IL GRANDE LENIN

Per un socialismo democratico

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Leninismo e neoleninismo

Chiavi di lettura da approfondire

Lenin aveva capito che per realizzare il socialismo non occorreva studiare nei dettagli il funzionamento del capitalismo (come fece Marx), ma occorreva organizzare un partito rivoluzionario. Egli studiò l'economia capitalistica solo per dimostrare ai populisti che in Russia il capitalismo stava diventando una realtà inevitabile, che avrebbe spazzato via la comune rurale e che in ogni caso tale evidenza non si sarebbe potuta evitare con una diversa gestione dell'agricoltura, più democratica. E i suoi studi sull'imperialismo volevano appunto dimostrare che tale processo si stava svolgendo sul piano internazionale.

Fatto questo, egli si concentrò unicamente sul compito politico-organizzativo: il problema fondamentale, per lui e per tutti quelli del suo partito, era quello di conquistare il potere, facendo in modo che le due classi principali, operaia e contadina, si sostituissero alle altre due dominanti, borghese e latifondistica, nella guida del paese.

Il difetto maggiore di Lenin è stato quello di aver concesso alla politica un primato ingiustificato rispetto a quello che deve avere l'essere umano.

Lenin superò il primato che Marx concesse all'economia, ma non riuscì a porre l'essere umano al di sopra della politica, anche se di questo problema egli era consapevole (e in maniera drammatica nell'ultimo periodo della sua vita). Se l'avesse fatto in maniera organica, coerente, non avrebbe avuto paura di evidenziare i pregiudizi di Marx nei confronti della classe contadina o le sue ingenuità nei confronti della prassi rivoluzionaria (che considerava come esito inevitabile dello scoppio delle contraddizioni economiche).

L'essere umano non può essere sottomesso ad alcuna legge né ad alcuna scienza. E quando si parla di “essere umano” bisogna intendere l'uomo in generale e non soltanto l'appartenente a una classe particolare. I conflitti di classe che si sperimentano nella vita borghese non possono essere affrontati solo in maniera politica.

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Il più grande torto che si possa fare al leninismo, che fu essenzialmente un'esperienza politico-rivoluzionaria, è quello di servirsi delle sue acquisizioni teorico-politiche per interpretare schematicamente il presente: il che porterebbe a sovrapporre l'ideologia alla realtà.

Come non rendersi conto che il leninismo fu un'applicazione assolutamente creativa e originale del tradizionale marxismo? Il leninismo non era implicito nel marxismo, o comunque, se lo era, occorreva una cultura non occidentale, o meglio, non imborghesita per farlo emergere in maniera così esaltante. E come non rendersi conto che se veramente si desidera una società democratica e socialista bisogna applicare le acquisizioni del leninismo in una maniera non meno creativa?

Al marxismo occidentale è sempre mancata la fondamentale determinazione della prassi rivoluzionaria. Esso oscilla continuamente fra la teoria astratta di Scilla e l'estremismo settario di Cariddi. Tutto l'opportunismo della socialdemocrazia riformista appartiene al primo gruppo. Il resto appartiene sostanzialmente ai terroristi oppure a formazioni numericamente molto esigue.

Ciò che i gruppi, che si rifanno al marx-leninismo, non riescono assolutamente a capire, è che l'originalità di un “neoleninismo” non può scaturire che da un costante rapporto con la realtà concreta: un rapporto “pratico”, di affronto sistematico del bisogno e di denuncia delle ingiustizie sociali. Cercare di applicare alla realtà propri schemi precostituiti è quanto di più assurdo si possa compiere in nome del leninismo.

Fare la fatica di misurarsi con le contraddizioni del presente e proporre nuovi criteri risolutivi: questo è il compito del moderno leninismo. Forse la perestrojka di Gorbačëv avrebbe potuto riuscire nell'impresa, ma l'immaturità delle masse, conseguente a un forzato centralismo, durato 70 anni, non le ha permesso di svilupparsi.

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Era straordinaria la capacità di Lenin di dire che gli errori sono inevitabili e l'importante è non negarli. Esattamente l'opposto di Stalin, e anche Trotsky non è che avesse grandi capacità di rivedere le proprie tesi.

Lenin era un pedagogista nato. La sua Nep fu in fondo l'ammissione che un socialismo statale avrebbe potuto portare la rivoluzione al fallimento, e i contadini non l'avrebbero certo difeso contro un attacco alla Russia da parte dei paesi capitalisti.

Lenin polemizzò per molti anni coi populisti, ma alla fine si convinse che la terra andava data direttamente ai contadini, da distribuirsi attraverso i soviet locali.

Dopo aver polemizzato tantissimo anche coi socialisti italiani, durante e subito dopo la fine della prima guerra mondiale, disse che l'esperienza di una dittatura di destra forse ci avrebbe fatto capire meglio l'idea della “violenza rivoluzionaria”, cioè il fatto che non si può pensare neanche minimamente di cambiare sistema di vita limitandosi a una semplice opposizione parlamentare.

Prima di morire scrisse un testo favorevole allo sviluppo delle cooperative, quelle piccole realtà di produzione e/o di consumo che i marxisti avevano sempre considerato un'espressione della piccola borghesia.

Tutta la sua opera fu una reinterpretazione dialettica del socialismo scientifico, mostrando che una lettura economicistica, cioè fatalistica, non avrebbe mai fatto uscire la Russia né dal feudalesimo né dal capitalismo. Prese da Marx e da Engels tutto quanto avrebbe potuto inserire in una visione rivoluzionaria della politica, la quale, ancora oggi, resta insuperata, e lo sarà almeno fino a quando non si arriverà a realizzare un socialismo autogestito a livello locale, basato sulla democrazia diretta.

