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Le Lettere di Paolo di Tarso e gli Atti degli Apostoli

di Mac - Dèi Ricchi

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Lettere e Atti

Nel delineare la figura di Paolo abbiamo finora usato molte citazioni dalle sue Lettere. Lo abbiamo fatto perché in esse, a saper essere attenti, l'uomo rivela tutta la sua personalità: maliziosa, intelligente, adulatoria ma inflessibile. In questo suo rivolgersi agli altri riusciamo a conoscere anche i destinatari della sua predicazione, oltre ai suoi compagni in questa missione di continuo convincimento ad assumere un certo comportamento di vita. Le Lettere parlano di Paolo nonostante egli sia piuttosto restio a divulgare alcunché della sua biografia, soprattutto in ordine ai tempi in cui vive, in cui scrive e agisce. Per capirci qualcosa, gli studiosi si sono rivolti agli Atti cercando di identificare personaggi storici la cui comparsa è però così sporadica e disunita dal contesto, noto da altre fonti, da far pensare che l'autore non fosse poi così informato sui fatti della Palestina del I secolo dopo Cristo. La biografia di Paolo che se ne ricava viene tutta concentrata negli anni che precedono la I Guerra giudaica mentre si riesce a supporre in più solo che Paolo sia sparito in un ipotetico viaggio in Spagna. Leggendo le Lettere noi non ci siamo invece fatti questa idea, né gli Atti ci autorizzano a tanto; essi terminano infatti con questo verso:

Atti 28:30 Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento.

Il fatto che Paolo potesse insegnare la sua dottrina "senza impedimento" ci farebbe risultare improbabile l'ipotesi di un suo successivo martirio. Insomma, per quanto critici circa la bontà storica degli Atti, neppure una loro lettura testuale potrebbe ora indurci alle conclusioni generalmente accettate dagli esegeti cattolici.

Tanto i Vangeli quanto gli Atti terminano le loro narrazioni prima dello scoppio della guerra. Ma l'Apocalisse ci ha insegnato ad andare ben oltre e a guardare con molto interesse a quello che stava succedendo tra le comunità ebraiche disperse nelle collettività di schiavi, assoggettati dai vincitori Romani. Questo importante testo ci ha dato modo di leggere i componimenti di Paolo sotto una luce ben diversa da quella comunemente utilizzata dai catechisti, riscoprendo un uomo che agiva con autorità su collettività dedite al lavoro e sottoposte a continue tribolazioni. Erano le comunità di servi e schiavi sui quali Paolo aveva una indiscutibile autorità tanto da poter indirizzare la nomina dei sorveglianti, i "vescovi", e gli anziani, i "presbiteri", che vigilavano sulla condotta del singolo con potere di isolarlo e castigarlo quanto necessario. Paolo vestì questo ruolo, stando alle sue parole, in età avanzata. E prima? Non ci sono di molto aiuto le Lettere, dove per altro non troviamo alcuna traccia di presunte conversioni 'sulla via di Damasco'. Paolo non ne parla mai, per un motivo per noi semplice ma difficilmente accettabile da un cattolico: mai sarebbe avvenuta questa conversione, non almeno nei termini descritti dagli Atti. Paolo invece narra di una rivelazione ricevuta in un qualche imprecisato momento della sua vita (cfr. CRISTIANESIMO - La biografia paolina nella lettera ai Galati ) senza traumi oculistici e, a quanto pare, in modo esclusivo e senza testimoni. Quanto riscontriamo nelle sue Lettere poi è un continuo riferirsi agli apostoli che hanno conosciuto Gesù senza farne il nome: vi si cita solo Giacomo come fratello di Gesù, Giovanni e più volte un certo Cefa o Pietro, che mai chiama però con il nome di Simone. La confusione è poi massima in questi versi:

1Corinzi 15:5 [Gesù] apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli.

Apostoli e Dodici sembrano qui due entità distinte, come pure il fatto che Cefa e Giacomo non appartenessero ai dodici, un'elencazione che sembra contraddire quella evangelica:

I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, Filippo e Bartolomeo, Tommaso e Matteo il pubblicano, Giacomo di Alfeo e Taddeo, Simone il Cananeo e Giuda l'Iscariota, che poi lo tradì. (Matteo 10:2-4)

Sembra che Paolo associ la definizione di apostoli a persone che non erano nel gruppo dei Dodici, quindi a persone che vennero dopo il tempo in cui Gesù operò. Anzi sembra che Paolo si stia preoccupando qui di assicurare che molti avevano visto Gesù, anche tutti gli apostoli e lui per ultimo:

1Corinzi 15:8 Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto.

Non è che questi versi altro non siano se non il tentativo di dimostrare che lui e tutti i suoi compagni stavano predicando qualcosa che avevano visto, per meglio essere creduti? Se così fosse, gli Atti degli Apostoli sarebbero forse il tentativo di retrodatare le azioni di Paolo in modo da avvicinarlo a Gesù, l'oggetto primo della sua predicazione? Forse che Paolo mai aveva visto Gesù e viveva semplicemente delle informazioni che era riuscito a recuperare girovagando tra le sue comunità di schiavi giudei? Una rilettura degli Atti darà le risposte che cerchiamo.


ultima modifica 18/09/04 © 2001 Mac - www.deiricchi.it

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Religioni
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