LA SCIENZA DEL COLONIALISMO
Critica dell'antropologia culturale
Marcel Mauss e il Saggio sul dono
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Per scrivere, nel 1924, il suo Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche (ed. Einaudi, Torino 2002), l'antropologo e sociologo francese Marcel Mauss (1872-1950) (1), si avvalse sostanzialmente di tre o forse quattro contribuiti etnografici: lo scambio kula dei Trobriandesi nella Nuova Guinea coi Maori in Nuova Zelanda, documentato da Bronis?aw Malinowski nel suo libro più importante, Argonauti del Pacifico Occidentale, del 1922 (ed. Bollati Boringhieri, Torino 2011); il rito potlach degli indiani nordamericani Kwakiutl, studiato da Franz Boas nel libro L'organizzazione sociale e le società segrete degli indiani Kwakiutl, del 1897 (ed. CISU, Roma 2001); il caso della credenza nello hau (spirito della cosa donata) documentato da Elsdon Best fra i Maori della Nuova Zelanda negli anni 1912-25 (cfr The Maori, Ams Pr Inc 1975; Maori Religion and Mythology, Ams Pr Inc 1975). Oltre a questi testi bisogna aggiungere le ricerche condotte da Alfred R. Radcliffe-Brown presso gli Andamanesi, nel Golfo del Bengala, di cui Mauss era a conoscenza (cfr The Andaman Islanders, del 1922, The Free Press of Glencoe, New York 1964).
Per tutta la sua vita accademica l'autore, non avendo mai fatto “ricerche sul campo”, si era limitato a utilizzare i materiali degli etnografi, scrivendo libri anche sulla religione, sul sacrificio, sulla magia, sulle tecniche del corpo, ecc. Nonostante ciò viene considerato uno dei pionieri dell'antropologia francese. Insieme a L. Lévy-Bruhl e P. Rivet fondò l'Istituto di Etnologia. Oggi il Movimento Anti Utilitarista nelle Scienze Sociali (MAUSS), nato in Francia negli anni Ottanta grazie all'impegno di Alain Caillé, che voleva opporsi all'idea dominante secondo cui il dono parte sempre da un qualche interesse nascosto, ha ripreso la lettura del Saggio sul dono in termini di critica del capitalismo. La critica consiste nel fatto che non solo il mercato ma anche lo Stato viene considerato un meccanismo anti-dono. In ciò ci si differenzia dalle tesi dello stesso Mauss, che invece considerava lo “Stato sociale” un rimedio efficace alla libera concorrenza mercantile. (2)
Il testo di Mauss, per la sua profondità e originalità, viene considerato un classico dell'antropologia culturale. Enormemente commentato dagli specialisti, si trova, sintetizzato, in tutti i manuali scolastici di antropologia, nel capitolo dedicato all'economia, insieme al principale libro dell'economista, sociologo, antropologo e filosofo ungherese Karl Polanyi, La grande trasformazione (1944), in cui si utilizza una prospettiva antropologica nello studio dei fenomeni economici. Entrambi gli autori vengono usati per fare un semplice discorso “anti-consumistico”, senza porsi a favore del socialismo. Ci si limita cioè a dire che le comunità primitive possedevano, sul piano economico, dei princìpi etici più democratici di quelli degli occidentali. In questa maniera gli autori dei manuali scolastici restano nell'ambito del “politicamente corretto”.
Vediamo ora che cos'è il potlach (che troviamo anche scritto così: potlatch, potlàc, potla? e che, stando a una voce della lingua chinook, significa “dono”, ma anche – secondo alcuni studiosi – “nutrire”, “consumare”).
Il potlach è un evento festivo, contemplato in un sistema di scambio regionale, che si svolge tra alcune tribù, tra loro imparentate, di nativi americani della costa nordoccidentale del Pacifico degli Stati Uniti e del Canada, come gli Haida, i Tlingit, i Tsimshian, i Salish, i Nuu-chah-nulth e i Kwakiutl della Columbia Britannica. Le tribù sono composte da cacciatori-raccoglitori atipici, in quanto sono stanziali e hanno dei capi (un ruolo trasmesso per via matrilineare). La disposizione in cui le persone si siedono durante le feste o i potlach è determinata in base al rango sociale. Al censimento del 2016 queste e altre tribù del Canada, che oggi si definiscono “nazioni”, (3) non superavano il milione di abitanti, suddivisi in 634 comunità, le cui lingue sono più di 50. Il contatto con gli europei, avvenuto nella seconda metà del Settecento, fu disastroso: impoverimento, epidemie di vaiolo, malattie veneree ecc.: cosa che si protrasse per circa un secolo e mezzo. Ancora oggi – secondo l'Enciclopedia Canadese – il 47% dei loro 254.000 bambini vive in condizioni di povertà (nelle praterie la povertà arriva al 65%!).
