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Il paradosso dell’esistenza umana e le dicotomie storiche
Fromm propone che il problema di definire in cosa consista l’essenza della
natura umana possa risolversi considerandola non tanto come una sostanza, o un
attributo specifico dell’uomo, quanto come una contraddizione inerente la sua
stessa esistenza. L’uomo è parte della natura e quindi soggetto alle sue leggi
al pari di ogni altra specie animale, ma al tempo stesso la trascende: con la
comparsa dell’uomo la vita diviene per la prima volta consapevole di se stessa.
Rispetto agli altri animali, l’apparato istintuale umano risulta ben poco
adeguato a dare soddisfazione ai suoi bisogni di autoconservazione, ma in questa
debolezza biologica dell’uomo risiede pure la sua potenza: egli è costretto, per
far fronte alle proprie necessità, a far uso delle proprie facoltà razionali.
Ribadendo una relazione già individuata da Bergson (4), Fromm
ritiene che la relativa assenza di una regolazione istintiva nell’uomo sia anche
la fonte dello sviluppo delle sue facoltà razionali, e che il peso di tale
attrezzatura istintiva nell’adattamento al mondo sia inversamente proporzionale
a quello di tali facoltà: mentre l’animale si adatta alle mutevoli condizioni
ambientali autoplasticamente, cioè cambiando se stesso, l’uomo è capace di
adattarsi alloplasticamente, esercitando cioè una propria influenza
sull’ambiente circostante e modificandolo.
L’incapacità umana di adattarsi alla natura e vivere in armonia con essa
grazie al proprio orientamento istintuale è dunque ciò che ha reso l’uomo
autocosciente, capace di immaginazione e di razionalità. Ma proprio tali qualità
a lui peculiari sono alla base del paradosso dell’esistenza umana: pur essendo
parte della natura, pur nascendo in uno spazio e in un tempo che egli non ha
scelto, l’uomo si differenzia da quant’altro della natura faccia parte.
Egli è l’unica creatura per la quale la sua stessa esistenza costituisca un
problema. La contraddizione inerente la condizione umana è fonte di ansia e
insicurezza, e richiede pertanto una soluzione: l’uomo versa in una condizione
di costante squilibrio dovuto al fatto di aver perso l’originaria armonia con la
natura, ma non può tornare a tale stadio preumano di armonia; egli deve
piuttosto proseguire sulla strada del proprio sviluppo fino a che non si sia
reso completamente umano ed abbia raggiunto un’armonia di un nuovo e più elevato
livello, un’armonia che sia tale non sulla base dei suoi vincoli naturali e del
suo essere indifferenziato, ma proprio della sua indipendenza ed umanità che gli
permettano di sperimentare un nuovo senso di unione.
Questa frattura nella natura dell’uomo costituisce il paradosso della sua
esistenza e comporta una serie di dicotomie definite da Fromm dicotomie
esistenziali. Tale definizione è giustificata dal fatto che esse sono appunto
inerenti alla stessa condizione umana: l’uomo non può dunque annullarle, ma solo
reagire di fronte ad esse in modi diversi, a seconda della propria cultura e del
proprio carattere.
Una dicotomia esistenziale fondamentale è quella tra la vita e la morte: la
consapevolezza della propria morte influenza notevolmente la vita dell’uomo,
eppure la morte resta quanto di più incompatibile vi sia con l’esperienza del
vivere. La coscienza della propria mortalità conduce l’uomo ad affrontare
un’altra dicotomia esistenziale: quella fra ciò che egli è in potenza, fra le
sue potenzialità, e l’impossibilità della loro completa realizzazione nel tempo
limitato della propria esistenza.
A queste dicotomie esistenziali Fromm contrappone quelle che invece
definisce dicotomie storiche: esse sono costituite da contraddizioni sociali
aventi carattere contingente nella vita sociale e individuale, e pertanto
artificiose e risolvibili, se non nell’epoca in cui si manifestano, in un
periodo storico ad essa successivo.
Nel corso della storia i pensatori reazionari e quant’altri abbiano avuto
interesse a mantenere lo status quo del sistema sociale e culturale, hanno
spesso mirato a far passare per dicotomie esistenziali, e quindi inestinguibili,
queste dicotomie socialmente condizionate.
Ma ciò non basterebbe a frenare l’innata tendenza umana a reagire di fronte
ad ogni contraddizione della quale si sia consapevoli, se non si negasse
l’esistenza stessa di tali contraddizioni. A tale scopo servono le ideologie,
razionalizzazioni socialmente utili e schematizzate che, come le
razionalizzazioni a livello individuale, servono a placare l'inquietudine
generata dalla consapevolezza della contraddizione e ad armonizzare la vita
sociale ed individuale, ed accettate in quanto condivise dalla maggior parte
degli individui o sostenute dall’autorità. (5)
Ma mentre tali ideologie non fanno altro che nascondere o armonizzare
contraddizioni storiche, e quindi solubili, le dicotomie esistenziali non
possono essere risolte, e di fronte ad esse si può solo rispondere accettando la
responsabilità di se stessi e sviluppandosi come esseri umani.
(4) Vedi H. Bergson, “L’évolution créatrice” (1907); trad.
it. “L’evoluzione creatrice”, Raffaello Cortina, Milano, 2002.
(5) Ritengo che il concetto di ‘ideologia’ sia stato inteso
in un modo per certi versi simile anche nell’ambito della sociologia marxista e
strutturalista. Antonio Gramsci, ad esempio, spiega come lo stato borghese non
mantenga il proprio status quo semplicemente con la repressione, ma
prevalentemente per mezzo di una sovrastruttura, costituita appunto dalle
ideologie dominanti in un dato intorno sociale che, una volta accettate,
spingono gli individui soggiogati a credere che chi esercita il potere sia in
tale posizione in virtù della sua maggior appropriatezza ad investire tale
ruolo, e che il potere venga esercitato nell’interesse di tutti, per cui anche
chi a tale potere è sottomesso si aspetta di ricavarne dei vantaggi personali.
Althusser vede invece l’ideologia come una caratteristica obiettiva dell’ordine
sociale che, agendo come ‘sistema di rappresentazione’, struttura la stessa
esperienza: accettando le pratiche sociali che essa propone gli individui
acquisiscono un senso di identità sociale ed al tempo stesso accettano il ruolo
ad essi attribuito all’interno del sistema di produzione, senza interrogarsi
circa le contraddizioni inerenti la struttura socioeconomica della società.
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