IL GRANDE LENIN

Per un socialismo democratico

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L'ultimo Lenin

Alla fine della sua vita, Lenin fece chiaramente intendere di avere serie preoccupazioni riguardo sia allo stalinismo emergente (inteso come atteggiamento autoritario che i vertici del partito andavano assumendo), sia alla progressiva burocratizzazione dello Stato.

In particolare si rammaricava della scarsa attenzione che si prestava nei confronti della cooperazione agricola e, più in generale, nei confronti del rapporto con le masse contadine.

Chiedeva inoltre di approfondire sul piano culturale la rivoluzione d'Ottobre, per farla uscire dagli angusti limiti della politica.

Per quali ragioni queste sue preoccupazioni passarono inosservate e finirono ben presto coll'essere addirittura rimosse dalla coscienza politica del partito? Solo perché lo stalinismo finì coll'imporsi su ogni altra corrente ideologica?

Probabilmente la ragione fondamentale dipese dal fatto che Lenin, nel corso della sua vita, aveva concesso al “centralismo” un primato ingiustificato rispetto alle esigenze della “democrazia”. Spesso la democraticità delle sue azioni politiche dipendeva più da motivazioni di ordine soggettivo (il carattere benevolo e tollerante di Lenin), che non dall'obiettività dei fatti.

Non a caso nell'ultimo periodo della sua vita i nodi rimasti a lungo tempo irrisolti vennero tutti al pettine: Lenin prese chiaramente coscienza che i fattori che maggiormente avrebbero dovuto garantire il valore democratico della rivoluzione, si erano rivelati non sufficientemente sviluppati.

Privilegiando nettamente il rapporto coll'industrializzazione, col proletariato, con lo sviluppo urbano, coi rivoluzionari di professione, con gli apparati e le istituzioni statali e partitiche, il leninismo aveva finito inevitabilmente col trascurare altri aspetti non meno significativi, più sociali e meno politici, più culturali e meno ideologici.

Probabilmente se il leninismo non avesse trascurato la cooperazione, la questione contadina e la rivoluzione culturale, il socialismo non si sarebbe trasformato in maniera “amministrata”, né sarebbe sorto lo stalinismo... Sono drammatici gli ultimi scritti di Lenin, anche perché sembrano preannunciare la catastrofe in cui il socialismo autoritario sarebbe precipitato...

Naturalmente si ha tale impressione leggendoli col senno del poi. In realtà Lenin, dominato com'era dal suo forte senso dell'ottimismo storico, non avrebbe certo potuto immaginare un crollo così rovinoso.

Egli in sostanza era convinto che il fatto di non aver tenuto in debito conto la cooperazione, l'appoggio delle masse contadine, lo sviluppo culturale della rivoluzione e la democrazia in seno al partito, non avrebbe comportato (ai fini della riuscita della rivoluzione) un blocco definitivo del processo verso l'edificazione del socialismo democratico. Quando Lenin parla di conseguenze “nocive”, “dannose” e anche “nefaste” per il socialismo, non pensa mai che siano “irrimediabili”.

Invece la storia l'ha smentito. L'indebolimento della democrazia è diventato così tanto progressivo da rendere del tutto impossibile la realizzazione del socialismo.

Lenin in sostanza si era illuso che la pratica costante del “centralismo” non avrebbe potuto impedire, al momento cruciale, la realizzazione della “democrazia popolare”. Egli non riusciva ad accettare l'idea che la democrazia potesse essere costruita solo con le armi della democrazia e che, in tale processo, il centralismo poteva al massimo essere considerato come un mezzo ausiliario, temporaneo, finalizzato a compiti specifici.

Lenin temeva che, in assenza di democrazia popolare, l'unico modo di promuoverla fosse quello di assicurare il centralismo dei soggetti più consapevolmente orientati verso la rivoluzione.

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Nelle Paginette di diario Lenin parla “dell'atteggiamento della città nei confronti della campagna” come di una “questione politica fondamentale”. Egli cioè si rendeva conto che in un Paese sostanzialmente agricolo il socialismo, senza l'appoggio dei contadini, avrebbe avuto vita breve. Tuttavia il suo atteggiamento restava paternalistico, se non addirittura viziato da un pregiudizio di fondo: quello di credere che i contadini non avessero nulla da “dare”, culturalmente parlando, alla coscienza operaia. Solo la città poteva dare qualcosa alla campagna (in termini di istruzione, coscienza politica, ecc.).

Nelle campagne – egli afferma – non si può parlare esplicitamente di comunismo, in quanto i contadini non sono in grado di capirlo. È cioè prematuro introdurre il comunismo nelle campagne se prima non si è formata una “base materiale”.

Lenin, in altre parole, non riusciva a intravedere nella comune agricola la possibilità di una trasformazione collettiva dell'organizzazione della vita rurale (da feudale a socialista). Anzi egli pensava che la comune fosse un ostacolo insormontabile alla realizzazione del socialismo nelle campagne. Questo perché la sua idea di socialismo era strettamente legata allo sviluppo dell'industria, della città e dello Stato.

“Socializzazione della terra” per Lenin significava anzitutto progressiva abolizione non solo della proprietà privata feudale, ma anche di qualunque forma di proprietà, inclusa quella che permetteva la sussistenza di singole famiglie contadine, inclusa persino quella collettiva della comune.

Lenin in sostanza intendeva per “socializzazione della terra” nient'altro che la sua “statalizzazione”: la gestione della terra doveva dipendere da istanze amministrative e statali centralizzate. Questo suo errore avrà conseguenze di portata incalcolabile.

Bisogna tuttavia riconoscergli ch'egli chiedeva di realizzare tale progetto senza forzature amministrative, cioè in maniera “spontanea”, secondo tempi e modi rispettosi dell'arretratezza culturale e politica delle masse rurali. Scrupoli, questi, che lo stalinismo non avrà, non tanto perché Stalin, come persona, era meno tollerante di Lenin, quanto perché, oggettivamente, una volta impostato in tali termini il rapporto con le campagne, la conseguenza inevitabile, ad un certo punto, non può essere che quella stalinista. Non a caso sulle modalità di sfruttamento delle campagne non esistevano grandi dissidi fra Stalin, Trotsky, Bucharin e gli altri leader del partito.

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Lo stesso atteggiamento paternalistico Lenin lo rivela nei confronti della cooperazione, ch'egli considerava non come un obiettivo finale del socialismo, ma come un pilastro fondamentale dello Stato.

Lenin era convinto che la cooperazione avrebbe potuto funzionare democraticamente proprio perché lo Stato deteneva la proprietà di tutti i mezzi produttivi. In altre parole, la possibilità che la cooperazione finisse col diventare un'occasione di pratica capitalistica, poteva essere scongiurata – secondo Lenin – solo dalla statalizzazione di tutta la proprietà dei principali mezzi produttivi.

In realtà bisognava fare esattamente il contrario: una volta espropriati i grandi feudatari e i grandi capitalisti, la proprietà dei mezzi produttivi andava progressivamente distribuita ai cittadini, associati in cooperative (di produzione, di consumo, agricole ecc.), le quali si sarebbero assunte l'intera responsabilità della gestione di ogni risorsa.

Lo Stato avrebbe dovuto essere progressivamente smantellato, al fine di sviluppare la società civile. I rischi di un ritorno al capitalismo sarebbero stati direttamente affrontati dagli stessi contadini e artigiani, dagli stessi cittadini e lavoratori, e non dallo Stato o dal partito.

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Anche la questione dell'arretratezza culturale della Russia è mal posta da Lenin, che pur dimostrava di avere più ragioni di N. Sukhanov, fortemente scettico sulla possibilità di realizzare il socialismo in un Paese culturalmente arretrato. La risposta di Lenin era scontata: “se per creare il socialismo occorre la civiltà, non si vede la ragione per cui, con una rivoluzione politica, non si debbano creare le premesse di questa civiltà”.

Lenin insomma era consapevole di aver realizzato una rivoluzione politica senza una parallela rivoluzione culturale fra le masse; ed era altresì convinto che quest'ultima fosse uno dei compiti prioritari che il socialismo statale si doveva prefiggere: tuttavia era proprio su questo aspetto che la sua proposta era limitata. Egli infatti pensava, col termine di “rivoluzione culturale”, a una progressiva alfabetizzazione delle masse contadine, che costituivano il 90% della popolazione, sulla base dei princìpi del marxismo (e ovviamente del “leninismo”).

Cioè per “rivoluzione culturale” egli non intendeva la valorizzazione degli elementi di democrazia e di socialismo già presenti nella cultura pre-marxista, mettendo così i contadini in una situazione paritetica nei confronti degli operai.

La sua “rivoluzione culturale” era una sorta di progressivo indottrinamento degli strati sociali più arretrati del Paese. Lenin in sostanza non riuscì mai a scorgere nella vita e nelle tradizioni dei contadini, e neppure nella religione ortodossa, degli elementi culturali autentici.

Il grande sforzo politico e intellettuale di Lenin fu quello di adattare il marxismo occidentale alle esigenze di liberazione del suo Paese. Nel fare questo egli cercò di rendere il marxismo il più creativo e innovativo possibile, facendolo uscire dalle secche deterministiche, evoluzionistiche ed economicistiche in cui s'era cacciato in Europa occidentale, dopo la fase spontaneistica degli inizi.

Lenin seppe dare al marxismo una forte organizzazione partitica, valorizzando al massimo il momento politico della necessità rivoluzionaria, ma il socialismo veramente democratico resta ancora da costruire.

Il testamento politico

Le note che Lenin dettò tra la fine del 1922 e l'inizio del 1923, un anno prima di morire, sono conosciute sotto il nome di “Lettera al Congresso” (del partito bolscevico-russo). La famiglia di Lenin e i suoi più intimi collaboratori diedero ad esse il nome di “Testamento”. Come noto, ancora oggi l'interpretazione di questo documento da parte della storiografia sovietica e occidentale è piuttosto controversa. Avvolto da ogni sorta di miti e leggende, esso venne rivelato solo al XX Congresso del Pcus, da Chruščёv, e pubblicato integralmente nel 1956. Questa è la breve cronistoria della formazione di tale documento: ad essa faranno seguito alcune riflessioni di merito.

Agli inizi del 1921 cominciano ad apparire i primi sintomi dell'arteriosclerosi di Lenin, che i medici attribuivano all'eccessivo lavoro. Aveva subìto anche un attentato da parte della socialista-rivoluzionaria Fanny Kaplan.1 Verso la fine dell'anno egli era già gravemente debilitato e costretto a lasciare l'attività pubblica per molte settimane. Nell'aprile 1922 gli viene estratta una delle due pallottole con cui era stato colpito dalla Kaplan. Il 25 maggio la mano e la gamba destre si erano paralizzate e aveva difficoltà a parlare. Cedendo malvolentieri alle sollecitazioni dei medici, si era trasferito a Gor'kij. Nel giugno il suo stato di salute era migliorato, sicché all'inizio di ottobre può tornare a Mosca per riprendere il lavoro. Ma il 13 dicembre viene colpito da nuovi attacchi cerebrali.

Decide finalmente di curarsi. Nei tre giorni seguenti, pur immobilizzato nel letto, ha diverse conversazioni telefoniche, riceve i suoi più stretti collaboratori, prepara l'intervento per il X Congresso dei soviet, scrive diverse lettere e alcune note relative al monopolio del commercio estero, alla distribuzione dei compiti fra i sostituti del presidente del consiglio dei commissari del popolo, del consiglio del lavoro e della difesa, chiede d'indagare sul modo come s'effettuava lo stoccaggio della raccolta del grano, s'informa di ciò che viene fatto in materia di sicurezza sociale, del censimento della popolazione e di altre questioni.

Sulla questione del commercio estero, Lenin, che pur aveva contribuito alla nomina di Stalin alla carica di segretario generale del partito, si scontra duramente con quest'ultimo, che patrocinava le tesi di Bucharin, Sokolnikov, Frumkin... relative alla attenuazione, se non abolizione, del regime di monopolio. Trotsky invece parteggiava per Lenin.

Nella notte dal 15 al 16 dicembre il suo stato di salute s'aggrava seriamente. Il mattino del 16 Lenin detta una lettera alla moglie, Nadežda K. Krupskaja. I medici gli propongono di trasferirsi di nuovo a Gor'kij, ma lui decide di restare a Mosca. Chiede a Nadežda di far sapere a Stalin che la malattia gli impediva d'intervenire al X Congresso.

Il 18 dicembre si riunisce il plenum del C.C. Viene deciso di comunicare a Lenin, con l'assenso dei medici, il testo delle risoluzioni adottate al plenum. Per decisione speciale dello stesso, Stalin viene investito della responsabilità personale relativa al controllo della terapia prescritta dai medici. A partire da questo momento le visite gli vengono vietate. Soprattutto Stalin non vuole che Lenin interagisca con Trotsky. Alle persone che assistono: la moglie, la sorella, alcune segretarie e il personale medico, viene proibito di trasmettergli qualsiasi lettera o di informarlo dei correnti affari di Stato, al fine – questa la giustificazione – di “non preoccuparlo”. Non dimentichiamo che Stalin aveva iniziato a tenere Lenin sotto controllo anche attraverso la propria (seconda) moglie, Nadežda Allilueva, che fungerà da segretaria fino al 18 dicembre 1922 (morirà suicida nel 1932, poco più che trentenne).

Il 21 dicembre Lenin detta a Nadežda una lettera indirizzata a Trotsky, in cui si dichiara soddisfatto della decisione del plenum circa la conferma dell'intangibilità del monopolio del commercio estero e suggerisce che venga posta al Congresso del partito la questione del consolidamento di tale commercio e delle misure da prendere per migliorarne l'efficienza.