Il territorio in cui queste tribù vivono un tempo era molto ricco di risorse, con grandi quantità di pesci e mammiferi marini, selvaggina di ogni tipo. Ecco perché erano stanziali. Nelle loro case di legno avevano sviluppato un artigianato di qualità, fabbricando canoe, suppellettili in legno e in rame, coperte di pellicce... Avevano anche ottime tecniche di essiccazione e conservazione del cibo.
Il potlach era una cerimonia rituale in cui un'intera tribù (o un villaggio, un clan o anche una persona molto importante) distribuiva gratuitamente e distruggeva beni di valore o di prestigio (coperte, canoe, pezzi di rame e altri oggetti) per affermare pubblicamente il proprio rango o per riacquistarlo nel caso l'avesse perduto. In tal modo gli ospitanti inducevano i partecipanti a contraccambiare quando avrebbero tenuto il loro potlach.
Tale comportamento serviva non solo a tenere vive le relazioni sociali intertribali e conservare dei princìpi di reciprocità, ma anche a evitare che vi fosse una eccessiva accumulazione di beni in una sola tribù rispetto alle altre limitrofe. Infatti, siccome i periodi di abbondanza o di scarsità dipendevano da eventi naturali non prevedibili o comunque non controllabili, si era capito che tale casualità non doveva incidere in maniera significativa sulle relazioni pacifiche tra le varie tribù.
La pratica del potlach è stata resa illegale in Canada e negli Stati Uniti nel 1885, principalmente a causa della pressione dei missionari cristiani e degli agenti del governo che la consideravano un'abitudine contraria all'etica protestante del lavoro e ai valori delle società borghesi. Nonostante il divieto, essa continuò a esistere illegalmente per anni, anche perché veniva considerata un simbolo dell'identità culturale di quelle popolazioni e della loro resistenza all'assimilazione forzata e alla segregazione nelle riserve. Molti nativi mandarono petizioni ai governi affinché rimuovessero la legge contro un costume ch'essi non consideravano peggiore del Natale, occasione in cui ci si scambiano i doni. E così nel 1951 la legge fu abolita.
Ancora oggi le persone continuano a partecipare a tale “economia del dono”, associandola alla commemorazione di importanti persone defunte, all'innalzamento di un totem (raffigurante una figura zoomorfa o antropomorfa), alla celebrazione di un matrimonio, alla nascita di un figlio, a pagamenti per significativi servizi resi, ad attività politiche, a riunioni della tribù, ecc. I regali attualmente consistono in denaro o cibo, ma possono comprendere coperte, vestiti, piatti, utensili per la casa, oggetti artistici e quasi qualsiasi cosa con un valore evidente. La lista degli invitati può variare da 500 a 1000 persone. Ci vuole almeno un anno per organizzare un potlach.
Vediamo ora che cos'è il kula, di cui parla Malinowski.
Si tratta di uno scambio simbolico di doni effettuato in una trentina di isole di Trobriand, disposte a cerchio, nel Mare delle Salomone dell'Oceano Pacifico. I partecipanti compivano viaggi anche di chilometri in canoa (secondo percorsi opposti) per scambiarsi doni che consistevano in collane di conchiglie rosse, gli uni, e bracciali di conchiglia bianca, gli altri. Dunque lo scambio poteva avvenire solo tra oggetti diversi: braccialetti per collane e viceversa.
Gli oggetti restavano nelle mani del possessore per un periodo limitato di tempo e poi in seguito barattati nel corso di visite che gli abitanti delle isole si scambiavano periodicamente. Quindi il dono era un atto dovuto, così come quello di accettarlo, nonché, in un tempo successivo prestabilito, quello di restituirlo, in una proporzione almeno equivalente a quella del dono ricevuto.