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Il fatto che Lenin si dichiarasse contro la borghesia e contro il governo del proprio stesso paese, in piena guerra mondiale, era praticamente un fatto inedito rispetto agli atteggiamenti assunti da tutte le forze socialiste della II Internazionale (1889-1914). Ma sin dagli inizi del Novecento egli aveva fatto capire che il socialismo euroccidentale non era all'altezza del suo compito rivoluzionario: la socialdemocrazia tedesca la vedeva alle prese con una contraddizione insanabile fra la teoria marxista e la prassi borghese. Le sue critiche iniziano col dibattito intorno a Bernstein e si accentuano al Congresso di Stoccarda del 1907, a causa dell'opportunismo sulla questione della pace. Le critiche finiscono con l'investire anche il centrismo kautskyano.

Degli scritti di Kautsky Lenin aveva apprezzato molto la Questione agraria (1897), l'Antibernstein e la Via al potere (1909) e anche il testo Sul cristianesimo, ma aveva iniziato a criticare quello studioso e soprattutto quel leader politico tedesco sin dal 1904, ritenendolo molto vicino alle idee mensceviche. I dissensi erano sulla guerra imperialistica e sull'organizzazione del proletariato, e poi diventeranno sulla rivoluzione d'ottobre e sulla dittatura del proletariato. Kaustky infatti tendeva a minimizzare il pericolo dell'opportunismo in seno alla socialdemocrazia e non voleva più sentir parlare di sciopero generale contro l'eventualità di un conflitto mondiale e tanto meno in presenza di tale conflitto.

Indubbiamente ciò che sorprese Lenin fu il tradimento delle socialdemocrazie di tutti i paesi europei, le quali, al momento della guerra imperialistica, si schierarono dalla parte delle rispettive borghesie nazionali. Egli elaborò dei temi del tutto inediti nell'ambito del socialismo, come quello della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile; quello della corruzione dell'aristocrazia operaia e dei dirigenti sindacali e politici, dovuta al colonialismo praticato dai paesi capitalisti (un'aristocrazia formatasi negli anni 1871-1914, che furono relativamente “pacifici” nello sviluppo capitalistico europeo); quello della stessa dittatura del proletariato, cui Marx ed Engels avevano appena accennato; quello della rottura decisa coi socialisti riformisti, che tutti ritenevano controproducente nella lotta contro la borghesia; quello della fondazione di una nuova Internazionale (decisamente pretesa nelle Tesi dell'aprile 1917); quello di usare il termine “ideologia” non in maniera negativa, come avevano fatto Marx ed Engels, ma in maniera positiva, come forma di coscienza teorica e politica delle masse proletarie.

Al II Congresso della III Internazionale Lenin chiese che i partiti si chiamassero “comunisti” (in luogo di “socialisti” o di “socialdemocratici”), ponendo 21 punti come condizione per aderire alla nuova Internazionale. Tuttavia, appena sorge questo nuovo strumento politico, Lenin deve lottare contro un'altra tendenza, questa volta appartenente proprio ai partiti comunisti: l'estremismo. Questi partiti non si rendevano conto che una cosa è la coerenza teorica, un'altra la flessibilità politica. La critica dell'estremismo divenne inevitabile già alla fine del 1919.

Verso il 1920 aveva già iniziato a escludere categoricamente che ci potesse essere un movimento rivoluzionario mondiale senza l'unità tra il proletariato dei paesi colonialisti e il proletariato dei paesi colonizzati. Al III Congresso dell'Internazionale propose la tattica del “fronte unico”, volto a conquistare la maggioranza della classe operaia e a superare i limiti dell'estremismo settario. È costretto a negare che debba esistere un partito-modello da imitare e che anzi è necessario adeguarsi alle particolarità storiche di ciascun paese. Questo era già ben visibile nel preambolo della risoluzione relativa alla struttura organizzativa dei partiti comunisti, ma il resto del testo fissava criteri troppo rigidi per potersi definire “comunisti”, sicché Lenin lo sconfessò, ritenendolo troppo “russo” e correggendo il tiro al IV Congresso.

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Per la perestrojka gorbacioviana erano soprattutto le ultime opere di Lenin che bisognava rileggere, al fine di capire il senso del socialismo democratico. All'occidente progressista invece dovrebbero interessare di più le opere del giovane Lenin, quello dell'“Iskra”, l'organizzatore di un nuovo partito rivoluzionario, il Lenin di Che fare?. Ciò anche in considerazione del fatto che in occidente non ha alcun senso parlare di autogestione sociale o di autofinanziamento, poiché tutto il mondo produttivo trainante è nelle mani di pochi imprenditori. Sono loro (e i loro manager) che si autogestiscono, finanziando le loro imprese coi soldi dei lavoratori.

La perestrojka non avrebbe mai potuto portare l'occidente al socialismo, in modo pacifico, progressivo, senza una rivoluzione politica. È impossibile che gli imprenditori rinuncino spontaneamente ai loro monopoli. Anzi, la perestrojka, indirettamente, ha favorito la conservazione dello status quo in occidente, in quanto, dal punto di vista economico-commerciale, essa promosse una cooperazione reciprocamente vantaggiosa anche al capitalismo.

Al massimo la perestrojka avrebbe potuto dimostrare che le crisi del capitalismo dipendono dal capitalismo stesso (e non p.es. dalla “guerra fredda”), oppure che il socialismo, volendo, può anche diventare una società democratica. Più di questo la perestrojka non avrebbe potuto fare per l'occidente.

Il fatto ch'essa avesse rinunciato a riaffermare il valore della lotta di classe, dipese dalla convinzione che tale prassi non può essere teorizzata secondo i crismi della ineluttabilità o della indispensabilità. Alla lotta di classe il socialismo si piega per necessità, dopo aver maturato la certezza che tutti gli altri mezzi per sanare le contraddizioni si sono rivelati inefficaci. Anzi la perestrojka fece di tutto perché i conflitti ideologici non impedissero la collaborazione sul terreno socioeconomico (in politica interna, fra le diverse categorie sociali, ed estera, fra i diversi Stati).