Avendo saputo di questa lettera, Stalin, al telefono, rimprovera duramente Nadežda d'aver trasgredito l'ordine di riposo assoluto impartito dai medici. Nadežda reagisce inviando il 23 dicembre una lettera a Kamenev, allora vice-presidente del consiglio dei ministri: “Stalin s'è permesso ieri un attacco assai rozzo nei miei riguardi, sotto il pretesto che avevo autorizzato Ilich a dettarmi una breve lettera – ciò che io ho fatto col consenso dei medici. Non è da oggi che sono membra del partito, ma in 30 anni non avevo mai sentito nulla di simile. Gli interessi del partito e dello stesso Ilich mi stanno a cuore tanto quanto a Stalin. So bene ciò di cui si può o non si può parlare con Ilich, poiché so che cosa lo preoccupa, lo so meglio di qualunque medico, in tutti i casi meglio di Stalin... Non sono di marmo e i miei nervi sono al limite”.

La Krupskaja non disse niente a Lenin dell'incidente, per cui è da escludere ch'essa l'abbia influenzato nel ritratto che di Stalin egli fece in una nota del 4 gennaio 1923. Solo il 5 marzo egli viene a conoscenza dell'incidente, per il quale dettò subito una lettera indirizzata a Stalin: “Compagno Stalin, voi avete avuto l'impudenza di chiamare mia moglie al telefono per insultarla. Benché essa vi abbia promesso di dimenticare l'incidente, il fatto tuttavia, per mezzo di lei, è venuto a conoscenza di Zinoviev e Kamenev. Io non ho intenzione di dimenticare così facilmente ciò che è stato fatto contro di me: va da sé infatti che quanto viene fatto contro mia moglie è come se fosse fatto contro di me. Ecco perché vi chiedo di farmi sapere se siete disposto a ritirare ciò che avete detto e a scusarvi, o se invece preferite interrompere le relazioni tra noi. Con i miei rispetti, Lenin”. Stando a una lettera della sorella di Lenin, Maria Ulianova, Stalin presentò le sue scuse.

Ma torniamo al 22 dicembre 1922. Il braccio e la gamba destri si erano paralizzati. Lenin non poteva più scrivere. Il giorno dopo chiede ai medici il permesso di dettare alla stenografa per cinque minuti, poiché una questione assai importante gli impediva di dormire. Fu così che Lenin cominciò a dettare la prima parte della sua cosiddetta “Lettera al Congresso”. In questa parte, mostrando d'aver intuito che il partito, nelle mani di Stalin, si stava trasformando in un organo burocratico e autoritario, egli avanzava la necessità di aumentare l'effettivo del CC facendovi entrare degli operai e dei contadini (50-100 membri).

Poi, sempre per evitare le ingerenze amministrative del partito in tutti i settori statali, chiede di assegnare “un carattere legislativo alle decisioni del Gosplan”, la commissione preposta alla pianificazione economica. Su questo specifico aspetto avviene la prima manipolazione operata dagli agenti di Stalin. Il testo infatti diceva che Lenin voleva andare incontro alle esigenze di Trotsky, ma nella versione ufficiale dattiloscritta furono aggiunte le parole “fino a un certo punto e a certe condizioni”.2 Di questa interpolazione Trotsky non saprà mai nulla, come non sospetterà mai che l'appunto di Lenin del 27 dicembre 1922, in cui veniva detto che Trotsky non doveva essere presidente del Gosplan, era un altro falso.

Il 24 dicembre, davanti alle insistenze dei medici che imponevano di cessare ogni incontro con la stenografa, Lenin pone un ultimatum: o lo si autorizza a dettare il suo “diario” per qualche minuto al giorno, oppure rifiuterà categoricamente ogni cura. Lenin in pratica supponeva che la parola innocente “diario” gli avrebbe permesso più facilmente d'ottenere l'assenso dei medici.

Lo stesso giorno, dopo essersi consigliati coi medici, Stalin, Kamenev e Bucharin, prendono la seguente decisione: “1) Lenin è autorizzato a dettare per 5-10 minuti al giorno, ma non deve dettare delle lettere e non deve aspettarsi una replica alle sue note. Le visite sono proibite. 2) Né i suoi amici, né le persone del suo più vicino entourage debbono dargli informazioni sulla vita politica, per non dargli modo di inquietarsi”. Neppure la lettura dei giornali gli viene consentita.

Lenin può comunque dettare la seconda parte della “Lettera” in cui delinea i ritratti dei maggiori leader del partito. La stenografa, Maria Volodicheva, annota nel suo diario che Lenin le ha più volte ribadito il carattere assolutamente confidenziale di quanto le aveva dettato i giorni 23 e 24 dicembre e che le note dovevano essere preparate in cinque esemplari: uno per gli archivi segreti, uno per lui e tre per la Krupskaja, e poste in buste sigillate. La stenografa racconterà, nel 1929, d'aver bruciato la minuta e che sulla busta sigillata con la cera avrebbe dovuto scrivere che solo Lenin poteva aprirla e, dopo la sua morte, solo N. Krupskaja, ma che le parole “dopo la sua morte” le aveva tralasciate.

Il segreto dunque verteva esclusivamente sulla seconda parte della “Lettera”, poiché la prima (riguardante l'ampliamento del CC) era già stata consegnata il 23 dicembre al CC. Nel marzo 1923, a causa del secondo ictus, Lenin non era neanche più in grado di parlare.

Il 2 giugno 1923 la Krupskaja consegnò tutte le carte di Lenin a Zinov'ev. I membri dell'ufficio politico e una parte dei membri del CC erano già al corrente dei giudizi che Lenin aveva di taluni responsabili di partito, per cui ritennero opportuno non rendere pubblico il documento. Le volontà di Lenin non vennero rispettate. Infatti, se si esclude l'ampliamento dei membri del CC, si trascurarono completamente le proposte di rimuovere Stalin dalla carica di segretario del partito; di rivendere completamente il rapporto con le nazionalità dell'ex impero russo; di far assumere a Trotsky la difesa della questione georgiana (in quanto Lenin non si fidava dell'imparzialità di Stalin e di Dzeržinskij); di rivedere completamente la gestione dell'Ispezione operaia e contadina; di assegnare poteri legislativi al Gosplan.

La Krupskaja dichiarò che gli appunti di Lenin dovevano essere letti al XIII Congresso del partito, ma la trojka Stalin, Kamenev e Zinov'ev si oppose. Di fronte alle sue insistenze, si decise di leggerli in una riunione del Consiglio degli anziani (i capi delle delegazioni provinciali) il 24 maggio 1924.

La malattia aveva colto Lenin in un momento cruciale della storia del partito comunista e dello Stato sovietico. La guerra civile (1918-20) non si era ancora conclusa, le truppe d'intervento straniere continuavano ad occupare l'Estremo Oriente della nazione, la controrivoluzione interna non s'era ancora rassegnata a deporre le armi, i kulaki manifestavano nella Russia centrale, in Ucraina e in Siberia, il movimento dei Basmaci manifestava in Asia centrale, vi erano sollevazioni in diverse città. La fame e il disastro dell'economia venivano a peggiorare la situazione. E, ciononostante, le norme e le regole del “comunismo di guerra” (tutte le forze e le risorse messe al servizio della difesa, grazie alla nazionalizzazione della grossa e media industria, alla centralizzazione della produzione e della distribuzione, al divieto del commercio privato, al lavoro obbligatorio, all'uguaglianza dei salari, ecc.) facevano sempre più posto alla Nuova Politica Economica elaborata da Lenin.3

Lenin prevedeva che se il CC del partito non fosse stato ben saldo e compatto, l'accerchiamento della Russia sovietica da parte degli Stati imperialisti avrebbe potuto determinare il fallimento della rivoluzione. Temeva infatti che i conflitti interni al partito, fino a quel momento insignificanti, avrebbero potuto, di fronte alle pressioni del nemico esterno, diventare molto gravi. Di qui la richiesta di aumentare il CC fino a 50-100 unità, reclutando “operai e contadini medi” che non avessero un “lungo funzionariato sovietico” e che non appartenessero, né direttamente né indirettamente, alla casta degli sfruttatori. Probabilmente Lenin s'era accorto che in sua assenza, a causa della malattia, lo stato maggiore del partito non riusciva a superare le divergenze di opinioni per organizzare un lavoro intelligente, proficuo. Egli temeva soprattutto la minaccia d'una scissione nel momento più critico del Paese.

Lenin, in sostanza, auspicava la creazione di uno staff in grado di garantire il partito contro l'influenza dei tratti negativi di certi suoi dirigenti, in grado cioè di diminuire l'impatto sia dei fattori puramente soggettivi, che delle circostanze accidentali nella soluzione delle questioni più importanti, ma anche in grado di creare le condizioni in cui il contenuto del lavoro di gruppo, rigorosamente centralizzato, del CC, non superasse il quadro, non meno rigorosamente definito, delle sue competenze.

Sintomatico è il fatto che la frase di Lenin: “né il segretario generale, né alcun altro membro del CC” dovevano essere in grado d'impedire un controllo sulla loro attività, fu soppressa dalla “Pravda” del 25 gennaio 1923 e mai pubblicata in nessuna delle successive raccolte di scritti di Lenin, fino a quando è stata ripristinata, secondo il manoscritto originale, nel 45° volume della V edizione delle sue opere, apparso a Mosca nel 1970.

Relativamente ai tratti soggettivi dei leader del partito, Lenin, nell'ultima nota del 4 gennaio, rilevava che il difetto principale di Stalin: la “grossolanità” (“tollerabile” nei rapporti fra comunisti) era “inammissibile” per un segretario generale, per cui proponeva la sua sostituzione, anche per evitare che il dissidio fra Stalin e Trotsky, il più grave tra i dirigenti comunisti, rischiasse di danneggiare l'intero partito.

Quanto, su questa decisione, avesse influito il pericoloso atteggiamento assunto da Stalin (ma anche da Ordžonikidze e Dzeržinskij) nella questione delle nazionalità, era facile intuirlo. Le note del 30-31 dicembre su tale questione e sul progetto di autonomizzazione sono tra le più importanti del Testamento. Lenin temeva che il regime sovietico si sarebbe comportato in maniera imperialistica nei confronti delle nazioni più piccole o più arretrate. Stalin, in tal senso, s'era mostrato “fatalmente precipitoso”, “nefastamente collerico” verso il preteso “social-nazionalismo”; Dzeržinskij aveva dato prova di preconcetti imperdonabili; per Ordžonikidze, che aveva addirittura malmenato pubblicamente un compagno di partito, Lenin chiedeva una “punizione esemplare”.

Stalin, come noto, era stato eletto segretario generale del CC del partito nella primavera del 1922. Prima d'accedere a questo posto, egli dirigeva, quale membro dell'ufficio politico a partire dal marzo 1919, il commissariato per gli affari delle nazionalità e l'Ispezione operaia e contadina. Durante la guerra civile e fino a qualche anno dopo, Stalin si era mostrato un leader energico, volitivo, un grande organizzatore. A motivo di queste qualità, l'ufficio politico, nella seconda metà del 1921, gli aveva affidato il lavoro organizzativo in seno al CC. Lo si era incaricato di preparare i plenum del CC, le sessioni del comitato esecutivo centrale e di fare altre cose ancora: sicché, in pratica, egli veniva ad assumere le funzioni del segretario del CC.

Lenin, dal canto suo, era il capo del governo sovietico. Non occupava ufficialmente alcun ruolo nel partito, nel CC, ma dirigeva le sedute dei plenum del CC e dell'ufficio politico. Di fatto egli era a capo non soltanto del consiglio dei commissari del popolo, ma anche del CC del partito. In queste attività egli aveva come assistente il segretario del CC. Questa funzione non era ufficiale (non esisteva prima di Stalin un segretario “generale” del partito), ma, in pratica, uno dei segretari era stato scelto per dirigere il lavoro della segreteria.

Quando la salute di Lenin peggiorò in modo irreversibile, si prese la decisione di rafforzare la segreteria del partito. Il plenum del CC nominò Stalin, perché sembrava fosse il più idoneo a proseguire i lavori del partito in assenza di Lenin. Fu allora che si decise di dare il nome di “segretario generale” al titolare del nuovo posto, per accrescerne il prestigio e per distinguerlo dagli altri segretari. Col passare del tempo Lenin s'accorse che Stalin aveva concentrato nelle sue mani “un potere illimitato”, sia nell'ambito del partito che dello Stato. Per questo propose, senza fare nomi, di sostituirlo.

Difficilmente però avrebbero potuto sostituirlo Zinoviev o Kamenev, che nel Testamento vengono ricordati da Lenin per il loro comportamento tenuto nel 1917, allorché si opposero alla sollevazione armata, divulgando presso un giornale non comunista la decisione segreta del partito. Tuttavia, nonostante questa defezione, sia l'uno che l'altro erano rimasti membri del CC e dell'ufficio politico. Kamenev era addirittura vicepresidente del consiglio dei commissari del popolo, del consiglio del lavoro e della difesa, mentre Zinoviev era presidente del comitato esecutivo del Komintern. Era stato proprio Lenin ad appoggiare la candidatura di Kamenev, in seno al CC, nell'aprile del 1917, a motivo dell'ascendente ch'egli aveva su certi strati sociali popolari. Lenin non ha mai accettato di considerare il tradimento dei due come un “crimine personale”. Peraltro nel Testamento egli dice a chiare lettere che non si poteva rimproverare loro tale comportamento “più di quanto si possa rimproverare a Trotsky il suo non-bolscevismo” (Zinoviev e Kamenev furono fatti fucilare da Stalin nel 1936).