I preparativi per la partenza e gli scambi erano rigidamente ritualizzati. Nei due o tre giorni in cui una spedizione era ospite su un'altra isola, si barattavano generi alimentari, vasellame, canoe e altri beni nella produzione dei quali si erano specializzati gli abitanti di isole diverse. Lo scambio rituale infatti aveva il compito d'instaurare un rapporto di fiducia e di amicizia, base necessaria dello scambio materiale.
Le popolazioni ritenevano che gli ornamenti scambiati fossero impregnati di significati magici, che aiutavano le comunità a sopravvivere e a stare in pace tra loro, sempre che il dono tornasse (insieme all'essenza spirituale in esso contenuta), al donatore originario. In caso contrario la forza magica avrebbe assunto una potente carica distruttiva nei confronti dell'inadempiente.
Nonostante le profonde trasformazioni delle società melanesiane nel XX sec., tale rituale, sempre affiancato da uno scambio commerciale di oggetti di uso quotidiano, è tuttora praticato in questo arcipelago.
Mauss arrivò a fare le seguenti riflessioni, che possiamo suddividere in una decina di punti.
- L'istituzione sociale del dono reciproco ha un carattere universale, valido per ogni comunità primitiva.
- La forma più importante di economia non è lo scambio di prodotti utili (baratto), ma lo scambio non utilitaristico tra due gruppi sociali o tra i capi di due gruppi, in rappresentanza di istanze collettive.
- L'economia primitiva è basata su tre azioni: dare, ricevere e ricambiare, che solo all'apparenza sembrano volontarie; in realtà sono moralmente obbligatorie, in quanto il rinunciarvi può essere considerato come una forma di minaccia o di provocazione o addirittura come una dichiarazione di guerra. Il che implica che entro un certo tempo il dono va ricambiato. La gratuità non è assoluta ma relativa.
- Lo scambio dei beni non è fine a se stesso, ma possiede lo scopo morale di promuovere amicizie, vincoli sociali e alleanze militari.
- Nel potlach (che è insieme la magnificazione e l'esasperazione dell'economia del dono) il valore dei beni distribuiti e sperperati diventa misura del valore dell'uomo, sancisce il rango nella comunità, la sua potenza: un individuo di alto rango deve poter disporre, distribuire e sperperare beni commisurati al suo status sociale. - Più si è in alto, più si deve distribuire e distruggere, pena il declassamento sociale. Vi è quindi una logica del dono di tipo agonistico: impadronirsi di un potere simbolico sotto forma di onore e prestigio.
- Il dono reciproco fa parte del sistema delle “prestazioni totali”, essendo un meccanismo che interessa la totalità dei componenti di una comunità in tutte le loro attività. Quindi attraverso la sua analisi è possibile leggere per estensione le diverse componenti della società.
- Gli oggetti donati e ricevuti presentano caratteristiche magiche, simboliche, mitiche, religiose, immaginarie, che vincolano e influenzano la persona che le dona o le riceve. L'oggetto ricevuto possiede un'anima e incorpora l'identità del donatore; chi non ricambia, verrà danneggiato dall'influsso dello spirito contenuto nell'oggetto.
- I due sistemi giuridici indoeuropei (indiano antico e germanico) conservano tracce significative di una analoga economia del dono. Tuttavia nei mercati occidentali lo scambio avviene sulla base dell'equivalenza astratta del valore, indipendentemente dai legami sociali, affettivi ecc.
- Nell'Europa occidentale non solo è consueto il principio secondo cui chi dona di più vale più degli altri, ma sta diventando sempre più forte, da parte della società civile, l'esigenza di avere forme di assistenza sociale, di cooperazione, di mutuo soccorso, che altro non sono se non forme di “dono”. La redistribuzione del reddito a favore dei più svantaggiati reintroduce un principio di moralità all'interno dell'economia borghese.
- Il dono reciproco, essendo un baratto a scadenza, anticipa la nozione di credito. È da un sistema di doni, dati e ricambiati a termine, che sono sorti, da una parte, il baratto, per semplice avvicinamento di tempi separati, e dall'altra, l'acquisto e la vendita, (quest'ultima a termine e in contanti), e persino il prestito.