Questo modo “umanistico” di fare politica non era in contraddizione con quello leninista, anzi gli era necessario come complemento, poiché una politica leninista che non tenga conto dell'umanesimo e della democrazia di una perestrojka (cioè di una ristrutturazione generale dell'economia e della società) si trasforma facilmente in una politica estremista, settaria, neo-stalinista.

La perestrojka russa ha senza dubbio aiutato il capitalismo a superare temporaneamente certe sue difficoltà economiche, ma la contraddizione tra capitale e lavoro tenderà inevitabilmente a riprodursi, specie se il Terzo mondo si opporrà con efficacia al rapporto neocoloniale. Ecco, in questo senso la perestrojka ha voluto togliere al capitalismo l'occasione di affermare che il socialismo è causa ultima delle crisi del capitalismo stesso.

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Lenin, per poter superare Marx, dovette assimilare il netto disincanto nei confronti del capitalismo. Ancor prima di Che fare? (che segna l'inizio di tale superamento), egli aveva capito che il capitalismo era la formazione sociale più forte, cioè ch'esso si sarebbe inevitabilmente imposto sulla società agricola in via di dissoluzione, contro le teorie dei populisti. E aveva capito che il capitalismo non era assolutamente riformabile in senso democratico, essendo una formazione sociale fortemente divisa in classi (contro l'opinione dei marxisti legali, degli economisti ecc.). Lenin non riconobbe mai alla borghesia alcuna funzione positiva, neppure quella d'aver accelerato la fine del servaggio, poiché in Russia l'introduzione del capitalismo comportò un netto peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori.

Quando Lenin si mise a cercare la strada per superare i limiti di Marx, non la trovò tanto sul campo della teoria economica del capitalismo (sebbene il testo dell'Imperialismo sia un necessario complemento del Capitale), quanto piuttosto su quello del metodo politico per rovesciare il regime capitalistico.

Lenin comprese una cosa d'importanza fondamentale (che Marx aveva trascurato): il primato della politica sull'economia, ovvero l'esigenza di darsi una forte organizzazione partitica, in grado di mobilitare un vasto movimento popolare, col quale abbattere il potere costituito. Fu così che Lenin riuscì a conseguire sul terreno pratico ciò che Marx aveva acquisito solo sul terreno teorico.

Tuttavia, il leninismo venne ben presto tradito dallo stalinismo, come il marxismo era già stato tradito dai revisionisti della II Internazionale. In tal senso la perestrojka andava interpretata come un tentativo di recuperare il leninismo all'interno di una nuova consapevolezza politica (che è anche sociale e culturale): quella del primato dell'uomo sulla politica.

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Perché dunque la perestrojka non è riuscita a realizzarsi restando nell'ambito del socialismo?

  1. Perché, per poterla capire adeguatamente, occorreva assimilare tutto Lenin, non solo a livello intellettuale (come un manuale da studiare), ma anche e soprattutto a livello operativo, mediante un impegno politico personale (cosa che sotto lo stalinismo e la stagnazione era impossibile);

  2. perché la scoperta del primato dell'uomo implica uno sforzo maggiore di comprensione, di adeguamento personale delle proprie convinzioni e della propria vita alla nuova scoperta: uno sforzo assai superiore a quello che fece Marx di scoprire la vera natura del capitalismo, o a quello che fece Lenin di scoprire il valore della politica rivoluzionaria.

Finché gli uomini, dal basso, a partire dalla vita quotidiana, non vivono l'esperienza dell'umanesimo integrale, nessuna perestrojka, dall'alto, potrà mai realizzarsi.

Lenin aveva perfettamente ragione quando diceva che la politica è la sintesi dell'economia. Senza la politica rivoluzionaria, le cose non si trasformano a vantaggio delle masse se il sistema in cui vivono è dominato dall'antagonismo. La vera politica – diceva Lenin – è quella fatta dalle masse guidate da un partito: se la politica si limita alla mera competenza di pochi professionisti, fatalmente essa si trasforma in uno strumento per la dittatura di qualche ceto o classe.

Marx, in un primo tempo, rifiutò la politica perché non aveva saputo scorgere un'alternativa reale al modello para-feudale del sistema prussiano; poi capì che tale alternativa andava cercata nelle masse, soprattutto nel proletariato. Sarà però Lenin a intuire che tale politica spontanea delle masse va guidata da un partito di intellettuali consapevoli, disciplinati e organizzati.

Le masse devono quindi riappropriarsi della politica, e gli intellettuali devono mettere al servizio delle masse la loro competenza. Se manca questa responsabilità, si tenderà sempre a scaricare sul governo o sul sistema le cause di tutti i mali sociali, si arriverà a pretendere cose impossibili, si assumeranno atteggiamenti irrazionali... Ma così la politica inevitabilmente si trasforma in un gioco competitivo (spesso dagli esiti drammatici) tra opposte fazioni che ambiscono solo a spartirsi il potere.

Il leninismo e la perestrojka di Gorbačëv hanno avuto questo di utile da insegnarci:

  1. che senza una politica consapevole delle masse, non avviene alcuna significativa trasformazione della società;

  2. che nessun'altra “scienza” è in grado di compiere tale trasformazione;

  3. che la trasformazione è veramente significativa solo se la politica si unisce alle esigenze più democratiche delle masse, espresse a tutti i livelli;

  4. che nessuna democratizzazione della vita sociale è possibile, in profondità, se le masse non vi si sentono attivamente coinvolte;

  5. che l'importanza della politica non si esaurisce con la trasformazione rivoluzionaria del sistema, poiché questa non può avvenire una volta per tutte;

  6. che il vero scopo della politica è quello di umanizzare la società, poiché solo così l'esigenza di ricorrere continuamente a una politica rivoluzionaria perderà il suo senso.