Quanto a Trotsky, Lenin conosceva bene la lunga, complessa e tortuosa lotta ch'egli aveva condotto contro il bolscevismo, ma sapeva anche che ciò non dipendeva tanto dai tratti negativi della personalità egocentrica di Trotsky, quanto dal fatto ch'egli rifletteva l'umore di certi militanti del partito e di vasti strati sociali. Grazie al suo talento d'oratore, egli conosceva i modi di galvanizzare quelle masse (specie i più giovani) sensibili alla fraseologia di sinistra. Trotsky era senza dubbio una personalità di rilievo: era stato, nel 1922, membro dell'ufficio politico, commissario del popolo alla difesa e alla marina militare, presidente del consiglio militare rivoluzionario della Repubblica. Il partito lo aveva anche incaricato di svolgere diverse funzioni nell'ambito dell'economia nazionale, anche se – come dice Lenin nel Testamento – “la sua eccessiva sicurezza e infatuazione per l'aspetto puramente amministrativo degli affari” rischiava di condurlo “troppo lontano”. Lenin sapeva bene che a Trotsky mancavano alcune qualità politiche fondamentali, quali p.es. la duttilità con gli uomini, il gusto della tattica, la capacità di manovra ecc.4

Trotsky non riuscirà mai ad agire con risolutezza contro Stalin anche perché fino al 1917 s'era posto contro Lenin. Quando questi aveva scritto, nei suoi ultimi appunti, che non si poteva rimproverare a Trotsky il suo “non bolscevismo”, voleva appunto dire che solo a partire dall'Ottobre era diventato “bolscevico”; ma voleva anche dire che, nonostante questo, egli, a differenza di Stalin, sapeva riconoscergli delle qualità di dirigente all'interno del nuovo Stato sovietico.

Probabilmente Lenin si rendeva conto che nessun leader, da solo, era in grado di sostituirlo e, forse proprio per questo, sperava che, allargando la partecipazione agli organi di direzione politica, l'esigenza di avere un leader con altissime capacità sarebbe venuta meno. Sottoponendo tutti i leader a un maggiore controllo e facendo ruotare le cariche, il problema della successione sarebbe stato meno gravoso.

Non a caso nelle note del 27-28-29 dicembre, riferendosi alla lettera del 28 dicembre sul carattere legislativo delle decisioni del Gosplan, Lenin disse ch'era difficile trovare in una sola persona la combinazione di queste qualità: solida preparazione scientifica in uno dei rami dell'economia e della tecnologia, visione d'insieme della realtà, forte ascendente sulle persone, capacità organizzative e amministrative. Ma forse – diceva ancora Lenin – se si fossero rispettate le sue condizioni, non ci sarebbe stato bisogno di cercare una persona del genere. D'altra parte egli si rifiutò di designare un proprio successore alla guida del partito.

Nel Testamento Lenin cita altri due leader: Bucharin e Pjatakov. Del primo esprime due giudizi apparentemente contraddittori. Da un lato infatti afferma che “non è soltanto il maggiore e il più prezioso teorico del partito, è anche, a ragione, il compagno più benvoluto”; dall'altro però sostiene ch'egli non ha mai ben compreso la “dialettica” e che le sue concezioni del marxismo sono un po' “scolastiche”. In effetti, la posizione assunta da Bucharin durante la conclusione della pace di Brest-Litovsk con la Germania (egli, insistendo sul rifiuto delle condizioni di pace tedesche, rischiò di portare la repubblica allo sfascio), era una testimonianza esplicita della sua carente dialettica: ciò che riconobbe, d'altra parte, lo stesso Bucharin. Non solo, ma Lenin aveva giudicato “scolastica ed eclettica” l'analisi dei fenomeni sociali che Bucharin aveva condotto in alcuni capitoli del suo libro L'economia del periodo di transizione (Bucharin morirà sotto la repressione staliniana del 1938).

Quanto a Pjatakov, Lenin gli riconosceva “volontà e capacità notevoli”, ma anche la stessa tendenza di Trotsky ad accentuare l'aspetto amministrativo (autoritario) delle cose, per cui non si poteva “contare su di lui su una seria questione politica”. Tuttavia, sia per questo caso che per quello precedente, Lenin sperava che i difetti avrebbero potuto, col tempo, essere superati: in fondo Bucharin aveva solo 34 anni e Pjatakov 32; si può quindi pensare che i due, col tempo, avrebbero potuto costituire un tandem vincente, benché al momento i leader più importanti fossero Trotsky e Stalin.5

Il 23 gennaio 1923 egli detta un lungo articolo sull'Ispezione operaia e contadina, destinato alla “Pravda”, da discutere in congresso. Bucharin non aveva intenzione di pubblicarlo. Quando lo si fece, il 25 gennaio, fu omesso l'attacco esplicito contro Stalin. La stessa Krupskaja s'era accorta che quando Lenin criticava esplicitamente Stalin, quest'ultimo veniva sempre difeso, negli anni della malattia di Lenin, da Kamenev, Zinov'ev, Bucharin, Dzeržinskij, Kujbyšev, Ordžonikidze... Tutti meno che da Trotsky. In una sua lettera a Zinov'ev del 31 ottobre 1923 lei si chiedeva: “che senso avrebbe la sua guarigione se i suoi amici più intimi hanno un simile atteggiamento nei suoi confronti e prendono a malapena in considerazione il suo punto di vista, e lo distorcono?”.6

La sorte del testamento

Che cosa accadde dopo che la Krupskaja presentò alla commissione del CC il Testamento di Lenin? La commissione era composta da Stalin, Kamenev, Zinoviev e altri ancora. Il plenum del CC del 21 maggio 1924 adottò la risoluzione, dopo aver ascoltato il rapporto di Kamenev, di divulgare il contenuto della “Lettera” non alla seduta dello stesso Congresso, ma separatamente, alle riunioni delle varie delegazioni. Si precisò anche che i documenti di Lenin non sarebbero stati riprodotti, e per questa ragione non vennero pubblicati.

I rapporti sulla “Lettera” vennero fatti alle delegazioni da Kamenev, Zinoviev e Stalin. Stando alla loro interpretazione, Lenin, riferendosi alla rimozione di Stalin dalla funzione di segretario generale, la considerava come un'ipotesi di cui tener conto, non come una necessità. In fondo Lenin non aveva trovato niente di preciso, di oggettivo, da rimproverare a Stalin: la sua riserva verteva su questioni di carattere soggettivo (anche se, ma questo non fu mai sottolineato, egli le riteneva particolarmente gravi, avendo intuito che si stavano trasformando in un problema politico).

Kamenev comunque espose il contenuto della “Lettera” in modo da far credere che soltanto i tratti personali del carattere di Stalin erano stati messi in discussione e non anche il fatto ch'egli aveva concentrato su di sé un enorme potere e che aveva gestito malissimo la questione delle nazionalità. Dal canto suo, Stalin giurò di tener conto delle osservazioni critiche mossegli da Lenin.

Alcuni storici hanno sostenuto che non si provvide a sostituire Stalin perché si temeva che il suo posto l'avrebbe preso Trotsky, il quale, non meno di Stalin, aspirava a una leadership maggiore in seno al partito e in più era di tendenza “menscevica”. Ma questa versione dei fatti contrasta proprio con l'affermazione di Lenin secondo cui Trotsky era caratterizzato dal suo “non-bolscevismo”: il che doveva escludere a priori la proposta di una sua candidatura a un posto così importante.

Il Testamento avrebbe sicuramente meritato una più attenta discussione, ma non essendo stato riprodotto, nessun delegato ebbe mai modo di leggerlo personalmente. In sostanza, il dibattito venne indirizzato unicamente sulle proposte di Lenin riguardanti la struttura organizzativa degli organi dirigenti del partito. Trotsky s'era allora risolutamente opposto all'idea di ampliare il CC agli operai. Formalmente però la proposta di Lenin venne accettata. Il XII Congresso del partito (1923) fece passare il numero dei membri del CC da 27 a 40; il XIII Congresso (1924) li portò a 53. Tuttavia, il progetto di Lenin di associare gli operai e i contadini alla direzione del partito non si realizzò, in quanto a quelle classi sociali si preferirono gli appartenenti alla piccola borghesia, più facilmente manovrabili.

Nel 1927 il XV Congresso adottò la risoluzione di pubblicare la “Lettera” di Lenin in una Raccolta delle sue opere, ma poi il testo venne pubblicato solo in un “bollettino segreto”. Nell'ottobre dello stesso anno, al plenum del CC, Stalin parzialmente citò e commentò nel suo discorso la “Lettera” di Lenin. Il discorso venne poi inserito nelle Opere di Stalin in maniera sintetica: totalmente esclusi furono i passaggi relativi alla proposta della sua rimozione. Durante il periodo della dittatura staliniana il Testamento fu addirittura considerato inesistente, benché nel 1927 fosse apparso all'estero per opera di alcuni simpatizzanti trotzchisti. Sarà solo nel 1956 che la rivista Kommunist pubblicherà integralmente questo testamento politico, che ora si trova anche nella V edizione delle Opere complete di Lenin (in lingua russa). Nel 1957 e nel 1963 apparvero altre due importanti testimonianze a favore dell'autenticità del documento, di una delle segretarie di Lenin, L. A. Fotieva: Dai ricordi su Lenin e Diario delle segretarie di turno di Lenin.7

Dal leninismo allo stalinismo

In astratto ci si può anche chiedere se la burocrazia montante nell'apparato del partito avrebbe subito una battuta d'arresto rimuovendo Stalin dal suo incarico di segretario generale, ma in concreto è difficile rispondere a una domanda del genere. Probabilmente il rischio si sarebbe riproposto anche con un altro dirigente. Era infatti la struttura centralizzata del partito, sicuramente indispensabile per compiere la rivoluzione e vincere la controrivoluzione, a ostacolare la realizzazione di un socialismo veramente democratico: essa, prima o poi, avrebbe creato un nuovo “Stalin”. Lo dimostrano due fatti: 1) i compagni di partito che sostennero Stalin contro Trotzky non si resero conto, se non quando era troppo tardi, che Stalin non aveva alcun senso né della democrazia né dell'etica; 2) lo “stalinismo” andò avanti per altri 30 anni dopo la morte del dittatore (come “stagnazione”), anche a dispetto della destalinizzazione avviata da Chruščëv.

Con quella struttura centralizzata (sicuramente indispensabile per compiere la rivoluzione e per difenderla) si volle imporre a tutta la società una pianificazione statale dell'economia del tutto favorevole alla grande industria, che il mondo contadino avrebbe dovuto pagare in prima persona, o con le buone o con le cattive. Probabilmente con altri dirigenti, meno rozzi e brutali di Stalin, le cose sarebbero procedute più lentamente: forse non ci sarebbe stata una collettivizzazione forzata dell'agricoltura, né lo sterminio dei kulaki, né il periodo del terrore; sicuramente la questione delle etnie e delle nazionalità sarebbe stata affrontata diversamente e altrettanto certamente la Russia avrebbe vinto con più facilità la II guerra mondiale. Ma prima o poi i nodi fondamentali (come p.es. le ricadute dell'industrializzazione sull'ambiente naturale o l'insufficiente democrazia diretta) sarebbero venuti al pettine.

L'ideologia staliniana era decisionista proprio nel senso che, nel costruire un socialismo meramente “statale”, non voleva perdere tempo in inutili discussioni. Stalin creò un partito le cui funzioni coincidevano sostanzialmente con quelle dello Stato: quest'ultimo era lo strumento principale con cui il partito realizzava la propria volontà. E il partito, nelle mani di Stalin, eliminava “fisicamente” non solo gli oppositori politici, ma anche tutti quelli che davano fastidio alla personalità meschina e rancorosa del suo leader.

Lenin era circondato da compagni di partito che, quanto a senso della democrazia e dell'etica, erano piuttosto scarsi. Probabilmente la più ferrata in materia era sua moglie. Purtroppo egli non ebbe il tempo per impostare in maniera concreta la democrazia diretta, che è quella forma di gestione politica delle risorse e dei problemi che non ha bisogno di leader specifici.

Il socialismo scientifico era l'ideologia degli operai, che nutriva  un certo culto per il progresso tecnico-scientifico, così ben visibile nella forma dell'industrializzazione e nello sviluppo dell'urbanizzazione. La differenza tra socialismo e capitalismo stava soltanto nella gestione della proprietà dei mezzi produttivi. Qualunque altra idea contraria al socialismo statale sarebbe stata considerata favorevole al “socialismo della miseria” o a una restaurazione del capitalismo, eventualmente con un parziale controllo da parte dello Stato.

Non solo, ma si pensava anche che qualunque altra idea contraria allo statalismo non avrebbe fatto altro che destinare l'Urss a perdere il confronto economico e militare col capitalismo occidentale, semplicemente perché l'occidente disponeva di un immenso impero coloniale da sfruttare, con cui peraltro aveva saputo imborghesire il proprio proletariato industriale e i dirigenti dei partiti di sinistra. Il proletariato industriale dell'occidente è sempre stato complice (in maniera diretta o indiretta) dell'imperialismo borghese nello sfruttamento delle colonie del Terzo mondo.

Lo stalinismo non fu una creazione del leninismo, ma sicuramente il leninismo non fu in grado d'impedire (non ne ebbe il tempo) la formazione di un socialismo meramente statale, benché Lenin avesse pienamente accettato l'idea di Marx ed Engels secondo cui lo Stato doveva progressivamente “estinguersi”. La storia però ha dimostrato che a “estinguersi” è stato proprio il “socialismo statale”, che inevitabilmente, a prescindere dalle intenzioni soggettive di chi lo edifica, presenta caratteristiche dittatoriali, totalmente incapaci di democrazia.8

L'insegnamento che si può trarre dagli avvenimenti degli anni 1922-24 è che il socialismo democratico non può essere affidato alle caratteristiche soggettive dei leader politici. Occorre saper porre delle condizioni oggettive, di tipo eminentemente sociale, che prescindano totalmente da tali caratteristiche. Non ci si può affidare alla casualità dei temperamenti, delle inclinazioni, delle qualità psicologiche o morali di questo o quel leader carismatico. Occorre creare delle comunità in cui la gestione delle risorse venga affidata alla comunità stessa, in cui le decisioni vengano prese da un collettivo locale, che è responsabile del proprio destino, essendo situato in un determinato e circoscritto luogo fisico. La proprietà collettiva dei mezzi produttivi va gestita dalla società civile in autonomia, senza alcuna presenza statale. Qualunque decisione collegiale che vada al di là delle singole comunità, non può implicare l'istituzione di organismi permanenti.