Le critiche prevalenti rivolte al testo di Mauss insistono sul fatto che si dovrebbe parlare non tanto di una catena di atti del dono (dare, ricevere, ricambiare), quanto piuttosto di un unico principio di “reciprocità”, che è – stando alle parole di Malinowski – una “intrinseca simmetria di tutte le transazioni sociali”.
Stessa cosa per Karl Polanyi: la reciprocità permette d'integrare l'economico col sociale, per cui è imprescindibile in tutte le azioni della comunità primitiva, la quale, se prevede una gestione centralizzata delle risorse economiche, deve comunque assicurare a tutti una redistribuzione equa. La costruzione di legami sociali è decisamente superiore ai beni specifici che circolano, sicché il fatto di distruggerli per ostentare un proprio rango sociale va al di là delle caratteristiche salienti di una comunità primitiva.
Anche Lévi-Strauss, che con la sua critica all'opera di Mauss, nel 1957, scatenò un lungo dibattito, era dello stesso parere: “è lo scambio che costituisce il fenomeno primitivo, non le operazioni distinte in cui lo scompone la vita sociale”. Cioè esiste lo scambio anche prima del “dare” senza “ricevere” e senza “ricambiare”. Egli inoltre considerò una sciocchezza parlare di “forza spirituale” nelle cose oggetto di scambio: questo perché gli scambi avvengono per ragioni inconsce, la prima delle quali è l'esigenza dell'esogamia.
Invece secondo Sahlins il dono presenta aspetti “spirituali” veri e propri, in quanto coinvolge personalmente (emotivamente) il donatore, che per questo motivo si aspetta un'azione reciproca. Inoltre il dono è una pratica che stabilisce relazioni amichevoli per sfuggire allo spettro della guerra.
Derrida arrivò addirittura a dire che Mauss parla di tutto meno che di “dono”, il quale richiede che il donatario non restituisca di necessità.
Insomma non ha senso parlare di “dono” se già esistono relazioni sociali consolidate. Là dove la proprietà è sociale, il dono è superfluo, oppure è ridotto a un aspetto di secondaria importanza. E per quanto riguarda le relazioni tra comunità differenti, ci si può limitare tranquillamente al baratto, senza chiamare in causa motivazioni spiritualistiche. In ogni caso se le relazioni pacifiche sono precedenti al dono, non ha senso che chi riceve il dono si senta obbligato, seppur moralmente, a restituirlo, per di più in una gara di tipo autodistruttivo e allo scopo di conservare un rango sociale che in una comunità primitiva, egualitaria per natura, sarebbe inconcepibile. Né, tanto meno, ha senso ostentare la propria ricchezza da donare o da distruggere.
Nell'analisi di Mauss il dono non sembra essere utilizzato per creare legami ma per spezzarli. Non a caso l'atto ostentatorio al centro del potlach viene definito “dono di rivalità” (agonistico), e il beneficiario, se vuole cancellare l'umiliazione inflittagli dal donatore, deve accettare la sfida e assumersi l'obbligo di rispondere con un dono più importante, come se fosse sotto ricatto morale. È forse normale che ci si senta moralmente impegnati a ricambiare il dono ricevuto? Dov'è l'etica – di cui tanto parla Mauss – in tale trattativa? Lo scambio forzato sembra essere piuttosto qualcosa di molto gravoso, che rischia di minare la sicurezza personale e della propria tribù o del proprio clan. Quando si è “costretti” a dimostrare che si è in diritto di restare indipendenti proprio perché si dispone di risorse materiali abbondanti, non si è forse in presenza di un atteggiamento estremo, disperato? Non è forse questo un atteggiamento con cui si potrebbe anche mentire sull'effettiva disponibilità delle proprie risorse (che nella realtà sarebbero molto minori di quelle esibite), avendo come unico obiettivo quello di poter conservare un proprio tradizionale status? Non era forse questo l'atteggiamento che tenevano molti nobili feudali quando cominciarono a vedersi rovinati dallo stile di vita borghese?
C'è quindi qualcosa di unilaterale in questo testo, su cui vorremmo fare alcune riflessioni, anche perché atteggiamenti del genere in Italia potrebbero applicarsi alla cultura della criminalità organizzata. Si ha cioè l'impressione che Mauss abbia usato una pratica molto particolare, storicamente situata, appartenente ad alcune tribù sedentarie, per renderla universale nello spazio e nel tempo. È molto probabile che quelle forme particolari di scambio fossero state inventate in seguito alla colonizzazione europea, al fine d'impedire che tribù, tra loro confinanti, entrassero in collisione, visto che gli europei avevano tolto loro gran parte dei territori, trasformandoli in proprietà privata.
