LA SCIENZA DEL COLONIALISMO

Critica dell'antropologia culturale

I valori minimi

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Perché penso che i primi esseri umani si siano formati in Medio Oriente e non in Africa? Perché, guardando i tratti somatici, si ha l'impressione che quelle popolazioni non abbiano alcuna caratteristica particolare o rilevante, tale da prevalere su tutte le altre.

La pelle non è né troppo scura né troppo chiara; le labbra non sono carnose come quelle africane e gli occhi non sono a mandorla come quelli asiatici. Non sono individui i cui corpi hanno subìto particolari condizionamenti dovuti al clima, all'alimentazione, al luogo di residenza. Da lì, ad un certo punto, in fasi progressive, devono essere emigrati verso qualunque punto del pianeta, cambiando in maniera significativa l'aspetto fisico.

Ora, se è vero che, guardando soltanto questo aspetto fisico, possiamo dire che, a fronte di pur notevoli diversità, vi sono assolutamente degli elementi comuni, per quale motivo non dovrebbe essere la stessa cosa nei confronti degli aspetti etici o morali? Nonostante le enormi diversità culturali, perché si dovrebbe negare l'esistenza (o anche solo l'esigenza) di alcuni valori comuni? Ma se ci fossero, quali potrebbero essere? Di sicuro non quelli di tipo religioso, poiché qui le differenze sono abissali. Bisogna trovare qualcosa che preceda la nascita delle religioni. Bisogna andare indietro di molte migliaia di anni. Occorre trovare dei valori minimi, che siano però fondamentali, cui nessuno vorrebbe rinunciare, e se anche qualcuno volesse farlo, sarebbe costretto a rinunciare a una parte fondamentale di sé.

È dunque possibile individuare dei valori umani la cui interpretazione sia universalmente condivisa? Oppure dobbiamo rassegnarci al fatto che ogni valore può sempre essere interpretato in maniera opposta? I valori umani universali fanno comodo a chi vuol imporre una cultura valida per tutti, oppure possono essere usati proprio per impedire che si formi una cultura del genere?

Guardiamo ad es. il diritto alla vita. Sembra un valore elementare. Anche tra gli animali esiste: infatti sono tutti dotati di strumenti di difesa in caso di attacco nemico. Nessuno, in condizioni normali, sceglie il suicidio o, in condizioni di normale pacificazione, pensa di poter avere su altri il potere di vita e di morte. Solo nelle civiltà antagonistiche si sceglie il suicidio come forma di protesta o si può trattare qualcuno come una “cosa” e non come una “persona”.

Eppure se il diritto alla vita fosse universalmente riconosciuto, non dovrebbero esserci assassini o guerre o sentenze capitali o aborti procurati... Per poter dire che questo può essere considerato un valore universale, cui tutti devono sentirsi vincolati, bisognerebbe prima garantire a tutti un'esistenza degna d'essere vissuta, in cui la libertà di coscienza e la responsabilità personale siano pienamente rispettate, in grado di essere effettivamente esercitate. In astratto il diritto alla vita non vuol dire nulla. La vita non è semplicemente qualcosa di fisico, non può essere paragonata al fatto di respirare. Non si è vivi neppure solo perché si è nati. L'esistenza in vita, nel mondo umano, implica anzitutto la possibilità di apprendere qualcosa di significativo, che aiuti a crescere nella propria interiorità, che aiuti a sviluppare la mente, la sensibilità, le emozioni, i valori... Qualunque forma riduzionistica, in senso meramente fisico, del concetto di “essere vivente” è abominevole.

D'altra parte è banale e fuorviante anche il suo rovescio: “È morto perché ha esalato il suo ultimo respiro”, come si è soliti dire nei casi estremi. In realtà dovremmo dire che è morto alla condizione terrena e che continua a vivere in una dimensione ultraterrena, che per qualche ragione ci è ignota, come il feto nel ventre della madre non può sapere cosa lo attende fuori, benché riesca a percepirne qualcosa. Nell'universo nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma. L'essere umano continua a vivere perché, come “essenza”, non è mai nato: cambiano solo forme e modalità.

Dobbiamo quindi pensare a qualcosa di precedente al diritto alla vita. Se diciamo che tutti hanno diritto a vivere una vita che sia socialmente ed eticamente dignitosa, dovremmo soffermarci ad analizzare il significato della parola “dignità”. Ora, è evidente a tutti che ci si sente “degni” quando non ci si sente “mortificati”. La mortificazione può essere imposta da qualcuno per esigenze di dominio. Di regola, da tale mortificazione ci si vuole liberare con la vendetta o con l'inganno o con una guerra civile, ovvero con una rivoluzione politica. Ma la mortificazione può essere avvertita anche quando si deve pagare il fio di qualche errore compiuto ai danni di qualcuno (un errore volontario o involontario, personale o collettivo o addirittura istituzionale).