Non solo lo Stato deve scomparire e, con esso, qualunque istituzione burocratica e amministrativa, ma deve scomparire anche il partito, la cui presenza indica, in maniera inequivocabile, la separazione tra lavoro intellettuale e manuale, originata dallo sviluppo dei sistemi sociali antagonistici.

Se non esiste proprietà privata, non esistono classi sociali contrapposte. Di conseguenza la politica intesa come scontro di potere tra classi del genere perde la sua ragion d'essere. La politica deve diventare il momento e il luogo delle decisioni comuni, mentre la realtà quotidiana deve riguardare la gestione delle risorse comuni. Soltanto quando tale gestione incontra dei problemi, che non possono essere risolti individualmente o da una realtà locale, la politica riacquista il proprio senso. Tuttavia essa deve limitarsi a porre le condizioni esteriori che permettono alle persone di risolvere i loro problemi comuni. Deve porre le condizioni che permettono alla libertà di coscienza di esprimersi adeguatamente. Non può indicare alla coscienza come “deve” esprimersi, poiché la coscienza viene definita “umana” solo se può esprimersi liberamente.

La coscienza umana può esprimersi liberamente solo se sa quali sono le condizioni formali, esteriori, in cui può farlo, che sono poi le condizioni in cui si deve tener conto delle esigenze di ogni componente della comunità. Non c'è libertà senza necessità. Le condizioni formali sono una necessità oggettiva di cui si deve tener conto per essere liberi. Le condizioni ovviamente possono variare, ma una comunità, se vuole restare libera, deve farlo con una decisione collettiva. La politica serve appunto per prendere decisioni collettive, vincolanti quel tanto che basta per continuare a sentirsi liberi.

Leninismo e neoleninismo

Chiavi di lettura da approfondire

Lenin aveva capito che per realizzare il socialismo non occorreva studiare nei dettagli il funzionamento del capitalismo (come fece Marx), ma occorreva organizzare un partito rivoluzionario. Egli studiò l'economia capitalistica solo per dimostrare ai populisti che in Russia il capitalismo stava diventando una realtà inevitabile, che avrebbe spazzato via la comune rurale e che in ogni caso tale evidenza non si sarebbe potuta evitare con una diversa gestione dell'agricoltura, più democratica. E i suoi studi sull'imperialismo volevano appunto dimostrare che tale processo si stava svolgendo sul piano internazionale.

Fatto questo, egli si concentrò unicamente sul compito politico-organizzativo: il problema fondamentale, per lui e per tutti quelli del suo partito, era quello di conquistare il potere, facendo in modo che le due classi principali, operaia e contadina, si sostituissero alle altre due dominanti, borghese e latifondistica, nella guida del paese.

Il difetto maggiore di Lenin è stato quello di aver concesso alla politica un primato ingiustificato rispetto a quello che deve avere l'essere umano.

Lenin superò il primato che Marx concesse all'economia, ma non riuscì a porre l'essere umano al di sopra della politica, anche se di questo problema egli era consapevole (e in maniera drammatica nell'ultimo periodo della sua vita). Se l'avesse fatto in maniera organica, coerente, non avrebbe avuto paura di evidenziare i pregiudizi di Marx nei confronti della classe contadina o le sue ingenuità nei confronti della prassi rivoluzionaria (che considerava come esito inevitabile dello scoppio delle contraddizioni economiche).

L'essere umano non può essere sottomesso ad alcuna legge né ad alcuna scienza. E quando si parla di “essere umano” bisogna intendere l'uomo in generale e non soltanto l'appartenente a una classe particolare. I conflitti di classe che si sperimentano nella vita borghese non possono essere affrontati solo in maniera politica.

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Il più grande torto che si possa fare al leninismo, che fu essenzialmente un'esperienza politico-rivoluzionaria, è quello di servirsi delle sue acquisizioni teorico-politiche per interpretare schematicamente il presente: il che porterebbe a sovrapporre l'ideologia alla realtà.

Come non rendersi conto che il leninismo fu un'applicazione assolutamente creativa e originale del tradizionale marxismo? Il leninismo non era implicito nel marxismo, o comunque, se lo era, occorreva una cultura non occidentale, o meglio, non imborghesita per farlo emergere in maniera così esaltante. E come non rendersi conto che se veramente si desidera una società democratica e socialista bisogna applicare le acquisizioni del leninismo in una maniera non meno creativa?

Al marxismo occidentale è sempre mancata la fondamentale determinazione della prassi rivoluzionaria. Esso oscilla continuamente fra la teoria astratta di Scilla e l'estremismo settario di Cariddi. Tutto l'opportunismo della socialdemocrazia riformista appartiene al primo gruppo. Il resto appartiene sostanzialmente ai terroristi oppure a formazioni numericamente molto esigue.

Ciò che i gruppi, che si rifanno al marx-leninismo, non riescono assolutamente a capire, è che l'originalità di un “neoleninismo” non può scaturire che da un costante rapporto con la realtà concreta: un rapporto “pratico”, di affronto sistematico del bisogno e di denuncia delle ingiustizie sociali. Cercare di applicare alla realtà propri schemi precostituiti è quanto di più assurdo si possa compiere in nome del leninismo.

Fare la fatica di misurarsi con le contraddizioni del presente e proporre nuovi criteri risolutivi: questo è il compito del moderno leninismo. Forse la perestrojka di Gorbačëv avrebbe potuto riuscire nell'impresa, ma l'immaturità delle masse, conseguente a un forzato centralismo, durato 70 anni, non le ha permesso di svilupparsi.

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Era straordinaria la capacità di Lenin di dire che gli errori sono inevitabili e l'importante è non negarli. Esattamente l'opposto di Stalin, e anche Trotsky non è che avesse grandi capacità di rivedere le proprie tesi.

Lenin era un pedagogista nato. La sua Nep fu in fondo l'ammissione che un socialismo statale avrebbe potuto portare la rivoluzione al fallimento, e i contadini non l'avrebbero certo difeso contro un attacco alla Russia da parte dei paesi capitalisti.

Lenin polemizzò per molti anni coi populisti, ma alla fine si convinse che la terra andava data direttamente ai contadini, da distribuirsi attraverso i soviet locali.

Dopo aver polemizzato tantissimo anche coi socialisti italiani, durante e subito dopo la fine della prima guerra mondiale, disse che l'esperienza di una dittatura di destra forse ci avrebbe fatto capire meglio l'idea della “violenza rivoluzionaria”, cioè il fatto che non si può pensare neanche minimamente di cambiare sistema di vita limitandosi a una semplice opposizione parlamentare.

Prima di morire scrisse un testo favorevole allo sviluppo delle cooperative, quelle piccole realtà di produzione e/o di consumo che i marxisti avevano sempre considerato un'espressione della piccola borghesia.

Tutta la sua opera fu una reinterpretazione dialettica del socialismo scientifico, mostrando che una lettura economicistica, cioè fatalistica, non avrebbe mai fatto uscire la Russia né dal feudalesimo né dal capitalismo. Prese da Marx e da Engels tutto quanto avrebbe potuto inserire in una visione rivoluzionaria della politica, la quale, ancora oggi, resta insuperata, e lo sarà almeno fino a quando non si arriverà a realizzare un socialismo autogestito a livello locale, basato sulla democrazia diretta.

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Il fatto che Lenin si dichiarasse contro la borghesia e contro il governo del proprio stesso paese, in piena guerra mondiale, era praticamente un fatto inedito rispetto agli atteggiamenti assunti da tutte le forze socialiste della II Internazionale (1889-1914). Ma sin dagli inizi del Novecento egli aveva fatto capire che il socialismo euroccidentale non era all'altezza del suo compito rivoluzionario: la socialdemocrazia tedesca la vedeva alle prese con una contraddizione insanabile fra la teoria marxista e la prassi borghese. Le sue critiche iniziano col dibattito intorno a Bernstein e si accentuano al Congresso di Stoccarda del 1907, a causa dell'opportunismo sulla questione della pace. Le critiche finiscono con l'investire anche il centrismo kautskyano.

Degli scritti di Kautsky Lenin aveva apprezzato molto la Questione agraria (1897), l'Antibernstein e la Via al potere (1909) e anche il testo Sul cristianesimo, ma aveva iniziato a criticare quello studioso e soprattutto quel leader politico tedesco sin dal 1904, ritenendolo molto vicino alle idee mensceviche. I dissensi erano sulla guerra imperialistica e sull'organizzazione del proletariato, e poi diventeranno sulla rivoluzione d'ottobre e sulla dittatura del proletariato. Kaustky infatti tendeva a minimizzare il pericolo dell'opportunismo in seno alla socialdemocrazia e non voleva più sentir parlare di sciopero generale contro l'eventualità di un conflitto mondiale e tanto meno in presenza di tale conflitto.

Indubbiamente ciò che sorprese Lenin fu il tradimento delle socialdemocrazie di tutti i paesi europei, le quali, al momento della guerra imperialistica, si schierarono dalla parte delle rispettive borghesie nazionali. Egli elaborò dei temi del tutto inediti nell'ambito del socialismo, come quello della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile; quello della corruzione dell'aristocrazia operaia e dei dirigenti sindacali e politici, dovuta al colonialismo praticato dai paesi capitalisti (un'aristocrazia formatasi negli anni 1871-1914, che furono relativamente “pacifici” nello sviluppo capitalistico europeo); quello della stessa dittatura del proletariato, cui Marx ed Engels avevano appena accennato; quello della rottura decisa coi socialisti riformisti, che tutti ritenevano controproducente nella lotta contro la borghesia; quello della fondazione di una nuova Internazionale (decisamente pretesa nelle Tesi dell'aprile 1917); quello di usare il termine “ideologia” non in maniera negativa, come avevano fatto Marx ed Engels, ma in maniera positiva, come forma di coscienza teorica e politica delle masse proletarie.

Al II Congresso della III Internazionale Lenin chiese che i partiti si chiamassero “comunisti” (in luogo di “socialisti” o di “socialdemocratici”), ponendo 21 punti come condizione per aderire alla nuova Internazionale. Tuttavia, appena sorge questo nuovo strumento politico, Lenin deve lottare contro un'altra tendenza, questa volta appartenente proprio ai partiti comunisti: l'estremismo. Questi partiti non si rendevano conto che una cosa è la coerenza teorica, un'altra la flessibilità politica. La critica dell'estremismo divenne inevitabile già alla fine del 1919.

Verso il 1920 aveva già iniziato a escludere categoricamente che ci potesse essere un movimento rivoluzionario mondiale senza l'unità tra il proletariato dei paesi colonialisti e il proletariato dei paesi colonizzati. Al III Congresso dell'Internazionale propose la tattica del “fronte unico”, volto a conquistare la maggioranza della classe operaia e a superare i limiti dell'estremismo settario. È costretto a negare che debba esistere un partito-modello da imitare e che anzi è necessario adeguarsi alle particolarità storiche di ciascun paese. Questo era già ben visibile nel preambolo della risoluzione relativa alla struttura organizzativa dei partiti comunisti, ma il resto del testo fissava criteri troppo rigidi per potersi definire “comunisti”, sicché Lenin lo sconfessò, ritenendolo troppo “russo” e correggendo il tiro al IV Congresso.

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Per la perestrojka gorbacioviana erano soprattutto le ultime opere di Lenin che bisognava rileggere, al fine di capire il senso del socialismo democratico. All'occidente progressista invece dovrebbero interessare di più le opere del giovane Lenin, quello dell'“Iskra”, l'organizzatore di un nuovo partito rivoluzionario, il Lenin di Che fare?. Ciò anche in considerazione del fatto che in occidente non ha alcun senso parlare di autogestione sociale o di autofinanziamento, poiché tutto il mondo produttivo trainante è nelle mani di pochi imprenditori. Sono loro (e i loro manager) che si autogestiscono, finanziando le loro imprese coi soldi dei lavoratori.

La perestrojka non avrebbe mai potuto portare l'occidente al socialismo, in modo pacifico, progressivo, senza una rivoluzione politica. È impossibile che gli imprenditori rinuncino spontaneamente ai loro monopoli. Anzi, la perestrojka, indirettamente, ha favorito la conservazione dello status quo in occidente, in quanto, dal punto di vista economico-commerciale, essa promosse una cooperazione reciprocamente vantaggiosa anche al capitalismo.

Al massimo la perestrojka avrebbe potuto dimostrare che le crisi del capitalismo dipendono dal capitalismo stesso (e non p.es. dalla “guerra fredda”), oppure che il socialismo, volendo, può anche diventare una società democratica. Più di questo la perestrojka non avrebbe potuto fare per l'occidente.

Il fatto ch'essa avesse rinunciato a riaffermare il valore della lotta di classe, dipese dalla convinzione che tale prassi non può essere teorizzata secondo i crismi della ineluttabilità o della indispensabilità. Alla lotta di classe il socialismo si piega per necessità, dopo aver maturato la certezza che tutti gli altri mezzi per sanare le contraddizioni si sono rivelati inefficaci. Anzi la perestrojka fece di tutto perché i conflitti ideologici non impedissero la collaborazione sul terreno socioeconomico (in politica interna, fra le diverse categorie sociali, ed estera, fra i diversi Stati).

Questo modo “umanistico” di fare politica non era in contraddizione con quello leninista, anzi gli era necessario come complemento, poiché una politica leninista che non tenga conto dell'umanesimo e della democrazia di una perestrojka (cioè di una ristrutturazione generale dell'economia e della società) si trasforma facilmente in una politica estremista, settaria, neo-stalinista.

La perestrojka russa ha senza dubbio aiutato il capitalismo a superare temporaneamente certe sue difficoltà economiche, ma la contraddizione tra capitale e lavoro tenderà inevitabilmente a riprodursi, specie se il Terzo mondo si opporrà con efficacia al rapporto neocoloniale. Ecco, in questo senso la perestrojka ha voluto togliere al capitalismo l'occasione di affermare che il socialismo è causa ultima delle crisi del capitalismo stesso.

