal fascismo e da un certo cattolicesimo conservatore, oggi vivono prevalentemente su valori dettati dal consumismo. Tra gli anni della contestazione e quelli del riflusso c'è stata un'esperienza che ha illuso un'intera generazione, la quale aveva creduto possibile una società più democratica, più socialista.

Oggi la società borghese tende sempre più a rapportarsi a individui singoli, isolati, inoffensivi, incapaci di reagire alle contraddizioni del sistema, disposti a interagire solo con le sollecitazioni del consumismo. E questo isolamento viene sbandierato come una forma più avanzata di libertà individuale, il cui presupposto per esercitarla è, ovviamente, il possesso di un certo livello di benessere.

In tale situazione l'identità e il ruolo della donna risultano essere i più penalizzati. In una società dominata dai rapporti di forza, la donna, per sopravvivere, deve negarsi come tale e cercare di essere il più possibile simile all'uomo.

La maternità è diventata un peso insopportabile; la scelta del partner e la stessa fedeltà coniugale sono ormai strettamente dipendenti dalla realizzazione sociale e professionale. La sicurezza economica è il presupposto per stabilire una qualunque relazione d'amore.

Come può una donna sentirsi libera quando non lo è neppure l'uomo che essa vorrebbe imitare? La libertà di divorziare, di abortire, di controllare artificialmente la procreazione... non sono forse tutte libertà al negativo?

È possibile ipotizzare la creazione di “unità collettive” di famiglie, in cui sia praticabile una gestione condivisa dei beni comuni: dagli strumenti di lavoro alle forme di proprietà, sino all'educazione dei figli...? È possibile recuperare il concetto di “famiglia allargata” senza dover sottostare alle superate forme di gerarchia, di paternalismo, di clericalismo, salvaguardando la monogamia e la libera scelta del partner?


1 Lenin voleva evitare accuratamente i due principali difetti della Comune: non aver preso la Banca centrale; non aver attaccato il governo a Versailles.

2 Le prime forme di organizzazione operaia (comitati di sciopero) si formarono nel 1896-97 nelle fabbriche. Alla vigilia della rivoluzione d'Ottobre vi erano oltre 1400 soviet. Dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica il sistema dei Soviet sopravvisse nella Federazione Russa fino al 1993.

3 Da notare che ai tempi di Brežnev, Černenko, Andropov... si parlava ancora di “Stato di tutto il popolo”. Non a caso Gorbačëv volle sostituire questa definizione con quella di “Stato di diritto”.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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