In ogni caso la mortificazione si sopporta quando è di breve durata, poiché non si può a lungo tollerare di non essere pienamente liberi o almeno liberati da quella cosa che ci opprime. Si spera cioè, in tempi ragionevoli, di tornare a vivere la vita d'un tempo, senza essere sottoposti ad alcuna oppressione, cioè in attesa d'essere pienamente reintegrati nella comunità delle persone che si sono offese.

Ecco, forse il senso della libertà ci accomuna di più che non il diritto alla vita. Quando tutti avvertono di sentirsi liberi, non hanno motivi di minacciare la vita altrui. Tylor diceva che l'esogamia era stata inventata per impedire che le tribù si ammazzassero a vicenda, ma in tal modo non si rendeva conto che quando due tribù arrivano al punto da volersi sterminare, non c'è esogamia che tenga. Non possiamo essere superficiali in presenza della guerra o interpretare le vicende delle comunità primitive con categorie mentali diverse dalle loro.

Essere liberi non vuol dire non avere problemi da risolvere. Senza problemi da risolvere non si cresce, non matura alcuna personalità. Essere liberi vuol dire poter utilizzare liberamente i mezzi che virtualmente servono per risolvere determinati problemi. Una vita è degna d'essere vissuta quando si possiedono liberamente, autonomamente i mezzi con cui poter affrontare (da soli o insieme) i problemi che, di volta in volta, si pongono alla nostra attenzione. Senza il possesso di questi mezzi non c'è libertà.

Ora, chi decide quando i mezzi sono idonei o sufficienti a risolvere un determinato problema? Di sicuro non è l'individuo singolo, che potrebbe avere una volontà o una visione divergente da quella degli altri. Diciamo che è la sua comunità di appartenenza. L'essere umano è un animale sociale. I mezzi per risolvere i problemi devono appartenere a un collettivo. Il che non vuol dire che un collettivo, per avere tali mezzi, non sia costretto ad apporsi a un altro collettivo. Piuttosto vuol dire che quando un collettivo possiede tali mezzi, su questi non è possibile esercitare una proprietà privata (di qualcuno in particolare) o astratta, come quella dello Stato.

Ecco quindi posti dei valori minimi universali: l'uomo e la donna, appartenenti a un collettivo, si sentono liberi quando dispongono entrambi dei mezzi che li aiutano a risolvere i loro problemi. Poiché i problemi possono essere di natura materiale e immateriale, così devono esserlo i mezzi da impiegare. La libertà è in relazione alla proprietà: per sentirsi liberi tutti devono possedere i mezzi che garantiscono il senso della libertà. Se i mezzi non sono posseduti individualmente, devono esserlo collettivamente, affinché il singolo individuo possa sentirsi sicuro.

Ma questo non è ancora sufficiente. Infatti, ancora non è stato chiarito il criterio con cui usare tali mezzi. Sappiamo soltanto che se tutti devono possedere tali mezzi, nessuno può usarli a danno della proprietà altrui. Tuttavia gli esseri umani sono apparsi in un contesto che li precedeva nel tempo, almeno nell'ambito del nostro pianeta. La natura o la materia è qualcosa di assolutamente oggettivo, imprescindibile. Non è possibile decidere il criterio con cui usare i mezzi che devono risolvere i problemi, senza tener conto delle necessità della natura. Noi non siamo solo “esseri umani”, ma anche “enti di natura”. E la natura vuole vivere, esattamente come noi. La natura è “altro” da noi, ha le sue esigenze, le sue modalità d'esistenza e di risoluzione dei problemi.

Se nell'uso dei nostri mezzi di lavoro (che è un lavoro creativo, produttivo, risolutivo di problemi...) non teniamo conto delle esigenze vitali e riproduttive della natura, noi siamo destinati a perdere la nostra libertà. La scarsità di risorse ci renderà sempre più reciprocamente nemici.

Dunque, avere coscienza della libertà significa avere coscienza di qualcosa, la natura, che ci precede nel tempo e nello spazio e che, per questa ragione, va sommamente rispettata. È la stessa natura che ci indica i limiti oltre i quali non possiamo andare. La coscienza della libertà può maturare solo in un contesto in cui si ha consapevolezza di alcuni limiti invalicabili. La libertà personale si misura nel rispetto della libertà altrui, e questa alterità non va rispettata solo nei confronti dell'essere umano, ma anche nei confronti della natura, che ha proprie leggi oggettive, universalmente valide.

Ecco, forse un contatto più diretto con la natura potrebbe aiutarci a capire quali possono essere i valori minimi o fondamentali che possono farci sentire liberi e uguali.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Antropologia
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