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Lenin, per poter superare Marx, dovette assimilare il netto disincanto nei confronti del capitalismo. Ancor prima di Che fare? (che segna l'inizio di tale superamento), egli aveva capito che il capitalismo era la formazione sociale più forte, cioè ch'esso si sarebbe inevitabilmente imposto sulla società agricola in via di dissoluzione, contro le teorie dei populisti. E aveva capito che il capitalismo non era assolutamente riformabile in senso democratico, essendo una formazione sociale fortemente divisa in classi (contro l'opinione dei marxisti legali, degli economisti ecc.). Lenin non riconobbe mai alla borghesia alcuna funzione positiva, neppure quella d'aver accelerato la fine del servaggio, poiché in Russia l'introduzione del capitalismo comportò un netto peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori.

Quando Lenin si mise a cercare la strada per superare i limiti di Marx, non la trovò tanto sul campo della teoria economica del capitalismo (sebbene il testo dell'Imperialismo sia un necessario complemento del Capitale), quanto piuttosto su quello del metodo politico per rovesciare il regime capitalistico.

Lenin comprese una cosa d'importanza fondamentale (che Marx aveva trascurato): il primato della politica sull'economia, ovvero l'esigenza di darsi una forte organizzazione partitica, in grado di mobilitare un vasto movimento popolare, col quale abbattere il potere costituito. Fu così che Lenin riuscì a conseguire sul terreno pratico ciò che Marx aveva acquisito solo sul terreno teorico.

Tuttavia, il leninismo venne ben presto tradito dallo stalinismo, come il marxismo era già stato tradito dai revisionisti della II Internazionale. In tal senso la perestrojka andava interpretata come un tentativo di recuperare il leninismo all'interno di una nuova consapevolezza politica (che è anche sociale e culturale): quella del primato dell'uomo sulla politica.

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Perché dunque la perestrojka non è riuscita a realizzarsi restando nell'ambito del socialismo?

  1. Perché, per poterla capire adeguatamente, occorreva assimilare tutto Lenin, non solo a livello intellettuale (come un manuale da studiare), ma anche e soprattutto a livello operativo, mediante un impegno politico personale (cosa che sotto lo stalinismo e la stagnazione era impossibile);

  2. perché la scoperta del primato dell'uomo implica uno sforzo maggiore di comprensione, di adeguamento personale delle proprie convinzioni e della propria vita alla nuova scoperta: uno sforzo assai superiore a quello che fece Marx di scoprire la vera natura del capitalismo, o a quello che fece Lenin di scoprire il valore della politica rivoluzionaria.

Finché gli uomini, dal basso, a partire dalla vita quotidiana, non vivono l'esperienza dell'umanesimo integrale, nessuna perestrojka, dall'alto, potrà mai realizzarsi.

Lenin aveva perfettamente ragione quando diceva che la politica è la sintesi dell'economia. Senza la politica rivoluzionaria, le cose non si trasformano a vantaggio delle masse se il sistema in cui vivono è dominato dall'antagonismo. La vera politica – diceva Lenin – è quella fatta dalle masse guidate da un partito: se la politica si limita alla mera competenza di pochi professionisti, fatalmente essa si trasforma in uno strumento per la dittatura di qualche ceto o classe.

Marx, in un primo tempo, rifiutò la politica perché non aveva saputo scorgere un'alternativa reale al modello para-feudale del sistema prussiano; poi capì che tale alternativa andava cercata nelle masse, soprattutto nel proletariato. Sarà però Lenin a intuire che tale politica spontanea delle masse va guidata da un partito di intellettuali consapevoli, disciplinati e organizzati.

Le masse devono quindi riappropriarsi della politica, e gli intellettuali devono mettere al servizio delle masse la loro competenza. Se manca questa responsabilità, si tenderà sempre a scaricare sul governo o sul sistema le cause di tutti i mali sociali, si arriverà a pretendere cose impossibili, si assumeranno atteggiamenti irrazionali... Ma così la politica inevitabilmente si trasforma in un gioco competitivo (spesso dagli esiti drammatici) tra opposte fazioni che ambiscono solo a spartirsi il potere.

Il leninismo e la perestrojka di Gorbačëv hanno avuto questo di utile da insegnarci:

  1. che senza una politica consapevole delle masse, non avviene alcuna significativa trasformazione della società;

  2. che nessun'altra “scienza” è in grado di compiere tale trasformazione;

  3. che la trasformazione è veramente significativa solo se la politica si unisce alle esigenze più democratiche delle masse, espresse a tutti i livelli;

  4. che nessuna democratizzazione della vita sociale è possibile, in profondità, se le masse non vi si sentono attivamente coinvolte;

  5. che l'importanza della politica non si esaurisce con la trasformazione rivoluzionaria del sistema, poiché questa non può avvenire una volta per tutte;

  6. che il vero scopo della politica è quello di umanizzare la società, poiché solo così l'esigenza di ricorrere continuamente a una politica rivoluzionaria perderà il suo senso.

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Una qualunque rivoluzione politica, senza una parallela rivoluzione sociale e culturale, porta inevitabilmente a realizzare ideali opposti a quelli originari. Questo perché mentre all'inizio della lotta politica occorre essere democratici per ottenere un certo consenso, in seguito, conseguito l'obiettivo politico-rivoluzionario, l'ideale rischia sempre d'essere tradito se si vuole conservare il potere a tutti i costi.

Tale processo avviene anche involontariamente, inconsapevolmente (almeno fino a un certo punto), in quanto il tradimento è proprio una conseguenza della mancata rivoluzione sociale. Lenin si accorse di questo pericolo alla fine della sua vita e cercò con tutti i mezzi di porvi rimedio, ma il partito, dopo la sua morte, preferì accentuare l'autoritarismo della politica.

Ogni decisione di non voler riporre nel popolo piena fiducia, rischiando anche che lo stesso popolo si serva di questa fiducia in maniera irrazionale, porta inevitabilmente all'affermarsi di quelle correnti autoritarie che non credono nelle capacità democratiche delle masse e che sanno però sfruttare molto abilmente le debolezze di chi vuole la democrazia ma non è capace di volerla sino in fondo.

Le migliori idee non sono quelle più democratiche di altre, ma quelle che intendono il concetto di democrazia in maniera pratica. In tal senso, a un filosofo progressista ma isolato, è sempre preferibile un filosofo che rinuncia, in parte, a esprimere tutte le sue concezioni progressiste, al fine di poter avvicinare meglio le masse ad alcune sue concezioni progressiste, pensando poi di elevare quelle masse, con pazienza, al suo livello di consapevolezza.

Un filosofo che non conosce la pedagogia o la psicologia sociale o la tattica politica, è un cattivo filosofo, poiché il valore delle sue teorie non riscatterà il disvalore della sua pratica.

La pratica – si è sempre detto – è in ultima istanza il criterio della verità: in realtà lo è anche in prima istanza, nel senso che lo scontro fra verità opposte si decide sempre sul terreno della prassi. Dire “in ultima istanza” significa presumere che dal momento in cui inizia lo scontro al momento in cui si conclude, sia passato un certo tempo. Dire invece “in prima istanza” significa che già in questo tempo ci si deve misurare sul terreno della prassi.

Se proprio si vuole continuare ad usare la definizione engelsiana di “in ultima istanza”, la s'intenda solo in questo senso, che, dovendo scegliere fra una verità teorica e una pratica, è preferibile scegliere, “in ultima istanza”, quella pratica. Cioè è sempre meglio garantire una verità operativa, anche se non piena, piuttosto che una piena verità senza i mezzi per sostenerne gli effetti.

La rivoluzione politica, senza rivoluzione sociale, non fa che rinviare nel tempo la liberazione dell'uomo. E siccome ad ogni rivoluzione politica le masse s'illudono ch'essa sia l'ultima, spesso accade che proprio a causa del fallimento degli ideali rivoluzionari, le condizioni sociali delle masse invece di migliorare peggiorino.

In Europa, a partire dalla civiltà greca, ma anche prima, da quella etrusca o da quella fenicia, è sempre accaduto che ogni volta che le classi meno abbienti di un determinato territorio (città, regione, ecc.), hanno rivendicato e ottenuto taluni diritti, soltanto dei diritti, senza cioè mettere in discussione, alla radice, il problema dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, è sempre accaduto che le classi più agiate hanno cercato di recuperare i privilegi perduti, cominciando a sfruttare quelle stesse classi lavoratrici con mezzi e metodi più sofisticati, oppure sfruttando altre popolazioni di altri territori.

Questa legge della storia delle società antagonistiche la si può vedere in atto non solo nell'Europa occidentale ma anche in quella orientale del socialismo amministrato, ove l'antagonismo aveva assunto la forma di una lotta tra Stato e società civile, tra partito e cittadini.

Il fatto che il socialismo scientifico non abbia saputo fare in occidente neppure una rivoluzione politica ha comportato, come conseguenza, che il capitalismo acquisisse, desumendoli proprio dal marxismo, quegli accorgimenti tecnici e organizzativi che gli hanno permesso di riprodursi ad libitum. E così, il capitalismo monopolistico è stato il tentativo di risolvere, con mezzi para-socialisti, una crisi interna al capitalismo concorrenziale, e quello monopolistico di Stato ha svolto lo stesso ruolo nei confronti del precedente capitalismo. In entrambi i casi il capitalismo ha saputo adattare delle idee socialiste ai propri interessi, rafforzandosi ulteriormente.

Con questo naturalmente non si vuole sostenere che le rivoluzioni politiche non devono essere fatte, né che non devono essere fatte senza rivoluzione sociale: semplicemente che, facendole, bisogna portarle alle loro conseguenze più logiche sul piano sociale, altrimenti esse si trasformeranno, inevitabilmente, in una situazione di privilegio per pochi e di condanna per molti.

Ciò inoltre comporta che oggi, per abbattere il capitalismo o il socialismo di stato, gli sforzi della democrazia dovranno essere molto più grandi di quelli che si dovevano sostenere nel passato. Anche perché le reazioni del capitale o della burocrazia saranno sicuramente più forti. Le contraddizioni irrisolte tendono col tempo ad acutizzarsi, ad approfondirsi e anche a estendersi. La loro soluzione richiede praticamente l'impegno di tutti i singoli cittadini.

La rivendicazione del “benessere” (socioeconomico) dovrebbe essere fatta sulla base della convinzione che un benessere “assoluto”, “totale”, garantito al 100%, è profondamente nocivo: non solo perché esso viene “pagato”, di regola, dalle innumerevoli sofferenze della maggioranza di una determinata popolazione, ma anche perché esso porta con sé, inevitabilmente, la decadenza dei costumi, la corruzione morale, il degrado ambientale, il disfacimento della civiltà.

Più che di “benessere”, gli uomini dovrebbero occuparsi di “giustizia”, di “uguaglianza” (nella diversità e nella libertà), di “equità sociale”. Non dovrebbe però trattarsi di una “giustizia verso il privilegio” (cioè verso l'alto), bensì di una “giustizia verso l'uguaglianza” (cioè verso il basso).

Bisogna rifiutare l'idea di dover rivendicare gli stessi privilegi di chi sta al potere (politico ed economico): questa forma di “giustizia” comporta sempre un'ingiustizia nei confronti di chi non è in grado di fare le stesse rivendicazioni. E non si dica che anche costui trarrebbe un vantaggio personale dalle richieste di “giustizia verso l'alto” fatte dai gruppi sociali di medio benessere. I fatti hanno sempre dimostrato che nella realtà del privilegio allargato, gli egoismi corporativi, se soddisfatti, difendono ancor più tenacemente i loro interessi, proprio perché sanno quanto fatica costi farli valere nell'ambito della competizione antagonistica.

Viceversa, la democrazia verso il basso significa obbligare chi dispone di potere politico e/o economico, ad accontentarsi del minimo indispensabile. Il problema che a questo punto si pone è però il seguente: chi può obbligare a questa sobrietà senza rischiare di trasformarsi, egli stesso, in un dittatore? La risposta a tale domanda contiene anche la spiegazione del motivo per cui sono crollati i regimi est-europei.

Una democrazia verso il basso non può essere imposta con la forza dello Stato o di un partito, altrimenti si trasforma in una dittatura. Qui è il popolo che deve agire in maniera sovrana. E nessun popolo, ovviamente, può essere disposto ad accettare un tenore di vita essenziale, sobrio, moderato, senza avere in cambio la piena libertà di pensare e di agire, nel rispetto dell'altrui pensiero e azione. Ci si può sacrificare sul piano materiale in nome di un ideale, non ci si può sacrificare quando i primi a tradire l'ideale sono proprio coloro che dovrebbero meglio rispettarlo.

Il politico dovrebbe unicamente avere come scopo della sua vita quello di realizzare, con l'aiuto delle masse, determinate idee di giustizia e di equità sociale. Soldi e potere dovrebbero essere finalizzati a questo obiettivo, e per essere sicuri che il loro uso sia equo, bisognerebbe ridurli al minimo. Ciò significa che un politico, dotato di pieni poteri, non dovrebbe governare che su un territorio molto ristretto. Quanto più il territorio s'allarga, tanto più “simbolico” (non reale) dovrebbe essere il potere del politico.

Il politico “nazionale” o addirittura “sovranazionale” dovrebbe avere un potere esclusivamente morale, che è quello basato sul suo esempio personale. L'unico vantaggio che un politico merita di godere è, in pratica, il consenso delle masse. Un politico nazionale potrebbe dirsi “nazionale” solo nella misura in cui vaste masse popolari (attraverso i mass-media, gestiti direttamente dalle stesse masse) si riconoscono nella sua personale posizione (etica e politica). Chi non ha un grande ideale non può diventare un grande politico. Nessun politico legato al potere o al denaro ha mai avuto idee veramente originali sul piano della democrazia e del socialismo.

La cosa che desta maggiore interesse nella storia dell'Europa occidentale è che i protagonisti principali nella formazione della realtà dell'imperialismo (romano, feudale, borghese), sono stati non i partiti conservatori o aristocratici, bensì quelli democratici, che pretendevano d'essere progressisti.