Anzitutto dobbiamo dire che Mauss non vede mai il baratto come un'alternativa radicale alla compravendita capitalistica, ma anzi vede lo scambio moralmente obbligato come un'anticipazione di forme borghesi della trattativa commerciale. Questo poi senza considerare che in origine, nelle foreste dei raccoglitori-cacciatori, doveva esserci il dono puro e semplice, frutto della condivisione naturale dei beni, precedente persino il baratto delle eccedenze, a prescindere da qualunque considerazione relativa a sesso, età, parentela ecc. Lo hanno scritto molti antropologi: J. Woodburn parlando degli Hadza, M. Sahlins parlando dei !Kung, E. Marshall Thomas parlando dei Boscimani, A. R. Radcliffe-Brown e E. H. Man parlando degli Andamesi, e si potrebbe andare avanti con tante altre testimonianze.
Probabilmente Mauss era intenzionato a far vedere, per convincere meglio il suo lettore borghese, che le popolazioni primitive, essendo vicine agli occidentali come mentalità (anzi, eticamente superiori, in quanto anteponevano all'utile economico il socialmente vantaggioso), non meritavano d'essere brutalmente colonizzate: a monte dei vari genocidi doveva esservi stato un tragico malinteso.
Sappiamo naturalmente che non fu un tragico malinteso (p. es. quando i Kwakiutl iniziarono a commerciare con gli europei, furono quasi sterminati dalle malattie), ma quel che ci interessa sottolineare è un'altra cosa. Mauss sostiene che l'oggetto donato possedeva, secondo gli indigeni, una forza spirituale che spingeva chi l'aveva ricevuto a ricambiare, in quanto tale forza (detta “mana”) vuole ritornare da dove è venuta. Ora, supponendo che lo scambio dei doni sia un simbolo del periodo ancestrale, in cui tutti vivevano pacificamente nelle foreste, che bisogno c'era di scambiarsi dei doni nelle modalità del potlach e del kula, cioè assegnando al dono una connotazione etica e non semplicemente economica? Perché scambiarsi dei doni così moralmente vincolanti quando non c'è motivo per odiarsi? Là dove vige la proprietà sociale dei mezzi produttivi, se ci si sente minacciati da una comunità esterna che non la pratica, l'idea di un dono reciproco, moralmente vincolante, con tale comunità non può mai essere attuata. La società basata su rapporti antagonistici cercherà sempre d'impadronirsi, con l'inganno (una sorta di “cavallo di Troia”), dei beni dell'altra società. Se invece entrambe le società praticano la comunione dei beni, ed entrambe avvertono la necessità di uno scambio moralmente obbligato, allora vuol dire che le condizioni esterne, ambientali, sono molto difficili e si è prossimi a un conflitto, che si cerca appunto di evitare con una soluzione estrema, quella dell'autodistruzione della propria ricchezza, che deve essere reciproca e molto convincente, cioè restituendo più di ciò che si è ricevuto.
Nell'ambito del comunismo primitivo era del tutto normale che una comunità potesse barattare delle eccedenze con un'altra comunità, dovute alle diverse situazioni ambientali, ma non era certamente normale che si pensasse a uno scambio di doni in cui ci si sentisse “moralmente vincolati”, e tanto meno che in tale scambio si dovesse provvedere a distruggere le proprie eccedenze (ammesso e non concesso che delle comunità basate su raccolta e caccia potessero averne). Se lo scambio vincolato dei doni doveva servire per cementare un'amicizia, allora vuol dire che si era in presenza di una rivalità in atto. Non a caso Mauss parla continuamente di “rango sociale da conservare”, come se la comunità primitiva vivesse una situazione simile a quella delle popolazioni cosiddette “barbariche” penetrate in Europa occidentale alla fine dell'impero romano.