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Una qualunque rivoluzione politica, senza una parallela rivoluzione sociale e culturale, porta inevitabilmente a realizzare ideali opposti a quelli originari. Questo perché mentre all'inizio della lotta politica occorre essere democratici per ottenere un certo consenso, in seguito, conseguito l'obiettivo politico-rivoluzionario, l'ideale rischia sempre d'essere tradito se si vuole conservare il potere a tutti i costi.

Tale processo avviene anche involontariamente, inconsapevolmente (almeno fino a un certo punto), in quanto il tradimento è proprio una conseguenza della mancata rivoluzione sociale. Lenin si accorse di questo pericolo alla fine della sua vita e cercò con tutti i mezzi di porvi rimedio, ma il partito, dopo la sua morte, preferì accentuare l'autoritarismo della politica.

Ogni decisione di non voler riporre nel popolo piena fiducia, rischiando anche che lo stesso popolo si serva di questa fiducia in maniera irrazionale, porta inevitabilmente all'affermarsi di quelle correnti autoritarie che non credono nelle capacità democratiche delle masse e che sanno però sfruttare molto abilmente le debolezze di chi vuole la democrazia ma non è capace di volerla sino in fondo.

Le migliori idee non sono quelle più democratiche di altre, ma quelle che intendono il concetto di democrazia in maniera pratica. In tal senso, a un filosofo progressista ma isolato, è sempre preferibile un filosofo che rinuncia, in parte, a esprimere tutte le sue concezioni progressiste, al fine di poter avvicinare meglio le masse ad alcune sue concezioni progressiste, pensando poi di elevare quelle masse, con pazienza, al suo livello di consapevolezza.

Un filosofo che non conosce la pedagogia o la psicologia sociale o la tattica politica, è un cattivo filosofo, poiché il valore delle sue teorie non riscatterà il disvalore della sua pratica.

La pratica – si è sempre detto – è in ultima istanza il criterio della verità: in realtà lo è anche in prima istanza, nel senso che lo scontro fra verità opposte si decide sempre sul terreno della prassi. Dire “in ultima istanza” significa presumere che dal momento in cui inizia lo scontro al momento in cui si conclude, sia passato un certo tempo. Dire invece “in prima istanza” significa che già in questo tempo ci si deve misurare sul terreno della prassi.

Se proprio si vuole continuare ad usare la definizione engelsiana di “in ultima istanza”, la s'intenda solo in questo senso, che, dovendo scegliere fra una verità teorica e una pratica, è preferibile scegliere, “in ultima istanza”, quella pratica. Cioè è sempre meglio garantire una verità operativa, anche se non piena, piuttosto che una piena verità senza i mezzi per sostenerne gli effetti.

La rivoluzione politica, senza rivoluzione sociale, non fa che rinviare nel tempo la liberazione dell'uomo. E siccome ad ogni rivoluzione politica le masse s'illudono ch'essa sia l'ultima, spesso accade che proprio a causa del fallimento degli ideali rivoluzionari, le condizioni sociali delle masse invece di migliorare peggiorino.

In Europa, a partire dalla civiltà greca, ma anche prima, da quella etrusca o da quella fenicia, è sempre accaduto che ogni volta che le classi meno abbienti di un determinato territorio (città, regione, ecc.), hanno rivendicato e ottenuto taluni diritti, soltanto dei diritti, senza cioè mettere in discussione, alla radice, il problema dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, è sempre accaduto che le classi più agiate hanno cercato di recuperare i privilegi perduti, cominciando a sfruttare quelle stesse classi lavoratrici con mezzi e metodi più sofisticati, oppure sfruttando altre popolazioni di altri territori.

Questa legge della storia delle società antagonistiche la si può vedere in atto non solo nell'Europa occidentale ma anche in quella orientale del socialismo amministrato, ove l'antagonismo aveva assunto la forma di una lotta tra Stato e società civile, tra partito e cittadini.

Il fatto che il socialismo scientifico non abbia saputo fare in occidente neppure una rivoluzione politica ha comportato, come conseguenza, che il capitalismo acquisisse, desumendoli proprio dal marxismo, quegli accorgimenti tecnici e organizzativi che gli hanno permesso di riprodursi ad libitum. E così, il capitalismo monopolistico è stato il tentativo di risolvere, con mezzi para-socialisti, una crisi interna al capitalismo concorrenziale, e quello monopolistico di Stato ha svolto lo stesso ruolo nei confronti del precedente capitalismo. In entrambi i casi il capitalismo ha saputo adattare delle idee socialiste ai propri interessi, rafforzandosi ulteriormente.

Con questo naturalmente non si vuole sostenere che le rivoluzioni politiche non devono essere fatte, né che non devono essere fatte senza rivoluzione sociale: semplicemente che, facendole, bisogna portarle alle loro conseguenze più logiche sul piano sociale, altrimenti esse si trasformeranno, inevitabilmente, in una situazione di privilegio per pochi e di condanna per molti.

Ciò inoltre comporta che oggi, per abbattere il capitalismo o il socialismo di stato, gli sforzi della democrazia dovranno essere molto più grandi di quelli che si dovevano sostenere nel passato. Anche perché le reazioni del capitale o della burocrazia saranno sicuramente più forti. Le contraddizioni irrisolte tendono col tempo ad acutizzarsi, ad approfondirsi e anche a estendersi. La loro soluzione richiede praticamente l'impegno di tutti i singoli cittadini.