Il fatto è semplice da spiegare. Lottando contro i ceti privilegiati, le masse democratiche non hanno mai saputo condurre la loro battaglia sino alle conseguenze più radicali sul piano sociale, ma si sono fermate sulla soglia della rivendicazione gius-politica. Una volta giunto al potere, il partito che le rappresentava ha avvertito subito l'esigenza – restando inalterato il conflitto fondamentale delle classi – di risolvere tale conflitto allargando i confini geografici dello sfruttamento (colonialismo), mentre, in politica interna, il partito (democratico) avvertiva l'esigenza di affermare una durissima dittatura, in virtù della quale s'impedissero nuove sommosse.

Ciò sta a significare che il fallimento dell'idea di democrazia (o di socialismo), va imputata anche alla scarsa determinazione delle masse, che spesso preferiscono accontentarsi di ottenere qualche diritto, senza preoccuparsi di risolvere alla radice il problema della disuguaglianza, dell'alienazione sociale, dello sfruttamento economico ecc.

Ogniqualvolta le masse di un Paese avanzato rivendicano maggiori diritti, senza riuscire a realizzare un'effettiva uguaglianza sociale, si ha, presto o tardi, come minimo, un peggioramento (dovuto al colonialismo) delle condizioni di vita di qualche Paese più arretrato.

Nell'Europa occidentale la politica è sempre stata concepita in modo separato dall'etica. Tale separazione probabilmente è dipesa dal fatto che, vivendo in una società divisa in classi, l'uomo occidentale non può servirsi della politica per realizzare determinati ideali. Non è che “non voglia”, è che proprio “non può”: è il sistema stesso che glielo impedisce. Un politico che persegue un fine ideale è, per il popolo, un uomo da mettere alla prova, mentre per il potere conservatore è un cattivo politico, un ingenuo destinato ad essere sconfitto dal politico opportunista, cioè dal politico che divide la politica dalla morale e che lotta esclusivamente per il potere, per la salvaguardia di quel sistema che si preoccuperà di definire la strategia di tale politico con termini come “realistica”, “concreta”, “fondata” ecc.

Gli “ideali” che può perseguire il politico occidentale sono quanto di più astratto e generico si possa pensare, e il popolo che s'illude di vederlo agire con coerenza nella prassi, non s'accorge che con questo attendismo favorisce la progressiva corruzione del politico, che sa di poter agire senza essere veramente controllato. La politica, in questo senso, smetterà di essere divisa dalla morale quando il politico smetterà di essere diviso dalle masse.

Questo discorso vale per tutti i politici di professione, siano essi di opposizione o di governo. Le astrattezze e le incoerenze si riscontrano infatti in tutti i partiti, parlamentari e non: spesso anzi quelli che agiscono fuori delle istituzioni, invece di essere più vicini alle masse, sono ancora più settari e vittime delle loro ideologie.

Non che i discorsi dei parlamentari siano più comprensibili o più efficaci dei discorsi estremisti, ma essi per lo meno garantiscono ai ceti più benestanti una relativa partecipazione al potere, mentre certi partiti o movimenti extraparlamentari non riescono a garantire neppure un minimo di coinvolgimento alla lotta per il potere. Oggi è l'istituzione stessa del partito, a prescindere dal ruolo che ricopre, ad essere alienata e alienante, proprio perché priva di un movimento di base cui fare riferimento. Ma molti partiti (o movimenti) extraparlamentari, facendo un discorso meramente ideologico, non costituiscono alcuna alternativa (si vedano soprattutto quelli trotskisti, maoisti, bordighiani ecc.).

In Occidente ciò che più conta non sono le idee ma il profitto economico: è questo che, in ultima istanza, determina ogni scelta politica. Se una forza politica rifiutasse questo principio, dovrebbe anche rifiutare di fare una politica meramente parlamentare, poiché il parlamento è un'istituzione borghese che permette un elevato tenore di vita; mentre se rifiutasse il profitto svolgendo una politica settaria, resterebbe un'esperienza isolata, per pochi “eletti”.

C'è dunque solo un modo per cercare di anteporre al profitto il valore della persona, che è l'interesse a vivere nella giustizia: quello di fare la politica in stretto contatto con le masse, misurandosi di continuo con le loro necessità, con i bisogni locali, prima di tutto. Se manca questo rapporto, qualunque partito, anche il più idealistico, è inesorabilmente destinato a corrompersi.

In tal senso, quanto più i partiti parlano di “questione morale”, senza però voler mettere in discussione i meccanismi che portano la politica a separarsi dalla morale e il politico dai cittadini, tanto più si deve pensare ch'essi vivano nella corruzione e che facciano di tale “questione” un'arma meramente propagandistica.

Il dilemma quindi non è quello se stare dalla parte di Guicciardini o di Machiavelli, ma quello di come superare il falso principio secondo cui per fare una buona politica non bisogna tener conto della morale. Si può affermare un valore in politica e un disvalore nell'etica? Si può sostenere che un valore affermato in sede morale possa avere conseguenze nefaste in sede politica? Si può sostenere che siccome il sistema è completamente corrotto, è impossibile praticare in maniera coerente i princìpi della morale? O, al contrario, è possibile sostenere che se si è nel giusto sul piano politico, lo si è anche automaticamente a livello etico? Normalmente lo si fa, ma questo è un limite delle società basate sull'antagonismo sociale. Non a caso le forze conservatrici vincono sempre nel loro duello con quelle progressiste, tant'è che quest'ultime, se riescono a giungere al governo, inevitabilmente si comportano come i loro avversari. Di qui il grande assenteismo dei cittadini durante le campagne elettorali. I grandi partiti di governo affermano la loro democrazia con poco più di un quarto dei voti complessivi che si sarebbero potuti dare se tutti gli elettori fossero andati a votare.

Quando l'establishment s'accorge che l'opposizione “progressista” di qualche partito assume posizioni giudicate “immorali” (ad es. è favorevole alla violenza di classe, oppure copre un militante, colpevole di qualche reato, solo per non ledere gli interessi del partito), diventa relativamente facile, al governo in carica, dimostrare che anche la posizione politica di quel partito è antidemocratica.

Le forze progressiste devono dunque arrivare ad adottare il seguente ragionamento, per essere vincenti: politica e morale si condizionano a vicenda; ciò che è vero (o legittimo) per l'una lo è anche per l'altra; le ragioni dell'una sono in relazione a quelle dell'altra. Un qualunque dualismo porta a danneggiare gli interessi sia della morale che della politica, poiché trasforma l'uomo in un mero strumento da utilizzare per l'acquisizione (o la conservazione) di un potere.

Paradossalmente oggi siamo arrivati alla conclusione che non è il perseguimento di un fine politicamente giusto, che può di per sé garantire la legittimità di quel fine. Occorre la conformità del fine politico ai valori umani universali, e una conformità non solo teorica ma anche pratica. È sempre preferibile una “piccola” pratica a una “grande” teoria.

Non c'è insomma alcuna tesi politica giusta che non possa essere condivisa moralmente, e nessuna posizione morale che non possa trovare una giustificazione politica. Senza questa unità di morale e politica, nessuna vera rivoluzione sarà veramente efficace, cioè destinata a durare nel tempo.

Gli illusi giudicano politicamente pessimista colui che non crede che il carisma democratico di singoli uomini politici possa trasformare qualitativamente il sistema parlamentare borghese, mentre il vero pessimista, in realtà, è colui che non crede nelle capacità organizzative delle masse, nella volontà politica della gente comune. Il vero pessimista è colui che non vuole impegnarsi in una politica che non sia quella tradizionale, cioè quella dei partiti di sempre, o quella delle obsolete istituzioni politiche. Questo individuo maschera il proprio pessimismo nei confronti delle masse con l'illusione nei confronti di qualche partito che si proclama anti-sistema (ad es. le Leghe). Nel senso cioè che questo individuo s'illude che un partito, solo perché sta all'opposizione, possa essere migliore di un partito di governo, o possa comunque, una volta giunto al potere, governare meglio. L'illusione sta appunto nel fatto che non si comprende la natura borghese di questo sistema, che tutto fagocita, strumentalizza e impoverisce. Questa democrazia è fatta su misura per gli ingenui.

La lungimiranza di Lenin

Perché Lenin vedeva più in là di tutti? Perché si metteva dalla parte degli ultimi, che per lui erano i nullatenenti, quelli che non possedevano un briciolo di proprietà, per cui non avevano nulla da perdere a sacrificare la loro vita per fare una rivoluzione contro il sistema.

Tra queste categorie di persone lui privilegiava gli operai industriali, che dovevano essere rappresentati da intellettuali privi di proprietà. I collaboratori più fidati degli operai non potevano essere che i braccianti agricoli o i salariati che nel mondo dell'agricoltura non erano proprietari di nulla.

Tra il proletariato industriale e quello agricolo Lenin preferiva il primo, anche se non negava la presenza di un'aristocrazia operaia corrotta dagli alti salari della borghesia imprenditrice. I motivi della sua preferenza erano tre: 1) l'industria era più importante dell'agricoltura perché garantiva la ricchezza d'un paese (la stessa agricoltura andava meccanizzata); 2) era molto più facile organizzare dei lavoratori concentrati in poche imprese che non quelli sparpagliati in terre di enorme estensione; 3) gli operai erano molto meno condizionati dalle idee religiose.

Lenin era convinto che il capitalismo, una volta entrato in Russia, avrebbe spazzato via tutte le tradizioni feudali del mondo agricolo, come già era avvenuto in Europa occidentale e nelle colonie anglo-francesi. Le comuni rurali, le comunità di villeggio, i feudi avevano già dimostrato di non possedere la forza sufficiente per opporsi a tale destino. L'unica soluzione era quella di compiere una rivoluzione socialista di tipo industriale, cioè un ribaltamento del sistema politico e, insieme, un utilizzo dell'industria del capitalismo per rendere più efficiente anche la produzione agricola. Senza sviluppo industriale, Lenin riteneva che la Russia sarebbe diventata una colonia dei Paesi capitalistici più avanzati del mondo.

Prima di fare la rivoluzione dell'Ottobre egli aveva di fronte a sé tre tipi di rivoluzioni, i cui errori non voleva ripetere: la Comune di Parigi del 1871; la rivoluzione contadina in Russia del 1905 e quella borghese, sempre in Russia, nel febbraio 1917, preceduta da altre importanti rivoluzioni borghesi (in Inghilterra, in America, in Francia...). Non aveva altri esempi cui attingere idee per compiere la sua rivoluzione proletaria.

In estrema sintesi l'insurrezione bolscevica ebbe queste caratteristiche:

1. doveva partire occupando la capitale dell'impero: San Pietroburgo;

2. doveva avere un carattere nazionale, per cui il consenso non poteva essere cercato solo nella capitale;

3. doveva utilizzare organi di governo locali, chiamati “soviet”, composti da operai, contadini e soldati, oltre ovviamente agli intellettuali;

4. doveva essere guidata da un partito fortemente centralizzato, la cui attività era pubblica e clandestina, a seconda delle esigenze e delle circostante;

5. non doveva essere un colpo di stato, ma un'insurrezione del popolo armato (nella fattispecie si doveva trasformare la guerra mondiale, cui la Russia zarista aveva voluto partecipare, in guerra civile);

6. appena fatta la rivoluzione, la dittatura contro gli sfruttatori, i sabotatori delle nuove istituzioni, i controrivoluzionari che cercavano qualunque aiuto esterno, i traditori delle idee del socialismo... sarebbe stata durissima.

Lenin si rendeva conto che i tanti secoli medievali dello zarismo e lo stile di vita borghese penetrato in Russia nelle grandi città (ma anche nelle campagne, soprattutto dopo la fine del servaggio) avrebbero posto dei limiti enormi alla realizzazione del socialismo, ma sapeva anche, avendo vissuto per molti anni all'estero, che sarebbe stato più facile compiere la rivoluzione nel momento in cui la Russia era considerata da tutti l'anello debole del capitalismo europeo.

Oltre il leninismo

Nel libro scritto contro Kautsky9 Lenin afferma che, una volta conquistato il potere, il proletariato deve esercitare una violenza rivoluzionaria contro la borghesia che glielo vuole togliere, e in questa forma di dittatura esso non può legarsi le mani rispettando le leggi.

Ora, quali sono le condizioni per cui una dittatura del genere non oltrepassi i limiti dei valori umani? La condizione può essere soltanto una, quella della democrazia diretta, che implica quella dell'autogestione locale dei bisogni di una determinata collettività. Infatti quanto più la democrazia viene delegata, tanto più vi sarà, da parte del delegato, la tentazione ad usare il potere ricevuto in forme e modi che con la democrazia non c'entrano nulla.

Questo perché non basta sostenere che il proletariato è in sé migliore della borghesia, per cui qualunque tipo di governo sarà sempre migliore di quelli borghesi, e che in qualunque tipo di dittatura la sua violenza troverà maggiori giustificazioni che non nell'ambito borghese. Non si può ipostatizzare il ruolo o la funzione di una classe sociale, neanche all'interno di una concezione politica che vede, come obiettivo finale, il superamento di tutte le classi e degli antagonismi sociali. Peraltro lo stesso Lenin, in Che fare?, aveva detto che al proletariato la consapevolezza di una rivoluzione globale andava data dall'esterno, in quanto, lasciato a se stesso, l'operaio si limita a fare delle semplici rivendicazioni salariali.

È certamente possibile che in un regime di democrazia diretta e di autoconsumo la funzione delle leggi venga meno. Tuttavia fino a quando sussiste la necessità di esercitare una violenza rivoluzionaria, l'uso delle leggi non serve solo per impedire le controrivoluzioni, ma anche per impedire che le rivoluzioni si trasformino in spietate dittature, cioè in un esercizio del potere politico che vada al di là di ogni valore umano.

Per Lenin la democrazia diretta era quella dei soviet (consigli locali di operai, contadini e militari). Questa forma di democrazia lo stalinismo è stato in grado di rimuoverla in maniera relativamente semplice. C'è stato quindi qualcosa che non ha funzionato nella rivoluzione d'Ottobre. Che cosa è presto detto.