Se nello scambio vincolato dei doni una tribù (o, all'interno della tribù, un clan) voleva far mostra della propria ricchezza, allora vuol dire che la minaccia di un conflitto bellico o sociale era reale. Anche quando Mauss parla di baratto, non manca di sottolineare che, tra quelle tribù, era “una contrattazione molto tenace” (segno, anche questo, che non era proprio il caso di parlare di “comunismo primitivo”). In realtà l'unico scambio davvero obbligatorio, nell'ambito delle comunità primordiali, era quello delle donne, onde evitare l'incesto e un conseguente indebolimento fisico dei componenti della tribù.
A volte, leggendo libri come questo, vien quasi da pensare che il colonialismo europeo abbia avuto la meglio sugli indigeni non tanto perché era dotato di strumenti tecnologici molto più potenti, quanto perché le tribù primitive stavano già sperimentando le conseguenze più deleterie del progressivo allontanamento dalle pratiche del comunismo primordiale. Detto altrimenti (ed è una domanda, beninteso): la vittoria degli europei fu tanto più veloce quanto più le comunità primitive avevano sperimentato soluzioni di tipo schiavistico alle loro contraddizioni? Se la cerimonia del dono da ricambiare obbligatoriamente era antecedente al colonialismo, gli europei non hanno fatto altro che inserirsi in una conflittualità latente tra tribù confinanti? Se si deve dare in cambio più di quanto si sia ricevuto, col rischio di compromettere la propria sicurezza economica, non si è forse in presenza di un ricatto o di una intimidazione? Se tutti sono tenuti a regalare qualcosa, non vuol forse dire che si stanno formando rapporti di sudditanza? Non siamo forse in presenza di una qualche paura collettiva? Che tali fatti sociali andassero considerati “totali”, indicava davvero una positività o non forse una crescente negatività? La distruzione di beni in eccesso era forse dettata dalla paura che le tribù economicamente meno dotate potessero assumere atteggiamenti bellicosi? Siamo forse in presenza non di una dimostrazione di forza bensì di debolezza? Il fatto di voler impedire a chi era già molto ricco di esserlo ancora di più, non significa forse che la ricchezza, come valore di vita, era già penetrata nella mentalità primitiva? Distruggere la ricchezza in eccesso non diventava forse una forma di moralismo? E questo moralismo non è forse visibilmente presente nelle conclusioni del libro di Mauss?
Sembra che tutto il discorso sull'economia del dono abbia la finalità di perorare la causa di uno “Stato sociale” all'interno del capitalismo. Si legga questa sua affermazione cruciale: “Tutta la nostra legislazione di sicurezza sociale, questo socialismo di Stato già realizzato, si ispira al seguente principio: il lavoratore ha dato la propria vita e il proprio lavoro, da un lato, alla collettività, dall'altro, ai suoi datori di lavoro; se egli deve collaborare all'opera di assicurazione, coloro che hanno beneficiato delle sue prestazioni [leggi: i capitalisti] non si liberano da ogni obbligo nei suoi confronti con il pagamento del salario; lo Stato stesso, che rappresenta la collettività, gli deve, unitamente ai suoi datori di lavoro, e con il concorso, una certa sicurezza durante la vita contro la disoccupazione, la malattia, la vecchiaia, la morte”.
Si noti che il libro è stato scritto nel 1924, a sette anni dalla rivoluzione bolscevica, che effettivamente stava realizzando in Russia una sorta di “socialismo statale”. Mauss sembra voglia convincere il lettore (e i poteri dominanti della borghesia) che nell'Europa occidentale non vi è alcun bisogno di fare una analoga rivoluzione, se si appoggia l'idea (socialista) di una “legislazione di sicurezza sociale”, che è già – secondo lui – un “socialismo di Stato realizzato”. Cioè le idee che hanno i lavoratori socialisti di favorire l'assistenza e la previdenza sociale non vanno viste come un “perturbamento” dell'ordine pubblico (preposto a tutelare l'interesse privato), ma come “un ritorno al diritto”, cui tutti devono sentirsi vincolati. Lo Stato deve venire incontro a esigenze di tipo sociale provenienti dai lavoratori. Se non si accetta un'idea di solidarietà, si diventa moralmente inferiori ai primitivi che si è voluto colonizzare. Mauss in sostanza chiedeva di moralizzare l'attività mercantile, di democratizzare il capitalismo sul piano sociale. In ciò si poteva indubbiamente intravedere l'influenza delle sue origini ebraiche.