La rivendicazione del “benessere” (socioeconomico) dovrebbe essere fatta sulla base della convinzione che un benessere “assoluto”, “totale”, garantito al 100%, è profondamente nocivo: non solo perché esso viene “pagato”, di regola, dalle innumerevoli sofferenze della maggioranza di una determinata popolazione, ma anche perché esso porta con sé, inevitabilmente, la decadenza dei costumi, la corruzione morale, il degrado ambientale, il disfacimento della civiltà.

Più che di “benessere”, gli uomini dovrebbero occuparsi di “giustizia”, di “uguaglianza” (nella diversità e nella libertà), di “equità sociale”. Non dovrebbe però trattarsi di una “giustizia verso il privilegio” (cioè verso l'alto), bensì di una “giustizia verso l'uguaglianza” (cioè verso il basso).

Bisogna rifiutare l'idea di dover rivendicare gli stessi privilegi di chi sta al potere (politico ed economico): questa forma di “giustizia” comporta sempre un'ingiustizia nei confronti di chi non è in grado di fare le stesse rivendicazioni. E non si dica che anche costui trarrebbe un vantaggio personale dalle richieste di “giustizia verso l'alto” fatte dai gruppi sociali di medio benessere. I fatti hanno sempre dimostrato che nella realtà del privilegio allargato, gli egoismi corporativi, se soddisfatti, difendono ancor più tenacemente i loro interessi, proprio perché sanno quanto fatica costi farli valere nell'ambito della competizione antagonistica.

Viceversa, la democrazia verso il basso significa obbligare chi dispone di potere politico e/o economico, ad accontentarsi del minimo indispensabile. Il problema che a questo punto si pone è però il seguente: chi può obbligare a questa sobrietà senza rischiare di trasformarsi, egli stesso, in un dittatore? La risposta a tale domanda contiene anche la spiegazione del motivo per cui sono crollati i regimi est-europei.

Una democrazia verso il basso non può essere imposta con la forza dello Stato o di un partito, altrimenti si trasforma in una dittatura. Qui è il popolo che deve agire in maniera sovrana. E nessun popolo, ovviamente, può essere disposto ad accettare un tenore di vita essenziale, sobrio, moderato, senza avere in cambio la piena libertà di pensare e di agire, nel rispetto dell'altrui pensiero e azione. Ci si può sacrificare sul piano materiale in nome di un ideale, non ci si può sacrificare quando i primi a tradire l'ideale sono proprio coloro che dovrebbero meglio rispettarlo.

Il politico dovrebbe unicamente avere come scopo della sua vita quello di realizzare, con l'aiuto delle masse, determinate idee di giustizia e di equità sociale. Soldi e potere dovrebbero essere finalizzati a questo obiettivo, e per essere sicuri che il loro uso sia equo, bisognerebbe ridurli al minimo. Ciò significa che un politico, dotato di pieni poteri, non dovrebbe governare che su un territorio molto ristretto. Quanto più il territorio s'allarga, tanto più “simbolico” (non reale) dovrebbe essere il potere del politico.

Il politico “nazionale” o addirittura “sovranazionale” dovrebbe avere un potere esclusivamente morale, che è quello basato sul suo esempio personale. L'unico vantaggio che un politico merita di godere è, in pratica, il consenso delle masse. Un politico nazionale potrebbe dirsi “nazionale” solo nella misura in cui vaste masse popolari (attraverso i mass-media, gestiti direttamente dalle stesse masse) si riconoscono nella sua personale posizione (etica e politica). Chi non ha un grande ideale non può diventare un grande politico. Nessun politico legato al potere o al denaro ha mai avuto idee veramente originali sul piano della democrazia e del socialismo.

La cosa che desta maggiore interesse nella storia dell'Europa occidentale è che i protagonisti principali nella formazione della realtà dell'imperialismo (romano, feudale, borghese), sono stati non i partiti conservatori o aristocratici, bensì quelli democratici, che pretendevano d'essere progressisti.

Il fatto è semplice da spiegare. Lottando contro i ceti privilegiati, le masse democratiche non hanno mai saputo condurre la loro battaglia sino alle conseguenze più radicali sul piano sociale, ma si sono fermate sulla soglia della rivendicazione gius-politica. Una volta giunto al potere, il partito che le rappresentava ha avvertito subito l'esigenza – restando inalterato il conflitto fondamentale delle classi – di risolvere tale conflitto allargando i confini geografici dello sfruttamento (colonialismo), mentre, in politica interna, il partito (democratico) avvertiva l'esigenza di affermare una durissima dittatura, in virtù della quale s'impedissero nuove sommosse.

Ciò sta a significare che il fallimento dell'idea di democrazia (o di socialismo), va imputata anche alla scarsa determinazione delle masse, che spesso preferiscono accontentarsi di ottenere qualche diritto, senza preoccuparsi di risolvere alla radice il problema della disuguaglianza, dell'alienazione sociale, dello sfruttamento economico ecc.

Ogniqualvolta le masse di un Paese avanzato rivendicano maggiori diritti, senza riuscire a realizzare un'effettiva uguaglianza sociale, si ha, presto o tardi, come minimo, un peggioramento (dovuto al colonialismo) delle condizioni di vita di qualche Paese più arretrato.

Nell'Europa occidentale la politica è sempre stata concepita in modo separato dall'etica. Tale separazione probabilmente è dipesa dal fatto che, vivendo in una società divisa in classi, l'uomo occidentale non può servirsi della politica per realizzare determinati ideali. Non è che “non voglia”, è che proprio “non può”: è il sistema stesso che glielo impedisce. Un politico che persegue un fine ideale è, per il popolo, un uomo da mettere alla prova, mentre per il potere conservatore è un cattivo politico, un ingenuo destinato ad essere sconfitto dal politico opportunista, cioè dal politico che divide la politica dalla morale e che lotta esclusivamente per il potere, per la salvaguardia di quel sistema che si preoccuperà di definire la strategia di tale politico con termini come “realistica”, “concreta”, “fondata” ecc.