Lenin era convinto che per vincere la guerra civile, la controrivoluzione e l'interventismo straniero occorresse uno Stato forte, un governo centralizzato, un “comunismo di guerra”. Ed ebbe ragione. Poi si accorse che se il governo non permetteva ai contadini di gestire autonomamente le loro terre, ricevute dalla rivoluzione, questa sarebbe fallita, e così decise di passare alla Nuova Politica Economica. Poi purtroppo morì, e i suoi seguaci non compresero che lo Stato non andava rafforzato ma progressivamente indebolito a favore della democrazia locale, politica ed economica. Si ebbe paura di un ritorno al capitalismo e si fece coincidere “socializzazione” con “statalizzazione”. Non si lasciò la società libera di autogestirsi. Si fece dello Stato il padrone assoluto di tutti i mezzi produttivi e, col tempo, lo si trasformò in una sorta di “capo mafioso”, che privilegiava la nomenklatura politica e amministrativa ed estorceva plusvalore a tutti i lavoratori.

Ora, com'è possibile sostenere che l'idea di estinguere progressivamente lo Stato non è stata portata avanti perché si temeva che, così facendo, la Russia, nel caso fosse stata di nuovo attaccata dalle potenze capitalistiche, sicuramente avrebbe perso il confronto? I fatti cos'hanno dimostrato? Che il confronto l'ha perso lo stesso, non sul terreno militare, bensì su quello economico.

Allora che cos'è che non ha funzionato? Non hanno funzionato una serie di scelte strategiche: 1) si è voluta fare della città e non della campagna l'asse portante del socialismo; 2) si è voluto creare un socialismo di tipo industriale, seguendo i criteri tecnologici dello sviluppo capitalistico; 3) si è fatto del proletariato industriale un soggetto più significativo della libera comune agricola; 4) non si è avuto alcun riguardo per lo sfruttamento della natura; 5) si sono voluti mantenere separati i lavori intellettuali da quelli manuali, ecc. In una parola si è fatto tutto quello che non si doveva fare per costruire un socialismo davvero democratico, che fosse lontano dal capitalismo non solo nei rapporti antagonistici tra capitale e lavoro, ma anche negli strumenti tecnici da usare.

Se le cose fossero andate diversamente, la Russia avrebbe perso lo stesso il confronto sul piano economico? O l'avrebbe perso su quello militare? Rispondere a queste domande ovviamente è impossibile. Tuttavia siamo proprio sicuri che un popolo unito, con una tecnologia molto meno sviluppata di una potenza straniera aggressiva, perde sempre il confronto? La Cina, il sud-est asiatio, la Corea del nord, Cuba... e tutti i paesi che si sono decolonizzati da soli a partire dal secondo dopoguerra non hanno forse dimostrato che ci si può liberare efficacemente dei propri nemici esterni anche con un livello di sviluppo di molto inferiore?

Semmai il vero problema è un altro. Ci si sarebbe dovuti chiedere se, puntando di più sull'agricoltura, è possibile liberarsi con successo dei condizionamenti che provengono dallo sviluppo dell'industria e quindi da quello della scienza e della tecnica. Qui le difficoltà sono davvero grandi, poiché, di primo acchito, a tutti piacciono le comodità, il benessere assicurato e anzi crescente, un lavoro poco faticoso e molto remunerativo e addirittura i lussi.

Per ottenere tutte queste cose l'occidente si è servito dello sfruttamento delle proprie colonie e ha saccheggiato, senza alcun ritegno, la natura. La Russia invece s'è dovuta accontentare delle proprie risorse interne. Se l'occidente non avesse avuto le colonie sudamericane, asiatiche e africane, sarebbe stato sicuramente molto più aggressivo nei confronti della Russia e di tutto l'est-europeo. Tuttavia, se si fosse comportato così, i comunisti russi avrebbero associato molto più facilmente la nozione di “benessere” con quella di “violenza”. Cioè avrebbero capito più facilmente che dietro le comodità garantite dallo sviluppo industriale vi è la tendenza a sottomettere le popolazioni tecnologicamente più deboli, proprio perché, una volta assaporato il gusto del benessere (quel benessere che supera le proprie esigenze quotidiane), non ci si vuole più rinunciare.

I comunisti russi si erano enormemente impauriti dei successi tecnologici dell'Occidente, che si riflettevano in una notevole superiorità economica, e temevano che, alla lunga, avrebbero perso il confronto anche sul piano militare. Di qui la fortissima esigenza di emulare il capitalismo anche laddove, in realtà, non ve ne sarebbe stato alcun bisogno. Non hanno avuto fiducia in loro stessi, cioè nella possibilità di poter vivere un'esistenza democratica, pacifica, sicura in condizioni di autoconsumo, di tutela ambientale, di autogestione locale dei bisogni collettivi. Hanno voluto fare della guerra civile, della controrivoluzione, dell'interventismo straniero una minaccia continuamente incombente, e la paura, alla fine, li ha sconfitti.

La rivoluzione e il problema del suo tradimento

La storia ha dimostrato che il tradimento è parte costitutiva di qualunque tentativo insurrezionale o di qualunque esperienza rivoluzionaria, riuscita o fallita che sia. Cioè la domanda non è sul “se” avverrà, ma sul “quando”. La II Internazionale arrivò a tradire gli operai, clamorosamente, non solo in tempo di pace, votando in parlamento a favore dell'imperialismo delle rispettive nazioni borghesi, e a favore dei crediti di natura militare con cui far scoppiare la I guerra mondiale, ma anche nel corso della guerra stessa, evitando accuratamente di trasformare la guerra imperialistica in guerra civile, anzi, accusando i comunisti russi d'averlo fatto e d'aver imposto la dittatura contro la reazione dei capitalisti e dell'aristocrazia terriera. Un atteggiamento, questo dei socialisti riformisti, assolutamente vergognoso, senza precedenti storici.

Forse per questa ragione si può sostenere che se non è possibile costringere nessuno a fare la rivoluzione, non si può neppure impedire a nessuno di tradirla. La rivoluzione va fatta nella libertà di coscienza, e sulla base della medesima libertà può essere tradita. Naturalmente quando si parla di “tradimento”, ci si riferisce a persone che sino all'ultimo momento non stavano dalla parte del nemico.

Il tradimento è, in realtà, un atteggiamento molto complesso, proprio perché è anzitutto nei confronti di se stessi, cioè nei confronti delle idee in cui fino a un momento prima si era creduto con convinzione. Naturalmente chi lo compie, difficilmente sarebbe disposto ad ammettere che, mentre tradiva, stava tradendo se stesso. In genere ci si rende conto d'essere stati dei traditori solo dopo un certo tempo, quando si può constatare che in seguito al proprio gesto gli eventi han preso una direzione inaspettata, che non si era prevista. Il pentimento avviene sempre troppo tardi, benché sia indispensabile per mettere a posto la propria coscienza, a prescindere dal perdono che si può ricevere, che comunque risulterà sempre molto gradito.

Ovviamente qui non si sta parlando di agenti infiltrati da parte del nemico, o di spie, doppiogiochisti di cui il nemico, dietro forti compensi, si serve per sabotare qualcosa d'importante dell'avversario. Queste mezze misure di bassa lega, favorite da governi senza scrupoli, inducono chi le compie a non avere una vera identità umana, ma una semplice identità mercenaria, che si prostituisce per denaro o che, in nome di un ideale, pensa di non avere alcun problema di coscienza ad assumere una doppia personalità. Peraltro non è mai con queste misure che si può vincere o perdere una guerra, realizzare o abbattere una rivoluzione. Al massimo si può accettare una rivelazione fatta spontaneamente da qualcuno collocato dalla parte del nemico. Poi sarà cura, da parte di chi la riceve, verificarne l'attendibilità.

Qui si sta parlando di militanti di un partito ufficialmente costituitosi tramite un'apposita riunione (congresso, conferenza...), si sta parlando di attivisti che giocano un ruolo significativo, di propagatori di idee rivoluzionarie, con cui si vorrebbe rovesciare un governo in carica o addirittura creare un'alternativa al sistema dominante, per costruire una società migliore, più giusta e democratica.

È difficile individuare con certezza le motivazioni che fanno scattare la decisione di tradire. Non esistono condizioni specifiche che possano impedire con sicurezza il formarsi di un'intenzione del genere. I motivi per cui si tradisce possono essere molto diversi. Qui se ne possono elencare soltanto alcuni:

1. Se non si è abituati a soffrire, a resistere alle privazioni, a vivere nelle ristrettezze, se la soglia del dolore è molto bassa si può aver paura di ciò che il nemico può farci nel caso in cui ci catturi.

2. Se si è vissuto molto tempo in povertà e non si ha una ferma volontà nel realizzare un determinato ideale, può allettarci un'offerta generosa, in termini economici, da parte del nemico.

3. Se durante la preparazione di una rivoluzione non si è riusciti a ricoprire un ruolo significativo, apicale, basato sulle proprie aspettative, ci si può illudere di esercitarlo compiendo un tradimento in un qualche momento cruciale per le sorti della rivoluzione.

In genere, chi tradisce perché convinto d'essere nel giusto, difficilmente si rende conto di tutte le possibili conseguenze del suo gesto, proprio perché tende a circoscriverle a qualcosa di specifico, che può avere ricadute solo nell'immediato. Il problema è che il peso delle nostre decisioni sfugge sempre al nostro controllo. Le relazioni umane non assomigliano a quelle tra animali e neppure a quelle tra umani e animali.

Chi tradisce in buona fede, pensando di compiere un gesto di responsabilità, un'azione di buon senso, è convinto che prima o poi la sua decisione gli verrà riconosciuta come giusta, avveduta. Un traditore sa benissimo di apparire tale nei confronti dei capi di un movimento rivoluzionario; però è anche convinto che un giorno il movimento saprà capirlo, ovvero si convincerà che aveva ragione, che aveva saputo vedere le cose più in là di tutti, con maggiore acume, e anzi aveva avuto il coraggio di assumersi una precisa responsabilità, a dispetto delle opinioni dominanti.

Il traditore ci tiene a passare per una persona accorta, prudente. Non aspira certamente a starsene nascosto per il resto dei suoi giorni, anche se in un primo momento, se teme per la propria vita, dovrà farlo. Se egli è onesto, in buona fede, è assolutamente convinto che il proprio tradimento abbia impedito di compiere azioni giudicate scriteriate, che avrebbero comportato conseguenze nefaste su tutto il movimento. Non si rende conto che tradire i leader di un movimento significa tradire il movimento stesso, che si troverà in balìa dell'odio del nemico.

Tuttavia la cosa più paradossale del tradimento è che, in realtà, non serve a niente. La storia non si può fermare, meno che mai con dei tradimenti individuali. Al massimo i tradimenti, quelli collettivi, possono rallentare il suo percorso, possono prolungare le sofferenze degli oppressi, ma non possono impedire le rivoluzioni democratiche, la realizzazione del socialismo. Nella storia, di tanto in tanto, il livello di sopportazione delle masse oppresse raggiunge il limite oltre il quale scoppia il finimondo, che lo si voglia o no.

I tradimenti non servono a niente neanche se fossero compiuti da persone assennate nei confronti di chi volesse imporre la propria dittatura, o la esercitasse nella maniera più vergognosa sul piano umano. Il tradimento può servire per eliminare la persona fisica del dittatore, ma non serve per eliminare le sue idee o il processo politico che le sue azioni hanno voluto rappresentare. Quando Bruto e Cassio hanno ucciso Cesare, non hanno potuto impedire che la repubblica si trasformasse in impero; anzi, hanno decisamente favorito tale transizione. I processi storici sono infinitamente più importanti di qualunque azione individuale.

La storia viene fatta dalle masse popolari, consapevoli di se stesse o raggirate da qualche leader senza scrupoli. Le masse possono sentirsi vittime di circostanze sfavorevoli, che ritengono superiori alle loro forze; oppure possono illudersi di cambiare le cose a prescindere dalla forza oggettiva di tali circostanze. In ogni caso sono sempre loro che cambiano la storia. E l'unico modo per farlo in maniera intelligente è quello di dimostrare che si sta rispondendo a bisogni reali che appartengono a grandi collettività.

Se vogliamo, i tradimenti più tragici sono quelli non eclatanti, quelli prosaici, perché quotidiani, quelli che non si vedono, che neppure lo storico riesce a percepire. Sono i tradimenti che il popolo compie nei confronti di se stesso. Sono quelle piccole ma costanti concessioni che si fanno alle azioni sbagliate. Sono i tradimenti fatti per pigrizia, per noncuranza, per un certo senso di fatalismo o di quietismo, oppure quelli dovuti al fatto che si è sottovalutata la gravità di una certa azione, nella convinzione ch'essa non avrebbe inciso più di tanto sulle abitudini da tempo consolidate, appartenenti alla collettività. Sono queste piccole cose che, sommate tra loro, mandano in rovina la democrazia. Ognuna di loro non appare così grave, ma tutte insieme costituiscono una vera tragedia.

Questo spiega il motivo per cui all'interno di un collettivo bisogna tenersi reciprocamente sotto controllo. La comunità locale, autogestita, deve avere la piena responsabilità della propria esistenza.

Appendice

Krupskaja, braccio destro di Lenin

Nadežda Krupskaja (1869-1939), consorte di Lenin e una dei maggiori teorici della nuova pedagogia socialista e del sistema d'istruzione sovietico, nasce a Leningrado, in una famiglia d'elevata cultura che seppe educarla alle migliori tradizioni dell'umanesimo e dell'internazionalismo.

Conclusi brillantemente gli studi ginnasiali, si dedica all'insegnamento. Poco dopo si iscrive alla sezione di matematica dei corsi femminili superiori di Pietroburgo, partecipando, nel contempo, all'attività di un circolo marxista studentesco.

Ben presto abbandona i corsi Bestužev e comincia a svolgere, rischiando la galera o l'esilio, propaganda rivoluzionaria presso gli operai della città: gli stessi che seguivano le sue lezioni di matematica e geografia, assolutamente gratuite, in una scuola serale.