Aveva senso preventivare un'eticità ex post nella compravendita borghese, tale per cui dal profitto ottenuto si potesse scorporare una quota-parte da riservare all'assistenza e previdenza sociale dei lavoratori, quando quella medesima compravendita non la prevedeva assolutamente ex-ante? Sì, si poteva preventivarla, ma solo a condizione di fidarsi non tanto della “generosità” dei capitalisti, quanto piuttosto della capacità resistenziale delle masse proletarie. Come poi in effetti accadrà, quando nel secondo dopoguerra il Welfare State diventerà una realtà imprescindibile dell'economia capitalistica, da difendere contro i continui attacchi di chi vorrebbe smantellarlo.
Su questo argomento si rimanda alla seguente bibliografia in lingua italiana:
M. Godelier, L'enigma del dono, ed. Jaca Book, Milano 2013.
J. Derrida, Donare il tempo: la moneta falsa, ed. R. Cortina, Milano 1996.
R. Marchionatti, Gli economisti e i selvaggi: l'imperialismo della scienza economica e i suoi limiti, ed. B. Mondadori, Milano 2008.
J. T. Godbout, Quello che circola tra noi. Dare, ricevere, ricambiare, ed. Vita e Pensiero, Milano 2008.
J. T. Godbout - Alain Caillé, Lo spirito del dono, ed. Bollati-Boringhieri, Torino 1993.
J. T. Godbout, Il linguaggio del dono, ed. Bollati-Boringhieri, Torino 1998.
A. Caillé, Critica dell'uomo economico. Per una teoria anti-utilitarista dell'azione, ed. Il melangolo, Genova 2010.
A. Caillé, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, ed. Bollati-Boringhieri, Torino 1998.
S. Zanardo, Il legame del dono, ed. V&P, Milano 2007.
M. Anspach, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2007.
B. Giacomini, In cambio di nulla. Figure del dono, ed. Il Poligrafo, Padova 2006.
Lewis Hyde, Il dono: immaginazione e vita erotica della proprietà, ed. Bollati-Boringhieri, Torino 2005.
A. Salsano, Il dono nel mondo dell'utile, ed. Bollati-Boringhieri, Torino 2008.
M. Aria – F. Dei, Culture del dono, ed. Meltemi, Roma 2008.
L'interpretazione dello spirito del dono (a cura di P. Grasselli, C. Montesi; con un saggio di Alain Caillé), ed. F. Angeli, Milano 2008.
AA.VV., Il dono: le sue ambivalenze e i suoi paradossi. Un dialogo interdisciplinare, ed. Di Girolamo, Trapani 2012.
J. Starobinski, A piene mani: dono fastoso e dono perverso, ed. Einaudi, Torino 1995.
U. Galimberti, Il corpo, ed. Feltrinelli, Milano, 2002.
R. Benedict, Il crisantemo e la spada, ed. Laterza, Roma-Bari 2009 (parla del dono in Giappone).
B. Karsenti, L'uomo totale. Sociologia, antropologia e filosofia in Marcel Mauss, ed. Il Ponte, Bologna 2005.
“Dada. Rivista di antropologia post-globale”, Speciale n. 1/2018, Debito e dono.
Note
(1) Di lui esistono in italiano varie opere, tra cui: Teoria generale della magia e altri saggi, ed. Einaudi, Torino 2000; I fondamenti di un'antropologia storica, ed. Einaudi, Torino 1998; Manuale di etnografia, ed. Jaca Book, Milano 1969; Sociologia e antropologia, ed. Newton Compton, Roma 1976; Le tecniche del corpo, ed. ETS, Pisa 2017; La nozione di persona: una categoria dello spirito, ed. Morcelliana, Brescia 2016. Per capire le influenze del socialismo riformistico su Mauss è sufficiente leggersi Il socialismo: definizione, origini, la dottrina saint-simoniana (ed. F. Angeli, Milano 1973), scritto dal suo maestro e parente Émile Durkheim, con una introduzione dello stesso Mauss.
(2) Cfr J. Godbout, Lo spirito del dono, ed. Bollati-Boringhieri, Torino 1993.
(3) “First Nations” è il termine collettivo che designa queste tribù, da loro adottato nel 1980, nel significato di “primo fra pari”, accanto agli inglesi e ai francesi come nazioni fondatrici del Canada. Da questo termine sono esclusi i Métis e gli Inuit, altre popolazioni native del Canada.
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