Gli “ideali” che può perseguire il politico occidentale sono quanto di più astratto e generico si possa pensare, e il popolo che s'illude di vederlo agire con coerenza nella prassi, non s'accorge che con questo attendismo favorisce la progressiva corruzione del politico, che sa di poter agire senza essere veramente controllato. La politica, in questo senso, smetterà di essere divisa dalla morale quando il politico smetterà di essere diviso dalle masse.

Questo discorso vale per tutti i politici di professione, siano essi di opposizione o di governo. Le astrattezze e le incoerenze si riscontrano infatti in tutti i partiti, parlamentari e non: spesso anzi quelli che agiscono fuori delle istituzioni, invece di essere più vicini alle masse, sono ancora più settari e vittime delle loro ideologie.

Non che i discorsi dei parlamentari siano più comprensibili o più efficaci dei discorsi estremisti, ma essi per lo meno garantiscono ai ceti più benestanti una relativa partecipazione al potere, mentre certi partiti o movimenti extraparlamentari non riescono a garantire neppure un minimo di coinvolgimento alla lotta per il potere. Oggi è l'istituzione stessa del partito, a prescindere dal ruolo che ricopre, ad essere alienata e alienante, proprio perché priva di un movimento di base cui fare riferimento. Ma molti partiti (o movimenti) extraparlamentari, facendo un discorso meramente ideologico, non costituiscono alcuna alternativa (si vedano soprattutto quelli trotskisti, maoisti, bordighiani ecc.).

In Occidente ciò che più conta non sono le idee ma il profitto economico: è questo che, in ultima istanza, determina ogni scelta politica. Se una forza politica rifiutasse questo principio, dovrebbe anche rifiutare di fare una politica meramente parlamentare, poiché il parlamento è un'istituzione borghese che permette un elevato tenore di vita; mentre se rifiutasse il profitto svolgendo una politica settaria, resterebbe un'esperienza isolata, per pochi “eletti”.

C'è dunque solo un modo per cercare di anteporre al profitto il valore della persona, che è l'interesse a vivere nella giustizia: quello di fare la politica in stretto contatto con le masse, misurandosi di continuo con le loro necessità, con i bisogni locali, prima di tutto. Se manca questo rapporto, qualunque partito, anche il più idealistico, è inesorabilmente destinato a corrompersi.

In tal senso, quanto più i partiti parlano di “questione morale”, senza però voler mettere in discussione i meccanismi che portano la politica a separarsi dalla morale e il politico dai cittadini, tanto più si deve pensare ch'essi vivano nella corruzione e che facciano di tale “questione” un'arma meramente propagandistica.

Il dilemma quindi non è quello se stare dalla parte di Guicciardini o di Machiavelli, ma quello di come superare il falso principio secondo cui per fare una buona politica non bisogna tener conto della morale. Si può affermare un valore in politica e un disvalore nell'etica? Si può sostenere che un valore affermato in sede morale possa avere conseguenze nefaste in sede politica? Si può sostenere che siccome il sistema è completamente corrotto, è impossibile praticare in maniera coerente i princìpi della morale? O, al contrario, è possibile sostenere che se si è nel giusto sul piano politico, lo si è anche automaticamente a livello etico? Normalmente lo si fa, ma questo è un limite delle società basate sull'antagonismo sociale. Non a caso le forze conservatrici vincono sempre nel loro duello con quelle progressiste, tant'è che quest'ultime, se riescono a giungere al governo, inevitabilmente si comportano come i loro avversari. Di qui il grande assenteismo dei cittadini durante le campagne elettorali. I grandi partiti di governo affermano la loro democrazia con poco più di un quarto dei voti complessivi che si sarebbero potuti dare se tutti gli elettori fossero andati a votare.

Quando l'establishment s'accorge che l'opposizione “progressista” di qualche partito assume posizioni giudicate “immorali” (ad es. è favorevole alla violenza di classe, oppure copre un militante, colpevole di qualche reato, solo per non ledere gli interessi del partito), diventa relativamente facile, al governo in carica, dimostrare che anche la posizione politica di quel partito è antidemocratica.

Le forze progressiste devono dunque arrivare ad adottare il seguente ragionamento, per essere vincenti: politica e morale si condizionano a vicenda; ciò che è vero (o legittimo) per l'una lo è anche per l'altra; le ragioni dell'una sono in relazione a quelle dell'altra. Un qualunque dualismo porta a danneggiare gli interessi sia della morale che della politica, poiché trasforma l'uomo in un mero strumento da utilizzare per l'acquisizione (o la conservazione) di un potere.

Paradossalmente oggi siamo arrivati alla conclusione che non è il perseguimento di un fine politicamente giusto, che può di per sé garantire la legittimità di quel fine. Occorre la conformità del fine politico ai valori umani universali, e una conformità non solo teorica ma anche pratica. È sempre preferibile una “piccola” pratica a una “grande” teoria.

Non c'è insomma alcuna tesi politica giusta che non possa essere condivisa moralmente, e nessuna posizione morale che non possa trovare una giustificazione politica. Senza questa unità di morale e politica, nessuna vera rivoluzione sarà veramente efficace, cioè destinata a durare nel tempo.

Gli illusi giudicano politicamente pessimista colui che non crede che il carisma democratico di singoli uomini politici possa trasformare qualitativamente il sistema parlamentare borghese, mentre il vero pessimista, in realtà, è colui che non crede nelle capacità organizzative delle masse, nella volontà politica della gente comune. Il vero pessimista è colui che non vuole impegnarsi in una politica che non sia quella tradizionale, cioè quella dei partiti di sempre, o quella delle obsolete istituzioni politiche. Questo individuo maschera il proprio pessimismo nei confronti delle masse con l'illusione nei confronti di qualche partito che si proclama anti-sistema (ad es. le Leghe). Nel senso cioè che questo individuo s'illude che un partito, solo perché sta all'opposizione, possa essere migliore di un partito di governo, o possa comunque, una volta giunto al potere, governare meglio. L'illusione sta appunto nel fatto che non si comprende la natura borghese di questo sistema, che tutto fagocita, strumentalizza e impoverisce. Questa democrazia è fatta su misura per gli ingenui.