Improvvisamente le muore il padre e, per motivi economici, è costretta a dare lezioni private e a lavorare come copista in un ufficio. Alla fine del febbraio 1894 conosce Lenin in un incontro clandestino di compagni marxisti, ma l'amicizia fra i due sorge un po' più tardi, fra le mura della biblioteca pubblica e in casa della stessa Nadja.

Lenin però finisce in carcere e i contatti fra i due si limitano a molte lettere scritte in codice, usando come inchiostro il latte, finché lei stessa viene arrestata, benché rilasciata in seguito su cauzione. Lenin intanto, spedito in Siberia, scontava la sua pena. È appunto dal villaggio di Shushenskoe che le chiede di sposarlo e Nadja gli risponde cercando ostinatamente di ottenere, riuscendovi, la Siberia come meta del suo esilio triennale. È qui ch'essa compone, su consiglio di Lenin, il suo primo libro, La donna lavoratrice, edito all'estero nel 1901, inviato poi segretamente in Russia e diffuso tra le fabbriche. È la prima opera marxista sulla condizione della donna russa.

Finito l'esilio e durante i lunghi anni dell'emigrazione (dal 1901 al 1905 in Germania, Inghilterra e Svizzera, e dal 1907 al 1917 in Svizzera, Francia, Polonia e di nuovo in Svizzera), la Krupskaja svolge a fianco di Lenin il lavoro di segretaria del CC del partito.

Lei era la prima a cui Lenin leggeva i suoi scritti, confidava i suoi pensieri, esponeva i suoi progetti. Dal 1901 al 1905 è segretaria della redazione del giornale bolscevico Iskra, e, come tale, era a capo di tutta la corrispondenza con gli organi di partito e con i compagni isolati della Russia: era lei che organizzava le spedizioni della letteratura clandestina e i passaggi illegali di frontiera. Oltre a ciò curava i rapporti con le donne dell'emigrazione russa e ha partecipato, come capo delegazione, alla Conferenza internazionale della donna a Berna (1915).

Nel 1917 pubblica uno studio di ampio respiro, molto apprezzato da Lenin, dal titolo Istruzione popolare e democrazia, in cui mette in luce l'inconsistenza della scuola borghese. Si può anzi dire che tutto il suo sistema pedagogico sia attraversato da una costante denuncia della pretesa “neutralità” del sistema borghese d'educazione e d'istruzione, nonché da un forte richiamo a servirsi delle migliori conquiste scientifiche di pedagogisti come Pestalozzi, Montessori, Fröbel e altri ancora.

Rientrati in Russia, nell'aprile 1917, la Krupskaja prende a difendere il marito dalle molte calunnie degli antibolscevichi, pubblicando nella “Pravda dei soldati” il famoso articolo Pagine di storia del partito operaio socialdemocratico di Russia, nel quale, fra l'altro, viene fatta la prima biografia di Lenin, l'unica descrizione della sua vita politica ch'egli abbia mai approvato.10 Organizzazione di scuole, biblioteche, sviluppo d'una rete di istituzioni d'insegnamento e culturali, attività di alfabetizzazione negli ambiti della gioventù operaia: ecco alcune delle iniziative promosse dalla Krupskaja nel corso dei mesi antecedenti alla rivoluzione d'Ottobre. La sua maggiore preoccupazione riguardava le vicende e i destini delle donne e della gioventù.

I suoi articoli sulla “Pravda”, i suoi interventi ai meeting della gioventù, il progetto (da lei stessa elaborato) degli statuti dell'Unione della gioventù operaia giocarono un ruolo fondamentale nella creazione del Komsomol.

Quando Lenin dovette defilarsi per sfuggire al mandato di cattura del governo provvisorio di Kerenskij, fu lei che lo tenne in contatto con il CC del partito. E più tardi racconterà con ironia che, andandolo a trovare a Helsingfors (Helsinki) in Finlandia, munita d'una carta d'identità intestata ad Agafia Atamanova, domestica, fu costretta a recitare la parte, lei che parlava quattro lingue, di una povera ignorante incapace persino di decifrare i nomi delle strade.

Dopo l'Ottobre, il partito la invia a lavorare al Commissariato del popolo per l'istruzione pubblica, la cui competenza era vastissima: alfabetizzazione, università operaie, biblioteche, librerie, cinema, teatro, editoria, musei... Nadja è tutta intenta alla creazione della scuola politecnica per i lavoratori. Redige le riviste “La comunista” e “L'operaia”, tiene discorsi e conferenze soprattutto nelle assemblee delle donne e dei giovani. Assai popolare, negli anni Venti, fu il suo saggio Il diritto matrimoniale e familiare nella Repubblica sovietica. Preoccupata della formazione intellettuale della generazione più giovane, indirizzò nel 1922 una lettera al CC del Komsomol, sottolineando la necessità di fondare un'organizzazione per adolescenti: fu così che nacque l'Organizzazione dei pionieri.

L'attentato a Lenin della terrorista Kaplan cadde come un fulmine a ciel sereno. Nadja cercò coraggiosamente d'aiutare il marito a superare il difficile momento, invogliandolo a scrivere con la sinistra. II mattino lo dedicavano ai giornali e alle riviste, talvolta Nadja gli leggeva dei racconti o delle poesie. Dopo la morte di Lenin, avvenuta il 21 gennaio 1924, essa ebbe la forza di recarsi alla seduta funebre del II Congresso dei Soviet, pronunciandovi un discorso.11

A chi le chiedeva come avrebbe voluto un monumento per il marito, rispose di non permettere alla loro tristezza di trasformarsi in “venerazione esteriore” della personalità di Lenin. “Se voi volete onorare la sua memoria – disse testualmente – costruite degli asili nido, dei giardini d'infanzia, edificate case, biblioteche, policlinici, ospedali, ricoveri per invalidi e così via, e soprattutto mettete in pratica i suoi insegnamenti”.

Si può facilmente immaginare, alla luce di queste parole, quanto dovette essere difficile, in seguito, il suo rapporto con Stalin. Non a caso il libro ch'essa pubblicò nel 1925, L'educazione della gioventù nello spirito di Lenin, fu tolto dalla circolazione. Difficilmente Stalin avrebbe potuto sopportare un'opera che relativizza il ruolo della personalità nell'ambito del processo storico e che indica nella formazione d'un soggetto liberamente pensante il fine dell'educazione.

Per quanto attivo membro honoris causa dell'Accademia delle scienze dell'Urss, la Krupskaja trovava il tempo di leggere tutte le lettere che le spedivano (fino a 400-450 al giorno) e di rispondere personalmente alla maggior parte di esse. Soprattutto amava rispondere ai bambini, inviando loro piccoli souvenir e regali. Le capacità di lavoro di Nadja erano assolutamente eccezionali: nel gennaio 1939 rispose a 240 lettere, intervenne 16 volte in 12 assemblee e scrisse 20 articoli. Questo un mese prima della sua morte...

Conclusione

Il ritratto di Lenin che qui s'è voluto dare è sostanzialmente quello del politico, pur non mancando aspetti teorici là dove si è parlato dei suoi rapporti con la religione e con l'empiriocriticismo dei vari machisti russi.

Tuttavia il Lenin più controverso è quello filosofico, quello dei Quaderni inediti e soprattutto del testo che più è stato criticato dalla sinistra europea: Materialismo ed empiriocriticismo, l'unico ch'egli abbia voluto pubblicare.

Lenin non si considerava un filosofo, ma non era a digiuno di filosofia. Semplicemente non riteneva la filosofia uno strumento utile per compiere la rivoluzione politica, anche perché vedeva che pochissimi filosofi erano disposti a parteggiare per il socialismo, men che meno per quello rivoluzionario.

In questo aveva ereditato la linea di condotta di Marx, secondo cui la filosofia, per poter realizzare i propri ideali, doveva trasformarsi in politica, abbracciando la causa del proletariato industriale.

La differenza tra lui e Marx è che questi, dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848, iniziò a dedicarsi assiduamente allo studio dell'economia politica borghese. Lenin invece voleva a tutti i costi compiere un rivolgimento radicale del sistema politico vigente in Russia, prima sotto lo zarismo, poi sotto il governo borghese di Kerenskij.

Paradossalmente fu più il Lenin maturo, impegnato sul piano tattico e strategico, a interessarsi di filosofia che non il Marx economista, lontanissimo dagli argomenti filosofici affrontati al tempo della battaglia contro la Sinistra hegeliana.

Semmai fu Engels a riprendere i temi filosofici coi suoi testi su Dühring, su Feuerbach e sulla Dialettica della natura. Quando deve precisare le caratteristiche del materialismo dialettico, Lenin si sente debitore nei confronti soprattutto di Engels. Aveva infatti capito che un qualunque revisionismo in politica trova sempre una correlazione in campo filosofico, laddove p.es. si preferisce “ritornare a Kant” piuttosto che sviluppare la dialettica hegeliana, o si preferisce fare delle concessioni arbitrarie a quel relativismo che nega la necessità di una verità oggettiva o addirittura assoluta.

Il rapporto di Lenin con la filosofia non è un argomento che possa essere tralasciato, anche perché la filosofia marxista-leninista o il materialismo storico-dialettico non hanno caratterizzato la sola esperienza del cosiddetto “socialismo reale”, ma continuano a costituire un punto di riferimento ideologico per l'attuale socialismo cinese.


1 Il 30 agosto 1918, Lenin, dopo aver parlato presso una fabbrica di Mosca e prima di entrare nella sua auto, venne chiamato dalla Kaplan, che, appena lui si girò, gli sparò tre colpi di pistola: un proiettile gli attraversò il cappotto, un altro gli attraversò il collo, bucando parte del polmone sinistro e fermandosi vicino alla clavicola destra; l'ultimo si ficcò nella spalla sinistra. La Kaplan, che si dichiarava socialista-rivoluzionaria di destra, disse d'aver agito da sola, in quanto considerava Lenin un traditore della rivoluzione e non gli perdonava d'aver sciolto l'Assemblea Costituente. Aveva già trascorso 11 anni di lavori forzati per aver tentato di uccidere un ufficiale zarista a Kiev. Era stata liberata dopo la rivoluzione. Fu giustiziata il 3 settembre 1918.

2 Da notare che Stalin ricevette il testo della prima parte della lettera al congresso il giorno stesso in cui fu dettata e poté modificarla grazia alla complicità della stenografa Volodičeva e del responsabile degli archivi segreti del partito, Kamenev.

3 La NEP prevedeva un certo sviluppo del capitalismo e la sostituzione della requisizione dei prodotti agricoli con un'imposta in natura. Misure, queste, che neppure alcuni membri dell'ufficio politico e del CC riuscivano ad accettare. Ecco perché Lenin, nella sua prima parte della “Lettera”, raccomandava di procedere a una serie di importanti cambiamenti politici e organizzativi.

4 Trotsky morirà assassinato in Messico nel 1940, da un sicario di Stalin, Ramon Mercader.

5 Pjatakov venne condannato a morte nel cosiddetto “processo dei diciassette”, voluto da Stalin, e fucilato nel gennaio 1937. Pochi giorni dopo anche Ordžonikidze, oppostosi al processo e alla condanna del suo collaboratore, fu trovato morto, ufficialmente suicida. Solo nel 1988, sotto il governo di M. Gorbačev, venne riabilitato, insieme a Bucharin, Rykov e Rakovskij, imputati nel cosiddetto “processo dei ventuno” di Mosca nel marzo 1938,

6 Si noti che nella sua biografia di Lenin, pubblicati in volume nel 1926, mancano proprio le pagine inerenti agli ultimi sette anni di vita del marito, quelli decisivi per capire il suo rapporto con Stalin. Che il libro sia stato oggetto di censura o di interpolazione da parte dei revisori appare evidente in più parti. A titolo dimostrativo basta riportare questa frase, riferita a Trotsky: “Il'ič stesso non pensava in quel momento che Trotsky avrebbe tradito in avvenire” (La mia vita con Lenin, ed. Red Star Press, Milano 2019, p. 85). In occasione del II Congresso del Posdr Trotsky non era affatto un bolscevico, ma un menscevico, per cui non poteva certo tradire Lenin. Trotsky divenne davvero un bolscevico solo nell'imminenza dell'Ottobre, e Lenin, finché rimase in vita, non fu mai tradito da lui; anzi, Trotsky divenne un suo stretto collaboratore, persino in antitesi a Stalin.

7 Su questo argomento si possono consultare M. Lewin, L'ultima battaglia di Lenin, ed. Laterza 1969; E. H. Carr, La morte di Lenin. L'interregno 1923-24, ed. Einaudi 1965 e J. A. Buranov, Il “testamento” di Lenin: falsificato e proibito, ed. Prospettiva Marxista, Milano 2019.

8Stalinista” era anche il maoismo in Cina, benché la collettivizzazione forzata dell'agricoltura non fosse capace, a causa dell'arretratezza culturale del Paese, di uno sviluppo industriale paragonabile a quello sovietico.

9 La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Editori Riuniti, Roma 1969.

10 Stranamente però il suo libro La mia vita con Lenin (ed. Red Star Press, Milano 2019) s'interrompe al 1917, tralasciando i giudizi negativi che Lenin e lei stessa rivolgevano ai vari compagni di partito con funzioni pubbliche o istituzionali. Evidentemente il testo, pubblicato nel 1926, cioè due anni dopo che Stalin era al potere, venne sottoposto a una censura.

11 Da notare che nel 1924 Anna Uljanova (1864-1935), sorella di Lenin, impegnata nella creazione dell'Istituto Lenin, che aveva lo scopo di organizzare l'edizione accademica dell'opera omnia di suo fratello, mentre consultava gli archivi del Ministero degli Interni dell'Impero russo, scoprì che il nonno materno di lei e di Vladimir, Aleksandr Blank, era ebreo. Informati da lei della cosa, i vertici del Partito Comunista ordinarono che queste informazioni fossero mantenute segrete.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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