La lungimiranza di Lenin

Perché Lenin vedeva più in là di tutti? Perché si metteva dalla parte degli ultimi, che per lui erano i nullatenenti, quelli che non possedevano un briciolo di proprietà, per cui non avevano nulla da perdere a sacrificare la loro vita per fare una rivoluzione contro il sistema.

Tra queste categorie di persone lui privilegiava gli operai industriali, che dovevano essere rappresentati da intellettuali privi di proprietà. I collaboratori più fidati degli operai non potevano essere che i braccianti agricoli o i salariati che nel mondo dell'agricoltura non erano proprietari di nulla.

Tra il proletariato industriale e quello agricolo Lenin preferiva il primo, anche se non negava la presenza di un'aristocrazia operaia corrotta dagli alti salari della borghesia imprenditrice. I motivi della sua preferenza erano tre: 1) l'industria era più importante dell'agricoltura perché garantiva la ricchezza d'un paese (la stessa agricoltura andava meccanizzata); 2) era molto più facile organizzare dei lavoratori concentrati in poche imprese che non quelli sparpagliati in terre di enorme estensione; 3) gli operai erano molto meno condizionati dalle idee religiose.

Lenin era convinto che il capitalismo, una volta entrato in Russia, avrebbe spazzato via tutte le tradizioni feudali del mondo agricolo, come già era avvenuto in Europa occidentale e nelle colonie anglo-francesi. Le comuni rurali, le comunità di villeggio, i feudi avevano già dimostrato di non possedere la forza sufficiente per opporsi a tale destino. L'unica soluzione era quella di compiere una rivoluzione socialista di tipo industriale, cioè un ribaltamento del sistema politico e, insieme, un utilizzo dell'industria del capitalismo per rendere più efficiente anche la produzione agricola. Senza sviluppo industriale, Lenin riteneva che la Russia sarebbe diventata una colonia dei Paesi capitalistici più avanzati del mondo.

Prima di fare la rivoluzione dell'Ottobre egli aveva di fronte a sé tre tipi di rivoluzioni, i cui errori non voleva ripetere: la Comune di Parigi del 1871; la rivoluzione contadina in Russia del 1905 e quella borghese, sempre in Russia, nel febbraio 1917, preceduta da altre importanti rivoluzioni borghesi (in Inghilterra, in America, in Francia...). Non aveva altri esempi cui attingere idee per compiere la sua rivoluzione proletaria.

In estrema sintesi l'insurrezione bolscevica ebbe queste caratteristiche:

1. doveva partire occupando la capitale dell'impero: San Pietroburgo;

2. doveva avere un carattere nazionale, per cui il consenso non poteva essere cercato solo nella capitale;

3. doveva utilizzare organi di governo locali, chiamati “soviet”, composti da operai, contadini e soldati, oltre ovviamente agli intellettuali;

4. doveva essere guidata da un partito fortemente centralizzato, la cui attività era pubblica e clandestina, a seconda delle esigenze e delle circostante;

5. non doveva essere un colpo di stato, ma un'insurrezione del popolo armato (nella fattispecie si doveva trasformare la guerra mondiale, cui la Russia zarista aveva voluto partecipare, in guerra civile);

6. appena fatta la rivoluzione, la dittatura contro gli sfruttatori, i sabotatori delle nuove istituzioni, i controrivoluzionari che cercavano qualunque aiuto esterno, i traditori delle idee del socialismo... sarebbe stata durissima.

Lenin si rendeva conto che i tanti secoli medievali dello zarismo e lo stile di vita borghese penetrato in Russia nelle grandi città (ma anche nelle campagne, soprattutto dopo la fine del servaggio) avrebbero posto dei limiti enormi alla realizzazione del socialismo, ma sapeva anche, avendo vissuto per molti anni all'estero, che sarebbe stato più facile compiere la rivoluzione nel momento in cui la Russia era considerata da tutti l'anello debole del capitalismo europeo.

Oltre il leninismo

Nel libro scritto contro Kautsky1 Lenin afferma che, una volta conquistato il potere, il proletariato deve esercitare una violenza rivoluzionaria contro la borghesia che glielo vuole togliere, e in questa forma di dittatura esso non può legarsi le mani rispettando le leggi.

Ora, quali sono le condizioni per cui una dittatura del genere non oltrepassi i limiti dei valori umani? La condizione può essere soltanto una, quella della democrazia diretta, che implica quella dell'autogestione locale dei bisogni di una determinata collettività. Infatti quanto più la democrazia viene delegata, tanto più vi sarà, da parte del delegato, la tentazione ad usare il potere ricevuto in forme e modi che con la democrazia non c'entrano nulla.

Questo perché non basta sostenere che il proletariato è in sé migliore della borghesia, per cui qualunque tipo di governo sarà sempre migliore di quelli borghesi, e che in qualunque tipo di dittatura la sua violenza troverà maggiori giustificazioni che non nell'ambito borghese. Non si può ipostatizzare il ruolo o la funzione di una classe sociale, neanche all'interno di una concezione politica che vede, come obiettivo finale, il superamento di tutte le classi e degli antagonismi sociali. Peraltro lo stesso Lenin, in Che fare?, aveva detto che al proletariato la consapevolezza di una rivoluzione globale andava data dall'esterno, in quanto, lasciato a se stesso, l'operaio si limita a fare delle semplici rivendicazioni salariali.

È certamente possibile che in un regime di democrazia diretta e di autoconsumo la funzione delle leggi venga meno. Tuttavia fino a quando sussiste la necessità di esercitare una violenza rivoluzionaria, l'uso delle leggi non serve solo per impedire le controrivoluzioni, ma anche per impedire che le rivoluzioni si trasformino in spietate dittature, cioè in un esercizio del potere politico che vada al di là di ogni valore umano.

Per Lenin la democrazia diretta era quella dei soviet (consigli locali di operai, contadini e militari). Questa forma di democrazia lo stalinismo è stato in grado di rimuoverla in maniera relativamente semplice. C'è stato quindi qualcosa che non ha funzionato nella rivoluzione d'Ottobre. Che cosa è presto detto.

Lenin era convinto che per vincere la guerra civile, la controrivoluzione e l'interventismo straniero occorresse uno Stato forte, un governo centralizzato, un “comunismo di guerra”. Ed ebbe ragione. Poi si accorse che se il governo non permetteva ai contadini di gestire autonomamente le loro terre, ricevute dalla rivoluzione, questa sarebbe fallita, e così decise di passare alla Nuova Politica Economica. Poi purtroppo morì, e i suoi seguaci non compresero che lo Stato non andava rafforzato ma progressivamente indebolito a favore della democrazia locale, politica ed economica. Si ebbe paura di un ritorno al capitalismo e si fece coincidere “socializzazione” con “statalizzazione”. Non si lasciò la società libera di autogestirsi. Si fece dello Stato il padrone assoluto di tutti i mezzi produttivi e, col tempo, lo si trasformò in una sorta di “capo mafioso”, che privilegiava la nomenklatura politica e amministrativa ed estorceva plusvalore a tutti i lavoratori.

Ora, com'è possibile sostenere che l'idea di estinguere progressivamente lo Stato non è stata portata avanti perché si temeva che, così facendo, la Russia, nel caso fosse stata di nuovo attaccata dalle potenze capitalistiche, sicuramente avrebbe perso il confronto? I fatti cos'hanno dimostrato? Che il confronto l'ha perso lo stesso, non sul terreno militare, bensì su quello economico.

Allora che cos'è che non ha funzionato? Non hanno funzionato una serie di scelte strategiche: 1) si è voluta fare della città e non della campagna l'asse portante del socialismo; 2) si è voluto creare un socialismo di tipo industriale, seguendo i criteri tecnologici dello sviluppo capitalistico; 3) si è fatto del proletariato industriale un soggetto più significativo della libera comune agricola; 4) non si è avuto alcun riguardo per lo sfruttamento della natura; 5) si sono voluti mantenere separati i lavori intellettuali da quelli manuali, ecc. In una parola si è fatto tutto quello che non si doveva fare per costruire un socialismo davvero democratico, che fosse lontano dal capitalismo non solo nei rapporti antagonistici tra capitale e lavoro, ma anche negli strumenti tecnici da usare.

Se le cose fossero andate diversamente, la Russia avrebbe perso lo stesso il confronto sul piano economico? O l'avrebbe perso su quello militare? Rispondere a queste domande ovviamente è impossibile. Tuttavia siamo proprio sicuri che un popolo unito, con una tecnologia molto meno sviluppata di una potenza straniera aggressiva, perde sempre il confronto? La Cina, il sud-est asiatio, la Corea del nord, Cuba... e tutti i paesi che si sono decolonizzati da soli a partire dal secondo dopoguerra non hanno forse dimostrato che ci si può liberare efficacemente dei propri nemici esterni anche con un livello di sviluppo di molto inferiore?

Semmai il vero problema è un altro. Ci si sarebbe dovuti chiedere se, puntando di più sull'agricoltura, è possibile liberarsi con successo dei condizionamenti che provengono dallo sviluppo dell'industria e quindi da quello della scienza e della tecnica. Qui le difficoltà sono davvero grandi, poiché, di primo acchito, a tutti piacciono le comodità, il benessere assicurato e anzi crescente, un lavoro poco faticoso e molto remunerativo e addirittura i lussi.

Per ottenere tutte queste cose l'occidente si è servito dello sfruttamento delle proprie colonie e ha saccheggiato, senza alcun ritegno, la natura. La Russia invece s'è dovuta accontentare delle proprie risorse interne. Se l'occidente non avesse avuto le colonie sudamericane, asiatiche e africane, sarebbe stato sicuramente molto più aggressivo nei confronti della Russia e di tutto l'est-europeo. Tuttavia, se si fosse comportato così, i comunisti russi avrebbero associato molto più facilmente la nozione di “benessere” con quella di “violenza”. Cioè avrebbero capito più facilmente che dietro le comodità garantite dallo sviluppo industriale vi è la tendenza a sottomettere le popolazioni tecnologicamente più deboli, proprio perché, una volta assaporato il gusto del benessere (quel benessere che supera le proprie esigenze quotidiane), non ci si vuole più rinunciare.

I comunisti russi si erano enormemente impauriti dei successi tecnologici dell'Occidente, che si riflettevano in una notevole superiorità economica, e temevano che, alla lunga, avrebbero perso il confronto anche sul piano militare. Di qui la fortissima esigenza di emulare il capitalismo anche laddove, in realtà, non ve ne sarebbe stato alcun bisogno. Non hanno avuto fiducia in loro stessi, cioè nella possibilità di poter vivere un'esistenza democratica, pacifica, sicura in condizioni di autoconsumo, di tutela ambientale, di autogestione locale dei bisogni collettivi. Hanno voluto fare della guerra civile, della controrivoluzione, dell'interventismo straniero una minaccia continuamente incombente, e la paura, alla fine, li ha sconfitti.


1 La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Editori Riuniti, Roma 1969.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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